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I PRINCIPI - Diritto Tributario




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I PRINCIPI - Diritto Tributario

Le leggi che istituiscono e regolano i tributi devono rispettare il principio di capacità contributiva sancito dall'art. 53 Cost. Tale articolo dispone che tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. La disposizione deve essere interpretata nel contesto delle norme costituzionali ove sono riconosciuti e garantiti i diritti inviolabili dell'uomo ma è altresì richiesto l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Il dovere di concorrere alle spese pubbliche è uno dei doveri inderogabili di solidarietà sanciti dall'art. 2 Cost. L'art. 53 Cost. specifica che a tale dovere sono tenuti tutti in ragione della propria capacità contributiva. Il singolo deve dunque contribuire alle spese pubbliche non in ragione di ciò che riceve ma in quanto membro della collettività ed in ragione della sua capacità contributiva. Ciò spiega anche perché l'Art. 53 esige che il sistema tributario sia improntato a criteri di progressività. Il principio della capacità contribuiva sancito dall'art. 53 presenta un duplice significato. Da un lato esso specifica il dovere di contribuire alle spese pubbliche quale dovere di tutti in ragione della capacità contributiva con esclusione di altri criteri. Dall'altro in quanto norma che pone il principio di capacità contributiva, l'art. 53 limita al tempo stesso sia il dovere di contribuire sia il potere legislativo in materia fiscale. L'art. 53 è una norma di garanzia per i soggetti passivi del diritto tributario perché vincola il legislatore nella scelta dei presupposti dei tributi: il presupposto del tributo deve essere un fatto che esprime capacità contributiva. Quali sono i fatti che esprimono capacità contributiva e che cos'è la capacità contributiva? Per rispondere a queste de domande è bene ricordare che i tributi possono fondarsi o sul principio del beneficio o sul principio di capacità contributiva. Il primo implica che le spese pubbliche siano finanziate da chi ne fruisce. Il secondo principio, invece, implica che le imposte siano poste a carico di chi ha attitudine a contribuire. Dalla scienza delle finanze non ci è data una definizione rigorosa di capacità contributiva. Su di un punto comunque il consenso è unanime: e cioè nell'attitudine alla capacità contributiva il significato di capacità contributiva è un fatto di natura economica, un fatto che esprime forza economica. Per dare concretezza al concetto di capacità contributiva occorre indicare quali fatti economici esprimono capacità contributiva. Vi sono in proposito orientamenti divergenti. Vi è un orientamento garantista che adotta una nozione soggettiva di capacità contributiva. Secondo tale orientamento la capacità contributiva indica l'effettiva idoneità soggettiva del contribuente a far fronte al dovere tributario manifestata da indici concretamente rilevatori di ricchezza. In questo senso si esprimeva fino agli anni 80 la Corte costituzionale ravvisando nell'art. 53 una garanzia per i contribuenti. Nella giurisprudenza della Corte costituzionale si può riscontrare una evoluzione dal concetto di capacità contributiva più rigoroso a quello meno rigoroso, ossia da quello soggettivo a quello oggettivo. Secondo questo diverso orientamento la capacità contributiva viene ravvisata in qualsiasi fatto economico anche non espressivo della idoneità soggettiva del contribuente obbligato. In base alla definizione di natura oggettiva qualsiasi fatto economico appare indice di capacità contributiva. Vi sono indici diretti e indici indiretti di capacità contributiva. Fatto direttamente espressivo di capacità contributiva è il reddito. Il reddito complessivo delle persone fisiche al netto delle spese di produzione e con un complemento di deduzioni o detrazioni di particolari oneri si presta più di ogni altra forma di ricchezza a rispecchiare la capacità contributiva complessiva delle persone fisiche ed a fungere da base di commisurazione dell'imposta progressiva sul reddito globale. Insieme con il reddito sono considerati indici diretti ci capacità contributiva il patrimonio e gli incrementi di valore del patrimonio. Sono invece indici indiretti di capacità contributiva il consumo e gli affari. Dal punto di vista quantitativo il sacrificio patrimoniale che viene imposto ai contribuenti deve essere rapportato alla idoneità che il singolo mostra di potersi privare di una parte dei propri beni per metterla a disposizione della collettività dopo aver soddisfatto i suoi bisogni essenziali. Non è perciò indice di capacità contributiva un reddito minimo e lede l'art. 53 ogni tributo la cui misura sia tale da incidere sul minimo vitale. Nell'art. 53 dunque è insito un limite massimo della misura del tributo. Rientra nella discrezionalità del legislatore fissare la misura del tributo. Nella giurisprudenza della Corte costituzionale è dato risalto all'esigenza che il collegamento tra fatto rilevatore di capacità contributiva e tributo sia effettivo non apparente o fittizio. Dal requisito di effettività della capacità contributiva sono stati tratti diversi corollari:

