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Il popolo di Dio




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Il popolo di Dio


La struttura sociale: la Chiesa come popolo di Dio

Una delle più importanti operazioni effettuate dal legislatore canonico è la traduzione sul piano del diritto positivo di una categoria del tutto estranea alla tradizione culturale del giurista: la categoria di "popolo di Dio" assunta dalla codificazione canonica del 1983. All'inizio il giurista vedeva con diffidenza la trasposizione nel codice di una categoria di derivazione biblico - patristica, eppure tale categoria fu addirittura assunta tra i principi fondamentali del diritto costituzionale della Chiesa: Libro II del codice canonico del 1983, le norme relative ai fedeli, alla costituzione gerarchica della Chiesa, agli istituti di vita consacrata ed alle società di vita apostolica, è intitolato "De populo Dei". La riflessione dottrinale e l'esperienza giuridica hanno messo in evidenza le potenzialità sul piano giuridico, infatti la nozione di popolo di Dio non nega la dimensione giuridica della Chiesa e contribuisce a porre in evidenza le particolarità che distinguono l'ordinamento giuridico della Chiesa dagli ordinamenti giuridici secolari. Il termine "popolo" fa riferimento all'elemento sociale; il riferimento a Dio sta a significare che non si tratta di un popolo qualunque, ma di un popolo costituitosi in seguito alla chiamata divina, nella quale erano predeterminate le finalità, i mezzi con cui perseguirle e l'autorità costituita. La Chiesa, quindi, è di istituzione divina. Con l'assunzione di questa categoria, il legislatore canonico applica l'ecclesiologia del Concilio Vaticano II (Lumen gentium). Questa categoria comporta una serie di conseguenze: innanzitutto il carattere strumentale o funzionale che il diritto della Chiesa ha, connesso con la dimensione storica ed escatologica di un popolo che vive nella storia ma è chiamato a trascenderla. L'universalità di questo popolo, aperto a tutti, ciò comporta per il diritto la singolarità data dal riconoscimento di diritti anche in capo a chi non è ancora incorporato nella Chiesa (can. 96); infatti ai non battezzati e ai catecumeni sono riconosciuti alcuni diritti, ad esempio il diritto di libertà religiosa (can. 748) o il diritto all'istruzione cristiana (can. 788) o ancora il diritto a ricevere il battesimo (can. 843). L'unità di questo popolo, che non nasce da fattori sociologicamente ricorrenti nelle altre società, ma dalla fede e dalla partecipazione alla vita divina attraverso l'azione sacramentale; questo particolare fondamento dà ragione delle diverse condizioni personali e discipline giuridiche. La nozione di popolo di Dio dà ragione dell'eguaglianza sostanziale e della diversità funzionale che caratterizza la condizione giuridica delle persone: uguaglianza sul piano della fede, del battesimo, della comune dignità di redenti; diversità sul piano dei carismi, dei ministeri, dell'esperienza di fede, sia pure nel quadro di una comune responsabilità nella missione della Chiesa, sulla corresponsabilità di tutti i componenti del popolo di Dio nella vita e nella missione della Chiesa. Dalla diversità sussistente tra i fedeli, sul piano funzionale discende di conseguenza la diversità di diritti e di doveri.





