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La Convenzione dell'Aja del 1895
1. Premessa
Giungiamo così a trattare di una vicenda nodale della storia giuridica del trust; una vicenda che assume un rilievo decisivo e pregnante soprattutto nell'indagine delle sorti e dello sviluppo del trust in Paesi diversi da quello di origine: la Conferenza dell'Aja sul diritto internazionale privato che, dopo un quinquennio di lavori, ha prodotto la Convezione del 1 luglio 1985 sulla legge applicabile ai trust ed al loro riconoscimento.
Il trust si affaccia sulla scena internazionale, portando con sé le caratteristiche frutto dell'humus storico e giuridico in cui è nato e si è sviluppato; interessa alla nostra trattazione descrivere le tappe del viaggio e del non facile approdo del trust fuori patria, con particolare riferimento all'Italia.
Nel capitolo precedente abbiamo visto come, dove e perché nasce il trust, ci siamo soffermati sulla sua struttura originaria e sulla versatilità acquisita con il susseguirsi degli anni e delle mutevoli esigenze sociali. Alla luce di quanto sopra esposto è facile dedurre che, nei Paesi di civil law, è stata in primis l'assenza di una giurisdizione di equity a rendere impervio l'ingresso dell'istituto del trust che - solo recentemente - ha trovato lo spazio per inserirsi anche nei rigidi regimi giuridici continentali.
Il modello del c.d. trust "internazionale"(71) oggi diffuso, pur muovendo dal modello anglosassone, incalza l'equity al raffronto ed al dialogo con altri ordinamenti per trovare un approdo giuridico
trasversale e condiviso.
Il punto di raccordo è stato rivenuto in quel concetto di affidamento e fiducia (fides) riposta nel trustee - trustee's faith(72)-, che è alla base delle obbligazioni di tipo coscienziale e che anima e motiva la costituzione del trust.
La Convenzione, come preannunciato, risponde all'esigenza di armonizzare le regole del diritto internazionale privato, fornendo ai Paesi di civil law strumenti giuridici quanto più omogenei per disciplinare il trust.
2. Il Trust in Italia, prima dell'entrata in vigore della
Convenzione
La Convenzione dell'Aja sulla legge applicabile ai trusts ed al loro riconoscimento, ratificata in Italia con la legge 16-10-89' n.364, entra ufficialmente in vigore il 1.1.1992.
L'entrata in vigore - secondo l'art. 30 della stessa Convenzione - viene subordinata al deposito della ratifica di almeno tre Stati: dopo il Regno Unito e l'Italia, è stata la volta - nel 1991 - dell'Australia.
La Convenzione dunque non è diventata subito automaticamente vincolante per gli Stati che l'hanno sottoscritta, né è stato impedito a Stati non firmatari di effettuare successivamente tale adesione (art.
28).
Il combinato disposto degli artt. 1 e 21 attesta il carattere e la vocazione universalistica della Convenzione, la disciplina che contiene ha pertanto efficacia erga omnes e non solo inter partes; laddove - come nel caso dell'Italia - non venga apposta alcuna riserva
all'atto di ratifica, lo Stato aderente è tenuto a riconoscere tutti i trusts cui sia applicabile il diritto di uno Stato che li preveda (aderente o meno che sia)(73).
Il legislatore italiano ha praticato la via dell'adattamento c.d. speciale(74), cioè mediante ordine di "piena ed intera esecuzione" della Convenzione in esame, indirizzando l'attività interpretativa direttamente su quest'ultima e non - invece - predisponendo una legge ad hoc, interna e formalmente indipendente dalla Convenzione (c.d. adattamento per via ordinaria).
Passiamo alla disamina di alcune sentenze significative, di alcuni casi concreti antecedenti alla Convenzione, iniziando con un antefatto remoto di fine 800'.
La prima pronuncia giurisprudenziale in materia di trust risale al 1898, ad opera della Corte di Cassazione di Roma che interviene in riforma di una sentenza emessa dalla Corte d'Appello di Cagliari nello stesso anno.
Beniamino Piercy, cittadino inglese proprietario di alcuni immobili in Sardegna, istitutiva un fedecommesso (rectius: un trust testamentario for sale) avente ad oggetto vari beni mobili ed alcuni immobili siti in territorio sardo, in favore dei componenti della sua famiglia(75). I quattro esecutori testamentari (rectius: trustees) da lui nominati, in attuazione delle volontà del de cuius, avrebbero dovuto vendere suddetti beni, acquisire con il ricavato titoli e fondi pubblici inglesi, amministrarli, e poi ripartirne annualmente le rendite per ordini di beneficiari successivi, eredi e loro discendenti.
L'asse di Piercy andava, dunque, così devoluto: per metà attribuito legittimamente ai figli, per la restante altra metà (nella fattispecie beni mobili ed immobili) venduto in modo tale che gli eredi, pur restando sostanzialmente tali ancorché privati del possesso dei beni, sarebbero stati immessi nella percezione delle rendite derivanti dall'amministrazione e dall'investimento del ricavo.
La lite sorse poiché il primogenito maggiorenne del testatore si oppose alla vendita, chiedendo all'Alta Corte di Giustizia di Londra che fosse riconosciuta e dichiarata la non liceità della disposizione testamentaria, contenente una sostituzione fedecommissaria vietata dalle leggi italiane (art. 900 del codice civile del 1865), rivendicando per sé la proprietà legittima degli immobili siti in Sardegna in qualità di erede ab intestato. La Corte respinse l'opposizione, autorizzando gli esecutori testamentari a procedere secondo fedecommesso; dello stesso avviso non fu però la Corte d'Appello di Cagliari, adita per la delibazione e l'attribuzione di esecutorietà al giudicato inglese, che rigettò la domanda ed invalidò il testamento ritenendolo in toto contra
jus(76).
I trustees (fra cui la moglie del de cuius), dopo aver proposto ricorso alla Suprema Corte, videro accolte le loro pretese, cassata e riformata la sentenza impugnata con le seguenti motivazioni (77):
"Non è contraria al diritto pubblico interno del regno la disposizione testamentaria di uno straniero con la quale si ordina la
costituzione di un fedecommesso in estero Stato, e la destinazione a tal uopo del prezzo ricavabile dalla vendita di immobili esistenti in Italia.
Ciò stante, non può essere negata esecutorietà in Italia alla sentenza di magistrato straniero che, per dare esecuzione alla volontà del testatore, stabilisce che siano venduti gli immobili predetti: imperocché nella sede di delibazione non è lecito al magistrato nazionale preoccuparsi della sorte che avrà all'estero il denaro ricavabile dalla vendita".
