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Il sociologo non può disinteressarsi dell'ideologia razziale semplicemente perché dal punto di vista scientifico è una scempiaggine: molte situazioni sociali sono efficientemente controllate dalle definizioni di imbecilli.
Sono trascorsi ormai 10 anni da quando Massimo Pavarini poneva, dalle pagine di una rivista, la domanda: <<ma gli immigrati delinquono di più?>> . Allora gli stranieri in carcere erano circa il 20% della popolazione detenuta, mentre le stime sugli stranieri presenti in Italia si aggiravano intorno al 2%. Nell'articolo al quale faccio riferimento Pavarini sottolineava che <<tra i diversi indici per rappresentare l'andamento della criminalità, quello offerto dalla presenza detenuta a data fissa (.) è certamente tra i meno attendibili. Meglio, per quanto anch'esso non esente da critiche, l'indice delle azioni penali intraprese in un determinato periodo di tempo (di norma un anno)>>. Partiamo dunque dall'analisi dei processi di criminalizzazione primaria, in particolare dalle denunce. Nel 2002, secondo il Dossier Caritas 2003, i denunciati di nazionalità extraeuropea sono stati il 17,4% del totale nazionale, facendo registrare una diminuzione di quasi tre punti percentuali rispetto alla precedente rilevazione. L'ambito della criminalità straniera risulta peraltro circoscritta ad alcune tipologie specifiche. Più ricorrenti sono i reati contro il patrimonio (40,2%), quelli correlati alle sostanze stupefacenti (14,9%) e quelli contro la persona (13,4%). Su queste categorie si riscontra una specifica ricorrenza statistica da parte dei provenienti da una stessa area continentale: fra i nordafricani prevale la realizzazione dei reati di produzione e spaccio di stupefacenti, con percentuali fra il 27% ed il 40%; fra gli est europei non si registra un significativo coinvolgimento negli illeciti di droga, quanto piuttosto nei reati contro il patrimonio e soprattutto nel furto (che costituisce il 49,9% dei titoli addebitati ai croati e il 55,2% di quelli imputati ai rumeni). Gli albanesi non risultano significativamente concentrati in specifiche forme delittuose: la tipologia più frequente per essi (come anche per i senegalesi e i nigeriani) è quella dei reati di falso (artt. 480, 483, 485, 495 c.p.), di contraffazione di sigilli (artt. 467, 468 c.p.), di ricettazione (art. 648 c.p.), di corruzione (artt. 318, 319 c.p.) e di altri reati connessi a quello che Palidda definisce «business della regolarizzazione fraudolenta»
Dunque, in assoluta concordanza con le rilevazioni effettuate nel resto d'Europa, la percentuale di stranieri denunciati risulta di molto superiore rispetto a quella dei soggiornanti. Va tuttavia segnalato che alcune nazionalità dell'Asia, come i filippini e i cinesi, pur essendo ai primi posti della graduatoria nazionale degli immigrati regolarmente soggiornanti in Italia (rispettivamente al 4° e al 5° posto) non sono invece contemplate fra le prime 10 nazionalità di denunciati. A questo proposito il Dossier Caritas 2003 sottolinea come per gli immigrati <<un buon inserimento nel mercato del lavoro e una notevole attitudine alla ricezione delle dinamiche della società in cui vivono riducano sensibilmente il rischio di coinvolgimento in attività delittuose>>, mentre, secondo Palidda, <<le società dei Paesi più vicini all'UE si configurano sempre più come periferie europee, in cui anche i modelli devianti che si affermano tra alcuni giovani incitano all'illusione di un'emigrazione destinata ad attività devianti>> . Dunque, a seconda della provenienza geografica, si notano diverse "specializzazioni" criminali: Marzio Barbagli, in base ai dati sui denunciati disponibili nel 1998, rilevava che <<i furti e le rapine vengono compiuti soprattutto dagli ex jugoslavi di entrambi i sessi (spesso minori nomadi), oltre che da marocchini, algerini e tunisini; lo spaccio di eroina da marocchini e tunisini; il traffico di marijuana da albanesi, quello di cocaina da sudamericani, lo sfruttamento della prostituzione da albanesi e nigeriani>> . L'affermazione, con qualche parziale correttivo, determinato soprattutto dal forte aumento delle denunce a carico di cittadini rumeni (nel frattempo balzati in avanti anche nelle statistiche sulla immigrazione), può considerarsi di massima ancora valida, fermo restando che, <<come nell'economia regolare gli stranieri tendono a rivestire le basse qualifiche, essendo disponibili ad occupare la base della piramide legittima della società italiana, così essi sono disposti a sostituire gli italiani anche alla base della piramide penale e di conseguenza si situano, nell'ambito delle attività devianti, al più basso rango della delinquenza urbana>>