I "Christifideles" e i diversi stati di vita

I richiami al Concilio Vaticano II sono essenziali per comprendere l'impostazione data dal codice vigente alle norme sulle persone. Il libro secondo del codice intitolato "Il popolo di Dio" si apre con una disposizione che pone una nozione fondamentale: la nozione di "christifidelis" o fedele. Si trova nel can. 204 e dice che i fedeli sono coloro che sono stati incorporati a Cristo mediante il battesimo e sono costituiti popolo di Dio, inoltre sono chiamati ad attuare, secondo la condizione giuridica di ciascuno, la missione che Dio ha affidato alla Chiesa. Connesso a questo è il can. 96 secondo cui mediante il battesimo l'uomo è incorporato alla Chiesa di Cristo, con i doveri e i diritti che ai cristiani sono propri. In passato parte prevalente della dottrina riteneva che il termine "persona" adottato dal legislatore volesse dire "soggetto di diritto"; in realtà indica l'individuo umano membro della Chiesa. Questo termine quindi non è assunto dal legislatore canonico in un senso strettamente tecnico - giuridico, in effetti dal punto di vista formale il can. 96 parla di "persona nella Chiesa di Cristo" e non di "persona in diritto canonico", quindi il soggetto di diritto nell'ordinamento canonico non è solo il battezzato. I non battezzati non godono della piena capacità giuridica nell'ordinamento canonico ma tuttavia hanno una soggettività giuridica canonica perché sono destinatari di norme canoniche: ad esempio richiedere e ricevere il battesimo, che riflette la volontà di Cristo a che tutti gli uomini siano salvi (can. 864). Esistono poi delle situazioni particolari all'interno dell'ordinamento, un primo caso è dato dalle persone che hanno ricevuto il battesimo ma non fanno parte della Chiesa cattolica, disciplinato dal can. 205 che pone i criteri per accertare la piena comunione con la Chiesa, costituiti dai vincoli della professione di fede, dei sacramenti e del governo ecclesiastico. Queste persone sono il battezzato che non professa la fede cattolica, il battezzato che non accetta uno o più dei sette sacramenti, cioè i mezzi di salvezza istituiti nella Chiesa, e il battezzato che non accetta il vincolo del governo ecclesiastico. Nel primo caso si parla di eresia (ostinata negazione ad una verità), nel secondo di scisma (rifiuto alla sottomissione al Papa o alla comunione dei membri della Chiesa) (can. 751). Il can. 205 determina l'ambito dell'obbligatorietà della legge ecclesiastica che non si applica ai cristiani non cattolici, cioè ai battezzati che non appartengono alla Chiesa cattolica.  Un secondo caso è dato da coloro che non sono battezzati, in generale non sono soggetti all'ordinamento canonico poiché non hanno il presupposto essenziale per far parte di questa società. Tuttavia, come ogni uomo sono soggetti alla legge naturale e quindi possono essere destinatari di norme canoniche in determinate circostanze, in particolare qualora entrino in rapporti giuridici con persona battezzata: ad esempio il matrimonio tra un battezzato e un non battezzato. Il non battezzato è legittimato però ad amministrare il sacramento del battesimo, purché intenda fare ciò che fa la Chiesa e qualora il ministro ordinario del battesimo mancasse o fosse impedito (can. 861). Il codice contiene una esplicita previsione normativa riguardante i catecumeni che sono uniti con vincoli speciali alla Chiesa (can. 206), è una disposizione importante perché disciplina la vita di un consistente numero di persone che intendono entrare nella Chiesa e prevede esplicitamente che i non battezzati possano essere attualmente destinatari di diritti e doveri, come da interpretazione del canone 96. A differenza di molti legislatori civili, il diritto canonico prende giusnaturalisticamente atto della sussistenza di una persona umana, ai fini giuridici, sin dal momento del concepimento, infatti il can. 871 prevede che i feti abortivi, se vivi, siano battezzati e il can. 1398 punisce chi procura l'aborto. Un terzo caso riguarda la distinzione tra chierici, laici e religiosi. Il canone 207 afferma che per istituzione divina vi sono nella Chiesa i ministri sacri, detti chierici; gli altri fedeli sono chiamati laici, dagli uni e dagli altri provengono fedeli i quali, mediante i voti o altri vincoli sacri riconosciuti e sanciti dalla Chiesa, sono consacrati in modo speciale a Dio, ma il loro stato non riguarda la struttura gerarchica della Chiesa ma tuttavia appartiene alla sua vita ed alla sua santità. Nella Chiesa sussiste un'ineguaglianza funzionale tra i fedeli ed una diversità per stati di vita. La prima diversità è data dalla struttura gerarchica che non è solo una forma di organizzazione del governo della società ecclesiastica ma comporta una partecipazione specifica al sacerdozio di Cristo. Nella costituzione del Concilio Vaticano II Lumen gentium, vediamo che esiste un sacerdozio comune di tutti i fedeli ed un sacerdozio ministeriale o gerarchico. Quindi esiste una differenza nella condizione giuridica tra fedeli laici e fedeli chierici, solo a questi ultimi è dato un potere sulla Chiesa - Corpo mistico di Cristo (cioè potere di insegnare, santificare e reggere) radicato nel potere sacramentale sul corpo stesso di Cristo. Le basi della Chiesa sono state costituite dal suo Fondatore con l'istituzione del Collegio degli Apostoli, con a capo Pietro, che avevano il potere per governare il popolo di Dio; oggi questo potere è esercitato dal Collegio dei Vescovi con a capo il Pontefice. La Chiesa, quindi, è caratterizzata da un principio gerarchico, secondo il quale vi sono funzioni e ministeri che sono esercitati in nome ed in rappresentanza di Cristo dalla gerarchia. Tutti i fedeli sono giuridicamente uguali in quanto battezzati e hanno i medesimi diritti e i medesimi doveri nella missione della Chiesa. In ragione del sacramento dell'ordine sacro, si distinguono le posizioni dei ministri sacri da un lato e dei laici dall'altro. Ad esempio, per il can. 129 solo i chierici sono abili alla potestà di governo o potestà di giurisdizione; infatti è proprio dei fedeli laici, che per vocazione e condivisione vivono nel mondo esercitando azioni mondane, cercare il Regno di Dio trattando e ordinando le cose temporali. Cioè mentre i chierici amministrano la Parola di Dio ed i sacramenti, i fedeli laici animano cristianamente le realtà temporali. La seconda diversità è data dalla struttura carismatica e istituzionale, non assistiamo più ad una bipartizione ma ad una tripartizione: chierici, religiosi e laici. Se si guarda sotto l'ottica del carisma, cioè del dono gratuito dello Spirito, si possono distinguere i chierici, coloro che sono chiamati a svolgere il ministero sacro; i religiosi, cioè coloro che professando i consigli evangelici (povertà, castità, obbedienza) ed emettendo i voti, rinunciano spontaneamente a ciò che è buono nella condizione umana; i laici, cioè coloro che vivono da cristiani nel mondo. Quindi i religiosi sono o chierici o laici. Mentre nel can. 207 i chierici e i religiosi hanno una definizione in positivo, i laici vengono definiti in negativo, cioè la loro definizione viene ricavata individuando coloro che non sono né chierici né religiosi. Quindi il canone 207 permette la distinguibilità di forme di vita che danno luogo ad uno statuto canonico particolare.