Parafrasando questo ed altri passi salienti del decisum della Cassazione, si giunge a comprendere che la contrarietà alla legge civile italiana del trust for sale in oggetto fu esclusa, in virtù del fatto che tale negozio non avrebbe prodotto effetti durevoli nell'ordinamento italiano: non c'era ragionevole motivo per privare di efficacia la disposizione che prevedeva la semplice vendita dei beni siti in Italia. La contrarietà si sarebbe avuta allorquando il giudicato della High Court avesse ordinato l'esecuzione in Italia delle disposizioni contenute nel fedecommesso, riguardanti le sorti dei ricavi della vendita. L'equivoco nacque proprio per il fatto che il giudizio di delibazione della Corte di Cagliari, invece di concentrarsi
- come avrebbe dovuto - sulla sola vendita dei beni immobili siti in Sardegna, esorbitò fino ad occuparsi dell'uso delle somme ritratte dalla vendita (somme che i trustees avrebbero dovuto trasformare in titoli di rendita inglese). Il fedecommesso doveva essere eseguito e dispiegare la sua operatività in Inghilterra, appunto per questo Beniamino Piercy incaricò i quattro fiduciari prescelti di vendere, insieme ad altri beni, i suoi immobili italiani e di gestire e custodire "in patria" le liquidità ottenute in corrispettivo.
La Suprema Corte aggiunse, in ossequio al principio dell' utile per inutile non vitiatur, che le sostituzioni fedecommissarie (che - ex art. 900 c.c. - fossero e dovessero essere dichiarate nulle) non inficiavano in modo assoluto l'intero testamento (secondo quanto invece erroneamente dichiarato dalla sentenza impugnata) e senz'altro non davano adito - come già chiarito dal giudice inglese - ad una sanatoria con automatica e conseguente devoluzione ab intestato.
Dopo questo ci fu un ulteriore caso giurisprudenziale in materia di trust testamentario for sale (Cass. Napoli 29.3.1909, GI, 1909, I, 1, 649-653) e, a seguito dell'emanazione del codice civile del 42', nel 1956 una storica sentenza del Tribunale di Oristano su cui è opportuno rivolgere la nostra attenzione(78).
Il caso: un ente pubblico aveva promosso l'espropriazione nei confronti di un trustee che risultava destinatario dell'atto di esproprio.
Al giudice fu demandata l'individuazione del "vero" proprietario dei beni, per definire se questi facessero parte del patrimonio del trustee o di quello dei beneficiari.
Il Tribunale, dopo un notevole e non pacifico lavoro di interpretazione, definì il trust come "negozio giuridico facente parte della categoria dei negozi fiduciari in senso ampio", fonte di "uno sdoppiamento del diritto di proprietà originaria"(79) contemporaneamente in capo a due soggetti diversi.
Come affermò il Collegio giudicante, spetterebbe:
- al trustee la c.d. "proprietà formale, meramente legale ed esteriore" (caratterizzata dalla facoltà di disporre in modo non pieno ed esclusivo, dalla temporaneità del diritto, dall'onere di utilizzare e custodire i beni sempre e solo a vantaggio del beneficiario o per un preciso scopo);
- al beneficiario la proprietà "sostanziale, reale ed effettiva" contraddistinta dal potere di godere della res.
È nel beneficiario che, in risposta alla domanda attorea, fu individuato il proprietario effettivo destinatario del procedimento espropriativo.
Il Tribunale affermò che l'inserzione di istituti giuridici stranieri, come il trust, avrebbe prodotto "nella coscienza e nella opinione pubblica e nell'economia italiana un grave turbamento"(80), soprattutto per il contrasto con i principi interni fondamentali ed inderogabili, quali l'unicità del diritto di proprietà e la tipicità dei diritti reali che, essendo un numerus clausus preordinato dal
legislatore, non ammettevano la libera formazione da parte dell'autonomia privata di rapporti di carattere reale.
Incidentalmente il giudice si espresse anche su una questione di non scarso rilievo: secondo il principio del favor testamenti, la nullità del trust per violazione del divieto di sostituzione fedecommissaria (ex art. 692 c.c.) era esclusa. Le motivazioni addotte a supporto di tale risoluzione furono le seguenti:
- nel fedecommesso risultano proprietari prima l'istituito e poi il sostituito, nel trust invece il diritto di proprietà coesiste ad un tempo in capo a trustee e beneficiario;
- nel trust manca la previsione di duplice vocazione ereditaria, unico chiamato all'eredità è il beneficiario, unico erede;
- i beni nel fedecommesso sono sottratti alla libera commerciabilità e questo limite costituisce la ratio stessa dell'istituto, nel trust for sale i beni non sono (e non devono!) essere sottratti alla libera commerciabilità.
Elementi essenziali, enucleati per attribuire la proprietà dei beni in trust al cestui que trust, sono:
- la proprietà formale temporanea del trustee, destinata a riunirsi con quella sostanziale perpetua del beneficiario;
- il trustee non può servirsi della proprietà per il proprio interesse;
- non può verificarsi commistione fra trust e patrimonio del trustee, il trust separato e segregato è garanzia per i creditori del solo beneficiario;
- il trustee non può alienare le res come proprie ma solo come beni in trust;
- il cestui que trust può trasmettere il suo equitable estate, il trustee invece non può trasmettere il suo legal estate neppure mortis causa ai suoi eredi.
Trattandosi di un atto testamentario il Tribunale predilesse un'interpretazione conservativa e, nonostante l'incompatibilità del trust con il nostro ordinamento, non decretò la nullità del trust con conseguente devoluzione dell'asse ab intestato.
La dottrina per la seconda volta(81) ha dato risalto al singolare parallelismo tra la ratio del decisum del nostro giudice e quella dello Statute of Uses del 1535: il trasferimento al trustee viene quasi ignorato, unico proprietario è considerato il destinatario finale del trust.
Nel 1984 il Tribunale di Casale Monferrato fornì una lettura ben diversa e nuova rispetto a quella data dalla sentenza di Oristano. Nel caso di specie una cittadina inglese morta in Australia aveva istituto un trust for sale testamentario, nominando un trustee australiano per l'amministrazione e per l'eventuale alienazione dei beni del trust fund,
tra i quali immobili ubicati in Italia.
Dal disponente erano stati designati i figli quali beneficiari del reddito fino alla maggiore età e poi, una volta maggiorenni, quali beneficiari finali del ricavato. Il trustee, in sede di volontaria giurisdizione, richiese l'autorizzazione per la vendita di un immobile sito in Italia. Il giudice, come nella decisione di Oristano, ritenne applicabili gli artt. 22 (competenza territoriale del giudice italiano) e
23 (successione mortis causa regolata dalla legge - nel caso di specie - inglese) delle preleggi.