Secondo i dati forniti dall'ISTAT nel 2002 le persone denunciate rinviate a giudizio sono state in totale 524.551, di cui circa il 15% (78.448) stranieri. Quanto alle percentuali di carcerizzazione fornite dal Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, ad una prima superficiale lettura sembrerebbero testimoniare che gli stranieri, oltre a delinquere più degli italiani, si rendano autori dei reati più gravi, oppure siano oggetto di una clamorosa discriminazione : i detenuti stranieri costituivano infatti, al 31/12/2002, il 30,1% del totale nazionale (16.788 su 55.670), facendo registrare un indice pari a 1.110 detenuti per ogni 100.000 regolarmente soggiornanti , di circa 16 volte superiore a quello degli italiani! Il dato è ancora più impressionante se si considera che in Europa raggiunge simili livelli solo la Spagna . Così come per i denunciati, anche tra i detenuti a prevalere sono i nordafricani (43,7% del totale), seguiti dagli immigrati dell'Est Europa (33,6%). Tra le prime 10 nazionalità, l'unica appartenente al continente americano è quella colombiana (8^, con il 2,5%), che risulta pure tra quelle con la maggiore incidenza femminile . Il Dossier Caritas 2003 non manca di osservare che i reati sui quali negli anni scorsi si è registrato il maggiore coinvolgimento di cittadini immigrati (quelli in materia di prostituzione e droga) registrano nel 2002 una consistente flessione come causa di carcerazione (rispettivamente -30% e -13%) rispetto al 2001, mentre i reati contro il patrimonio (27,4% del totale, contro il 19,8% del 2001) rappresentano la seconda categoria di più frequente addebito ai detenuti stranieri (per gli italiani sono storicamente la prima). La sovrarappresentazione di alcune appartenenze nazionali nelle carceri italiane risulta in alcuni casi davvero clamorosa:
Certo va tenuto conto del fatto che il dato fornito dal Ministero dell'Interno sul numero di stranieri regolarmente soggiornanti in Italia non corrisponde nemmeno per approssimazione a quello degli stranieri effettivamente presenti sul territorio. Già si è detto, nel capitolo precedente, che la stima proposta dal Dossier Caritas 2003 sugli stranieri regolarmente soggiornanti è superiore di quasi un milione alla cifra ufficiale fornita dal Ministero dell'Interno, che non tiene conto di tutta una gamma di situazioni "regolari" non evidenziate dal numero assoluto dei permessi di soggiorno non scaduti. A ciò si deve aggiungere il numero oscuro dei clandestini e degli irregolari, la cui rilevanza statistica è accresciuta del fatto che gran parte dei denunciati stranieri appartiene a tali categorie . Per particolare reati come il furto, la rapina impropria, le violazioni inerenti la normativa sugli stupefacenti, la percentuale di irregolari sul totale degli stranieri denunciati supera infatti l'80% mentre, per tutti gli altri reati, tale percentuale difficilmente scende al di sotto del 65%
La lettura dei dati sui denunciati e sui detenuti stranieri, pur così approssimativi, ha indotto una parte degli interpreti a concludere che gli immigrati delinquono in Italia, in proporzione, assai più degli autoctoni, per ragioni che taluno ha individuato nella razza o nella matrice culturale di appartenenza dell'immigrato e talaltro nel mertoniano stato di "privazione relativa", che indurrebbe molti giovani, spesso in possesso di un titolo di studio e appartenenti nei loro paesi a classi superiori, a tentare l'avventura migratoria <<per gettarsi nei consumi di quei beni pubblicizzati dai mezzi di comunicazione di massa>> . Altri interpreti invece spiegano il fenomeno in termini riconducibili al concetto di criminalizzazione o etichettamento dell'immigrato da parte delle agenzie di controllo (polizia, magistratura penale e di sorveglianza) e dei mass media . Ad esempio secondo Palidda <<l'attuale accanimento repressivo contro gli immigrati è dovuto, secondo quanto dicono numerosi operatori di polizia, alla necessità di accontentare l'opinione pubblica.