Lo statuto giuridico comune: i doveri e diritti fondamentali

Dal canone 208 al canone 223 viene delineato lo stato comune a tutti i fedeli, cioè il legislatore ha formulato una catalogo di doveri e diritti comuni sotto il titolo "Obblighi e diritti di tutti i fedeli" o "De omnium christifidelium obligationibus et iuribus". In questa parte del codice sono confluite le disposizioni contenute nel progetto "Lex Ecclesiae fundamentalis" mai portato a termine. Queste disposizioni aprono con l'affermazione del principio di eguaglianza che è formalmente entrato nella legislazione ecclesiastica solo con il codice ora in vigore; infatti in passato si preferiva il principio dell'ineguaglianza, presente nella Chiesa da un punto di vista sacramentale - ministeriale. Il can. 208 invece afferma che fra tutti i fedeli c'è una vera uguaglianza nella dignità e nell'agire, grazie alla rigenerazione in Cristo, e dunque tutti cooperano all'edificazione del Corpo di Cristo. Questo risponde anche ai principi dell'ecclesiologia del Concilio Vaticano II e specialmente nella Lumen gentium dove troviamo che uno solo è il popolo eletto da Dio, esiste un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, quindi non c'è nessuna ineguaglianza in Cristo e nella Chiesa. Questa affermazione del principio di eguaglianza è la premessa al manipolo di libertà, diritti e doveri fondamentali di tutti i fedeli che troviamo al canone 208 poiché non vi possono essere libertà, diritti e doveri comuni a tutti i fedeli se questi non godono di una posizione di eguaglianza all'interno dell'ordinamento. In passato invece la Chiesa era organizzata come una società giuridicamente organizzata per ceti, cioè una società in cui l'appartenenza ai vari ceti comportava la titolarità di uno status e di diritti e doveri propri. Oggi invece l'ordinamento canonico ha fatto proprio il principio di eguaglianza per cui le differenze di trattamento giuridico non derivano da uno status ma dalle differenti funzioni che ciascuno è chiamato a svolgere. A questo principio sono connessi i diritti e doveri fondamentali del cristiano ovvero i canoni 209 - 222, che possiamo riassumere così: dovere di mantenere la comunione della Chiesa e soddisfare le obbligazioni personali verso la Chiesa (can. 209); dovere di condurre una vita santa e di contribuire all'incremento ed alla santificazione della Chiesa (can. 210); diritto - dovere di partecipare all'opera di diffusione del messaggio evangelico (can. 211); dovere dei fedeli di obbedire ai propri pastori, nonché il diritto - dovere di manifestazione del pensiero nella Chiesa su questioni concernenti il bene comune (can. 212); diritto ai sacramenti e agli altri beni spirituali (can. 213); diritto all'esercizio di culto ed alla propria spiritualità (can. 214); diritto alla libertà di associazione e di riunione nella Chiesa (can. 215); diritto di esercitare personalmente l'apostolato (can. 216); diritto all'educazione cristiana (can. 217); diritto alla libertà di ricerca nelle sacre discipline (can. 218); diritto alla libera scelta dello stato di vita (can. 219); diritto al buon nome nella comunità ecclesiastica (can. 220); diritto alla tutela dei propri diritti e alla difesa in giudizio, nonché diritto a non essere colpiti da sanzioni penali non a norma di legge (can. 221); l'obbligo di sovvenire alle necessità della Chiesa provvedendo alle necessità dei poveri e degli emarginati (can. 222). A differenza di quanto accade negli ordinamenti giuridici secolari, il legislatore canonico contempla, quasi prima dei diritti, i doveri fondamentali del fedele; nel senso che il legislatore della Chiesa ha preferito esplicitare i doveri mentre negli ordinamenti statali sono impliciti nella formulazione dei diritti, basta pensare al principio di reciprocità o al principio dei limiti che la libertà di ciascuno incontra nella libertà dell'altro. Si tratta di una differenza che nasce dalla concezione canonistica fortemente tributaria dei diritti fondamentali. Inoltre si deve notare l'eterogeneità dei diritti fondamentali del cristiano nell'ordinamento canonico rispetto ai diritti dell'uomo e del cittadino racchiusi nelle costituzioni contemporanee, non solo perché esistono diritti sanciti dal codice che non hanno alcun riscontro negli ordinamenti giuridici secolari, ma anche perché, pure se si tratta di diritti rinvenibili negli ordinamenti secolari, il loro ambito di operatività e le modalità del loro esercizio nella Chiesa non possono che essere particolari. Un esempio è il diritto di libertà di associazione, per rendersi conto che tali diritti devono essere intesi in maniera coerente con le caratteristiche strutturali e finalistiche della Chiesa. Il can. 223 infatti afferma che ad ogni fedele incombe il diritto di tener conto sia del bene comune della Chiesa, sia dei diritti degli altri e dei propri doveri verso gli altri. Queste disposizioni sono la diretta traduzione del principio della comunione (communio) già affermato nel can. 209 in cui si dice che i fedeli sono tenuti all'obbligo di conservare sempre la comunione con la Chiesa. Questo principio appartiene da sempre all'esperienza della Chiesa ma è stato ulteriormente rafforzato dal Concilio Vaticano II per sottolineare il passaggio da una ecclesiologia societaria (principio della societas) ad una ecclesiologia di comunione intenta a recuperare l'intera realtà divino - umana della Chiesa ponendo in rilievo elementi (sacramenti, parola di Dio, carismi) irriducibili all'esperienza giuridica secolare. Senza dover aderire all'impostazione teorica della scuola canonistica di orientamento teologico, il can. 209 afferma che il principio di comunione rappresenta uno degli elementi che più distingue la logica dell'ordinamento canonico da quella degli ordinamenti secolari, imponendo una diversa concezione sia dei rapporti tra le varie istanze gerarchiche all'interno della Chiesa sia degli stessi diritti soggettivi. Ma al contrario dei diritti fondamentali degli ordinamenti secolari, i diritti dei fedeli non rappresentano espressione e strumento della massima emancipazione dell'individuo da ogni vincolo sociale o istituzionale ma piuttosto costituiscono delle sfere autonome di azione del fedele sempre protese al conseguimento del fine supremo della Chiesa. Questo elenco di diritti e doveri non sembra esaustivo per due motivi: per la genericità in cui sono formulati alcuni canoni, perché l'ordinamento canonico è un ordinamento aperto al diritto divino naturale e positivo. Esistono poi dei diritti fondamentali che esprimono istanze proprie del diritto naturale, ad esempio il diritto di libertà religiosa, dichiarato inviolabile nella dichiarazione "Dignitatis humanae" dal Concilio Vaticano II. Questo diritto ha un senso se si pone nello Stato, società ad appartenenza necessaria, mentre ha poco senso considerarlo nella Chiesa, società ad appartenenza volontaria. Infatti troviamo il can. 748 il quale afferma che non è mai lecito indurre gli uomini con la costrizione ad abbracciare la fede cattolica contro la loro coscienza e il can. 865 il quale afferma che un adulto, per poter essere battezzato, deve manifestare la volontà di ricevere il battesimo. In conclusione si deve osservare che solo i battezzati che sono nella piena comunione con la Chiesa cattolica hanno attualmente ed effettivamente la pienezza dei diritti e dei doveri.

Appunti: Nell'ordinamento canonico sono contemplati i diritti fondamentali?