Tuttavia nella pronuncia non si fece richiamo alla duplicità di posizioni proprietarie, tutt'altro: l'executor trustee "deve essere considerato proprietario dei beni immobili siti in Italia a tutti gli effetti" (e come tale non necessitava di autorizzazione giudiziale per la cessione degli immobili secondo il pactum fiduciae stipulato con il disponente)(82).
Nonostante non fosse ancora stata ratificata la Convenzione dell'Aja il giudice, superando la spinosa questione della proprietà "sdoppiata", inquadrò il trustee come unico legittimo proprietario dei beni in trust. La struttura del trust veniva ricondotta allo "schema di un negozio fiduciario e, precisamente, a quello della fiducia cum amico(83)".
L'entrata in vigore della Convenzione dell'Aja relativa alla legge applicabile ai trust(s) ed al loro riconoscimento è riuscita, sebbene non a trapiantare il trust nel terreno giuridico del nostro Paese, a far sì che possano trovare facilmente seguito ed applicazione gli effetti di un trust costituito all'estero di cui si individui, in base a specifici criteri,
la legge regolatrice.
3. La Convenzione
Nel 1980, a conclusione della quattordicesima sessione di lavori della Conferenza dell'Aja sul diritto internazionale privato, fu deciso di dedicare un'ulteriore apposita sessione al trust: la quindicesima sessione, che durò dall'8 al 20 ottobre del 1984.
La data del 1 luglio 1985, assegnata alla Convezione, coincide con quella in cui i primi tre Stati (Italia, Lussemburgo Paesi Bassi) vi hanno apposto la propria firma ancorché non vincolante: la data dell'entrata in vigore effettiva è stata subordinata (ex art. 30 della Convenzione) al deposito della ratifica di almeno tre Stati è ed ufficialmente quella del 1 gennaio 1992, a seguito appunto del deposito della ratifica di Regno Unito, Italia ed Australia. Il testo integrale italiano della Convenzione, come introdotto nel nostro ordinamento per mezzo della legge di ratifica, è reperibile in Appendice all'opera.
3.1 Il campo di applicazione della Convenzione
La Convenzione si divide in cinque capitoli: il primo Capitolo, dall'art. 1 all'art. 5, definisce il campo di applicazione della Convenzione.
Art. 1: "La presente Convenzione determina la legge applicabile ai trust e ne regola il riconoscimento."
Tale articolo conferma in primis il carattere internazionalprivatistico della Convenzione e lo scopo di fornire una "legge" che sia uniformemente applicabile quanto a trust; ulteriore ed altrettanto importante obiettivo della Convenzione è quello di dettare una disciplina omogenea con riguardo agli effetti sostanziali del "riconoscimento" del trust. Maurizio Lupoi, commentando l'articolo in esame, sostiene che sarebbe stato preferibile e più corretto parlare di "attribuzione di efficacia della legge straniera regolatrice del trust nel foro interno", piuttosto che di "riconoscimento" del trust.
L'opera di armonizzazione compiuta all'Aja ha giovato molto anche agli ordinamenti di estrazione non romanistica poiché, sebbene il trust non fosse loro estraneo, non potevano e non possono contare su codificazioni interne complete, chiare e sistematiche.
Art. 2: "Ai fini della presente Convenzione, per trust s'intendono i rapporti giuridici istituiti da una persona, il disponente - con atto tra vivi o mortis causa - qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell'interesse di un beneficiario o per un fine determinato.
Il trust è caratterizzato dai seguenti elementi:
a) i beni in trust costituiscono una massa distinta e non sono parte del patrimonio del trustee;
b) i beni in trust sono intestati al trustee o ad un altro soggetto per conto del trustee;
c) il trustee è investito del potere e onerato dell'obbligo, di cui deve rendere conto, di amministrare, gestire o disporre dei beni in conformità alle disposizioni del trust e secondo le norme imposte dalla legge al trustee.
Il fatto che il disponente conservi alcuni diritti e facoltà o che il trustee abbia alcuni diritti in qualità di beneficiario non è necessariamente incompatibile con l'esistenza di un trust."
L'articolo 2 definisce il trust, definisce cioè l'oggetto che la stessa Convenzione intende regolamentare, definisce - per così dire - il trust "per sé stessa, ai propri effetti ed ai propri fini" (84).
La Convenzione si colloca tra gli atti normativi di livello sovranazionale, non deve stupirci il fatto che possa contenere una definizione volutamente neutra(85) e ricca di indicazioni di diritto sostanziale.
Delineando il concetto di trust l'art. 2 intende descriverne positivamente (cioè prescriverne!) la fattispecie agli Stati aderenti e non, semplicemente, raccontare come questa sia concepita in un determinato Stato o in uno specifico modello. Per opinione pacifica di dottrina e giurisprudenza, la legge italiana 364/1989 di ratifica della Convenzione ha creato ed immesso nell'ordinamento un nuovo istituto
di diritto privato: il trust c.d. "amorfo" o shapeless trust(86), cioè un trust suscettibile di assumere le forme più disparate.
Secondo una tesi dominante, che propende per la configurabilità di tale nuova categoria, la definizione convenzionale di trust non è senz'altro sovrapponibile a quella del modello inglese; una nozione così ampia è capace di accogliere in sé sia tipi di trust diversi o nuovi rispetto a quelli del modello inglese, sia istituti che - pur non qualificati come trust dagli ordinamenti interni - ne possiedano in concreto gli attributi sostanziali (c.d. trust-like institutions).
L'opinione rispetto al trust amorfo di alcuni dei più autorevoli studiosi in materia - tra cui M. Lupoi - è molto critica: l'estrema
elasticità della descrizione della struttura (più che del concetto) di trust, delineata nell'articolo in esame, riesce a ricomprendere una grande varietà di rapporti giuridici fra cui anche il trust(87); questo sfuma la nitidezza dei contorni oggettuali della Convezione depotenziandone gli intenti programmatici, dirimenti e precettivi.
"Il trust è un istituto del quale una parte del mondo non potrebbe fare a meno, mentre è totalmente sconosciuto all'altra parte", questa efficace affermazione di P. Matthews tuttavia depone in pieno favore delle ragioni di chi ha ravvisato la necessità di una definizione non sommaria ma quanto più possibile chiara ed "accogliente", esattamente come quella dell'art. 2: "(..) proprio perché il trust è una istituzione sconosciuta ai paesi con ordinamento di tipo romano- germanico, la Convenzione opera una <tale> descrizione dell'istituto
medesimo"(88).
