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Non si può certo dire che la riforma della tassazione dell’Irpef (adesso si chiama IRE) porterà ad un maggiore prelievo fiscale a carico dei contribuenti. Infatti, gli effetti della rivisitazione di aliquote e detrazioni saranno sicuramente a favore di un alleggerimento del carico fiscale, almeno per quanto riguarda l’imposizione diretta delle persone fisiche (soggetti passivi dell’IRE).
Questa conclusione non è conseguenza di elaborati calcoli e proiezioni, che, ipotizzando varie situazioni reddituali, determinano come risultato finale un vantaggioso risparmio d’imposta da parte del contribuente. E’ la semplice constatazione delle implicazioni derivanti dalla “clausola di salvaguardia” e dello scopo che si cela dietro questa clausola, che può tranquillamente identificarsi nella volontà di ridurre le tasse degli italiani.
La clausola di salvaguardia è, infatti, un meccanismo di calcolo dell’imposta da versare che permette alle persone fisiche, nel momento di presentazione della dichiarazione dei redditi, di non pagare di più di quanto si è pagato negli anni passati, in vigenza cioè della vecchia Irpef e degli altri parametri di tassazione (scaglioni e detrazioni). In sostanza, con l’applicazione della clausola di salvaguardia, il saldo netto finale del risparmio che si realizza al momento del pagamento delle tasse, rispetto agli anni precedenti, potrà avere solo segno positivo, a beneficio del contribuente.
Il funzionamento della clausola di salvaguarda è molto semplice, anche se implica un supplemento di conteggi, ai fini della quantificazione dell’effettiva imposta da versare.
Ecco, in poche parole, in che cosa consiste. Innanzitutto si procede al calcolo della nuova imposta IRE secondo l’attuale normativa, che prevede nuove aliquote e nuove deduzioni al posto delle tradizionali detrazioni. Questo calcolo determinerà un’imposta netta da versare che dovrà essere confrontata con quelle che invece risulterebbero applicando, agli stessi dati, le vecchie normative dell’Irpef (quella ante 2003 e quella in vigore negli anni 2003/2004), con le loro aliquote e le loro detrazioni fiscali. Se da questo confronto scaturisse un importo da pagare, calcolato con una delle due vecchie normative, più basso di quello calcolato con l’attuale normativa di tassazione dell’IRE, la clausola di salvaguardia permetterebbe di versare l’imposta di minor importo, disapplicando quindi la legislazione in vigore, a favore di quella precedente (ormai abrogata) più benevola al contribuente.
Perciò bisognerà effettuare, in sede di dichiarazione dei redditi, addirittura 3 calcoli dell’imposta, adottando alternativamente la normativa:
Ma il raffronto di questi calcoli avrà l’indubbio vantaggio di permettere il materiale pagamento dell’imposta più bassa risultante dai tre tipi di conteggio.
Riassumendo, per risparmiare sulle prossime imposte, sono da tenere presenti le seguenti indicazioni, che si riferiscono alle principali caratteristiche delle ultime tre strutture impositive delle persone fisiche.
Caratteristiche tassazione ante 2003 |
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detrazioni per carichi di famiglia |
Scaglioni - fino a 10.329,14 |
Aliquote
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Caratteristiche tassazione 2003/04 |
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Scaglioni - fino a 15.000 |
Aliquote
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Caratteristiche tassazione attuale |
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Scaglioni - fino a 26.000 |
Aliquote
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La pianificazione fiscale concordata è un nuovo istituto fiscale, previsto dalla Finanziaria 2005 ed erede del vecchio concordato preventivo, che rappresenta di fatto una scommessa fatta dall’amministrazione finanziaria con il contribuente. Infatti, la pianificazione fiscale concordata consiste a grandi linee nella determinazione unilaterale da parte del fisco (anche se il contribuente può in qualche modo influire sulla quantificazione) dell’imponibile dell’impresa per i successivi tre anni e nella proposta di questo reddito imponibile al contribuente. Se quest’ultimo accetta l’imponibile prospettato, la scommessa si perfeziona e quindi negli anni futuri potrà verificarsi:
Ma vediamo meglio come funziona l’intero istituto della pianificazione fiscale concordata.
Operatività
Per rendere operativa la Pfc il contribuente non deve fare nulla, ma deve
aspettare l’iniziativa degli uffici finanziari che gli invieranno la proposta
di pianificazione fiscale, ovvero la base imponibile della sua attività, per i
successivi tre anni, con esclusione di eventuali componenti straordinari di
reddito positivi o negativi. Precisiamo subito che la pianificazione fiscale
concordata non incide minimamente sull’IVA e sui suoi adempimenti, che
rimangono pertanto pienamente obbligatori.