E' una questione ambigua perché si può essere d'accordo sulla loro applicazione ma non sul loro fondamento. Negli anni '40 appare la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'uomo da parte dell'ONU; Jacques Maritain, filosofo, credeva che si sarebbe raggiunto un compromesso tramite un contratto e che non si sarebbe giunti a niente partendo dai fondamenti. La società si divide in due posizioni: concezione giusnaturalista, cioè ritiene che i diritti fondamentali si trovano nell'etica naturale e spettano a tutti (ad es. dignità della persona umana) ed è la concezione dell'ordinamento italiano che all'art. 2 della Costituzione riconosce i diritti umani; concezione giuspositivista, cioè ritiene che i diritti umani non sono naturali ma sono riconosciuti dal legislatore quindi sono diritti storici e mutevoli. Dalla concezione giuspositivista emergono altri due filoni di pensiero: il giuspositivismo statalistico, ritiene che lo Stato può dare e togliere, è la concezione comunista - Marxista dei paesi dell'est degli anni '60; giuspositivismo individualista, ritiene che la posizione dell'individuo deve essere protetta dal legislatore ogni volta che voglia imporre se stesso. Una parte della cultura islamica si pone in modo polemico nei confronti dei diritti umani ritenendoli frutto della cultura occidentale e soprattutto cristiana. Anche se il mondo occidentale viene aggredito da questa posizione, la tollera perché ha una visione relativista secondo cui ogni posizione deve essere tollerata perché ha la stessa dignità delle altre. Nel dibattito avvenuto nel corso dell'avvento del codice (1983) non si parla di diritti fondamentali anche se il termine viene usato spesso. Nel diritto canonico troviamo una concezione giusnaturalistica, cioè anche laddove non fossero positivizzate esistono i diritti umani. Nel diritto canonico esiste una seconda categoria di diritti fondamentali, cioè dei diritti fondamentali che però prendono in considerazione non l'uomo in quanto tale ma l'uomo in quanto fedele (ad es. il can. 213) detto diritto fondamentale del cristiano.