Addentriamoci più dettagliatamente nel dettato dell'articolo 2.
È stata scelta - come si può ben constatare dal dato testuale - la locuzione "rapporti giuridici" (relations juridiques) al plurale, per rimarcare la voluta ampiezza definitoria e la poliedricità dell'istituto(89); tale locuzione è oltremodo significativa poiché risolve in modo decisivo l'annosa querelle dottrinale sulla possibilità di
attribuire al trust una qualche autonoma personalità giuridica.
Viene espressamente dato riconoscimento al trust di scopo, privo di beneficiari, che non sia per forza charitable o preconfezionato dal diritto giurisprudenziale come chiede l'ordinamento inglese(90).
Tra le caratteristiche fondamentali dell'istituto è in primis indicato il principio ormai noto, ripreso e ribadito nel successivo articolo 11, della segregazione patrimoniale del beni del trust rispetto al patrimonio del trustee.
Nessun cenno è fatto al trasferimento dei beni dal disponente al trustee, si parla bensì di "controllo" da parte di quest'ultimo avvalendosi di una terminologia altamente atecnica e distante dal modello anglosassone: il trust convenzionale ricomprende in tal modo anche ipotesi di trust autodichiarato, in cui determinati beni non sono trasferiti ad un trustee ma trattenuti dal disponente a titolo di trust per un beneficiario.
Attraverso questo espediente la Convenzione riesce a vincere e superare senza traumi, senza però abbatterle del tutto, le fitte barricate dei Paesi di tradizione romanistica, avvinti ed inibiti dal problema dell'inquadramento concettuale - ancor prima che sistematico - della dual ownership.
Il disponente, nel trust auto dichiarato, deve ottemperare a tutti gli oneri previsti al momento della costituzione ed è soggetto alle stesse condizioni ed alle stesse regole di un qualsiasi trustee.
Nell'ultimo paragrafo dell'articolo si prevede la possibilità di una non netta e non necessaria separazione delle facoltà - e perciò anche
della qualità - di disponente, trustee e beneficiario(91).
L'articolo 3 circoscrive, prima facie perentoriamente, l'applicazione della Convenzione ai "soli trusts costituiti volontariamente e comprovati per iscritto". Alla luce del tenore di questa disposizione non sorgono dubbi sulla mirata esclusione degli statutory trusts dal raggio applicativo della Convenzione. È lecito tuttavia chiedersi quale sia il destino, ad esempio di quei trusts che, non espressamente istituiti, nascano a seguito di un intervento giudiziale volto a sanare o integrare, a correggere o prevenire abusi.
Pensiamo ai constructive trusts o ai resulting trusts: secondo larga parte della dottrina il dettato normativo sembrerebbe volerli escludere.
Eppure dal combinato disposto dell'art. 3 con l'art. 20, si può ragionevolmente addivenire a conclusioni di segno del tutto opposto.
Secondo l'articolo 20,1:
"Ogni Stato contraente può in ogni momento dichiarare che le disposizioni della Convenzione saranno estese ai trust dichiarati da provvedimenti giudiziali".
È importante precisare che se la Convezione avesse voluto aprire del tutto, e fin da subito, la porta ai "trusts dichiarati da provvedimenti giudiziali" non avrebbe esordito con un terzo articolo così icastico per poi inserirne uno più avanti che, rimettendo la scelta alla discrezionalità degli Stati aderenti, sembra intenda recuperare/"salvare" (più che legittimare pienamente) i trusts passati dal vaglio positivo della giurisprudenza (trusts c.d. giudiziali).
In quale modo si può conciliare l'estensione della Convenzione ai constructive trusts, senza forzare l'art. 3 che parla solo di trusts "volontariamente" (si badi bene, non espressamente!) istituiti?
Questa tipologia, come abbiamo visto, raccoglie in sé categorie non completamente omogenee di trust, tant'è che in alcuni casi un trust "presunto" può essere creato dal giudice anche contro la volontà del disponente, non solo per attuare una volontà che l'ordinamento ritiene espressa ma in modo non idoneo a raggiungere lo scopo istitutivo.
La tesi da ritenersi preferibile(92) è quella secondo la quale rientrano appieno nella Convenzione, ex art. 3, quei constructive trusts che sono non creati bensì accertati in sede processuale, frutto cioè di una sentenza di natura dichiarativa che vada a tutelare la realtà sostanziale, gli intendimenti effettivi del disponente, ripristinando la fisiologica fisionomia giuridica dell'istituto.
Invece ai trusts creati ex novo, prodotti da una sentenza di natura squisitamente costitutiva ed in contrasto con la volontà del disponente, si concede una via d'ingresso non ordinaria, delegata alla determinazione degli Stati (art. 20).
Per i resulting trusts si è affermata, con meno esitazione, l'applicazione dell'art. 3 perché si è trovato appoggio nelle indicazioni provenienti dalle scelte effettuate in sede di lavori preparatori alla Convenzione: il termine "volontariamente costituiti" ha superato la selezione contro il più tecnico "espressamente", ciò testimonia l'intenzione di non escludere quei trusts che - giudizialmente accertati
- ristabiliscano ed acclarino un'implicita e conforme volontà del disponente.
"Comprovati per iscritto" fa riferimento alla concezione di prova scritta non rigida, tipica del diritto inglese: qui non ci è utile recuperare ed applicare i concetti giuridici, familiari al nostro ordinamento, di forma scritta ad substatiam o ad probationem ma conviene entrare in tutt'altra forma mentis.
Nel diritto inglese - e così per la Convenzione - un trust è provato per iscritto non solo quando di esso si abbia la prova costitutiva,
contenuta in un documento (cioè quando il negozio istitutivo sia scritto), ma anche quando il trust nasca da dichiarazione meramente orale del settlor, la cui esistenza possa evincersi da un atto anche successivo o proveniente da un soggetto diverso.
L'articolo 4 contiene un'ulteriore delimitazione:
"La Convenzione non si applica alla questioni preliminari relative alla validità dei testamenti o di altri atti giuridici, in virtù dei quali determinati beni sono trasferiti al trustee."
Il riferimento è quindi agli atti inter vivos o mortis causa, con i quali si realizza il trasferimento dei beni: "le questioni preliminari" relative a tali atti sono eccettuate dall'applicazione delle disposizioni convenzionali ed assegnate alle leggi regolatrici interne(93).
Riprendiamo il già affrontato tema della distinzione tra atto istitutivo ed atto di dotazione o dispositivo del trust: è evidente che, in base alla Convenzione, il conflitto fra fonti è risolto affidando alla legge del foro interno la disciplina riguardante i profili di validità - sia formale che sostanziale - del solo atto dispositivo.
