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Il dato normativo della Costituzione non segnò affatto un punto d'arrivo in tema di pena e delle sue funzioni, ma solamente l'inizio di un lungo, contrastato e variabile dibattito ancor oggi da definire. Ed è naturale che sia così, poiché il carcere o se si preferisce la pena nel suo complesso è materia soggetta più di molte altre ad una serie di variabili storiche, culturali, politiche che per definizione sono in continuo movimento nel tempo.
Passiamo dunque ad esaminare quali furono le posizioni politico-criminologiche degli anni seguenti.
Il periodo seguente al dopoguerra fu caratterizzato come è noto dal forte allarme sociale dovuto ad una dilagante criminalità. Tale situazione non poté costituire, come è immaginabile, terreno fertile per uno sviluppo della dottrina in favore della rieducazione del condannato. Come la storia insegna infatti in periodi di questo tipo la società reagisce in posizione di difesa e non di dialogo.[1] Furono nettamente prevalenti così le voci che si mossero verso una pena intanto general-preventiva, con una riemersione prevedibile delle teorie retributive seppur debitamente rielaborate sotto l'ombra del dettato Costituzionale. A parte qualche timida voce contrastante in senso positivistico e, aggiungerei, tutt'altro che convinta , le posizioni della dottrina dei primi anni cinquanta furono prevalentemente orientate in senso retribuzionistico. A facilitare questo pensiero fu anche la ritrovata forza della cultura cattolica che impregnò indelebilmente l'evoluzione (o meno) di tale periodo storico.
Gli autori che si impegnarono di più in questo, chiamiamolo 'ritorno alle origini', furono, per citarne solo alcuni, studiosi insigni come Bettiol, Petrocelli o Spasari.[2]
Il loro impegno fu diretto in primo luogo a diminuire l'importanza del dato testuale della Costituzione fino a giungerne alla sua demolizione. Come fa notare lo stesso Spasari (ancora nel 1966) il fatto che il 3° Comma dell'art.27 COST. inizi stabilendo che 'Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità' sarebbe sintomo inequivocabile di una presa di posizione della Costituente nel senso, in primo luogo, dell'individuazione di quale deve essere lo scopo-limite della pena. Il divieto di trattamenti disumani diviene il limite intrinseco della pena. Fin qui, nulla quaestio. Ciò che potrebbe render perplessi è il successivo passaggio logico: se la pena avesse funzione principalmente rieducativa non ci sarebbe stata la necessità di una tale precisazione. Da cui conseguenza prevedibile è che il legislatore ha voluto ribadire un indispensabile carattere afflittivo della pena.[3] Ne discende ulteriormente che la funzione rieducativa, poiché posposta al divieto di trattamenti inumani, rappresenta solo un limite estrinseco alla nozione stessa di pena che era e rimane afflittivo-retributiva, ed è quindi dettata da una ben diversa esigenza di natura ideologica e politica. Il concetto è agevolmente ribadito osservando il dato testuale che per primo limite (intrinseco) usa il forte e deciso 'non possono', mentre per il c.d. limite estrinseco usa il più debole verbo 'tendere' (tacendo riguardo all'ovvia obiezione sollevabile sul precedente quanto significativo verbo 'devono'). Risultato: la rieducazione non è altro che uno dei numerosi scopi cui la pena aspira, forse uno dei più importanti, ma comunque solo eventuale rispetto alla dimensione logica della pena.
Per questa Teoria c.d. Assoluta la pena è un castigo proporzionato da infliggere al reo che abbia colpevolmente ed intenzionalmente cagionato un fatto ingiusto. Non è una sorta di vendetta sociale poiché quel male che si va ad attuare non è un male proporzionato al male cagionato,' bensì un male che giustamente si infligge' [5]e cioè il bene. Bene che viene identificato nelle riaffermazione della giustizia violata dal reato.