I fedeli laici

Un famoso testo di s. Girolamo, riportato nel Decretum di Graziano, inizia precisando che esistono due categorie di fedeli ("Duo sunt genera christianorum"). Questo manifesta la radicalizzazione, nell'età medievale, della distinzione fra chierici e laici e l'accentuazione del processo di "clericalizzazione" poiché il Decretum di Graziano viene inserito nel Corpus Iuris Canonici, entrando a far parte delle fonti del diritto canonico del tempo. Il testo spiega che i cristiani si dividono in due categorie: nella prima troviamo sia i deputati al culto divino (chierici) sia coloro che ricercano il miglioramento dei propri costumi attraverso la scelta di un preciso stato di vita (monaci); nella seconda troviamo i fedeli laici che, come spiega san Girolamo, solo coloro a cui è permesso possedere beni temporali per i propri bisogni, sono autorizzati a sposarsi. possono essere salvati se evitano i vizi e fanno del bene. Questo testo mostra una concezione clericale della Chiesa quindi manifesta una riaffermazione della Chiesa come società ineguale; al tempo stesso riflette una gerarchia di valori, mostrando una concezione restrittiva del fedele laico poiché vista come concessione alle umane debolezze e quindi non come la condizione migliore. Ci sono molte ragioni per questo modo di pensare ai fedeli laici ma principalmente sono due. Nel medioevo la rivendicazione della libertà della Chiesa (libertas Ecclesiae) da parte del Papato nei confronti del potere civile ebbe un forte influsso nella distinzione tra chierici e laici; in sostanza l'istituzione ecclesiastica lottò col potere imperiale per emanciparsi dalla sudditanza e riacquistare la propria autonomia. Questo ha portato ad un processo di identificazione della Chiesa con il ceto clericale perché la libertà della Chiesa dal potere secolare fu perseguita attraverso la progressiva emarginazione dei laici. Nell'età moderna, invece, ci fu il Concilio di Trento che dovette reagire alla riforma protestante di Martin Lutero, riaffermando l'importanza della mediazione ecclesiale tra il fedele e Dio. Per questo si è dovuta rimarcare l'esistenza di un sacerdozio ordinato e distinto dalla comunità dei fedeli; infatti il Concilio si occupò quasi esclusivamente del clero. Dopo Trento la distinzione tra chierici e laici si accentuò fino al codice del 1917 compreso. In conclusione alla prima età della Chiesa chierici e laici svolgono un ruolo attivo nella comunità ecclesiale, segue un lungo periodo in cui si radicalizza la distinzione tra chierici e laici, i primi chiamati a svolgere un ruolo attivo nella Chiesa (populus ducens), i secondi chiamati a svolgere un ruolo passivo (populus ductus). Questa separazione si prolunga fino al Concilio Vaticano II il quale opera una rivalutazione del laicato, attraverso un approfondimento della natura della Chiesa. Il Concilio, senza negare le concezioni gerarchico - giuridiche della Chiesa come istituzione e carismatico - spirituale come Corpo Mistico di Cristo, presenta la Chiesa come popolo di Dio, cioè comunità dei fedeli. Nella Lumen gentium, con il termine laici si intendono tutti i fedeli ad esclusione dei membri dell'ordine sacro e dello stato religioso sancito nella Chiesa. Nel decreto conciliare sull'apostolato dei laici "Apostolicam actuositatem" si dice che nella Chiesa c'è diversità di ministero ma unità di missione, cioè anche i laici hanno il proprio compito nella missione del popolo di Dio. Quindi la missione della Chiesa non è esclusiva né si identifica con quella dei chierici ma è propria di tutto il popolo di Dio. Ovviamente il fedele laico ha un ministero diverso da quello dei chierici in ragione della sua condizione secolare, ovviamente la sua vocazione è cercare il Regno di