Soggetti
interessati
Titolari di reddito d’impresa o di lavoro autonomo (professionisti) sottoposti
agli studi di settore per
l’esercizio in corso al primo gennaio 2003.
Soggetti
esclusi dalla Pfc
Non possono aderire alla pianificazione fiscale concordata i contribuenti che:
Adesione
Di fronte alla proposta del fisco, il contribuente può:
L’adesione alla
pianificazione fiscale concordata vincola il contribuente a dichiarare per tre
anni almeno il reddito concordato, tuttavia qualora ritenga che avvenimenti
straordinari ed imprevedibili abbiano impedito il raggiungimento del reddito
pattuito con il fisco, egli può sempre dichiarare il minor reddito (inferiore
all’imponibile pianificato) da lui contabilizzato. In quest’ultimo caso
l’amministrazione finanziaria procederà ad accertamento parziale per la
differenza fra reddito dichiarato e concordato, e ciò sia per le imposte sul
reddito che per l’IVA. A questo accertamento il contribuente opporrà per
l’appunto i documentati avvenimenti imprevedibili e straordinari che, secondo
lui, hanno influito negativamente sulla determinazione del reddito e quindi si
potrà instaurare tra le parti il procedimento ordinario di accertamento con
adesione.
Oltre al caso appena esposto, anche una variazione nel triennio di riferimento
dell’attività esercitata comporta inevitabilmente la cessazione dell’accordo
stabilito nella pianificazione fiscale.
Effetti
del Pfc
In ordine agli effetti della pianificazione fiscale concordata, consideriamo
separatamente i due possibili casi che si potrebbero verificare nel periodo
triennale considerato, ricordando che la Pfc niente cambia per quanto riguarda
gli obblighi dell’IVA:
Un ulteriore beneficio a favore dei contribuenti che decidono di aderire alla pianificazione fiscale concordata è quello derivante dall’inibizione, per tutto il triennio, dei poteri d’accertamento degli uffici finanziari. Tuttavia questo vantaggio è sicuramente da ridimensionare, stante l’esistenza di casi che fanno venir meno la suddetta inoperatività dei poteri d’accertamento del fisco. In particolare, l’amministrazione finanziaria potrà procedere con atti d’accertamento nei confronti del contribuente che ha aderito alla Pfc, qualora:
IVA: liquidata e versata normalmente (la Pfc non incide sul calcolo e sugli adempimenti dell’IVA)
Contributi previdenziali: il contribuente non pagherà i contributi eccedenti il minimale.
IRE: il risparmio per l’imposta non pagata sarà di € 160,00
Scaglione |
Reddito |
Aliquota |
Aliquota |
Imposta IRE |
Imposta
IRE |
Differenza |
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oltre 33.500 |
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Totali |
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Vediamo con un semplice schema come si calcola l’imposta sul reddito (IRE), erede della vecchia e cara Irpef.
Il 2005 sarà ricordato nella storia del sistema fiscale italiano come l’anno di addio all’Irpef (Imposta sul Reddito delle PErsone Fisiche), l’imposta diretta più conosciuta e temuta dai contribuenti. Al suo posto adesso c’è l’IRE (Imposta sul REddito), che presenta, rispetto all’Irpef, le seguenti novità:
L’IRE, che è l’imposta fondamentale del nostro sistema tributario, è personale, diretta, progressiva e colpisce il reddito. Queste caratteristiche sono tutte ereditate dall’Irpef ed hanno questo significato:
Ricordiamo inoltre che l’imposta sul reddito (IRE) si calcola su una ricchezza monetaria che è data dal “reddito complessivo” (al netto delle deduzioni) prodotto dal contribuente/persona fisica nel corso dell’anno di riferimento. Il reddito complessivo è a sua volta la somma delle seguenti componenti:
Nelle future dichiarazioni dei redditi (dall’Unico 2006), riferite agli anni d’imposta 2005 e seguenti, sarà pertanto necessario operare dei calcoli nuovi ed in gran parte diversi, rispetto a quelli cui eravamo finora abituati, per giungere alla quantificazione dell’imposta netta da versare. Ma già da ora dobbiamo tener conto, in alcuni casi, delle modifiche, come ad esempio per il calcolo della nuova imposta in busta paga.