I seguaci della Teoria Assoluta giustificano inoltre le loro scelte ideologiche con una critica a quelle c.d. Teorie Relative, che focalizzano prevedibilmente la loro attenzione su argomenti diversi. A differenza della teoria assoluta non pensano che l'agire umano sia sotteso dal postulato della libertà dell'uomo, ma da una molteplicità di cause che ne evidenziano, anzi, l'anormalità nella condotta criminosa fino a giungere a parlare di determinismo. Per queste teorie il reo deve essere rieducato per prevenire nuove manifestazioni di devianza sociale. Ora questi indirizzi criminologici si specificano secondo i loro propri scopi che sono, in primis, quelli della difesa sociale e della prevenzione. La critica che viene mossa a questa linea di pensiero è sostanzialmente duplice. La prima è quella che constata la strumentalizzazione di una siffatta concezione che vede il reo inserito in un disegno utilitaristico per il raggiungimento di scopi collettivi. La seconda è che, così facendo, si perde quella ineliminabile libertà di coscienza che deve essere garantita a chiunque, anche al condannato. Per usare le parole di Bettiol che vede la funzione retributiva della pena come una 'garanzia' che uno 'Stato cristiano' deve avere per salvaguardare 'quella libertà che ha l'uomo di scegliersi anche il male sotto la parvenza di un bene'.[6] Altro sostenitore di questa ideologia è il Delitalia che ne fa una sorta di massima: 'le dottrine che fanno capo al principio retributivo si appellano tutte all'esigenza di giustizia; quelle che propugnano il principio preventivo all'utilità'.
Nonostante i tentativi di annebbiamento caratterizzanti il decennio precedente, l'idea rieducativa della pena non perse affatto la propria capacità di accendere dibattiti, ma anzi questi furono quanto mai numerosi negli anni sessanta. A far da sfondo a questo rinato interesse vi è, come causa storico-culturale, un ritrovato progresso economico che, da sempre nella storia, è terreno fertile per un più sereno progresso culturale e che in quegli anni si manifestò, come è noto, con l'emergere di un'incipiente centro-sinistra.
Il clima di questo decennio, caratterizzato da una globale attesa riformistica, rinnovò l'interesse precedentemente perduto in materia di rieducazione e recupero dei detenuti come specificazione del più generale scopo di miglioramento della qualità di vita dei cittadini[8] .
In realtà le basi del discorso ereditate dal decennio precedente non furono rinnovate completamente, ma si assisté ad un decisivo arricchimento di queste. E' l'epoca della nascita di quelle cosiddette teorie Realistiche, che, pur non discostandosi completamente dagli orientamenti precedenti, ebbero l'indiscusso pregio di dare la dovuta risonanza al dettato costituzionale in tema di rieducazione. La pena aveva e continua avere anche per questa teoria una funzione primariamente retributiva; ciononostante la pena così inquadrata avrebbe dovuto avere anche finalità diverse dalla mera, così come era vista dalla teoria Assoluta, retribuzione. Al primo posto non poteva esserci che la retribuzione, rientrante nella funzione specialpreventiva, che aveva per volontà della costituente una posizione privilegiata. D'ora in poi la funzione rieducativa sarà vista come obiettivo principale ed inderogabile della pena, non più come scopo meramente tendenziale. Questa nuova, non per premesse, ma per svolgimento, linea di pensiero rispecchiava quella cosiddetta concezione polifunzionale della sanzione penale che fu sostenuta da numerosi autori come Pagliaro[9] o ancora più esplicitamente da Vassalli .
Per questa scuola la pena, pur conservando una connotazione retributiva di fondo mostrava come elaborazioni da questa nascenti tre importanti angolature : quella satisfattoria, quella general-preventiva ed infine la special-preventiva. Vassalli stesso aggiunge che quest'ultima assurge ad un rango di particolare rilievo poiché entra 'a vele spiegate nel nostro sistema coll' art.27 della Costituzione Repubblicana, nel quale è iscritto addirittura come obiettivo principale, oltre che inderogabile, della pena'[11].
La stessa concezione di pena la si ritrova anche in Nuvolone che opera un distinguo tra pena come categoria 'logica' e pena come categoria 'storica': la prima è espressione di retribuzione e di castigo; la seconda di più difficile collocazione in uno schema, dato che riveste una categoria complessa, in cui si intrecciano e fine retributivo e fine rieducativo[12].
Le critiche mosse contro le teorie polifunzionali sono quelle che partono dalla constatazione che molteplici funzioni della pena sono state imbrigliate in un unico fascio, senza distinguere le varie fasi della fenomenologia punitiva a cui esse stesse si riferiscono (minaccia, quantificazione ed esecuzione). Il rischio è appunto quello di un appiattimento concettuale che possa portare a comportamenti illusori o compromissori in una pratica legislativa.