>> , mentre - con riferimento alla realtà statunitense - Wacquant afferma che <<l'accrescimento rapido e continuo del divario fra bianchi e neri deriva non tanto da un'improvvisa divergenza della propensione a commettere reati degli uni e degli altri, quanto dal carattere strutturalmente discriminatorio delle pratiche poliziesche e giudiziarie condotte nel quadro della politica di Law and Order degli ultimi decenni. Ecco qualche prova: i neri pur essendo il 13% dei consumatori di droga costituiscono un terzo degli arrestati e i tre quarti dei carcerati per violazioni della legge sugli stupefacenti>> . Probabilmente, da un lato la marginalizzazione economico-sociale che i migranti subiscono nel nostro paese e dall'altro i processi di costruzione ideologica della devianza, concorrono nel produrre il dato sulla criminalità degli immigrati; entrambi determinano <<un circuito, veramente vizioso, criminalizzante-penalizzante, tra criminalità, debolezza sociale e criminalizzazione, per cui certi strati sociali sono più a rischio di criminalizzazione nel doppio senso di entrambi i poli del processo di criminalizzazione, e cioè sia quello di commettere atti criminali che di essere così etichettati socialmente>> . Analizzando i dati forniti dal Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria si nota che alcune nazionalità sono addirittura sottorappresentate rispetto al campione italiano: in particolare il dato è clamoroso per gli immigrati filippini (65.257 regolarmente presenti, solo 27 detenuti, cioè appena 41 ogni 100.000). Altre, sono invece sensibilmente sovrarappresentate. Il che fa giustizia di tutte le interpretazioni che neppure si prendono il disturbo di spiegare una così macroscopica differenza. Il Dossier Caritas 2003 sottolinea come per gli immigrati <<un buon inserimento nel mercato del lavoro e una notevole attitudine alla ricezione delle dinamiche della società in cui vivono riducono sensibilmente il rischio di coinvolgimento in attività delittuose>>. Secondo Palidda, <<le società dei Paesi più vicini all'UE si configurano sempre più come periferie europee, in cui anche i modelli devianti che si affermano tra alcuni giovani incitano all'illusione di un'emigrazione destinata ad attività devianti>> . Io credo che per spiegare fenomeni di tale complessità occorra mettere da parte ogni pretesa di rintracciare chiavi interpretative universali. Si deve tenere nel debito conto la cultura del paese di provenienza come quella del paese di destinazione dell'immigrato, si devono considerare gli effetti della globalizzazione economica e mass-mediatica, si devono distinguere i paesi interessati a cavallo degli ultimi due secoli dal colonialismo da quelli dell'est europeo, si devono distinguere gli immigrati di prima generazione da quelli di seconda, terza generazione, e così via. Certo non può essere questa la sede per tentare un'analisi tanto complessa. Ritengo invece compatibile con l'economia di questa trattazione dar conto di alcune osservazioni che accomunano gran parte degli studiosi (anche di diverso orientamento) in ordine alle discriminazioni insite nel nostro sistema processuale, penale e penitenziario, alcune delle quali non colpiscono specificamente gli stranieri quanto piuttosto tutti i soggetti deboli, emarginati, poveri. Tali discriminazioni non spiegano, se non in parte, la forbice tra il tasso di carcerizzazione degli italiani e quello degli stranieri, ma costituiscono un sintomo assai grave della crisi di un principio cardine delle democrazie liberali: quello dell'eguaglianza giuridica di tutti gli uomini.
Secondo i dati dell'Associazione Antigone, circa il 60% dei detenuti stranieri è in attesa di giudizio mentre fra gli italiani questa percentuale scende al di sotto del 40% . Le ragioni di questa differenza sono facilmente rintracciabili nella normativa codicistica che disciplina l'istituto della custodia cautelare. Nonostante il 3° comma dell'art. 275 c.p.p. sancisca che essa possa <<essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata>>, e dunque rappresenti per legge una vera e propria extrema ratio , nel caso degli indagati ed imputati stranieri è raro che le altre misure cautelari personali coercitive (divieto di espatrio, obbligo di presentazione periodica agli uffici di polizia giudiziaria, allontanamento dalla casa familiare, divieto od obbligo di dimora, arresti domiciliari) risultino adeguate, presupponendo l'esistenza di una dimora stabile in Italia. Inoltre la gran parte dei detenuti in custodia cautelare sono accusati del reato di spaccio di sostanze stupefacenti, costituiscono cioè la manovalanza del business legato al traffico di tali sostanze. La legge italiana è infatti molto severa con gli spacciatori, e si può ben dire che questa è la ragione principale per la quale non ci sono più italiani disposti a rischiare la galera per assicurarsi i modesti guadagni derivanti dalla vendita al minuto delle sostanze vietate. Similmente a quanto è accaduto nel mercato del lavoro, i posti meno ambiti sono divenuti appannaggio dei nuovi arrivati, o meglio di quelli tra essi più "disponibili" a questa "professione".