Operazioni da compiere |
Indicazioni operative, formule e parametri |
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Si sommano tutti i redditi |
Reddito
complessivo |
Categorie di reddito
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Si tolgono le spese deducibili |
meno oneri deducibili (compresa la deduzione per la prima casa e le sue pertinenze) |
gli oneri deducibili sono quelli indicati nel TUIR (Testo Unico Imposte Redditi) |
principali oneri deducibili
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Si
toglie la |
meno no tax area |
no tax area 26.000 + deduzione
teorica + oneri deducibili – reddito complessivo |
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se dalla formula si ottiene:
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deduzione teorica = € 3.000 + (eventualmente) uno dei seguenti importi: € 4.500 per i lavoratori dipendenti (da rapportare al periodo di lavoro nell’anno) € 4.000 per i pensionati (da rapportare al periodo di pensione nell’anno) € 1.500 per gli imprenditori e lavoratori autonomi |
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Si toglie la deduzione per la “family area” |
meno deduzione per familiari a carico (family area) |
family area 78.000 + deduz. family
area + oneri deducibili – reddito complessivo |
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se dalla formula si ottiene:
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deduzione family area (solo per familiari a carico) = coniuge, € 3.200 figlio con più di 3 anni e non disabile, € 2.900 figlio con meno di 3 anni, € 3.450 figlio disabile, € 3.700 primo figlio quando l’altro genitore manca, € 3.200 altri familiari, € 2.900 (i suddetti importi spettano per i soli familiari a carico, sono da ripartire in proporzione all’effettivo onere sostenuto da ciascun contribuente e vanno eventualmente rapportati ai mesi dell’anno in cui i familiari sono stati a carico) + spese sostenute per
assistenza personale (propria e dei familiari a |
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Si arriva al reddito da assoggettare a tassazione |
uguale Reddito imponibile |
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Si applicano le aliquote percentuali a ciascun scaglione di reddito |
Aliquote fiscali |
Scaglioni e aliquote
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Calcolo veloce dell’imposta
per calcolare facilmente l’imposta è sufficiente applicare al reddito l’aliquota del corrispondente scaglione e sottrarre dal risultato ottenuto il correttivo indicato a fianco dello stesso scaglione |
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Si arriva così all’importa lorda |
uguale Imposta lorda |
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Si tolgono dall’imposta lorda le spese detraibili (il 19%) |
meno 19 % delle detrazioni per oneri e spese |
gli oneri detraibili sono quelli indicati nel TUIR (Testo Unico Imposte Redditi) |
principali oneri e spese detraibili
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Si arriva finalmente all’imposta netta da pagare |
uguale Imposta netta |
Applicazione della clausola di salvaguardia Il contribuente può
pagare di meno dell’imposta netta. quella calcolata con le attuali aliquote e deduzioni quella calcolata con le aliquote e detrazioni in vigore fino al 2002 quella calcolata con le aliquote e detrazioni in vigore nel 2003/2004 Occorre quindi procedere al calcolo dell’imposta anche con le vecchie normative, le cui aliquote si riportano, per opportunità, nei riquadri sottostanti. |
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Aliquote 2002
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Aliquote 2003/2004
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La legge del 7 aprile 2003 (G.U. n. 91 del 18 aprile 2003) prevede un profondo riassetto del sistema tributario, con la riduzione delle varie imposte oggi esistenti a cinque principali forme di tassazione, raccolte in un unico codice: imposta sul reddito, imposta sul reddito delle società, imposta sul valore aggiunto, imposta sui servizi, accisa. La riforma prevede anche la graduale eliminazione dell’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP).
Per attuare i principi contenuti nella delega il Governo ha il compito di adottare uno o più decreti legislativi, da emanare entro due anni dalla data di entrata in vigore della legge delega. Il decreto legislativo che introduce l’IRES (Imposta sul reddito delle società) e sostituisce l’IRPEG (Imposta sul reddito delle persone giuridiche) è appena stato emanato nel Dicembre 2003 ed entrato in vigore dal 1° Gennaio 2004, quindi con la dichiarazione del 2005.
Principali imposte dirette previste nel sistema tributario attuale e principi generali della riforma
IRPEF e principi generali dell’IRE
L’IRPEF, introdotta con la riforma del ‘71, è considerata la “regina” delle imposte dirette, sia perché da sola provvede i due terzi del gettito delle imposte dirette, sia perché è l’imposta che, in teoria, meglio si presta a realizzare il principio dell’efficienza e dell’equità:
La struttura di base dell’imposta resta la stessa anche per l’IRE, la nuova Imposta sui redditi prevista con la Legge delega; è un’imposta generale sui redditi delle persone fisiche: per “reddito” si intende qualsiasi elemento di ricchezza proveniente da ognuna delle fonti indicata dalla legge:
Sono considerati redditi da lavoro dipendente, oltre a salari e stipendi, le pensioni, le indennità di disoccupazione e di cassa integrazione, nonché i compensi corrisposti da Stato ed Enti Locali per l’esercizio di pubbliche funzioni (come le indennità dei parlamentari). E’ invece esclusa dal reddito tassabile quella parte di reddito che viene obbligatoriamente prelevata dallo stato per i contributi sociali.