Nonostante queste preliminari preoccupazioni si deve senz'altro notare come tale fermento scientifico abbia portato, nonostante il periodo non ancora maturo, a sviluppi di significativo rilievo. Come lo stesso Fiandaca ci ricorda vi fu un convegno (tenuto a Bressanone) nel '63 dedicato direttamente al ' problema della rieducazione del condannato'[13]. In tale occasione si riproposero le istanze delle varie scuole ormai ben note. Sul fronte retribuzionistico ritroviamo l'ormai fedele Bettiol , insieme ad altri pensatori che però lasciarono presagire un declino inevitabile delle loro teorie, date le loro visioni decisamente meno intransigenti rispetto a quest'ultimo (così Zuccalà ).
Anche Bettiol mostrò di essersi decisamente temperato rispetto alle sue posizioni di partenza quando alla domanda 'perché si punisce?' rispose, ormai trascinato dalla nuova tendenza, ' Con l'affermazione che la pena è retributiva non si è ancora risposto alla domanda circa lo scopo della pena, perché altro è definire l'istituto e indicarne il fondamento, altro è rispondere alla domanda circa la sua funzione'[16]. Se anche uno dei più tenaci sostenitori della teoria retributiva cominciava ad avere dei dubbi è segno evidente che i tempi erano maturi per un'inversione di rotta. La nuova sensibilità in campo di rieducazione iniziava a diffondersi ed a convergere a tutti i livelli criminologici. Il problema ora era scoprirne il significato reale.
A livello legislativo tali nuove tendenze ebbero una influenza notevole anche se marginale (non saranno stati dello stesso parere gli ergastolani dell'epoca) con l'emanazione della L. n°1634/62 con la quale si introdusse la liberazione condizionale anche ai reati puniti con l'ergastolo. Il vigoroso dibattito sugli scopi della pena faceva presagire una futura rinnovazione anche sotto altri aspetti. Ci si cominciò a porre, ad esempio, il problema delle pene detentive brevi e di una auspicabile loro sostituibilità con strumenti sanzionatori alternativi. Per una riforma più decisa dovremo aspettare gli anni settanta con la riforma penitenziaria del 1975. Solo allora si vedranno tradursi in lettera legislativa quelle che fin d'allora erano rimaste pure aspirazioni di strategie alternative ancora in fase di gestazione.
Gli anni sessanta non furono quindi periodo di grandi innovazioni rispetto al quello precedente, ma senz'altro gettarono il seme per una futura e più matura elaborazione.
Gli anni 1968 e seguenti, come è noto, provocarono una frattura a livello generale con la tradizione, in ogni campo. Anche le linee di pensiero riguardanti gli aspetti della pena subirono un notevole trauma, che nonostante i toni forse eccessivamente accesi ed intransigenti, furono un passo obbligato per la futura impostazione del problema. Violento il salto da un pacato dialogo accademico ad una contestazione spesso acerba e di totale rottura con il passato .
Prima di questo periodo, che facciamo tradizionalmente coincidere con il '68, ma che va inteso in termini elastici, i dibattiti sulla pena, le sue funzioni e tutto ciò che ne derivava in ambito penalistico era da sempre stato visto come proprietà privata di pochi: i penitenziaristi di professione e gli studiosi appartenenti alla cultura universitaria più accreditata[17]. L'evoluzione del tema carcerario non poteva che rimanere impercettibile essendo la gestione dell'istituzione affidata unicamente a tali soggetti . Con l'avvento dell'ondata sessantottesca il ventaglio degli interlocutori sulla pena viene rinnovato dall'ingresso nel dibattito di due nuovi soggetti: i detenuti e l'opinione pubblica. Come ci dice Fassone , sarà, come avviene in ogni rapporto istituzionale, la 'parte bassa' a rivelare il maggior dinamismo di pensiero e di idee.
Il 1969 sarà un anno fondamentale per questo mutamento. L'interesse generale volgerà uno sguardo molto più attento ed interessato all'istituzione carceraria, sia per le numerose rivolte che si verificarono, sia per l'insediarsi di un'idea nuova, ossia la sospettata presenza di implicazioni politiche nella detenzione. Le voci provenienti dal carcere ebbero una influente risonanza nell'opinione pubblica, che venne così a conoscenza di croniche disfunzioni delle prigioni e della critica condizione, se non anche subumana, dei detenuti. Dallo studio del singolo si passa all'azione di massa[20].