È stata ritenuta incostituzionale la norma che imponeva un contributo minimo al servizio sanitario nazionale pur in assenza di reddito;

È sta ritenuta incostituzionale la norma dell'INCIAP che assumeva come base imponibile la superficie dei locali utilizzati per l'attività;

È stata ritenuta incostituzionale la norma che imponeva di valutare le aziende agricole agli effetti dell'imposta al lordo delle passività.

Sempre più di frequente il legislatore tributario si avvale di norme che forfetizzano la quantificazione di un qualche elemento dell'imponibile o dell'imposta. Il requisito di effettività dovrebbe comportare anche la necessità che le basi imponibili non includano componenti meramente nominali senza tener conto della svalutazione della moneta. Oltre che effettiva la capacità contributiva deve essere attuale. Il requisito della attualità non è che un aspetto della effettività: il tributo nel momento in cui trova applicazione deve essere correlato ad una capacità contributiva in atto non ad una capacità contributiva passata o futura. I tributi retroattivi colpiscono fatti pregressi e quindi una capacità contributiva del passato. Essi sono in contrasto con il principio di capacità contributiva se colpiscono fatti del passato che non esprimono una capacità contributiva attuale. Inoltre i tributi retroattivi ledono il principio do certezza del diritto. L'irretroattività è un principio dell'ordinamento cui il legislatore deve attenersi in quanto la certezza dei rapporti preteriti costituisce un indubbio cardine della civile convivenza e della tranquillità dei cittadini. Si ammette però che in deroga al principio generale della irretroattività il legislatore possa emanare norme retroattive purchè esse trovino adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non si pongano in contrasto con altri valori e interessi costituzionalmente protetti così da incidere arbitrariamente sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti. In particolare secondo la giurisprudenza costituzionale i tributi retroattivi sono costituzionalmente legittimi se colpiscono fatti del passato che in base ad una verifica da compiersi volta per volta esprimono una capacità contributiva ancora attuale. Il requisito di effettività impedisce al legislatore anche di imporre pagamenti anticipati di tributi che si collegano a presupposti d'imposta che si verificheranno in futuro; anche qui la rigorosa deduzione che si trae dalla premessa deve essere attenuata quando ad esempio il prelievo anticipato non è del tutto scollegato dal presupposto. Il legislatore può dunque imporre pagamenti anticipati rispetto al presupposto ma è necessario: che la fattispecie cui si collega il prelievo anticipato non sia del tutto avulsa dal presupposto; che l'obbligo di versamento non sia incondizionato; che al prelievo anticipato si saldi la previsione di meccanismi di riequilibrio. Il principio costituzionale sancito dall'art. 53 richiede che il fisco non trattenga prelievi avvenuti in difetto del presupposto d'imposta e quindi in assenza di capacità contributiva. Ciò significa che viola l'art. 53 un meccanismo legislativo che impedisca il rimborso dei tributi indebitamente pagati. Il principio di capacità contributiva riguarda la disciplina sostanziale dei tributi, non le norme formali. Devono pertanto essere conformi al principio di capacità contributiva le norme che disciplinano i tributi, il diritto al rimborso dell'indebito, ed ogni altro profilo di diritto sostanziale. Se dunque vi sono norme procedimentali o processuali che non tutelano adeguatamente il contribuente la tutela costituzionale non è data dall'art. 53 ma da altre norme costituzionali. L'art. 53 pone un requisito soggettivo: occorre cioè che il presupposto indichi un'attitudine soggettiva del contribuente chiamato a concorrere alle spese pubbliche. Ed occorre che l'obbligazione tributaria sia posta a carico di chi ha realizzato il presupposto del tributo; sarebbe violato l'art, 53 se il presupposto del tributo ricadesse su di un soggetto che non pone in essere il fatto espressivo di capacità contributiva a cui si ricollega il tributo. Vi sono però anche norme che pongono obblighi a carico di terzi. In tutti i casi in cui l'obbligazione tributaria è posta a carico di soggetti diversi da colui che realizza il fatto espressivo di capacità contributiva occorre che il terzo sia posto in grado di far ricadere l'onere economico del tributo su chi ne realizza il presupposto: se così non fosse sarebbe violato l'art. 53 Cost. perché l'onere economico del tributo graverebbe su di un soggetto al quale non è riconducibile la manifestazione di capacità contributiva che giustifica il tributo. Secondo la lettera dell'art. 53 deve essere giustificato dalla capacità contributiva ogni concorso alle spese pubbliche senza distinzioni né rispetto ai modi del concorso né rispetto alle spese pubbliche. Vi sono però in dottrina e in giurisprudenza della Corte interpretazioni restrittive della disposizione costituzionale. Secondo la giurisprudenza della Corte l'art. 53 ha riguardo soltanto a prestazioni di servizi il cui costo non si può determinare di visibilmente; esso non concerne quindi le tasse, destinate a finanziare spese pubbliche il cui costo è misurabile per ogni singolo atto. Secondo la Corte l'art. 53 non è criterio di riparto di tutte le spese pubbliche ma soltanto di quelle indivisibili; opera rispetto alle imposte non opera rispetto ai tributi c.d. commutativi. Questo orientamento restrittivo contrasta sia con la lettera dell'art. 53 sia con una visione d'insieme del testo costituzionale. Le entrate collegate a servizi divisibili possono essere addossate a che ne fruisce solo se il fruirne è degno di capacità contributiva. Vi sono servizi pubblici che pur essendo divisibili soddisfano bisogni essenziali, costituzionalmente tutelati. La garanzia costituzionale può venir meno solo per i servizi pubblici non essenziali; per tali servizi sono ammissibili modalità di finanziamento che prescindono dalla capacità contributiva di chi li usa ma si basano sul principio del beneficio.  Dall'art. 53 combinato con il principio di uguaglianza discende il principio di eguaglianza tributaria in base al quale a situazioni uguali devono corrispondere uguali regimi impositivi e correlativamente a situazioni diverse un trattamento tributario disuguale. Le questioni di costituzionalità non sorgono perché una norma colpisce un fatto che non è manifestazione di capacità contributiva ma perché non vi è parità di trattamento tra fatti che esprimono pari capacità contributiva o vi è parità di trattamento fiscale tra fatti che sono espressione di diversa capacità contributiva. Nelle questioni di questioni di costituzionalità che coinvolgono il principio di uguaglianza occorre mettere a confronto la norma di legge sospettata di incostituzionalità con un'altra disciplina legislativa e valutare se giustificata o irragionevole la disparità di trattamento. Il principio di uguaglianza esige che la legge non detti discipline contraddittorie; esige cioè coerenza interna alla legge tributaria. Il canone di coerenza implica che ogni fattispecie imponibile sia espressione di quella particolare ipotesi di capacità contributiva.