I redditi da lavoro dipendente sono soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di acconto, sistema che consiste nel sottrarre ogni mese l’imposta dallo stipendio, per poi ricalcolare a fine anno, tenuto conto di tutti i redditi percepiti, a quanto ammonta l’imposta da versare e fare quindi il conguaglio tra quanto eventualmente sia ancora dovuto e quanto già versato a titolo, appunto, di acconto.
I redditi
di lavoro autonomo sono quelli percepiti per l’ esercizio di arti e
professioni da professionisti, collaboratori, scrittori, cantanti, ecc. Il
reddito che deriva da lavoro autonomo è determinato come si determina quello di
impresa: ricavi meno costi. E’ quindi costituito dalla differenza tra i
compensi percepiti e le spese sostenute per l’esercizio del proprio lavoro
durante il periodo d’imposta.
Gran parte di questi redditi sono anch’essi soggetti al sistema della ritenuta
alla fonte a titolo di acconto.
Il reddito di impresa è quello che deriva dall’esercizio di imprese commerciali (tra le quali sono comprese ai fini fiscali anche le attività agricole) ed è costituito dal risultato contabile del conto economico dell’esercizio, rilevato dalle scritture contabili, oppure stabilito in via forfettaria per le piccole imprese.
Per evitare la disparità di trattamento tra i redditi da lavoro, soggetti a ritenuta man mano che vengono percepiti, e i redditi di impresa, il contribuente è obbligato a versare un acconto sull’imposta che risulterà dovuta a fine esercizio. Il versamento d’acconto avviene nei mesi di giugno e novembre dello stesso anno in cui i redditi sono percepiti e si basa sui redditi dell’anno precedente.
Se l’impresa ha
la forma di ditta individuale, ovviamente il reddito è imputato al titolare
dell’impresa.
Se l’impresa ha la forma di società di persone (snc o sas), il reddito sarà
imputato ai soci in proporzione alla quota da ciascuno posseduta.
Quando si tratta di redditi da capitale (interessi su titoli, conti correnti e depositi, dividendi su azioni), cominciamo ad allontanarci dalla nozione di reddito complessivo che in teoria dovrebbe essere alla base di un’imposta personale quale l’IRPEF. Infatti in Italia i redditi da capitale percepiti dalle persone fisiche hanno un trattamento particolare, cioè vengono tassati tramite una ritenuta alla fonte (applicando un’aliquota del 12,5 o del 27%) che sino ad ora poteva essere d’acconto o definitiva, stava al contribuente scegliere (fermo restando che le persone fisiche imprenditori erano obbligati alla scelta della ritenuta d’acconto). Se sceglieva la tassazione come ritenuta d’acconto, poi il reddito da capitale confluiva nel complesso dei suoi redditi entrando a far parte della base imponibile per calcolare l’imposta dovuta (e rispettando, così, il principio della tassazione sul reddito complessivo), ma poi il contribuente aveva diritto al riconoscimento di un credito d’imposta, in base al principio di evitare la doppia tassazione, dato che questi redditi da capitale vengono già tassati alla fonte in capo alla società che li produce con l’IRPEG; ma in pratica quasi tutti i non imprenditori sceglievano la tassazione con ritenuta definitiva, così che questi redditi vengono normalmente tassati separatamente, non entrano a far parte della base imponibile complessiva sfuggendo così alla progressività dell’imposta, ma non danno neanche diritto al credito d’imposta perché non vengono dichiarati nell’IRPEF. La riforma prevede l’abolizione del credito d’imposta sugli utili distribuiti dalle società, perciò ormai l’unico sistema per le persone fisiche non imprese resta quello della tassazione alla fonte con ritenuta definitiva, mentre per le imprese è prevista una esenzione parziale di questi redditi (il 60% è esente) al posto del credito d’imposta soppresso.
Le aliquote previste erano due:
Oggi l’aliquota resta per tutti quella minima del 12,5%.
Una ragione del regime sostitutivo dei redditi da capitale sta nel fatto che questi sono molto più facilmente occultabili dei redditi da lavoro, il fisco, quindi, si accontenta di tassarli (poco) alla fonte rinunciando alla progressività.
L’altra ragione di una tassazione favorevole dei redditi da capitale sta nel fatto che lo stato ha avuto il problema del finanziamento del deficit di bilancio ed emettendo titoli del debito pubblico in quantità invogliava i sottoscrittori prima con una totale esenzione dall’imposta sugli interessi dei titoli, poi (dal 1986) una tassazione molto “soffice” con l’aliquota ridotta.
Dal punto di vista economico, si tratta di una situazione ingiusta sul piano distributivo (nella misura in cui i redditi da capitale sono più concentrati tra i ricchi che tra i poveri) e dannosa sul piano dell’occupazione (perché se un paese tassa meno il capitale, per procurarsi il gettito di cui ha bisogno dovrà tassare di più il lavoro scoraggiando le assunzioni e mantenendo alta la disoccupazione).