Accanto ad una protesta concreta, se ne affianca spontaneamente una teorica, non meno importante, con la quale, attraverso la 'contestazione', si cerca di ' spogliare l'istituzione di ogni sua giustificazione ideale, il chiederle conto della sua esistenza, e il verificare se alla motivazione ufficiale che la legittima non si accompagni una motivazione occulta che la ispira'[21]. Il porre così impetuosamente in discussione il carcere porta inevitabilmente al vederne l'assenza di solide fondamenta, quali la sua naturalità e neutralità. Se fino a pochi anni prima veniva condotta una placida e astratta discussione scolastica sul tema della pena, ora la rivoluzione ideologica e, di conseguenza, d'impostazione di analisi, porta a mettere in dubbio la legittimazione stessa dell'istituto. Anzi, questo è uno dei più importanti risultati del periodo. In questi anni, infatti, si conduce un'analisi critica della realtà carceraria, non più su singoli aspetti istituzionali o teorici, ma sull'essenza stessa dell'istituto sul piano dei rapporti reali che scaturiscono dall'istituzione. Gli interrogativi che vengono posti sono semplici, ma inaspettate sono le conclusioni. Ci si chiede ' chi va in carcere' e ' perché ci va', la prima risposta offerta è che ' ogni detenuto è un detenuto politico' .
Dagli studiosi del tempo vennero condotti degli esami di stampo statistico sulla popolazione detenuta. Ricci e Salierno, ad esempio, osservarono le percentuali costanti tra gli anni 1953 e 1967 dei detenuti italiani secondo la regione di nascita, il livello d'istruzione, estrazione sociale, occupazione, tipo di reato[23]. Questi dati portano alla constatazione della bassa estrazione sociale della stragrande maggioranza dei detenuti con la conseguenza non tanto scientifica, ma critico-politica dell'affermazione di una radicale delegittimazione del carcere. Le prigioni sembrano essere premeditatamente destinate a questi individui nell'attuazione di un piano di politica generale. Diviene un ripostiglio degli esclusi da quella civiltà industriale, che già al suo affacciarsi vede la crescita di ' masse di sbandati, che si formavano in tempi più rapidi di quelli occorrenti per il loro assorbimento nelle incipienti nuove forme di produzione' .Si affaccia l'idea di una strumentalizzazione del reo la cui criminalizzazione è manovrata a fini antiidealistici dalla classe antagonista. Così, scoperto il nesso tra delitto e posizione sociale, si giunge al porre in discussione lo stesso concetto e l'esistenza della delinquenza. Vengono meno le basi ideologiche della definizione di criminalità, che costituiscono la premessa ineliminabile, nonché la necessaria giustificazione di un qualsivoglia intervento repressivo. Filo conduttore di quegli anni tormentati sarà un atteggiamento antiautoritario, che in questo campo si manifesta con la volontà di strappare definitivamente la veste idealistica ad una pena che giusta non appare più, ma che si è mostrata invece un'arma subdola nelle mani di una politica classista .
Gli ultimi anni '60, in particolare i movimenti sessantotteschi, dettero l'impulso, come abbiamo precedentemente osservato, ad nuovo e più attento atteggiarsi nei confronti della pena. Questo avvenne prevalentemente negli anni settanta, nei quali una più riflessiva quiete dopo la tempesta degli anni precedenti riuscì a dare ben altri frutti. La questione carceraria iniziò a coinvolgere anche l'opinione pubblica, travalicando così gli angusti limiti di una, seppur accesa, questione accademica. L'idea rieducativa acquistò una valorizzazione non solo sul piano sanzionatorio, ma arrivò a spingersi fin nella teoria generale del reato. Conseguenza che prima sembrava prospettiva ridicola, fu l'elevazione del principio costituzionale della funzione rieducativa della pena a paradigma per la scelta degli stessi fatti punibili, pur se con tutti i limiti di cui parleremo. Questo nuovo approccio dette un impulso decisivo agli stessi lavori parlamentari per una ormai improrogabile riforma penitenziaria.