In sede di lavori preparatori si è usata la metafora della "fionda" e del "sasso", Rovelli(94) ha parlato anche di "rampa di lancio" e di "missile", immagini che fanno capire che la Convenzione vuole occuparsi della sola fase di venuta ad esistenza del trust, quindi - per non uscir fuor di metafora - della "fionda" non del "sasso", della "rampa di lancio" non del "missile".
Tutto ciò dischiude il significato di quella che viene definita teoria della "neutralità" del trust, rispetto al negozio giuridico che lo abbia costituito ed alla sua "causa" (lecita o illecita, meritevole o meno di tutela). Le suddette metafore hanno subito numerose ed accese critiche poiché, sebbene riescano a raffigurare efficacemente la scissione fra i due negozi, rischiano di far dimenticare che il negozio dispositivo del trust - per quanto autonomo - appartiene alla stessa fase genetica cui appartiene l'atto istitutivo.
Nelle ipotesi in cui i due atti coincidano, e nei casi di trust autodichiarato in cui il settlor si nomini se stesso trustee operando non un effettivo trasferimento ma un mutamento del titolo dei diritti esercitati su determinati beni, si dovranno ugualmente scindere gli aspetti programmatici da quelli dotativi dell'atto.
L'articolo 15 lettera c e d fa in parte da eco all'art. 4 e ribadisce l'incontrastata operatività delle norme imperative, fissate dalle regole di conflitto del foro, in materia di trasferimenti inter vivos o mortis causa:
"La Convenzione non costituisce ostacolo all'applicazione delle disposizioni della legge designata dalle norme del foro sul conflitto di leggi quando con un atto volontario non si possa derogare ad esse, in particolare nelle seguenti materie: (..) c) testamenti e devoluzione ereditaria, in particolare la successione necessaria; d) trasferimento della proprietà e le garanzie reali;(..)".
Art. 5: "La Convenzione non si applica qualora la legge specificata al capitolo II non preveda l'istituto del trust o la categoria di trust in questione."
L'articolo 5, da leggersi in stretta correlazione con l'articolo 2, chiude il primo capitolo del dettato convenzionale ma può dirsi - a pieno titolo - sistematicamente intrecciato e connesso agli articoli del capitolo successivo, di cui fa esplicito richiamo, intitolato giustappunto "La Legge applicabile".
Si giunge così al cuore della Convenzione, ai due capitoli centrali (non per collocazione ma per contenuto), cioè il secondo ed il terzo, che ne riproducono e ne dispiegano l'oggetto in tranches susseguenti: uno infatti riguarda la legge applicabile e l'altro il riconoscimento del trust.
3.2 La Legge applicabile
Art. 6: "Il trust è regolato dalla legge scelta dal disponente. La scelta deve essere espressa oppure risultare dalle disposizioni dell'atto che istituisce il trust o portandone la prova, interpretate se necessario alla luce delle circostanze del caso.
Qualora la legge scelta in applicazione al precedente paragrafo non preveda l'istituto del trust o la categoria del trust in questione, tale scelta è senza effetto e verrà applicata la legge di cui all'art.7".
Per legge regolatrice del trust si intende la legge che ne regolamenta le questioni di validità sostanziale (lex causae o validitatis).
Quale legge è applicabile ad un trust? Come si determina?
Il primo criterio sulla base del quale è individuata la legge regolatrice di un trust è la volontà libera, esplicita o implicita(95), del disponente in tale senso (principio dell'autonomia della volontà).
L'unica limitazione a tale principio è espressamente indicata nel secondo comma dell'articolo 6: la validità della scelta effettuata è subordinata alla condizione che l'ordinamento designato preveda
l'istituto o la categoria di trust in questione.
Deve essere il disponente, fin dalla costituzione dei beni in trust, a definire a quale disciplina egli intenda sottoporli: in assenza di tale designazione, nel caso di una designazione non precedente o contestuale ma successiva, o contrastante con la struttura dell'istituto così come scolpita dall'art. 2, entrerà in azione l'art. 7 con i criteri di collegamento " più stretto" in esso previsti ed elencati.
Il secondo comma dell'articolo in oggetto dice appunto quali sono le conseguenze, previste dalla Convezione, nel caso in cui il disponente opti per l'applicazione della legge regolatrice di uno Stato "non-trust" oppure ometta di sceglierla, rimandando all'articolo che segue la puntuale descrizione di criteri sussidiari.
Se la legge indicata dal disponente fosse la legge di uno Stato "non-trust", oppure semplicemente non fosse utilizzabile perché non prevedesse quella specifica categoria di trust, la scelta non sortirebbe alcun effetto (choix sans effet) e si farebbe ricorso automatico ai criteri di individuazione cristallizzati ex lege.
Art. 7: "Qualora non sia stata scelta alcuna legge, il trust sarà regolato dalla legge con la quale ha collegamenti più stretti. Per determinare la legge con la quale il trust ha collegamenti più stretti, si fa riferimento in particolare:
- al luogo di amministrazione del trust designato dal disponente;
- alla ubicazione dei beni in trust;
- alla residenza o sede di affari del trustee;
- agli obiettivi del trust e dei luoghi dove dovranno essere realizzati." L'utilizzo della locuzione "in particolare" lascia intendere che
l'elenco proposto non sia tassativo, senza specificare se il ricorso ad ulteriori criteri (quale - ad esempio - quello di residenza del settlor) possa aversi sempre oppure solo in difetto della possibilità di applicare quelli previsti.
Molto dibattuta è anche la lettura in chiave gerarchica o meno dei criteri sanciti, nonostante la mancata esaustività dell'elenco c'è chi lo interpreta ravvisandovi un "implicito ordine gerarchico" vincolante per il giudice(96). L'incolmabile imprecisione ed indeterminatezza della norma, per gran parte della dottrina e degli studiosi, è un inequivocabile segno ed una indubbia dichiarazione di indirizzo: adottando uno stile morbido e non perentorio si è voluto lasciare il più
ampio spazio possibile all'attività di interpretazione ed adattamento della Convenzione all'interno dei Paesi aderenti, le cui insuperabili diversità sono vieppiù evidenti se la comparazione è effettuata a livello di principi(97). Senz'altro - e questo argomento è piuttosto condiviso - il riferimento temporale, da prendere in considerazione per operare l'individuazione della legge regolatrice sulla base dei
suddetti criteri, è quello della costituzione del trust.