Per redditi fondiari si intende il reddito prodotto dai terreni e fabbricati iscritti nel catasto dei terreni o nel catasto edilizio urbano. Il reddito non è quello effettivamente percepito dal proprietario di un terreno o di un fabbricato, ma è quello che risulta dalla applicazione delle tariffe di estimo catastale (il reddito medio ordinario che si presume possa derivarne).
Per il fabbricato adibito ad abitazione principale il contribuente ha diritto a dedurre dalla base imponibile la rendita catastale dell’immobile. Se un fabbricato viene affittato, allora si considera il reddito effettivo netto (reddito annuo derivante dalla locazione meno una quota forfetaria del 15% per le spese di manutenzione).
I redditi diversi costituiscono una categoria residuale che comprende principalmente le plusvalenze realizzate mediante operazioni immobiliari (acquisto e rivendita di immobili) e le plusvalenze realizzate mediante cessione di titoli, valute ed altri valori a scopo speculativo (i cosiddetti capital gains), Anche per questi redditi si applica un regime particolare, che consiste in una imposta sostitutiva che può essere del 27% o del 12,5% (a seconda che si tratti di cessione di partecipazioni qualificate o meno). Il contribuente può tuttavia optare per la tassazione d’acconto, e quindi riportare i guadagni di capitale nel reddito complessivo dell’IRPEF.
La legge prevede infine una tassazione separata per alcuni redditi che vengono percepiti “una tantum”, ma sono maturati in più anni, come le retribuzioni arretrate dei lavoratori dipendenti e il trattamento di fine rapporto. Infatti se tali redditi venissero sommati al reddito abituale, il contribuente verrebbe penalizzato data la progressività dell’imposta.
Come si calcola l’imponibile IRPEF e l’imposta dovuta
Dopo aver sommato tutti i redditi, si calcola il reddito complessivo, ma da questo si possono operare delle deduzioni, che sono quindi delle somme sottratte al reddito complessivo per determinare la base imponibile da assoggettare all’IRPEF.
Gli oneri deducibili sono imputabili a ragioni sociali, e vi rientrano le spese mediche per invalidità o handicap, i contributi previdenziali, i versamenti per le pensioni integrative, l’assegno corrisposto al coniuge in caso di separazione o divorzio, le erogazioni versate alla chiesa cattolica o altre chiese indicate dalla legge entro certi limiti, i contributi per i paesi in via di sviluppo, oltre alla già vista deduzione per l’abitazione principale. Infine, sul reddito complessivo al netto degli oneri deducibili viene applicata una ulteriore “deduzione per la progressività” solo ai redditi medio-bassi.
Una volta determinata la base imponibile (reddito complessivo al netto degli oneri deducibili e della deduzione per la progressività, ove spettante) si può procedere alla determinazione dell’imposta dovuta.
Poiché l’IRPEF è un’imposta progressiva, la tassazione avviene applicando alla base imponibile aliquote crescenti per scaglioni di reddito.
La determinazione della scala delle aliquote è una scelta di politica economica. Se il legislatore considera prioritario l’obiettivo della redistribuzione, l’imposta è congegnata in modo tale che le aliquote aumentino, anche se di poco, a ogni piccolo incremento del reddito, con un notevole divario tra l’aliquota minima e quella massima. Nel nostro paese, inizialmente, il reddito delle persone fisiche era suddiviso in 32 scaglioni con aliquote che andavano da un minimo del 10% ad un massimo del 72%.
Se invece si intende privilegiare l’obiettivo della crescita economica la progressività è meno accentuata, le aliquote aumentano solo in corrispondenza di consistenti variazioni di reddito e il differenziale tra aliquota massima e minima è attenuato. Attualmente gli scaglioni sono 5. L’aliquota minima, che fino al 2002 era del 18%, con la legge finanziaria per il 2003 è stata elevata al 23%, e corrispondentemente è stata introdotta la deduzione per la progressività in modo da esentare i redditi minimi e alleggerire i medio-bassi.
Ad ogni scaglione di reddito si applica l’aliquota corrispondente, poi si sommano le imposte da pagare su ogni scaglione e si ottiene l’imposta lorda totale. Nella Legge delega per la riforma sono previste solo due aliquote: il 23% per i redditi fino a 100.000 € e il 33% per i redditi superiori.