Dio trattando le cose temporali, deve santificare sé stesso ed il mondo in cui vive. Dopo il Concilio Vaticano II il laico viene inteso come la Chiesa stessa nel mondo. Il codice di diritto canonico disciplina lo stato dei fedeli laici con una serie di disposizioni che possono essere sistematizzate secondo una triplice prospettiva (cann. 224 - 231). Innanzitutto le disposizioni che riguardano la partecipazione dei fedeli laici all'unica missione della Chiesa, ad esempio can. 225 per il quale i fedeli laici hanno il diritto e il dovere di lavorare perché il messaggio di salvezza sia conosciuto e fatto proprio da tutti gli uomini, soprattutto in quelle circostanze concrete nelle quali l'azione dei chierici è difficile o impossibile. Perciò i fedeli laici godono nell'ordinamento giuridico di una vera eguaglianza sostanziale, che comporta la titolarità dei diritti e dei doveri relativi a tutti i fedeli (can. 224). La caratteristica dei fedeli laici è data dal compito di ordinare le cose temporali in conformità con lo spirito evangelico e di rendere testimonianza di Cristo nella trattazione delle cose temporali (can. 225). I fedeli laici hanno anche una specifica funzione all'interno della Chiesa, ad esempio i laici possono presiedere associazioni pubbliche di fedeli (can. 317), possono partecipare ai concili particolari e provinciali (can. 443), possono prendere parte al sinodo diocesano (can. 460), entrano a comporre il consiglio pastorale diocesano e parrocchiale (can. 512), possono essere consultati sulla nomina dei Vescovi e dei parroci (can. 377), sono chiamati a cooperare col parroco (can. 519), possono essere uditi dall'Ordinario del luogo per la predisposizione pastorale della famiglia (can. 1064). Per quanto riguarda la funzione dei laici nel mondo, cioè contribuire alla santificazione del mondo, anche qui ci sono diversi canoni. Ad esempio il can. 226 dispone che coloro che vivono nello stato coniugale sono tenuti all'obbligo di lavorare ad edificare il popolo di Dio attraverso il matrimonio e la famiglia; nel can. 227 viene riconosciuta ai fedeli laici la libertà nelle cose civili che spetta a tutti i cittadini. Si tratta di norme di principio chiamate a costituire criteri di interpretazione delle più specifiche disposizioni riguardanti i fedeli laici. A proposito del matrimonio il diritto canonico non tende a definire il fedele laico in relazione allo status coniugale, poiché il matrimonio è la condizione di vita più comune tra i laici. Il diritto vigente nella disciplina di matrimonio e famiglia tiene conto di una duplice prospettiva, interna ed esterna. All'interno della famiglia i coniugi devono essere apostoli reciprocamente e devono essere i primi annunciatori di Cristo ai propri figli, verso l'esterno devono offrire viva testimonianza della santità e della indissolubilità del matrimonio cristiano. Il codice contiene un'ampia parte dedicata al matrimonio sacramento, ma prevede anche disposizioni relative alla famiglia che riguardano profili più attinenti alle competenze della Chiesa. In relazione ai rapporti tra genitori e figli, mantenendo l'antico primato dell'eguaglianza tra i coniugi, pone a carico di entrambi i genitori l'obbligo di formare i figli nella fede cristiana (can. 774); inoltre i genitori hanno il diritto - dovere di educare la prole e hanno il diritto di ricevere un aiuto dalla società civile per provvedere all'educazione cattolica dei figli (can. 793); hanno il diritto di scegliere liberamente la scuola per i propri figli (can. 797) ma hanno il dovere di scegliere una scuola che dia un'educazione cattolica ai propri figli (can. 796). Soprattutto su entrambi i genitori grava l'obbligo di seguire i propri figli per ricevere a tempo debito i sacramenti.