In definitiva, per completare l'esegesi degli artt. 6 e 7 è necessario riprendere quanto anticipato dall'art. 5 e concludere che: la Convenzione non troverà applicazione solo quando il disponente non abbia scelto la legge o abbia scelto una legge che non preveda il trust, o una specifica categoria di trust, ed il ricorso ai suddetti criteri residuali conduca al medesimo risultato (cioè all'individuazione della legge di uno Stato che non contempla la fattispecie di trust).
Dopo la previsione dei criteri di individuazione della legge regolatrice, all'articolo 8 è demandato il compito di specificarne ulteriormente il contenuto e l'ambito di applicazione. Secondo il primo comma la legge competente interna dovrà prevedere e
disciplinare la validità, l'interpretazione, gli effetti e l'amministrazione del trust. In più ed "in particolare" dovrà affrontare le questioni giuridiche relative a:
"a) la nomina, le dimissioni e la revoca dei trustee, la capacità di esercitare l'ufficio di trustee e la trasmissione delle funzioni di trustee;
b) i diritti e obblighi tra gli stessi trustee;
c) il diritto del trustee di delegare in tutto o in parte l'adempimento dei suoi obblighi o l'esercizio dei suoi poteri;
d) il potere del trustee di amministrare e di disporre dei beni in trust, di darli in garanzia e di acquisire nuovi beni;
e) il potere del trustee di effettuare investimenti;
f) i limiti relativi alla durata del trust e i poteri di accantonare il reddito del trust;
g) i rapporti tra trustee e beneficiari, compresa la responsabilità personale del trustee nei confronti di questi ultimi;
h) la modifica o la cessazione del trust;
i) la distribuzione dei beni in trust;
j) l'obbligo del trustee di rendere conto della sua gestione." L'elencazione appena riportata ha una funzione principalmente
esemplificativa e ricognitiva infatti, nei Paesi di civil law, è usata come paradigma normativo, indice di tutti gli elementi ed i profili giuridici che la legge regolatrice dovrà considerare. Resta fuori dall'ambito di applicazione della Convenzione, e di conseguenza dalla legge che sulla base di essa regolerà il trust, la disciplina relativa alla capacità del disponente e dei beneficiari che sarà perciò demandata alla rispettive normative nazionali.
Di non scarso interesse sono gli articoli che chiudono il secondo
Capitolo della Convenzione.
L'articolo 9 consacra il principio della frazionabilità della fattispecie, consentendo il fenomeno del c.d. depeçage (frazionamento), ossia ammette che alcuni aspetti dello stesso trust (come le "questioni amministrative") possano essere trattati a parte ed assoggettati a leggi diverse.
Non è necessario che sia una sola ed unica legge a disciplinare per intero il trust, in particolare, validità ed amministrazione del trust potrebbero afferire a due differenti normative di riferimento; l'utilità di una tale disposizione viene ancor più in evidenza se si pensa ai casi di trust aventi ad oggetto beni siti in ordinamenti diversi o beneficiari con domicilio in Stati diversi. Non dobbiamo leggere l'art. 9 disgiuntamente dagli artt. 6 e 7, perciò, matrice di tale "spezzettamento" può essere la stessa volontà del disponente, nonché la sua non scelta o la scelta di una legge non adeguata o, persino, una scelta parziale idonea a coprire solo taluni elementi del trust costituito ma non tutti quelli richiesti. Nei Paesi di civil law, ma anche - ad esempio - nel Regno Unito, il fenomeno del depeçage non ha goduto di unanime positivo accoglimento, per le difficoltà applicative e per la non certezza del diritto che inevitabilmente ingenera.
Nell'ipotesi in cui il frazionamento scelto sia viziato dall'indicazione di una legge che non conosca il trust (o quella determinata categoria di trust), si accorda un indiscusso favor alla lex validitatis che riconduce ad uniformità la disciplina applicabile(98); tale impostazione è confortata dalla natura stessa della Convenzione e dai principi informatori che, così come fissati nell'avamprogetto, ne
hanno guidato la redazione.
Art. 9: "In applicazione del presente capitolo aspetti del trust suscettibili di essere regolati a parte, quali quelli relativi alla sua
amministrazione, possono esser e disciplinati da una legge diversa."
L'articolo 10 aggiunge che, qualora la legge che regola la validità del trust lo permetta, nel tempo possa essere modificata o sostituita sia la legge regolatrice, sia la legge che ne disciplini un particolare profilo. Un caso del genere può inverarsi: quando il costituente abbia espressamente previsto o si sia riservato tale facoltà nell'atto istitutivo, a patto che tale mutamento non abbia effetti retroattivi e non risulti pregiudizievole per i diritti acquisiti da terzi in buona fede; quando il trust sia revocabile o quando sia incompleto. Anche i beneficiari possono richiedere ed ottenere una modificazione della legge regolatrice sempre che, qualora siano una pluralità, il consenso sia unanime. Un anticipo di quanto esplicitato nell'articolo 10 si è incontrato, poco sopra, alla lettera h dell'articolo 8,2.
Art. 10: "La legge applicabile alla validità del trust disciplina la possibilità di sostituire detta legge o la legge applicabile ad un elemento del trust idoneo ad essere regolato a parte da una legge diversa".
3.3 Il riconoscimento del Trust
Il Capitolo terzo, complementare al secondo, nei quattro articoli di cui si compone contiene le disposizioni relative al "riconoscimento"(99) del trust.
La Convenzione, oltre a predisporre il sistema appena esaminato di regole di conflitto uniformi al fine di impedire l'assoggettamento del trust a discipline contraddittorie e di assicurare al giudice dei
riferimenti normativi atti a risolvere problemi di qualificazione della fattispecie, vuole fissare principi univoci con cui garantire l'efficacia transnazionale del trust.
L'articolo 11 sancisce il principio di obbligatorietà del riconoscimento da parte degli Stati contraenti quando il costituente abbia istituito un trust corrispondente alle caratteristiche enunciate dall'articolo 2, e conforme alla legge regolatrice come individuata in base agli artt. da 6 a 10 della Convenzione.
Art. 11,1: "Un trust costituito in conformità alla legge specificata al precedente capitolo dovrà essere riconosciuto come trust".
Segue la previsione degli effetti minimi che necessariamente conseguono alla qualificazione della fattispecie come trust:
"Tale riconoscimento implica quanto meno che i beni del trust siano separati dal patrimonio personale del trustee, che il trustee abbia le capacità di agire in giudizio ed essere citato in giudizio, o di comparire in qualità di trustee davanti ad un notaio o altra persona che rappresenti un'autorità pubblica".