A questo sistema a due aliquote si affianca un sistema di deduzioni non ancora precisate, circolano tuttavia ipotesi di una deduzione che azzeri l'imposta per i primi 6500€ e di ulteriori deduzioni, decrescenti al crescere del reddito. E' evidente che il sistema di deduzioni è decisivo per mantenere almeno in parte il principio di progressività previsto dalla Costituzione (l'aliquota del 23% abbraccia il 99.5% degli attuali contribuenti e quindi si configura nei fatti come una aliquota unica).
La riduzione del gettito, applicando queste aliquote, secondo il governo sarebbe in parte compensata dal fatto che la minore imposizione sarebbe da stimolo ai consumi e, di conseguenza produrrebbe un significativo aumento del gettito IVA. Ne risulta un evidente modificazione dell’attuale equilibrio tra imposte dirette e indirette che non va nella direzione dell’equità, essendo l’imposta indiretta un’imposta dall’effetto sostanzialmente regressivo perché l’aliquota fissa incide in modo più gravoso sui contribuenti a basso reddito.
L’imposta lorda totale ottenuta calcolando l’aliquota su ogni scaglione di reddito va distinta dall’imposta netta, che sarà quella alla fine pagata dal contribuente, e che si ottiene dopo aver sottratto le detrazioni attualmente previste dalla legge.
Le detrazioni hanno la funzione di adeguare ulteriormente il prelievo alla situazione personale del contribuente e sono di tre tipi:
Queste detrazioni vengono abolite dalla riforma per essere sostituite dal sistema di deduzioni di cui sopra.
Dall’ammontare dell’imposta netta vanno ulteriormente detratte le ritenute alla fonte a titolo di acconto (per i lavoratori dipendenti e in certi casi gli autonomi), i versamenti di acconto e i crediti d’imposta ora aboliti.
IRES
Il 16 dicembre 2003 è stato pubblicato nella 'Gazzetta Ufficiale' il decreto legislativo di riforma della tassazione delle società di capitali, secondo le linee previste dalla delega per la riforma fiscale . Si tratta di un provvedimento molto ampio e complesso, che muta radicalmente oltre al nome (da Irpeg a Ires), anche il disegno della tassazione societaria nel nostro paese. Il decreto entrerà in vigore il 1° gennaio 2004. Da quanto si legge nel comunicato del Consiglio dei ministri del 12 settembre: 'L´imposta sul reddito delle società che sostituisce l’Irpeg adegua tutte le regole del prelievo sugli utili prodotti dalle società all´evoluzione in atto nei paesi europei (riduzione delle aliquote, semplificazione)'. È in realtà impossibile individuare un modello europeo di riferimento o un’evoluzione comune per la tassazione societaria. I sistemi vigenti restano ampiamente differenziati.
Soggetti passivi dell’imposta, come per l’IRPEG, sono le società di capitali e le cooperative, oltre agli enti non commerciali (associazioni, onlus). Sono soggetti passivi anche le società e gli enti di ogni tipo, non residenti nel territorio dello Stato, per i redditi prodotti in Italia.
L’aliquota
passa dal 34% al 33% del
reddito imponibile (base imponibile), costituito dalla differenza tra i ricavi
considerati tassabili e i costi ammessi in deduzione, ottenuti nell’ambito di
un certo periodo di tempo denominato periodo d’imposta. La riduzione delle
aliquote dell’imposta societaria è un fenomeno iniziato nella generalità dei
paesi occidentali negli anni Ottanta.
L’Italia è andata in controtendenza per lunghi anni, fino alla riforma Visco
del 1997-98 che aveva ridotto l’aliquota sugli utili societari dal 53,2 per
cento a un valore compreso fra il 31,25 e il 41,25 per cento (sistema di
tassazione a due aliquote, noto come Dit, la dual income tax cioè un
modello di tassazione duale a due aliquote che consentiva la detassazione degli
utili reinvestiti, mediante l’applicazione su di essi di un’aliquota ridotta).
Successivamente la riduzione dell’aliquota era stata portata avanti sino ad
arrivare all’attuale 34%, con il congelamento però della aliquota Dit (che
intanto era scesa al 19%).
Con la nuova riforma alla ulteriore riduzione dell'aliquota al 33% si accompagna la soppressione definitiva della Dit. Il modello di tassazione duale, che già era stato sospeso nel 2001, viene dunque definitivamente abbandonato a favore di un modello di tassazione unica. A proposito di modello europeo, i paesi nordici e l’Austria adottano sistemi di tassazione duale che, seppure molto diversi fra loro, hanno alcuni punti in comune con il sistema introdotto in Italia nel 1997 e ora abolito. Il vecchio sistema, con la Dit, premiava chi capitalizzava le imprese accordando più basse aliquote di tassazione, mentre le nuove regole tendono a favorire la capitalizzazione delle imprese seguendo una strada totalmente diversa, perché chi non si capitalizza a sufficienza e sostiene il costo di interessi passivi, non potrà dedurre interamente tale costo dalla base imponibile: si passa quindi dal premio ai virtuosi alla punizione per chi non capitalizza.