La difesa tecnica di molti imputati/indagati stranieri è affidata a difensori d'ufficio, sia per lo stato di contumacia spesso dichiarato nei loro confronti che per ragioni economiche. Sennonché, secondo buona parte dei commentatori, neppure le recenti riforme della difesa d'ufficio (legge 60/2001) e della ammissione dei non abbienti al patrocinio a spese dello Stato (legge 134/2001) hanno risolto efficacemente il problema di garantire l'effettività della difesa, esigenza accresciuta dal passaggio da un processo di tipo misto ad un processo di tipo accusatorio. Per lo straniero in particolare risulta nel concreto problematica l'ammissione al gratuito patrocinio per due ragioni fondamentali: anzitutto gli è necessario produrre un'attestazione dell'autorità consolare competente, dalla quale risulti che l'autocertificazione da lui prodotta in ordine alla mancanza di redditi all'estero, non sia mendace. Inoltre il disposto di cui all'art.1 comma 6 della L. 217/90, rimasto invariato, sembrerebbe limitare ai soli stranieri regolarmente residenti in Italia l'applicabilità delle disposizioni in materia di patrocinio a spese dello Stato (restandone esclusi i numerosi irregolari). A ciò si aggiunga la difficoltà rappresentata dalla lingua: non sempre il difensore è in condizione di interloquire efficacemente con il suo assistito, che spesso ha serie difficoltà a comprendere i passaggi dell'iter giudiziario.
Ai sensi dell'art. 164 c.p., la concessione della sospensione condizionale della pena, fermi i requisiti oggettivi specificati dall'art. 163 c.p., "è ammessa soltanto se, avuto riguardo alle circostanze indicate nell'articolo 133, il giudice presume che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati". Inoltre non può essere concessa:
a chi ha riportato una precedente condanna a pena detentiva per delitto, anche se è intervenuta la riabilitazione, né al delinquente o contravventore abituale o professionale;
allorché alla pena inflitta deve essere aggiunta una misura di sicurezza personale, perché il reo è persona che la legge presume socialmente pericolosa;
a chi ne abbia già fruito una volta salvo che la pena da infliggere, cumulata con quella irrogata con la precedente condanna anche per delitto, non superi i limiti stabiliti dall'articolo 16
Sennonché, ai sensi dell'art. 133 c.p., nell'esercizio del potere discrezionale il giudice deve tener conto della gravità del reato ma anche "della capacità a delinquere del colpevole desunta:
1) dai motivi a delinquere e dal carattere del reo;
2) dai precedenti penali e giudiziari e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo, antecedenti al reato;
3) dalla condotta contemporanea o susseguente al reato;
4) dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo".
E' facile comprendere che il giudizio prognostico del giudice risulta spesso condizionato in negativo dalle condizioni di vita del condannato, soprattutto se privo di un valido permesso di soggiorno
La legge 165/1998, c.d. Simeone-Saraceni, ha modificato l'art. 656 c.p.p. introducendo l'istituto della sospensione dell'esecuzione della pena detentiva. Ricorrendone le condizioni, l'ordine di esecuzione e il decreto di sospensione (entrambi emessi d'ufficio dal pubblico ministero) sono notificati al condannato e al difensore con l'avviso che, entro trenta giorni può essere presentata istanza, corredata dalle indicazioni e dalla documentazione necessarie, volta ad ottenere la concessione di una delle misure alternative alla detenzione ovvero la sospensione dell'esecuzione della pena di cui all'articolo 90 del testo unico 309/90 . L'avviso informa altresì che, ove non sia presentata l'istanza, nonché la certificazione da allegare ai sensi degli articoli 91, comma 2, e 94, comma 1, del testo unico 309/90, l'esecuzione della pena avrà corso immediato. La condizione oggettiva richiesta per la sospensione è una pena detentiva, anche se costituente residuo di maggiore pena, non superiore a tre anni (ovvero a quattro anni nei casi di cui agli articoli 90 e 94 del testo unico 309/90). Sennonché, qualora l'istanza non sia tempestivamente presentata, o il tribunale di sorveglianza la dichiari inammissibile o la respinga, il pubblico ministero revoca immediatamente il decreto di sospensione dell'esecuzione, ciò che accade pressoché sistematicamente per gli stranieri, privi per la gran parte di risorse abitative o lavorative e per i quali, anche se tossicodipendenti, è rarissimo che i SER.T. producano un attestato di idoneità del programma terapeutico, come richiesto dal testo unico 309/90.