Nei primi anni settanta si assiste ad un 'ritorno neoclassico'[26]. A livello internazionale (Congresso delle Nazioni Unite,1975) vengono evidenziati i fallimenti dei tentativi trattamentali in libertà operati da molti paesi. Da tali constatazioni il passo fu breve per giungere nuovamente agli antichi e collaudati metodi restrittivi della libertà. Altro dato di non minor peso fu la crisi economica del 1973, che portò all'accantonamento di ogni tipo di strategia punitiva che potesse comportare costi eccessivi . Sebbene inizialmente le nuove tecniche fossero state presentate come meno onerose del carcere, un'analisi più attenta portò ad evidenziare come invece le varie alternative prospettate comportassero un apparato organizzativo a cui occorreva personale estremamente qualificato e quindi, già solo per questa ragione, notevolmente dispendioso. Si assiste così ad un'inversione di rotta accompagnata e motivata da un atteggiamento regressivo, ma realistico. E' un periodo particolare, dove le voci di aspra critica contro i movimenti sessantotteschi portarono spesso ad un radicale mutamento di idee rispetto all'immediato passato. Non in pochi in questi anni sembrano tornare ad ideali classici come le teorie dell'intimidazione in cui quest'ultima è vista come unico fine della pena. Ad esempio Boscarelli insegna che 'la funzione e la ragion d'essere della pena va desunta da un'esigenza pratica, l'esigenza della prevenzione' . Inizia ad affacciarsi l'idea dell'impossibilità della rieducazione del condannato soprattutto a seguito della constatazione della difficoltà pratica di una sua realizzazione. Nei tardi anni settanta si parlerà a questo proposito di 'neutralizzazione', cioè quella forma di prevenzione speciale derivante dalla coatta impossibilità a delinquere dovuta alla segregazione. Sullo sfondo di questo nuovo stato di cose la riforma del 1975, con la legge sull'ordinamento penitenziario del 26 luglio n°354, si situa a metà strada tra linee di pensiero estremamente differenti. Gli stimoli e le conquiste degli ultimi anni sessanta non possono essere cancellati totalmente. D'altronde si trovano a dover patteggiare con le nuove forze moderate, per cui il risultato che ne scaturì fu necessariamente compromissorio.
La riforma presenta uno spirito condonatorio e indulgenziale[29] su cui le forze di sinistra ebbero un ruolo fondamentale per la sua approvazione. Tali conquiste furono comunque soltanto apparenti dato che gli obiettivi iniziali erano di tutt'altra portata. Le sinistre si erano ormai rassegnate a non ottenere nulla di più che un'attenuazione generalizzata della pena, rispetto ad una tanto ambita riforma generalizzata del codice penale e conseguente revisione dei valori su cui poggia. La soluzione derivante dal convergere nei medesimi lavori idee tanto confliggenti non fu tanto quella di un meditato compromesso, ma una composizione soltanto apparente e formale. Come ci ricorda Fassone (op. cit.), l'ideologia di fondo della riforma era "articolata nel rifiuto programmatico dell'idea retributiva e nell'accoglimento dell'idea rieducativa, resi però ambigui dal permanere dell'impianto carcerario universalizzato e dalla mancanza di chiarificazione dei modelli ai quali ispirare l'attività rieducativa' (pag.195).
Gli equivoci mai risolti negli anni '72-'75 di preparazione della riforma, mostrano nella seconda parte degli anni settanta i loro vizi di fondo. L'idea, purtroppo falsamente, ispiratrice della Legge, cioè della rieducazione del condannato svela la sua povertà di contenuti e di metodi. La generale impreparazione all'accoglimento di trattamenti rieducativi e di modifiche sostanziali alle modalità dell'esecuzione, provocano un riflusso moderato alle certezze del passato. Non è ancora fertile il terreno per escogitare nuovi sbocchi ad una pena, che sembra non aver più alternative: la segregazione è ciò di cui la società ha bisogno, innanzitutto. Le esigenze naturali di giustizia e di sicurezza tornano ad avere un a collocazione di primo piano. Solo dopo averle soddisfatte si può parlare di educazione del reo. L'idea retributiva recupera tutto il suo peso[30].