Per quel che riguarda la base imponibile, vi sono diverse variazioni ed esenzioni.
In primo luogo la misura della thin capitalization, appena accennata, che riguarda le imprese di medio-grandi dimensioni, che rende indeducibili gli interessi passivi sui finanziamenti direttamente erogati dai soci o da questi ultimi soltanto garantiti, al fine di scoraggiare l’indebitamento, a meno che non sia la forza economica stessa della società che garantisce l’indebitamento.
Come già
osservato, scompare il meccanismo dei crediti d’imposta per i
redditi da capitale, e viene introdotto il principio della esenzione.
Infatti per evitare la doppia tassazione sulla società che distribuisce e la
società che percepisce questi redditi, i dividendi percepiti dalle società
divengono quasi totalmente esentati da imposta: le società si vedranno tassare
il 5% dei redditi percepiti con prelievo definitivo ed aliquota IRES del 33%.
La abolizione del credito d’imposta comporta un aggravio minimo per le società
di capitali, mentre risulta più onerosa per le ditte individuali e le società
di persone, perché oggi queste si vedranno tassati con prelievo definitivo e
con aliquota IRE (del 23 o del 33%) il 40% dei dividendi percepiti che
rientrano nel reddito d’impresa. Il risultato sarà quello di tassare la società
dalla quale scaturisce il reddito, di esentare di fatto i percettori intermedi
che siano a loro volta società di capitali e di esentare solo parzialmente il
percettore finale (persona fisica), che sarà quindi soggetto a doppia
imposizione su una parte dei dividendi percepiti.
Per ciò che riguarda i redditi consistenti in plusvalenze derivanti da cessioni
di azioni o di partecipazioni in società non rappresentate da titoli, che prima
erano tassate con regime sostitutivo ed aliquota del 19%, la nuova normativa
introduce il regime della “participation exemption”, ossia una
esenzione totale, purché si verifichino determinate condizioni (ad es. siano
iscritte da almeno un anno nelle immobilizzazioni finanziarie). Sistemi di
'esenzione da partecipazione' esistono in diversi paesi della Ue, ma
sono solitamente caratterizzati da condizioni più restrittive.
L’istituto in commento trova una sua applicazione seppur parziale anche per i soggetti IRPEF (futura IRE), in quanto per le imprese individuali e le società di persone è prevista un’esenzione parziale del 60% (plusvalenze tassabili al 40%), mentre non ha alcuna rilevanza nel possesso di partecipazioni da parte di persone fisiche non imprenditori, che continueranno a pagare l’imposta sostitutiva interamente.
Tra i nuovi istituti introdotti, quello che maggiormente potrebbe definirsi 'europeo' è il consolidato fiscale, ossia la possibilità di compensare a fini fiscali utili e perdite delle società appartenenti a un gruppo (solo il Belgio e la Grecia, oltre all’Italia, non hanno una tassazione di gruppo). Anche sul consolidato, i paesi europei adottano criteri e regole diversi sia nella definizione di gruppo, sia nelle modalità di consolidamento. Il nuovo istituto introdotto si ispira soprattutto alla riforma tedesca dell’estate 2000, sistema tra quelli più favorevoli in ambito Ue per le holding e per i gruppi.
Per accedere al consolidato fiscale è sufficiente una partecipazione superiore al 50 per cento, mentre negli altri paesi europei occorre una partecipazione dell’80 o del 90 %. Inoltre, il sistema introdotto in Italia prevede che la possibilità di compensazione sia estesa alle controllate estere (cosiddetto consolidato mondiale), con l’obbligo di escludere dalla compensazione le società con sede nei paradisi fiscali. Il consolidato fiscale internazionale è consentito all’interno della Ue solo dalla Danimarca, ma esclusivamente nel caso di possesso al 100 per cento dell’azienda partecipata, e dalla Francia, in casi limitati valutati di volta in volta dalle autorità fiscali. Una recente proposta avanzata dalla Commissione europea era invece di adottare un sistema di tassazione societaria a base comune consolidata in ambito Ue, anziché in ambito nazionale o mondiale, con successiva ripartizione dei profitti secondo criteri predefiniti, quali la localizzazione dei fattori produttivi e delle vendite (c.d. formula apportionment).
Secondo molti analisti, se da una parte la riduzione dell’aliquota, l’esenzione dei capital gains e l’introduzione del consolidato fiscale avranno effetti positivi soprattutto sulle grandi società, d’altra parte le aziende avranno probabilmente un aggravio legato all’abolizione del credito d’imposta sui dividendi e all’indeducibilità degli interessi passivi.