Quanto detto in ordine all'applicazione della sospensione condizionale della pena e alla sospensione dell'ordine di carcerazione vale, a maggior ragione, per l'applicazione agli stranieri delle misure alternative alla detenzione da parte della magistratura di sorveglianza. Esiste infatti una notevole differenza statistica nella concessione dei benefici penitenziari ai detenuti italiani rispetto agli stranieri. Il detenuto straniero che si trovi al momento dell'ingresso in carcere in una posizione di regolarità rispetto alle leggi sulla immigrazione ha comunque parecchie chances in più di accedere all'area penale esterna rispetto allo straniero che risulta clandestino o irregolare e quindi manca dei riferimenti esterni indispensabili per ottenere benefici quali l'affidamento in prova al servizio sociale, la semilibertà o la detenzione domiciliare. Come già rilevava Massimo Pavarini nel 1994, <<a parità di pene riportate, statisticamente si può dimostrare che l'accesso ai benefici delle misure alternative alla pena detentiva sono fruiti nei fatti in ragione diretta del grado di risorse economiche, culturali e sociali godute dal condannato. Si può dimostrare che, salvo pochissime eccezioni, lo straniero immigrato con scarsa conoscenza della nostra lingua, senza un lavoro stabile, ecc. non riesce di fatto a godere di misure alternative in fase esecutiva, anche se astrattamente si trova nelle condizioni legali per goderne>> . Alle perplessità dei magistrati rispetto alla concessione di permessi premiali e misure alternative in relazione alle condizioni socio-familiari di gran parte dei detenuti stranieri, si sommano oggi quelle legate alla impossibilità legale di realizzare un inserimento/reinserimento potenzialmente stabile nella società italiana dello straniero ex detenuto. Alle ipotesi di espulsione già contemplate dalla precedente normativa in materia di immigrazione ed asilo, la legge 189/2002 (c.d. Bossi-Fini) ha infatti aggiunto nuove ipotesi, tali da rendere pressoché automatica l'espulsione di chi abbia subito una condanna penale. Infatti, in base al combinato disposto del terzo comma dell'art. 4 del T.U. 286/98, come modificato dalla legge 189/2002, e del comma 5 dell'art. 5 del medesimo testo unico, rimasto invariato, non può ottenere il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno (e, se il permesso di soggiorno è stato rilasciato, esso è revocato), lo straniero che risulti condannato, anche a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per reati per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza ai sensi dei commi 1 e 2, dell' articolo 380 c.p.p. "ovvero per reati inerenti gli stupefacenti, la libertà sessuale, il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina verso l'Italia e dell'emigrazione clandestina dall'Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite". Neppure nell'ipotesi che, con il suo comportamento post factum, il condannato abbia dimostrato il suo ravvedimento, magari aderendo al progetto trattamentale elaborato dal gruppo di osservazione e trattamento del carcere nel quale era ristretto (soggetto, ex art. 69 L. 354/75, all'approvazione del Magistrato di sorveglianza), il legislatore del 2002 consente di derogare al divieto di rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno. Va sottolineato che le fattispecie di reato per le quali è previsto l'arresto obbligatorio in flagranza spaziano dal furto aggravato ai delitti commessi per finalità di terrorismo, dal delitto di devastazione e saccheggio alla rapina e all'estorsione, comprendendo le ipotesi del delitto tentato. Inoltre, l'assenza, nella norma, di ogni indicazione circa la necessaria irrevocabilità della sentenza fa sì che anche una condanna non definitiva sia da ritenere ostativa all'ingresso ed al soggiorno e determini l'espulsione del condannato già titolare di permesso (con dubbi profili di costituzionalità). L'espulsione deve avvenire anche a seguito di una sentenza di patteggiamento, che per consolidata giurisprudenza non può ritenersi una vera e propria sentenza di condanna in quanto non comporta un accertamento pieno della fondatezza dell'accusa e della responsabilità dell'imputato. L'unico temperamento alla regola è contenuto nell'art. 19 del T.U. 286/98, laddove, per ragioni "umanitarie", per un verso si esclude "l'espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali"; per altro verso non si consente l'espulsione (salvo quella "ministeriale" ex art. 13 comma 1) nei confronti:
a) degli stranieri minori di anni diciotto, salvo il diritto a seguire il genitore o l'affidatario espulsi;
b) degli stranieri in possesso della carta di soggiorno, salvo il disposto dell'articolo 9
c) degli stranieri conviventi con parenti entro il quarto grado o con il coniuge, di nazionalità italiana;
d) delle donne in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio cui provvedono.