L'articolo 11,1 reca una norma di diritto materiale uniforme(100), il secondo paragrafo del primo comma contiene una norma di conflitto sull'ampiezza minima che l'applicazione della legge straniera deve ricevere nel foro. Il secondo comma (di seguito riportato) prevede, per mezzo di un rinvio alla legge applicabile al trust, effetti ulteriori - ed in questo caso solo eventuali - del riconoscimento:
"Qualora la legge applicabile al trust lo richieda o lo preveda, tale riconoscimento implicherà, in particolare:
a) che i creditori personali del trustee non possano sequestrare i beni del trust;
b) che i beni del trust siano separati dal patrimonio del trustee in caso di insolvenza di quest'ultimo o di sua bancarotta;
c) che i beni del trust non facciano parte del regime matrimoniale o della successione dei beni del trustee;
d) che la rivendicazione dei beni del trust sia permessa qualora il trustee, in violazione degli obblighi derivanti dal trust, abbia confuso i beni del trust o ne abbia disposto. Tuttavia i diritti e gli obblighi di un terzo possessore dei beni trust rimangono soggetti alla legge applicabile in base alle norme di conflitto del foro".
Tra gli effetti minimi irrinunciabili (art.11,1) troviamo scolpito il principio - più volte ripercorso - di separatezza dei beni in trust dal patrimonio del trustee; tale separazione implica l'inaggredibilità della trust property sia da parte dei creditori personali del trustee, sia da parte dei creditori del disponente(101). Il secondo comma della norma in esame riprende il suddetto principio ed, alle lettere a, b e c, dichiara i beni del trust fund immuni dalle pretese esecutorie dei creditori personali del trustee in sede individuale, ma anche in sede
concorsuale, nonché dagli effetti della successione mortis causa e del regime matrimoniale di costui. Per contro, il patrimonio personale del trustee non sarà protetto dalla rivalsa dei creditori insoddisfatti del trust qualora questi, con comportamenti dolosi o colposi, ne abbia causato il depauperamento.
Infine, in base lettera d, e sempre che la legge regolatrice lo preveda, contro il trustee può essere esperita azione reipersecutoria per il recupero dei beni della trust property che egli abbia confuso con il proprio patrimonio personale, in violazione del trust, o nel caso in cui ne abbia disposto a favore di terzi. Quest'ultima disposizione è
chiaramente finalizzata alla tutela della trust property nei confronti di eventuali abusi perpetrati dal trustee nello svolgimento delle sue funzioni gestorie ed amministrative. Non c'è alcun dubbio sul fatto che l'azione di rivendicazione spetti al beneficiario o ai beneficiari ma non è altrettanto chiaro, perché non detto, a chi debba spettare la legittimazione ad agire in rivendica nel caso in cui il trust sia di scopo
perciò privo di beneficiari(102). Rispetto all'esperibilità della rivendica sui beni indebitamente fuoriusciti dal trust vengono fatti salvi, ai sensi del secondo paragrafo della lettera d, in ogni caso e quale che sia la legge applicata al trust, i diritti e gli obblighi dei terzi possessori come regolamentati dalle norme di conflitto del foro.
Tra gli effetti minimi irrinunciabili ricordiamo anche la legittimazione attiva e passiva del trustee a comparire in giudizio, nonché "davanti ad un notaio o altra persona che rappresenti un'autorità pubblica".
L'articolo 12 si occupa di un tema fondamentale ai fini delle garanzie di effettività e di certezza del riconoscimento del trust: trascrizione, registrazione o iscrizione dei diritti derivanti dal trust.
Art 12: "Il trustee che desidera registrare beni mobili o immobili o i titoli relativi a tali beni, sarà abilitato a richiedere l'iscrizione nella sua qualità di trustee o in qualsiasi altro modo che riveli l'esistenza del trust, a meno che ciò sia vietato dalla legge dello Stato nella quale la registrazione deve aver luogo ovvero incompatibile con essa".
Quindi, laddove in base alla lex loci sia richiesta una qualche forma pubblicitaria per attuare efficacemente la segregazione patrimoniale del trust fund, il trustee non si troverà di fronte ad
adempimento meramente facoltativo ma ad un vero e proprio onere.
Riguardo al problema della trascrivibilità del trust in Italia, nei registri immobiliari, possiamo affermare che: l'aureo principio di tassatività degli atti trascrivibili, il numerus clausus dei diritti reali ed i vivaci filoni oppositori interni, non hanno impedito alla giurisprudenza di dirigersi verso l'affermazione della trascrivibilità del trust e dello status di trustee, non solo nella conservatoria immobiliare ma anche nel registro delle imprese.
Il più importante limite ed ostacolo al generale obbligo di riconoscimento del trust, e quindi all'applicazione della Convenzione, è previsto dall'articolo 13 il quale recita:
"Nessuno Stato è tenuto a riconoscere un trust i cui elementi significativi, ad eccezione della scelta della legge applicabile, del luogo di amministrazione o della residenza abituale del trustee, siano collegati più strettamente alla legge di Stati che non riconoscono l'istituto del trust o la categoria del trust in questione".
La possibilità che trovi applicazione l'articolo 13 si ha quando gli elementi importanti del trust, salvo la legge prescelta per regolarlo, siano tutti riconducibili ad un ordinamento non-trust che ignori l'istituto: se almeno uno di questi elementi è comunque legato ad un ordinamento che disciplina l'istituto, l'articolo 13 non può trovare applicazione.
Per non incorrere in disquisizioni interpretative ultronee - se non addirittura fuorvianti - dobbiamo precisare, come suggerisce M. Lupoi, che tale norma non ha come destinatario lo Stato (così come appare dal tenore letterale) bensì il giudice; spetta al giudice dello Stato che abbia ratificato la Convenzione (e che quindi debba per forza riconoscerlo quantomeno ai suoi effetti) decidere, caso per caso, se e quando sia opportuno fare eccezione al principio del riconoscimento.
Questo articolo salvaguarda l'internazionalità e la natura del trust oggetto della Convenzione, consacrando la libertà di scelta di una qualsiasi legge regolatrice (anche straniera) da parte disponente, e dicendo implicitamente ai giudici che non sono obbligati ad ammettere ad ogni costo un trust se, per farlo, debbano forzarne l'interpretazione tentando artificiosamente di assimilarlo alle varie fattispecie di diritto interno. Il giudice dovrà valutare gli elementi
significativi - ad eccezione di quelli espressamente indicati(103) - che siano in stretta relazione con un determinato ordinamento e, dopo averli valutati, decidere se quel trust sia ammissibile o meno.