Il problema del rispetto del principio di uguaglianza non si pone soltanto per le norme impositive ma anche per le norme di favore. Quali sono le ragioni che legittimano il legislatore introdurre trattamenti di favore senza violare il principio di uguaglianza? Il legislatore può concedere agevolazioni se ciò risponde a scopi costituzionalmente riconosciuti; in sostanza se il trattamento differenziato trova giustificazione in una norma costituzionale. Raramente viene sollevata una questione di legittimità costituzionale perché è stata illegittimamente concessa una agevolazione, violando il principio di uguaglianza. Di solito infatti le questioni di costituzionalità non vengono sollevate per ottenere la eliminazione del beneficio ma perché il beneficio previsto è stato accordato ad alcuni e non ad altri. La questione è posta quindi per ottenere la estensione di una norma di favore.

L'art. 53, comma 2, prevede che il sistema tributario è informato a criteri di progressività. Il principio di progressività non riguarda i singoli tributi ma il sistema nel suo complesso. La Corte ha osservato che nella molteplicità e varietà di imposte attraverso le quali viene ripartito tra i cittadini il carico tributario non tutti i tributi si prestano al principio di progressività che presuppone un rapporto diretto tra imposizioni e reddito individuale di ogni contribuente.

All'interesse fiscale è dato nella costituzione un particolare rilievo: il dovere tributario è un dovere inderogabile di solidarietà a cui sono tenuti tutti. L'interesse fiscale è il valore costituzionale che legittima le norme che tutelano il Fisco anche se si tratta di discipline che differiscono da quelle del diritto comune: la materia tributaria per la sua particolarità e per il rilievo che ha nella costituzione l'interesse dello Stato alla percezione dei tributi giustifica discipline differenziate. La tutela costituzionale dell'interesse fiscale deve essere però coordinata con la tutela di altri principi costituzionali tra cui quello di capacità contributiva; e non deve mai ledere i diritti inviolabili di cui all'art. 2 Cost.  Vi sono sentenze con cui la Corte ha giustificato la legittimità costituzionale di particolari norme dettate a tutela del fisco in deroga al principio di uguaglianza. In altri casi si è ritenuto che la tutela dell'interesse fiscale non potesse giustificare la lesione di altri principi costituzionali come il diritto di difesa.