Dunque, se prima del varo della c.d. legge Bossi-Fini vi erano scarse possibilità che un detenuto non incorresse, una volta espiata la condanna, nella espulsione "amministrativa" (ex art. 13 del testo unico) o "giudiziaria" (a titolo di misura di sicurezza), esse sono oggi pressoché azzerate. Che senso avrebbe, in queste condizioni, concedere allo straniero detenuto delle parentesi di libertà (attraverso i permessi premiali) o addirittura l'intrapresa di un percorso di risocializzazione (attraverso il lavoro all'esterno, la semilibertà, l'affidamento in prova ai servizi sociali, la detenzione domiciliare) destinato a concludersi - sempre che egli rispetti le prescrizioni impartite con il provvedimento concessivo - con l'espulsione coatta? Oltretutto il rischio che il condannato si renda responsabile di un'evasione per evitare l'espulsione cresce sensibilmente con l'avvicinarsi della fine della pena! A queste perplessità si è aggiunta, recentemente, l'interpretazione ostativa elaborata dalla I^ sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 30130 del 17 luglio 200 In essa si sostiene la <<ontologica incompatibilità tra le misure alternative extramurarie e l'esecuzione della pena nei confronti dello straniero clandestino>>. Secondo i giudici della Suprema Corte <<lo "status" di clandestinità dello straniero, anche se non preclusivo sotto il profilo soggettivo (non implicando alcuna presunzione di pericolosità, che va, invece, accertata specificamente), è, tuttavia, oggettivamente ostativo alla applicazione di misure alternative extramurarie, per la radicale incompatibilità delle loro modalità esecutive con l'osservanza delle norme che disciplinano l'ingresso, il soggiorno e l'allontanamento dallo Stato di cittadini appartenenti a paesi extracomunitari contenute nel D.Lgs. 286/1998>>. La motivazione della sentenza richiama, ad adiuvandum, l'art. 16 del D.Lgs. 286/1998 <<che, in relazione all'espiazione di pene brevi (astrattamente sostituibili con taluna delle sanzioni previste dagli artt. 53 e segg. della legge 689/1981), prevede come unica sanzione sostitutiva alla detenzione l'espulsione, cioè una misura che comporta l'allontanamento coattivo del condannato (ovvero del soggetto al quale è stata applicata la pena su richiesta, ai sensi dell'art. 444 c.p.p.), escludendo la sua permanenza nel territorio dello Stato>>. Quanto ai dubbi di costituzionalità che una tale interpretazione potrebbe suscitare, secondo la sentenza richiamata sarebbero privi di fondamento, <<atteso che la disparità del trattamento riservato ai cittadini e agli stranieri regolarmente presenti nel territorio dello Stato rispetto ai clandestini trova giustificazione nella differenza delle situazioni giuridiche che ad essi fanno capo>>. Nonostante questa sentenza, alcuni Tribunali di Sorveglianza continuano a concedere misure alternative extramurarie a detenuti non in regola con il permesso di soggiorno, in attesa di una pronuncia chiarificatrice della Corte Costituzionale.
Tra i possibili comportamenti devianti ne esiste uno che è caratteristico ed esclusivo della popolazione straniera: l'ingresso e/o il soggiorno illegale sul territorio italiano. <<In effetti, se è vero che un immigrato clandestino che non abbia commesso alcun reato non può essere rinchiuso in carcere, è però vero che quando non viene espulso, o non può essere espulso, accumula inevitabilmente infrazioni che diventano anche di carattere penale>> . Le modifiche apportate dalla legge 189/2002 al T.U. 286/98, in parte illustrate nel capitolo precedente, pur non arrivando a codificare il reato di immigrazione clandestina, come pure era stato proposto , hanno introdotto nuove figure di reato, nonché un sistema sanzionatorio ed uno specifico regime processuale molto più severi rispetto a quelli previsti dalla legislazione previgente e che presentano profili di dubbia costituzionalità sui quali la Consulta deve - in larga parte - ancora pronunciarsi. In particolare, la prima applicazione del comma 5-ter dell'art. 14 del testo unico, che punisce con l'arresto da sei mesi ad un anno lo straniero che, "senza giustificato motivo", si trattiene nel territorio dello Stato in violazione dell'ordine impartito dal questore ai sensi del comma 5-bis del medesimo articolo, ha determinato un significativo aumento del numero di stranieri detenuti. Vedremo se questa tendenza sarà attenuata dagli effetti che, nella prassi applicativa, potrebbe sortire la sentenza "interpretativa di rigetto" della Corte Costituzionale, n. 5 del 13/01/2004, sul contenuto della quale ho già riferito nel capitolo precedente.
M. Pavarini, Il carcere razzista?, in Sicurezza e Territorio, 1994, n.12, pagg. 7-12. Il carattere retorico della domanda si evince, oltre che dal contenuto dell'articolo, dalla prolusione, che riporto testualmente: <<Quale effetto della costruzione sociale dell'immigrato come diverso e socialmente pericoloso, oggi in Italia, le carceri si riempiono sempre di più di extra-comunitari>>.
S. Palidda, Devianza e vittimizzazione tra i migranti, Milano, Fondazione Cariplo-ISMU, 2001, pag.86.
S. Palidda, La devianza e la vittimizzazione, in Terzo Rapporto sulle migrazioni 1997, Milano, Fondazione Cariplo-ISMU, pag.161
M. Barbagli, Il rapporto fra immigrazione e criminalità in Italia, consultabile in linea all'indirizzo internet www.cestim.org/due-palazzi
S. Palidda, Devianza e criminalità, in Primo rapporto sulle migrazioni 1995, Milano, Fondazione Cariplo-ISMU, pp. 250-290.