Qui entra in gioco la nozione oggettiva di trust "interno" ai sensi della Convenzione: il trust cioè regolato da una legge straniera che lo conosca e che gli attribuisca la precisa ed incontrovertibile qualificazione di trust (nel senso accolto dalla Convenzione) ma i cui
elementi significativi(104), oggettivi e soggettivi, siano legati ad un ordinamento interno che non lo conosca e - quindi - non lo qualifichi come tale(105). Le posizioni interpretative rispetto all'ammissibilità della figura del trust interno sono del tutto divise e contrastanti: per una parte della dottrina l'articolo 13 intende vietare proprio il
riconoscimento del trust c.d. interno, per l'altra (quella preferibile) invece - che sostiene la configurabilità del trust interno(106) - la norma vuol dare (come extrema ratio) al giudice la facoltà di negare il riconoscimento solo a quei trusts che siano del tutto inaccettabili o abusivi.
Alcuni autori all'indomani dell'entrata in vigore della Convenzione scrissero che l'articolo in questione, pura norma di diritto internazionale privato e processuale, dovesse riguardare esclusivamente i trust esterni. Seguendo questa opinione, in forza dell'art. 13, nessuno Stato sarebbe tenuto a riconoscere un trust interno: la legge di ratifica dell'ordinamento italiano - dunque - lungi dall'introdurre il trust in Italia, avrebbe soltanto ratificato una norma di diritto internazionale che disciplina trust esterni.
Vedremo poi come il nostro Paese si ponga di fronte ad ipotesi di trust interno, regolato da una legge straniera, i cui elementi essenziali (disponente, trust, trustee, beneficiario) si trovino in Italia.
L'articolo 13 deve considerarsi una norma facoltizzante e di chiusura del sistema, un rimedio estremo cui ricorrere quando, nonostante le limitazioni introdotte dagli articoli 15, 16 e 18, il trust risulti comunque in contrasto con l'ordinamento nel quale si trovi ad esplicare i suoi effetti principali.
Art. 14: "La Convenzione non costituisce ostacolo all'applicazione di norme di legge maggiormente favorevoli al riconoscimento del trust."
Da una serie di articoli, tra cui anche l'art. 14 che chiude il Capitolo III, emerge un generale favor per il riconoscimento ed una peculiare indole "promozionale" della Convenzione, in particolare:
all'articolo 14 è previsto che la stessa Convenzione ceda di fronte a norme di Stati contraenti la cui applicazione sia più favorevole al riconoscimento del trust.
3.4 Le Disposizioni generali e le Clausole finali.
L'articolo 15,1 in testa al Capitolo che si occupa delle
"Disposizioni generali", afferma che:
" La Convenzione non costituisce ostacolo all'applicazione delle disposizioni della legge designata dalle norme del foro sul conflitto di leggi quando con un atto volontario non si possa derogare ad esse, in particolare nelle seguenti materie:
a) protezione dei minori e degli incapaci;
b) effetti personali e patrimoniali del matrimonio;
c) testamenti e devoluzione ereditaria, in particolare la successione necessaria;
d) trasferimento della proprietà e le garanzie reali;
e) protezione dei creditori in caso di insolvenza;
f) protezione dei terzi in buona fede.
Nel precedente articolo abbiamo incontrato un limite che la stessa Convenzione si pone, ossia, quello di cedere il passo a normative di riconoscimento più favorevoli. Nel disposto dell'articolo 15, la Convenzione asserisce di non rappresentare un ostacolo neppure all'applicazione di norme interne imperative, pattiziamente inderogabili.
Un trust ancorché perfettamente valido che, esplicando i propri effetti, entri in contrasto con norme imperative non deve essere dichiarato nullo o inefficace: privi di efficacia saranno soltanto quegli effetti che violino tali norme. Per di più, l'ultimo capoverso dell'art 15 dà una precisa indicazione ai giudici:
"Qualora le disposizioni del precedente paragrafo siano di ostacolo al riconoscimento del trust, il giudice cercherà di attuare gli scopi del trust in altro modo."
In caso di radicale incompatibilità del riconoscimento con le norme imperative del foro, il giudice dovrà avvalersi di ogni altro mezzo giuridico idoneo a realizzare gli obiettivi del trust e ciò, secondo la più autorevole dottrina, facendo salvi gli effetti legittimi del trust(107), riadattandone perciò ogni volta la fattispecie.
In pendant con l'articolo 15, l'articolo 16,1 sottomette l'operatività della Convenzione anche a "quelle norme della legge del foro la cui applicazione si impone anche alle situazioni internazionali, qualunque sia la legge designata dalle norme di conflitto".
Le norme di applicazione necessaria sono inderogabili non solo dall'autonomia privata, come quelle imperative, ma anche da leggi internazionali e, ciò, a prescindere dal funzionamento delle norme di conflitto.
Il disposto ricalca fedelmente la formulazione dell'art 7 della Convenzione di Roma del 1980 sulla legge regolatrice delle obbligazioni contrattuali: una legge di diritto internazionale privato che in base alle norme di conflitto avrebbe il primato sulla legge del foro, quando incontra e si scontra con una norma di applicazione necessaria, è costretta a ritirarsi per darle la precedenza(108).
Art. 18: "Le disposizioni della Convenzione possono essere disattese qualora la loro applicazione sia manifestamente contraria
all'ordine pubblico".
Ennesimo limite all'applicazione delle disposizioni della Convenzione: l'ordine pubblico.
Ricapitoliamo e riassumiamo: il giudice che si trovi a dover decidere in merito alla validità di un trust sarà tenuto, se ovviamente a ciò richiesto, innanzitutto a verificare l'assenza di un qualche elemento ostativo al riconoscimento degli effetti del trust in relazione alle norme imperative dell'ordinamento (art.15), alle norme di applicazione necessaria (art.16), ed all'ordine pubblico (art.18), cercando - qualora ravvisi un qualche ostacolo al riconoscimento - in ogni caso di far salvi gli effetti del trust e la manifestazione di volontà
sottesa alla sua istituzione (artt. 6 e 15,2)(109).
Visto l'acceso ed attualissimo dibattito dottrinale sulle svariate questioni fiscali connesse al trust, è importante non tralasciare quanto la Convenzione dispone a riguardo: la Convenzione non deroga alla competenza degli Stati in materia fiscale (art. 19).
Abbiamo fin qui passato in rassegna le disposizioni più significative, gli articoli non analizzati non danno luogo a discussioni o considerazioni che coinvolgano direttamente l'oggetto e le finalità della Convenzione.
Alle "Clausole finali" (artt. 26-32) è delegato il compito di disciplinare dati tecnici quali apposizioni di riserve, ratifica, entrata in vigore della Convenzione (110).
Per una lettura completa si rimanda alla traduzione del testo integrale della Convenzione, in Appendice.
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