L'art. 117 Cost. dispone che i trattati internazionali sono parametri immediato o diretto della legittimità costituzionale delle leggi come interposte. L'art. 117 condiziona l'esercizio della potestà legislativa dello Stato e delle regioni al rispetto degli obblighi internazionali fra i quali rientrano quelli derivanti dalla convenzione europea dei diritti dell'uomo le cui norme costituiscono fonte integratrice del parametro di costituzionalità introdotto dall'art. 117. L'art. 6 della convenzione recita: ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale costituito per legge il quale deciderà sia delle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile sia della fondatezza di ogni accusa penale che le venga rivolta. La corte di Strasburgo ha escluso più volte dall'ambito di applicazione dell'art. 6 le controversie fiscali perché quella disposizione concerne le cause penali e civili non quelle di diritto pubblico. Si riconosce però la tutela della Cedu alle controversie sulle sanzioni amministrative applicate per violazioni tributarie.

PRINCIPI COMUNITARI

Il legislatore fiscale è vincolato anche dal diritto comunitario: dalle norme del trattato istitutivo della Comunità europea e dalle norme di diritto derivato. Il trattato non prevede che la comunità abbia competenza generale in materia tributaria e che abbia un proprio sistema di imposte. Le norme del trattato che hanno contenuto o rilevanza tributaria non sono dunque rivolte a procurare entrate ma a d assicurare che il mercato comune abbia le caratteristiche di un mercato interno e che in esso vi sia un regime di libera concorrenza. In funzione dunque del mercato comune l'art. 3 stabilisce il divieto tra gli stati membri dei dazi doganali e delle restrizioni quantitative all'entrata e all'uscita delle merci e di ogni ostacolo alla libera circolazione di merci, persone, servizi e capitali. L'art. 93 infine attribuisce al Consiglio il potere di armonizzare le legislazioni degli stati membri in materia di imposte dirette. Le deliberazioni devono essere adottate all'unanimità su proposta della commissione e dopo aver sentito il parlamento europeo ed il comitato economico e sociale. Tale disposizione ha lo scopo di eliminare le disparità dei regimi fiscali nazionali ma solo nella misura in cui ciò è necessario per assicurare l'instaurazione ed il funzionamento del mercato interno ed un regime di libera concorrenza non alterato da distorsioni fiscali.

Tra i principi generali espressi nel trattato ha un particolare rilievo per il diritto tributario il principio di non discriminazione in base alla nazionalità, posto dall'art. 12 del trattato. Tale principio trova specifiche applicazioni nelle norme che sanciscono le libertà fondamentali. Il principio di uguaglianza stabilito dall'art. 3 Cost. il principio di non discriminazione hanno differente portata: il primo opera all'interno del nostro ordinamento e sancisce l'uguaglianza dei cittadini; il principio di non discriminazione opera in ambito comunitario, allo scopo di assicurare parità di trattamento nei diversi ordinamenti nazionali ai cittadini dell'unione. La corte di giustizia interpreta l'art. 12 nel senso che sono vietate non solo le discriminazioni espressamente basate sulla nazionalità ma anche le discriminazioni dissimulate o indirette.

Le leggi fiscali degli stati membri dell'unione europea debbono essere compatibili con le libertà fondamentali vale a dire con le norme del trattato che sanciscono la libertà di circolazione dei lavoratori, la libertà di stabilimento, la libera prestazione di servizi e la libertà di circolazione dei capitali. L'art. 39 del trattato assicura ai lavoratori il diritto di libera circolazione con l'abolizione di qualsiasi discriminazione fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli stati membri per quanto riguarda l'impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro. In materia tributaria le applicazioni giurisprudenziali del principio di libera circolazione sono state notevoli. Residenti e non residenti sono assoggettati nei diversi ordinamento a regimi fiscali diversi in quanto i residenti sono soggetto ad imposta in modo illimitato, i non residenti in modo limitato ossia solo per i redditi prodotti nello stato. Questa diversità di trattamento è giustificata dalla circostanza che il reddito percepito nel territorio di uno stato da un non residente costituisce nella maggior parte dei casi solo una parte del suo reddito complessivo, è nello stato in cui si risiede che il contribuente di solito produce la maggior parte del suo reddito. Perciò in linea di principio le legislazioni che distinguono tra residenti e non residenti non violano il principio di uguaglianza. Può però accadere che un soggetto produca la maggior parte del suo reddito in un paese dell'unione europea diverso da quello di residenza o produca il suo reddito in più stati. La corte ha fissato il principio che quando un lavoratore produce la maggior parte del suo reddito in uno stato in cui non è residente gli devono essere accordate le stesse attenuazioni del carico fiscale che sono concesse ai residenti; in altri termini gli deve essere concesso il trattamento nazionale.