Ad avvalorare questa seconda ipotesi contribuisce il dato fornito dal Ministero di Grazia e Giustizia sul coinvolgimento di stranieri in attività di criminalità organizzata: al termine del 1999, su un totale di 7510 detenuti per reati di criminalità organizzata, gli stranieri erano solo 566 (pari a circa il 7,5%).
Il raffronto è con il numero degli stranieri regolarmente soggiornanti alla stessa data forniti dal Ministero dell'Interno. Se si effettua il calcolo prendendo come numero di riferimento il dato sui soggiornanti regolari fornito dal Dossier Caritas 2003, il tasso di carcerizzazione risulta invece pari a 680 detenuti ogni 100.000 stranieri. Ma, in entrambi i casi, non si tiene conto del numero dei clandestini e degli irregolari.
Cfr.: S. Palidda, Devianza e vittimizzazione tra i migranti, Milano, Fondazione Cariplo-ISMU, 2001, p.128
Le donne straniere ristrette al 31/12/2002 erano 1.007, cioè il 6% del totale degli stranieri. L'incidenza femminile è però del 25,2% per i detenuti colombiani e del 26,6% tra quelli nigeriani.
Va sottolineato il fatto che per moltissimi detenuti stranieri la nazionalità è solo presunta, mancando una documentazione che la certifichi.
Dato desunto dal 14° Censimento generale della popolazione (effettuato con riferimento alla data del 21 ottobre 2001).
<<Nel 1999 risultava privo di permesso di soggiorno quasi il 90% dei denunciati stranieri per furto, furto d'automobile, rapina impropria e contrabbando. Era presente in Italia illegalmente circa l'80% dei denunciati per omicidio consumato, per atti osceni, per rapina, per ricettazione, per evasione e per porto abusivo di armi>>. Così la Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati nel Secondo rapporto sull'integrazione degli immigrati in Italia, consultabile in linea all'indirizzo internet www.cestim.it/integra2/integr2_dhtm. La stessa Commissione fa notare che nei dati sui detenuti stranieri forniti dal ministero della Giustizia non c'è la segnalazione del possesso o meno del permesso di soggiorno.
Cfr.: E. Bianco, Rapporto sullo stato della sicurezza in Italia, 2000, p. 313 e ss. Va comunque detto che <<gli immigrati regolari hanno una quota di condanne (sulla popolazione) maggiore di quella degli italiani>> (M. Barbagli., Immigrazione e reati in Italia, Bologna, Il Mulino, 2002)
Si tratta di posizioni esplicitamente razziste sostenute in Italia quasi esclusivamente da esponenti politici estremisti. Ciò non toglie che il processo di «etichettamento», dovuto anche al fatto che i reati più frequentemente commessi dagli immigrati sono quelli «di strada», alimenti il pregiudizio in ordine alla pericolosità dell'immigrato. Un sondaggio condotto dall'Ispo-Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati, nel settembre-ottobre 1999, ha evidenziato che il 38,2% degli italiani è convinto che la presenza degli immigrati aumenti la delinquenza, il 35,3% è abbastanza d'accordo, mentre solo il 19,4% ritiene scarso il contributo degli stranieri ed appena il 7,1% lo ritiene inesistente. Complessivamente, il 73,5% degli italiani vede negli immigrati una minaccia alla sicurezza e all'ordine pubblico e il 61,8% ritiene che un immigrato clandestino debba essere immediatamente espulso ancorché non abbia commesso alcun reato. Cfr. Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati, Primo rapporto sulla integrazione degli immigrati in Italia, a cura di G. Zincone, Bologna, Il Mulino, 2000. Il dato è stato confermato dal 37° Rapporto Censis (pag. 652).
A. Dal Lago, Non-persone. L'esclusione dei migranti in una società globale, Milano, Feltrinelli, 1999.
S. Palidda, in Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale InterZone Feltrinelli, 2000.
L. Wacquant, in Parola d'ordine: tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, Milano, 2000.
D. Melossi, Alla ricerca di una vita tranquilla: immigrazione, criminalità e italian way of life, in: Quaderni di Città Sicure, ns 21, Vol. I., p. 41
S. Palidda, La devianza e la vittimizzazione, Terzo Rapporto sulle Immigrazioni 1997, Fondazione Cariplo-ISMU, Milano, 1998, pag.161
Associazione Antigone, Inchiesta sulle carceri italiane, a cura di Anastasia e Gonnella, 2002, Roma, Carocci, p.35
Ad esempio Vittorio Grevi in Conso-Grevi, Compendio di procedura penale, CEDAM, 2000, pag. 356, afferma che <<al riconoscimento nella custodia cautelare della più gravosa tra tutte le misure cautelari si accompagna la regola decisoria (.) che individua nel ricorso alla carcerazione dell'imputato una vera e propria extrema ratio>>.
