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Il regime di diffusione; la stampa, la radiotelevisione, gli spettacoli




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Nel proclamare il diritto di libera manifestazione del proprio pensiero, il primo comma dell'art. 21 aggiunge che tale libertà può essere esercitata "con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione". "La costituzione garantisce sia la manifestazione del pensiero sia la divulgazione del pensiero dichiarato". Ciò non toglie che lo stesso art. 21 stabilisca un'apposita disciplina di principio, relativamente ad uno degli "altri mezzi": cioè con riguardo alla stampa e più di preciso alla stampa periodica. Si spiega in tal senso che la stampa non sia suscettibile né di autorizzazioni né di censure. L'unica misura consentita dal terzo comma consiste nel sequestro degli stampati, che può venire disposto dall'autorità giudiziaria esclusivamente "nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi". E la riserva di giurisdizione non può essere derogata se non ricorrono situazioni di "assoluta urgenza". A sua volta, però, il quinto comma dell'art. 21 ammette che la legge stabilisca "con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica": all'evidente scopo di far si che i lettori individuino gli interessi sottostanti alle diverse imprese giornalistiche. Ma la legge sull'editoria si è spinta ben oltre, in quanto ha voluto precludere il formarsi di monopoli o di oligopoli; ed ha istituito a tal fine uno specifico "garante". Tuttavia, non si può condividere la tesi che le norme anti-trust contraddicano la libertà di diffusione del pensiero e la libera iniziativa economica.


La libertà di informazione, della quale si avvalgono giornalisti e direttori dei giornali, può considerarsi piena; e ad essa si aggiunge il comune "diritto di informarsi", riferito alla libera acquisizione di notizie. Nella prospettiva dei lettori si tratta invece di un mero interesse. Sotto vari profili lo status di coloro che svolgono la professione giornalistica rimane peculiare. Una chiara riprova di ciò consiste nell'esistenza di un apposito ordine dei giornalisti: la legittimità del quale, pur non contestata in dottrina, è stata più volte affermata dalla corte costituzionale e nella stessa letteratura giuridica. Effettivamente, sugli iscritti all'albo dei giornalisti gravano obblighi specifici di deontologia professionale, a cominciare da quello di rispettare "la verità sostanziale dei fatti". D'altronde è peculiare la condizione dei direttori, sui quali grava la responsabilità di controllare i contenuti dei rispettivi periodici. Ma i poteri-doveri spettanti a tali soggetti si ripercuotono, a loro volta, sui giornalisti stessi.


Il disinteresse dell'assemblea costituente nei riguardi dei massmedia diversi dalla stampa è testimoniato dal fatto che l'art. 21 Cost. non reca nemmeno la menzione delle diffusioni radiofoniche e televisive. Dopo un'attesa durata quasi tre lustri, è finalmente sopraggiunta la nuova disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato, dettata dalla legge 6 agosto 1990. La legge stessa prevede che imprese private possano ottenere concessioni per radiodiffondere programmi del più vario genere; ma non la condizione che non stabiliscano "posizioni dominanti" e che il medesimo soggetto non disponga di più di tre reti televisive nazionali, non superi il 25% del totale delle reti previste sul "piano nazionale di assegnazione" e non dia comunque luogo ad eccessive concentrazioni multimediali. Da ultimo, la tormentata materia è stata ancora una volta ridisciplinata dalla legge 31 luglio 1997. Il nuovo testo prevede il rilascio delle concessioni radiotelevisive di rilievo nazionale a favore di soggetti che non detengano una "posizione dominante", sia pure per il tramite di "soggetti controllati o collegati"; e affida ad un'apposita "autorità per le garanzie nelle comunicazioni" il compito di assicurare che non si realizzino situazioni "comunque lesive del pluralismo". Occorre che i titolari delle varie concessioni non irradino più del 20% dei programmi nazionali e che i proventi raccolti da ciascun soggetto non superino il 30% delle complessive risorse del settore televisivo in ambito nazionale.


Mentre la stampa e le stesse trasmissioni radio-televisive non tollerano censure, sul punto differiva il regime degli spettacoli.


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