La manovra di bilancio racchiude un complesso di provvedimenti di competenza del Governo e sottoposti all’approvazione parlamentare, che non si esauriscono nella presentazione ed approvazione del bilancio, preventivo e consuntivo. Alti atti precedono e accompagnano l’iter di approvazione del bilancio, per inserirlo in un quadro di programmazione economica e così correggerne i risultati nel senso desiderato. Per fare questo occorre impostare una programmazione, non si può fare direttamente in sede di discussione del bilancio. Anche perché l’art. 81 vieta espressamente di apportare le correzioni di entrata o di spesa direttamente nella legge di bilancio.
Questi altri atti che compongono la manovra sono il Dpef, (Documento di programmazione economico-finanziaria), da presentare entro il 30 giugno, che costituisce in pratica il progetto iniziale; poi entro il 30 Settembre devono essere presentati il bilancio annuale e pluriennale a legislazione vigente (che riporta le entrate e le spese così come previste dalle norme in vigore) insieme con la legge finanziaria, che apporta alle leggi di entrata e di spesa le modifiche necessarie per indirizzare i conti verso gli obiettivi desiderati (riduzione del deficit, sviluppo, ecc).
All’esame della finanziaria è dedicata una “sessione di bilancio” apposita, da ottobre a dicembre (con due passaggi per ogni Camera, in commissione bilancio e poi in aula), per arrivare entro la fine dell’anno ad approvare la finanziaria e il bilancio annuale e pluriennale “programmatico” (adeguato agli obiettivi programmati perché ha recepito le variazioni previste in finanziaria ).
In mancanza di approvazione del bilancio prima dell’inizio dell’anno, la Costituzione all’art. 81 c. 2, stabilisce che è possibile superare il limite del 31 dicembre per non più di quattro mesi (cioè entro il 30 Aprile), ma solo con legge apposita che conceda l’esercizio provvisorio del bilancio (contenendosi per ciascun mese nei limiti di un dodicesimo della spesa dell’anno precedente).
Dagli
anni Novanta accade abbastanza costantemente che, siccome dalla proiezione
tendenziale risulta un deficit pubblico troppo elevato, la manovra ha
l’obiettivo prioritario di ridurre il deficit. Essa consiste in un pacchetto di
misure del valore di tot miliardi di correzione, indicando quanto della
correzione deve insistere sulle entrate e quanto sulle spese per ridurre il
deficit al livello desiderato. Naturalmente non deve trattarsi necessariamente
(e non sempre si è trattato) di misure tutte restrittive, perché contemporaneamente
possono e devono essere finanziati altri obiettivi importanti.
A titolo di esempio, il DPEF per il 2004-2007 prevede per quest’anno 2004 una
manovra correttiva di circa 16 miliardi di euro, per un terzo tagli di spesa e
due terzi nuove entrate “una tantum”, e che sarà utilizzata per la maggior
parte al fine di ridurre l’indebitamento all’1,9% del rapporto deficit/PIL (il
cui andamento tendenziale, cioè senza manovra, risulterebbe del 3,1%) e per il
resto a finanziare interventi per lo sviluppo.
Già
le precedenti manovre per il 2002 e per il 2003 erano state accompagnate da
decreti legge che concorrevano, anche in misura significativa, alla manovra
complessiva, innovando la prassi procedurale nel senso di adottare
provvedimenti d’urgenza in chiave “preventiva” rispetto alla manovra adottata con
la legge finanziaria.
Questa volta tre quarti della manovra sono stati varati con decreto-legge, un
provvedimento assai complesso che contiene disposizioni di vario genere volte a
garantire le maggiori entrate “una tantum” (condoni edilizio e fiscale, vendita
di immobili e “lease back” - cioè la vendita e il riaffitto - degli
edifici adibiti a uffici pubblici, ecc.) necessarie a finanziare interventi di
spesa contenuti non solo nel decreto-legge stesso, ma anche in larga parte
nella legge finanziaria, e altre misure di carattere ordinamentale.
In via di prassi, senza discussione sul disegno di riforma, si è giunti alla
configurazione di una sessione di bilancio rapida e realmente blindata nella
quale spetta al Governo dettare i contenuti, mentre l’intervento parlamentare è
ridotto al minimo.
Infatti il cosiddetto “decretone” collegato con la manovra per il 2004 ha
ulteriormente velocizzato la tempistica della sessione parlamentare di
bilancio, considerato il termine ridotto per la conversione in legge. Inoltre,
per evitare l’approvazione di emendamenti riduttivi degli effetti finanziari
complessivi del decreto-legge, è stata più volte posta la questione di fiducia
(complessivamente vi sono stati sulla manovra cinque voti di fiducia: due sul
decreto-legge e tre sul disegno di legge finanziaria).
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