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Nonostante poco o nulla si sappia circa una analoga esperienza in Italia, vanno aggiornati i progressi che il nostro paese ha fatto negli ultimissimi anni, anche se in notevole ritardo rispetto agli altri. Tale resistenza del sistema italiano ad una recezione di un modello riparativo della giustizia è connaturato ai principi cardine che reggono il nostro sistema giudiziario. Il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale ha sicuramente costituito un ostacolo di non poco rilievo alla creazione di un qualsivoglia modello che dalla legalità tribunale si discostasse. Ovviamente in un sistema rigidamente ancorato al processo, le alternative che possono essere create non possono prescindere da questo dato e la possibilità di un'evoluzione diviene plausibile solo se il legislatore recepisce e concretizza in legge un cambiamento altrimenti attuabile. Il principio di legalità, soprattutto in materia processuale, è difficilmente eludibile se non trovando un ingresso in spiragli lasciati aperti dalla legge. Questi spiragli in effetti ci sono, anche se di portata limitatissima, ed hanno così dato la possibilità di effettuare l'esperimento riparativo anche in Italia. Ho detto che è recentissimo. Infatti il nostro primo Ufficio di Mediazione Penale è stato creato a Torino nel 1996. In seguito sono stati aperti altri Uffici di Mediazione in altre città d'Italia quali a Bari (1996) e a Milano (1998). Oggi sono presenti anche a Trento e Bolzano, a Catanzaro e un Istituto di ricerca sulla mediazione a Roma. La situazione è notevolmente cambiata nell'arco degli ultimi quattro anni, ma ancora non si può certo affermare che si versi in un terreno ancora stabile e definito. Non è possibile fare statistiche sui risultati dell'istituto, dato che siamo ancora in una fase di sperimentazione, ma è già agevole fare delle considerazioni positive sugli esiti risultanti da questa, almeno per noi, novità processuale. Le notizie che ho fin qui riportate e che seguiranno sono state da me raccolte all'Ufficio di Mediazione Penale a Milano, dove ho intervistato alcuni esperti dell'ufficio che mi hanno spiegato il funzionamento dell'istituto ed i suoi scopi.
La Mediazione penale, bisogna avvertire, ha una limitata applicazione, cioè solamente all'interno del processo minorile, o in sua sostituzione. La legislazione di riferimento è quindi i d.P.R. 22 settembre 1998, n°448 (Disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni) in combinato disposto con l'art.564 c.p.p. (approvata in stessa data con il d.P.R. n°447), le cui norme lasciano uno spazio, seppur esiguo, alla possibilità di compiere la mediazione tra i protagonisti della vicenda penale in alternativa al processo. Le norme del c.d. Codice di Procedura penale minorile che rendono possibile un intervento alternativo al processo di tipo riparativo sono gli artt.9, 27 e 28. Prima di analizzare partitamente i singoli articoli è bene fare una premessa sulla diversa natura del processo minorile sotto aspetti che lo tengono distinto da quello ordinario per gli adulti. Il legislatore in numerose disposizioni ha mostrato un atteggiamento di maggior apertura ed elasticità nei confronti di imputati (nonché detenuti[1]) minori. Questo nella convinzione che l'esperienza processuale e a maggior ragione quella detentiva possa rappresentare un ostacolo al futuro sviluppo della persona dato anche il probabile grado di immaturità e di sensibilità che gli adolescenti presentano. Questa la ratio su cui è modellato il sistema penale minorile, che tende quindi, ove possibile, ad evitare il contatto destabilizzante con la giustizia, cercando preferibilmente altre modalità di recupero del minore. Basti pensare ad una disposizione come l'art.27 ( Sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto) che dispone la possibilità per il giudice, se risulta la tenuità del fatto o la occasionalità del comportamento, di emettere, su proposta del P.M., sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto quando l'ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenze educative del minorenne. Altra norma fondamentale per l'ammissibilità della mediazione è l'art.9 (Accertamenti sulla personalità del minorenne) del decreto con cui è stabilito che ' il pubblico ministero e il giudice acquisiscono elementi circa le condizioni e le risorse personali, familiari, sociali e ambientali del minorenne al fine di accertarne l'imputabilità e il grado di responsabilità, valutare la rilevanza sociale del fatto nonché le adeguate misure penali e adottare gli eventuali provvedimenti civili'. Tale tipo di accertamento può essere demandato dal giudice e dal pubblico ministero anche a soggetti non processuali come gli esperti ex art.9, comma 2, cui può essere richiesto, anche in via informale, un parere. Ora questa previsione della compartecipazione allo studio della personalità del minore anche da esperti esterni, fornisce la legittimità all'intervento, eventuale, dei mediatori, che in effetti sono persone qualificate in materia. I mediatori, infatti, oltre a aver seguito corsi di preparazione specializzati in materia minorile e in particolare sulla mediazione, sono persone con determinate qualifiche professionali, quali criminologi, assistenti sociali, psicologi, avvocati, educatori. La vara legittimazione l'istituto della mediazione la riceve però dall'ultima delle norme menzionate e cioè dall'art.28 (Sospensione del processo e messa alla prova) dove è esplicitamente previsto al 2° comma che il giudice, insieme alle altre prescrizioni stabilite nell'ordinanza di sospensione del processo, può promuovere la conciliazione del minore con la persona offesa dal reato . Ora la prassi ha dimostrato che nel caso appena prospettato la mediazione si realizza molto raramente. Quando interviene l'art.28, infatti, il processo è già in corso e la mediazione perde la