INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO
Nel dodicesimo capitolo viene
trattato uno dei temi fondamentali della filosofia del diritto;
l'interpretazione del diritto o, con un termine più usato dai filosofi si parla
del pensiero ermeneutico. Il termine ermeneutica deriva da una scuola
filosofica che si è sviluppata nella seconda metà del '900 e che ha come suo
tema fondamentale il problema dell'interpretazione dei testi e è importante
nella filosofia del diritto perché le leggi, le norme hanno bisogna di una
interpretazione. Quindi il problema dell'interpretazione è un problema
fondamentale. Secondo la dottrina tradizionale dell'interpretazione, le leggi
hanno un significato univoco; cioè quando un legislatore emana una norma, ed ha
un suo significato che deve essere capito da tutti. Quindi, secondo una
dottrina tradizionale, le norme hanno un senso univoco che, non varia a seconda
di chi va ad interpretarle. Questa impostazione è stata messa in crisi da
questa nuova concezione filosofica detta: ermeneutica, la quale si è resa conto
che non esiste questa univocità nell'interpretazione di una norma. Per gli ermeneuti,
infatti, una stessa norma può avere diversi significati, a secondo di chi la
interpreta, pertanto non è vero che una norma abbia un carattere univoco perché
il suo significato non viene colto da tutti allo stesso modo. Pertanto per
cogliere il significato delle norme giuridiche c'è bisogna di
un'interpretazione, di un lavoro ermeneutica. La nuova coscienza ermeneutica
ha, naturalmente, messo in crisi tutta una serie di credenze, in particolar
modo quelle che fanno capo ad una tradizione interpretativa che prende il nome
di " logicismo giuridico" , che si basa su alcune certezze:
1. che possa esistere una sola interpretazione
vera ed esatta;
2. che ci sono interpretazioni che non mettono in
gioco la personalità dell'interprete e quindi non è possibile attribuire ad una
stessa norma più significati.
Queste certezze del logismo giuridico
sono state messe in crisi da questa interpretazione ermeneutica che vede
nell'attività del giurista-interprete, l'individuazione di più significati
ricavabili da una stessa norma e che tale individuazione implica un
atteggiamento di intervento attivo sul testo da interpretare, così come emerge
da un epigramma goethiano, molto amato dai cultori di ermeneutica: "
nell'interpretazione, siate inventivi e vivaci. Anche se non tirate nulla dal
testo, attribuitegli un senso!".
Quindi, l'attività del
giurista-interprete non può che essere creativa ed essa, a sua volta, andrà
ritenuta normativa, perché il giurista non è chiamato a chiarificare il
significato implicito delle norme, ma egli opera attribuendo loro un
significato. Pertanto sarà impossibile non ammettere che il giurista-interprete
produce norme valide a risolvere controversie. Il problema che sorge alla tesi
ermeneutica è: se non vi è un unico significato che si possa attribuire ad una
norma ma ve ne sono diversi, in base all'interpretazione delle norme stesse,
come si può scegliere la più giusta?
Nasce a proposito il problema del
nichilismo, cioè il problema che se si hanno più interpretazioni da una
stessa norma, è che se non ne avessimo nessuna, perché non si sa quale sia la
più giusta. D'Agostino dice che il problema non è tanto quello del nichilismo o
relativismo: quello che l'ermeneutica ha messo in discussione non è tanto che
non ci sia un'interpretazione attiva degli enunciati normativi, ma ha messo in
evidenza che ci sono tante interpretazioni, cioè che il lavoro ermeneutico è,
in qualche modo, inesauribile. Quindi ci troviamo di fronte a due situazioni,
una di aspetto negativo che è di coloro che dicono che ci sono varie
interpretazioni e quindi come se non ce ne fosse neanche una, perché non si sa
quale sia quella giusta, e quindi, quella a cui far riferimento: concezione
nichilista (negazione di tutto); l'altra di aspetto positivo, quella
ermeneutica, ritiene che questa variabilità di significati, da attribuire ad
una stessa norma, sia un bene, perché con ciò si vuole dimostrare che vi è un
lavoro che non deve fossilizzarsi, stabilizzarsi, ma che deve continuamente
andare avanti. Il lavoro ermeneutico si svolge su una base di criterio: il
primo che è quello che D'Agostino definisce come criterio dell'orizzonte di
attesa che sostiene che una norma debba essere interpretata tenendo conto dello
sfondo culturale, sociale, filosofico e storico, che si viene a creare intorno
al giudice; il secondo, fa riferimento al tema dell'implicazione, cioè il
giudice darà un'interpretazione ad una norma adeguandosi il più possibile alla
realtà che lo circonda; il terzo fa riferimento alla fedeltà. Il giurista non
deve essere fedele né al legislatore, perché in questo modo implicherebbe
un'inevitabile sudditanza politica nei confronti di chi detiene il potere; né
alla legge, perché trattasi di principi astratti che solo grazie all'attività
interpretativa dei giuristi, acquistano concretezza. Pertanto il giurista non
può essere fedele all' "essere", al diritto,
quel diritto basato su convinzioni, certezze, che ognuno ha dentro di sé
e che costituiscono dei valori innati universali.