Ai sensi dell'art. 43 del trattato la libertà di stabilimento importa l'accesso alle attività non salariate e al loro esercizio nonché la costituzione e la gestione di imprese e in particolare di società ai sensi dell'art. 48 alle condizioni definite dalla legislazione del paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini fatte salve le disposizioni del capo relativo ai capitali. L'art. 48 del trattato prevede inoltre che le società costituite conformemente alle legislazione di uno stato membro siano equiparate alle persone fisiche aventi la cittadinanza di quello stato. La libertà di stabilimento presenta due aspetti: essa comporta da un lato il diritto di esercitare un'attività economica in uno stato membro diverso da quello di origine e dall'altro il diritto di aprire filiali agenzie o succursali in un altro paese membro. Inoltre il principio della libertà di stabilimento implica per l'operatore la libertà di scegliere la forma giuridica con cui esercitare il diritto di stabilimento. La libertà di stabilimento secondaria deve essere garantita dallo stato di origine che non deve ostacolare il diritto delle società residenti di stabilirsi anche in altri stati. Perciò la corte ha giudicato incompatibili con il trattato le exit tax. Il paese ospitante deve assicurare parità di trattamento tra società residenti e stabili organizzazioni. Sono numerose le sentenze che dichiarano incompatibili con il trattato norme fiscali nazionali che discriminano tra stabili organizzazioni e società residenti. Il principio della parità di trattamento tra società residenti e stabili organizzazioni è ribadito in numerose sentenze successive tra cui spicca il caso Saint Gobain nel quale il principio della parità di trattamento è stato applicato alla tassazione dei dividendi esteri percepiti da una stabile organizzazione e da società residenti.

La libertà di prestazione dei servizi è sancita dall'art. 49 del trattato che prevede il divieto di restrizioni alla libertà prestazione dei servizi all'interno della comunità nei confronti dei cittadini degli stati membri stabiliti in un paese della comunità che non sia quello del destinatario della prestazione. Questa libertà interessa gli operatori economici che prestano servizi in un paese diverso da quello in cui sono stabiliti. Mentre la libertà di stabilimento implica il diritto di operare in modo permanente la libertà di prestazione dei servizi riguarda attività svolte in modo non permanente da chi è stabilito in un paese diverso da quello in cui il servizio è reso. Il principio in esame ha carattere residuale: esso opera quando non valgono le norme sulla libera circolazione dei merci, delle persone e dei capitali e riguarda servizi tranfrontalieri. In applicazione del principio di libera prestazione dei servizi sono state censurate dalla Corte le norme fiscali degli stati, che negavano o limitavano la deducibilità di costi sostenuti per prestazioni rese da imprese non residenti.

Il Trattato CE all'art. 56 vieta ogni restrizione ai movimenti di capitali tra stati membri nonché tra stati membri e paesi terzi. Questo principio comunitario può avere effetti limitati in materia tributaria, perché l'art. 58 del trattato consente agli stati membri di applicare le pertinenti disposizioni della,loro legislazione tributaria in cui si opera una distinzione tra i contribuenti che non si trovano nella medesima situazione per quanto riguarda il loro luogo di residenza o il luogo di collocamento del loro capitale. Sono dunque ammesse differenze di regime fiscale in base alla residenza degli investitori e in base al luogo in cui i capitali sono investiti. In altri termini è consentito agli stati membri diversificare il trattamento fiscale dei redditi degli investimenti fiscali dei redditi dei capitali investiti all'estero rispetto ai redditi degli investimenti domestici. Le differenziazioni di trattamento tra soggetti residenti e soggetti non residenti non devono però costituire un mezzo di discriminazione arbitraria né una restrizione dissimulata al libero movimento dei capitali e dei pagamenti. Il principio di libera circolazione dei capitali implica che i paese membri non debbano ostacolare gli investimenti con norme fiscali che possono avere effetti restrittivi della circolazione dei capitali o effetti discriminatori tra investitori residenti e non residenti.