La cooperazione dei laici alle funzioni gerarchiche

I fedeli laici possono essere chiamati a collaborare con i ministri sacri (chierici) all'esercizio delle loro tre funzioni. Per quanto riguarda la funzione profetica, o di insegnare, appartiene a tutto il popolo di Dio in ragione del carattere missionario della Chiesa. Esistono infatti modi diversi di partecipare alla funzione di insegnare (munus docendi): è esercitata in modo ufficiale, autentico, autorevole, pubblico dai chierici; in modo non ufficiale e privato dai fedeli comuni. Esistono dei casi però in cui i fedeli laici sono chiamati a cooperare al munus docendi della gerarchia, come si afferma nel can. 759. Si configura una partecipazione del laicato all'insegnamento pubblico della Rivelazione divina, ad esempio il can. 766 dispone che i fedeli laici possono in certe circostanze predicare in una chiesa o in un oratorio, escludendo l'omelia che è riservata ai chierici. Invece il can. 776 afferma che la formazione catechetica è funzione del parroco ma può farsi aiutare anche dai fedeli laici, in particolare dai catechisti che sono chiamati in modo speciale alla prima predicazione del cristianesimo ai non cristiani (can. 784). Un altro caso si ha nelle associazioni pubbliche di fedeli con lo scopo di insegnare la dottrina cristiana (can. 301), poiché queste associazioni possono essere presiedute da laici (can. 317) ma hanno finalità che si connettono con il munus docendi della gerarchia, quindi sono di diritto pubblico, vengono costituite dalla competente autorità e ricevono la missio per i fini che si propongono di conseguire. Una modalità di insegnamento della gerarchia è l'insegnamento scientifico o dottorale di scienza sacra e secondo il can. 229 anche i laici idonei possono insegnare le scienze sacre. La funzione di santificare gli uomini (munus sanctificandi), per renderli partecipi della santità di Cristo, è partecipata da ogni fedele in virtù del sacerdozio comune; una speciale funzione di santificazione (es. celebrazione dei sacramenti) spetta solo ai chierici. Questa funzione si trova nel can. 835 in cui sono precisate le varie funzioni che spettano alla gerarchia, in particolare ai Vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, e poi è distinta la particolare forma in cui tutti i fedeli partecipano a questa funzione. Il diritto canonico prevede anche casi in cui i fedeli comuni possono cooperare alla funzione di santificare propria della gerarchia. Il can. 230 dispone ad esempio che i laici di sesso maschile, con l'età e le doti giuste, possono essere stabilmente assunti, mediante rito liturgico, ai ministeri di lettori e di accoliti, cioè dei ministeri istituiti (ufficialmente determinati per speciali compiti e mansioni) distinti dai ministeri di fatto (categoria aperta di servizi alla comunità ecclesiale). Lo stesso canone permette ai laici di svolgere temporaneamente delle funzioni come lettore, commentatore o cantore, nonché, in caso di mancanza di chierici, di svolgere uffici non richiedenti l'ordine sacro. I laici possono inoltre assistere alla celebrazione del matrimonio e amministrare alcuni sacramentali. Più complessa la cooperazione dei laici alla funzione regale o di governo della Chiesa (munus regendi). Nel can. 129 troviamo che sono abili alla potestà di governo (nella Chiesa per istituzione divina) coloro che hanno ricevuto l'ordine sacro, cioè i chierici, aggiungendo che i fedeli possono cooperare a norma del diritto. A questa disposizione occorre aggiungere il can. 228 secondo cui i laici che risultano idonei sono giuridicamente abili ad essere assunti in quegli uffici ecclesiastici secondo le disposizioni del diritto. Poi sulla base del can. 145, l'ufficio ecclesiastico è qualunque incarico, costituito per disposizione sia di diritto divino sia di diritto umano, da esercitarsi per un fine spirituale. Nel diritto canonico vigente gli uffici ecclesiastici non sono riservati ai chierici ma possono essere conferiti anche ai laici, dunque tra gli uffici si devono distinguere quelli strettamente clericali (stricte clericalia) e quelli meramente laicali per i quali non è richiesto l'ordine sacro. Esistono casi nei quali il diritto canonico configura la possibilità di conferire ai laici uffici ecclesiastici che comportano la titolarità della potestas regiminis, sia nell'ambito amministrativo che in quello giudiziario. Ad esempio nell'ambito amministrativo la partecipazione dei laici ai consigli pastorali (can. 512), ai consigli per gli affari economici (can. 492) e ai consigli in genere (can. 228); nell'ambito giudiziario i laici possono essere assunti all'ufficio di giudice (can. 1421) così come possono svolgere l'ufficio di assessore (can. 1424). Non è facile quindi comprendere il canone 274 secondo il quale solo i chierici possono ottenere uffici il cui esercizio richieda la potestà di ordine o la potestà di governo, perché sembra contraddire le altre disposizioni. Per risolvere questo problema la dottrina ha trovato varie soluzioni. Secondo alcuni solo i chierici avrebbero un'abilità permanente alla potestas regiminis e i laici possono solo collaborare con i chierici titolari. Secondo altri nella Chiesa esiste una duplice giurisdizione: una sacramentale e l'altra non sacramentale, detta ecclesiale, che potrebbe essere conferita anche a chi non ha l'ordine sacro. Altri ancora sostengono che solo gli ordinati in sacris avrebbero una pretesa giuridicamente tutelata nell'ordinamento ad ottenere uffici ecclesiastici e i laici di conseguenza potrebbero ottenere uffici ecclesiastici con tale potestà senza che ciò risponda ad un preciso diritto. Si potrebbe più semplicemente dire che in via generale gli uffici ecclesiastici che comportano esercizio della potestà di governo sono riservati ai soli chierici, fatta eccezione per i casi in cui il diritto ammette anche i fedeli laici. In questi casi si tratta di una potestà di governo per il cui esercizio non è necessaria la sussistenza del presupposto dell'ordine sacro. In conclusione possiamo dire che la cooperazione dei fedeli laici alle funzioni dei ministri sacri possono essere considerate come forme di supplenza.