<<L'analisi dei dati mostra che, se gli imputati stranieri vengono condannati più spesso, è perché una quota più alta di loro ha subito la custodia cautelare in carcere. Se questa misura fosse adottata più frequentemente nei loro confronti perché a loro carico esistono più spesso indizi di colpevolezza non ci sarebbe nulla da ridire. Ma le cose non sono così semplici. [] Per applicare questa misura, il giudice deve accertare l'esistenza, oltre che di indizi di colpevolezza, anche di una delle seguenti condizioni: il pericolo di inquinamento delle prove, il pericolo di fuga e il pericolo di reiterazione dei reati. La valutazione del giudice riguardo alla concreta possibilità che l'imputato commetta un altro delitto della stessa specie o uno ancora più grave si basa principalmente sull'esistenza di precedenti penali e dunque, per i motivi che vedremo subito, non è sfavorevole per gli immigrati. Invece, il giudizio del magistrato sul pericolo di fuga dell'imputato si rifà di solito allo stile di vita di quest'ultimo, ai suoi legami con il luogo in cui si trova ed è svantaggioso per l'immigrato, che spesso non ha una casa, un lavoro stabile, una famiglia, dei parenti>>. Così M. Barbagli, Immigrazione e criminalità in Italia, Bologna, Il Mulino, 1998, p. 89. Il riferimento ai precedenti penali è poi spiegato dall'autore con la scarsa attendibilità dei dati forniti dal casellario giudiziale in ordine ai precedenti penali di soggetti dei quali è spesso difficoltosa l'identificazione. A questa difficoltà la legge 189/2002 ha cercato di porre rimedio attraverso la rilevazione delle impronte digitali.
In questo senso si sono espressi tra gli altri S. Palidda, La devianza e la criminalità, Primo rapporto sulle migrazioni 1995, Fondazione Cariplo-ISMU, Milano, 1995; E. Reyneri, Sociologia del mercato del lavoro, Il Mulino, Bologna, 1996; M. I. Macisti, E. Pugliese, Gli immigrati in Italia, Laterza, Bari, 1991; V. Ruggiero, Economie sporche, Bollati Boringhieri, Torino, 1996. Oltre al mercato della droga, la sostituzione della manovalanza straniera a quella italiana ha riguardato anche altri mercati illegali: in particolare quello della ricettazione, quello della prostituzione, e quello della falsificazione di documenti.
Di avviso opposto è Marzio Barbagli, secondo il quale l'occultamento della vera identità da parte degli stranieri, meccanismo di difesa notoriamente assai diffuso tra gli "irregolari", determina una maggiore concessione agli stranieri della sospensione condizionale della pena, dal momento che essi risultano incensurati. Cfr. M. Barbagli, Immigrazione e criminalità in Italia, Bologna, Il Mulino, 1998, pag.101.
L'art. 656 è stato ulteriormente modificato dall'art. 10, comma 1, D.L. 341/2000 convertito con la l. 4/2001, per porre fine alle difficoltà operative collegate alla necessità della consegna dei provvedimenti del pubblico ministero.
Si tratta cioè, rispettivamente, della certificazione rilasciata da un servizio pubblico per le tossicodipendenze attestante il tipo di programma terapeutico e socio-riabilitativo prescelto, l'indicazione della struttura, anche privata, ove il programma è stato eseguito o è in corso, le modalità di realizzazione e l'eventuale completamento del programma nonché di quella rilasciata da una struttura sanitaria pubblica attestante lo stato di tossicodipendenza o di alcooldipendenza e la idoneità, ai fini del recupero del condannato, del programma concordato.
L'art. 9 comma 5 consente in tali casi la sola espulsione ministeriale, nonché l'espulsione prefettizia nei casi di cui alla lettera c) dell'art. 13, comma 2, purché sia stata applicata - anche in via cautelare - una delle misure di cui all'art. 14 della legge 19 marzo 1990, n. 55 (contenente disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione della pericolosità sociale).
Illuminanti, sulle ragioni della mancata previsione, sono le parole di Giovanni Sartori (Il Corriere della sera, 6 agosto 2001): <<Se l'immigrazione clandestina diventa reato, allora il clandestino entra ope legis negli ingranaggi infernali del nostro processo penale e del suo esasperato garantismo>>. In altre parole, la scelta di non introdurre il reato di immigrazione clandestina è scaturita da preoccupazioni relative alla effettività e immediatezza degli allontanamenti
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