Non ogni disparità di trattamento fondata sulla nazionalità è incompatibile con le libertà fondamentali sancite dal trattato. Possono darsi deroghe al divieto di non discriminazione. In particolare si tratta dei motivi elencati dagli artt. 30 e 58 del trattato, i quali riconoscono agli stati membri la facoltà di introdurre restrizioni, rispettivamente alla libera circolazione delle merci e dei capitali a tutela dell'ordinamento pubblico, della moralità e della salute pubblica nonché per ciò che concerne la sola circolazione dei capitali per impedire la violazione delle leggi fiscali. A parte le deroghe al principio di non discriminazione, espressamente consentite da norme del trattato la corte di giustizia ha elaborato altre causa di giustificazione comunemente denominate ruel of reason. Il leading case in materia è la sentenza Cassis de Dijon. La corte chiamata a giudicare la compatibilità con il trattato di una legge tedesca che fissava un contenuto alcolico minimo per la commercializzazione di una bevanda come alcolica; fu in quell'occasione stabilito che le prescrizioni che ostacolano l'esercizio delle libertà possono essere accettate quando siano necessarie per rispondere ad 4esigenze imperative attinenti in particolare all'efficacia dei controlli fiscali alla protezione della salute pubblica alla lealtà dei negozi commerciali e alla difesa dei consumatori. La corte ha riconosciuto che sono rule of reason l'esigenza di contrastare l'elusione fiscale; l'esigenza di preservare l'efficacia dei controlli fiscali; il principio di coerenza dell'ordinamento fiscale nazionale.

Per i fini del trattato è necessario non soltanto che il mercato europeo sia un mercato senza frontiere ma anche che le imprese possano operare ad armi pari in condizioni di concorrenza non falsata. Nel titolo VI del trattato vi sono norme rivolte alle imprese ed in secondo luogo agli stati ai quali sono vietati agli interventi che non siano rispettosi delle regole della libera circolazione. L'art. 87 del trattato dichiara incompatibili con il mercato comune nella misura in cui incidano sugli scambi tra gli stati membri gli aiuti concessi agli stati ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che favorendo talune imprese o talune o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza. Il divieto colpisce dunque qualsiasi forma di aiuto. Sono aiuti di stato sia le sovvenzioni fiscali sia le norme che escludono o riducono i normali oneri fiscali. Una misura si considera aiuto quando presenta quattro requisiti:

Vi è un vantaggio sotto forma di alleggerimento di costi;

Il vantaggio è concesso dallo stato o mediante risorse statali;

Il vantaggio incide sulla concorrenza e sugli scambi tra stati membri;

Il vantaggio è concesso in maniera specifica e selettiva.

Il divieto non è assoluto. La comunità non potrebbe promuovere uno sviluppo armonioso ed equilibrato delle attività economiche nell'insieme della comunità, se fosse proibito qualsiasi intervento pubblico a favore delle imprese. L'art. 87 prevede tre serie di deroghe. Sono innanzitutto fatte salve le deroghe contemplate dal trattato vale a dire le discipline speciali dal trattato in materia di agricoltura, pesca, trasporti, cultura, sicurezza nazionale. Il comma 2 dell'art. 87 dichiara compartibili de iure con il mercato comune tutti gli aiuti a carattere sociale concessi ai singoli consumatori e gli aiuti concessi in occasione di calamità naturali o altri eventi eccezionali. Nel comma 3 troviamo un elenco di aiuti che possono considerarsi compatibili con il mercato comune. L'elenco comprende:

Gli aiuti regionali destinati a favorire lo sviluppo economico delle regioni ove il tenore di vita sia anormalmente basso;

Gli aiuti diretti a promuovere la realizzazione di importanti progetti di comune interesse europeo;

Gli aiuti settoriali ossia rivolti ad agevolare lo sviluppo di talune attività o di talune regioni economiche;

Gli aiuti indirizzati a promuovere la cultura e la conservazione del patrimonio;

gli stati prima di adottare un provvedimento a favore delle imprese devono comunicare il progetti alla commissione e non devono eseguirlo prima che la commissione si sia pronunciata. La commissione può dare inizio ad una speciale procedura al cui termine decidere che il progetto non sia compatibile.


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