Le associazioni di fedeli

Con il diritto di libertà di associazione riconosciuto dal can. 215, il codice detta un'ampia disciplina al fenomeno associativo nella Chiesa.  In particolare nei canoni 298 - 299 è sancito il diritto dei fedeli di formare associazioni con fini di pietà, culto, apostolato, carità, che possono essere erette dalla competente autorità ecclesiastica. Il codice distingue due tipi di associazioni:

associazioni private: sono costituite per iniziativa dei fedeli (can. 299)

associazioni pubbliche: costituite direttamente dall'autorità ecclesiastica o aventi lo scopo di insegnare la dottrina cristiana in nome della Chiesa, di incrementare il culto pubblico (can. 301).

Questa distinzione si ricollega alla più generale distinzione operata dal codice canonico tra persone giuridiche private e pubbliche (can. 116), le persone giuridiche private nascono per libera iniziativa dei fedeli e agiscono in nome propria per il perseguimento delle finalità proprie della Chiesa, le persone giuridiche pubbliche sono costituite dall'autorità competente e agiscono in nome di questa, esercitando funzioni autoritative. Questa distinzione si riflette sul regime giuridico delle associazioni, in particolare i beni appartenenti alle persone giuridiche pubbliche entrano a comporre il patrimonio ecclesiastico (bona ecclesiastica). Tra le disposizioni di carattere generale troviamo la necessità di avere il consenso da parte della competente autorità per poter dire che l'associazione è cattolica (can. 300); la necessità di avere propri statuti, propria denominazione e prevedere le modalità di iscrizione e dimissione dei soci (can. 305). Le associazioni senza personalità giuridica possono possedere beni con l'effetto di far sorgere diritti in capo ai consociati intesi come comproprietari (can. 310). Alle associazioni di fedeli laici si applicano anche alcune norme speciali, in particolare è incoraggiata la loro costituzione per il perseguimento di fini spirituali. In altre parole il diritto positivo viene a favorire la formazione di quelle associazioni che rispondono alla funzione dei fedeli laici nel mondo e che si ispirano al Concilio Vaticano II, secondo cui esistono azioni che i fedeli compiono individualmente in nome proprio e azioni che compiono in nome della Chiesa in comunione con i loro pastori. Coloro che presiedono a queste associazioni devono favorire la cooperazione con altre associazioni affinché siano di aiuto alle opere cristiane (can. 328). Soprattutto i responsabili devono curare la formazione dei consociati, non solo una formazione cristiana e generale in relazione alle finalità dell'associazione ma anche una preparazione professionale specifica sulle attività dell'associazione (il cosiddetto volontariato). Possiamo dire che il canone 215 positivizza un diritto naturale proprio di ogni uomo, ma sarebbe riduttivo poiché se è vero che il diritto di associazione non è mai fine a sé stesso, ma trova riconoscimento e disciplina nella misura in cui l'associazione persegue le finalità, ciò è tanto più vero in relazione all'ordinamento canonico nel quale si realizza una compenetrazione della vita e del destino del singolo con la vita ed il destino del tutto e viceversa. Il fondamento del diritto di associazione in realtà è duplice: naturale e soprannaturale. Quest'ultimo è individuato nel Concilio Vaticano II che guarda alla Chiesa come popolo di Dio. La missione della Chiesa non è propria ed esclusiva della gerarchia ma di tutto il popolo di Dio, perciò l'associarsi dei membri della comunità ecclesiale è opportuno. In questo diritto di associazione si riflette la duplice missione dei laici: nella Chiesa e nel mondo e nella cooperazione al ministero gerarchico. Nella figura dell'associazione si trova lo strumento tecnico giuridico con cui realizzare strutture più complesse per esplicitare le funzioni propriamente laicali (associazioni private) o le funzioni derivate dal ministero gerarchico (associazioni pubbliche).


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