sua funzione principale di permettere una conciliazione extragiudiziale del conflitto, scopo principale dell'istituto. In più la circostanza che venga promossa durante il processo con l'ordinanza con cui si impartiscono le prescrizioni al minore per il periodo di messa alla prova, fa sì che l'istituto si confonda con queste, perdendo la essenziale caratteristica volontaria dell'adesione al programma di mediazione. Come mi hanno spiegato a Milano ci sono 'pochi casi di messa alla prova, anche se teoricamente è l'ambito in cui si trova scritto il tentativo di conciliazione, perché può essere confusa con una forma di sanzione. () Nel momento di messa alla prova il giovane ha tante prescrizionimetterci anche la mediazione è un rischio, perché può essere confusa con una di queste prescrizioni e quindi si perde l'adesione libera della parte' . L'ambito più sfruttato dai giudici è invece la richiesta di parere agli esperti ex art.9, l'art.27 sulla sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto in combinato disposto con l'art.564 c.p.p. (Tentativo di conciliazione). In questi casi, nei reati punibili a querela (art.564 c.p.p.), o nei casi in cui il fatto è 'tenue ed occasionale' ex.art.27, il minore arriva alla mediazione in una fase anticipata, ossia durante le indagini preliminari, per cui non ha ancora subito condizionamenti di origine processuale. Gli articoli fondamentali per l'applicazione della mediazione sono il 9 e il 27. Il primo è molto sfruttato, perché dà la possibilità al giudice di far svolgere un'osservazione agli esperti o ai servizi della giustizia sulla personalità del minore, sulle sue condizioni familiari, sociali ed ambientali. L'esito di questa osservazione permette poi al giudice di prendere delle decisioni processuali, come l'applicazione di una misura cautelare o fare comunque delle scelte. Interessante è notare come il legislatore abbia preso atto della insufficienza del processo di fronte ad uno studio approfondito sulla vicenda umana che lo sottende e che non riesce ad emergere con gli strumenti formali ordinari. La norma non parla di esplicitamente di mediazione, ma di esperti che però vengono individuati con i professionisti degli uffici. L'art.27 consente, al contrario, non di evitare il processo, che con la sentenza di non luogo a procedere è già stato evitato, ma a riempire di un significato plausibile la dichiarazione di irrilevanza del fatto. La pronuncia di irrilevanza del fatto può essere interpretata dal minore in modo altamente diseducativo se deve trovare giustificazione solo in se stessa. Mi spiego meglio. Il fatto c'è stato e il minore lo sa perfettamente. Una sentenza di questo tipo 'viene vissuta da un adolescente come una non risposta' , e può essere interpretata come se nulla fosse effettivamente successo. Cosa che non è. Le considerazioni che il legislatore ha fatto per giungere all'introduzione di questa previsione clemenziale sono di varia natura e poggiano principalmente sulla volontà di evitare il contatto con la giustizia al minore che ha commesso il primo reato di gravità non allarmante. Introdurre la mediazione in questi casi porta a 'contribuire a riempire di significato queste norme in termini, per il reo, di responsabilizzazione. () Non incontro l'articolo tot, che mi dice che ho commesso un fatto (rectius: che non è stato commesso), ma incontro una persona in carne ed ossa, che sta soffrendo per quello che io ho fatto '.
Al termine di questi vari tipi di procedimenti l'ufficio fornisce al giudice la c.d. restituzione. La restituzione non è altro che una relazione sintetica sull'esito della mediazione, che si limiterà ad informare se è stato positivo, negativo, incerto o non è stata fatta. E' interessante notare come ciò che avviene in realtà durante gli incontri tra reo e persona offesa rimangano coperti dal segreto professionale dei mediatori, che sono tenuti solo a riferire circa la positività dell'esito o meno. Questo aspetto è di non poco momento, se si considera che tutto ciò che avviene invece durante il processo deve essere conosciuto dal giudice e non vi è certo spazio per momenti confidenziali o personali. Questo obiettivo invece la mediazione lo raggiunge pienamente. Fa sì che i protagonisti si riapproprino della loro vicenda, fornendo così la possibilità ad entrambi di riallacciare una comunicazione che si è interrotta con il reato e che il processo avrebbe contribuito a non ricucire. Aiuta il reo a comprendere il male che ha provocato con il suo comportamento, e aiuta la vittima ad esprimerlo, trovando finalmente una cassa di risonanza del proprio punto di vista, della propria sofferenza cui il processo penale non lascia spazio. Quando si giunge ad un accordo tra reo e vittima, durante il percorso c'è stato un duro lavoro in termini di comprensione reciproca, dei rispettivi punti di vista. I mediatori lavorano 'sui sentimenti e sulle sensazioni, sui vissuti delle persone della vicenda'[6], aspetti che non hanno alcuna possibilità di emergere nella loro pienezza durante un processo, ma che sono come il sapere comune è a conoscenza, gli elementi scatenanti di ogni fattispecie delittuosa. Queste sono le linee generali del discorso intorno alla mediazione penale, che per essere integrato necessita della lettura dell'intervista fatta a Milano, a cui rinvio per completare l'argomento.
Per approfondimenti sulla pena detentiva nei carceri minorili, vedi intervista a G.B.Traverso, cap.4
Il 2° comma dell'art 28 così recita: 'Con l'ordinanza di sospensione il giudice affida il minorenne ai servizi minorili dell'amministrazione della giustizia per lo svolgimento, anche in collaborazione con i servizi locali, delle opprtune attività di osservazione, trattamento e sostegno. Con il medesimo provvedimento il giudice può impartire prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa dal reato'.
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