Il legislatore del 1975 aveva ingenuamente tentato, alla luce dei fatti, di dare un'impronta nuova alla realtà carceraria già dalle prime battute della riforma. L'art. 1 ord. pen. intitolato Trattamento e rieducazione chiariva come scopo principale della pena fosse divenuta appunto la rieducazione secondo il dettato costituzionale ex art. 27. Il 5° comma così recita: 'Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo [27 c.3 Cost.] che tenda, anche attraverso i contatti con l'ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti.'. La novità della disposizione non ha bisogno di commenti. Il trattamento rieducativo diveniva così un elemento indispensabile della detenzione, quasi a riempirla di un contenuto ed una giustificazione prima assenti. Le possibilità erano molte per la svolta. Dalla partecipazione al trattamento di soggetti esterni utili per la promozione dei contatti tra comunità carceraria e società libera (art.17 ord. pen.), come gli assistenti volontari (art.78 ord. pen.), ad un trattamento individualizzato (art.13 ord.pen.) elastico ed adattabile alle singole esigenze dei detenuti. Gli elementi del trattamento potevano essere, poi, di vario genere: dall'istruzione garantita a tutti i livelli (art. 19 ord. pen.; reg. esec. ord. pen. 39, 41-44), al lavoro privo di carattere afflittivo e remunerato, obbligatorio solo per i condannati e sottoposti alle misure di sicurezza della colonia agricola e della casa di lavoro (art. 20 e ss.; reg. esec. ord. pen. art. 45-51), alle attività ricreative, culturali e sportive (art. 27 ord. pen.; reg. esec. 56, 57, 66), la religione ( art. 26 ord. pen.; reg. esec. 55), ai rapporti con la famiglia ( art. 18, 28-30, 42, 45, 75 ord. pen.; reg.esec. 58). Attraverso questa vasta gamma di elementi il detenuto non viene coattivamente portato ad aderire ad un modello predeterminato, ma è libero di scegliere le attività messe a disposizione dall'ordinamento[31] (eccezion fatta per le attività lavorative di cui al 3° comma, art.20 ord. pen.) secondo le proprie personali inclinazioni e bisogni. L'operatore penitenziario dovrà dunque tenere conto di questo nello svolgimento delle proprie mansioni nel rispetto delle peculiarità di ogni individuo. E' predisposta anche l'osservazione scientifica della personalità, sulla scia della stessa linea di pensiero, per la rilevazione delle carenze fisiopsichiche durante tutto il corso della reclusione (art. 13, 2°comma, 63; reg. esec. art. 27,28) per garantire una migliore conoscenza della persona umana e quindi l'individualizzazione del trattamento. A quest'ultimo è affiancata l'osservazione del detenuto per verificare, durante il corso dell'esecuzione, se vi sia stata una positiva evoluzione ai fini del suo recupero sociale attraverso i vari strumenti messigli a disposizione. Tale osservazione è affidata principalmente al personale carcerario con l'ausilio di psicologi, assistenti sociali, psichiatri, esperti di criminologia clinica.
Purtroppo le buone intenzioni del legislatore sono state tradite da una realtà culturale e reale che non ha permesso al realizzazione di tale ambizioso progetto[32]. Da un'altra angolazione va considerato il periodo in cui si inserisce la riforma, che dagli anni seguenti al 1975 vede crescere in modo preoccupante una criminalità politica e comune alla quale lo Stato è sempre cronicamente impreparato e non sa rispondere se non in chiave repressiva. La legislazione di 'emergenza' di questi anni non fa altro che reinserire nel nostro ordinamento quella tendenza che così disperatamente si era tentato di rimuovere nel corso degli anni. La prevenzione generale attraverso l'intimidazione torna alla ribalta, mostrando così di privilegiare nuovamente una terapia d'urgenza affidata all'inasprimento della reazione punitiva, come scorciatoia più semplice ed apparentemente più efficace di una seria programmazione di politica criminale che studi a fondo le cause del problema. Il dipinto sconfortante appena offerto è causa diretta dell'oblio prevedibile di quell'idea ispiratrice della rieducazione che 'sembra sempre più ridursi al rango di puro mito' e che viene tristemente sostituita da una legislazione caratterizzata da 'aspetti terroristici (più che retributivi) della pena' : basti pensare alla rinnegazione dello stesso modello di esecuzione penale a favore di numerose restrizioni applicative dell'ordinamento penitenziario o alla famosa creazione dei carceri c.d. speciali o di massima sicurezza .
Come abbiamo precedentemente notato, la riforma penitenziaria del 1975 ebbe scarso successo pratico. Le ideologie di fondo che la ispirarono erano contrastanti e poco meditato ne fu il risultato ottenuto. Come parte della dottrina[36] ha fatto notare, gli anni che precedettero la legge sull'ordinamento penitenziario, furono caratterizzati da istanze utopiche di riformismo penale. L'illusione che si era creata fu madre della riforma, che, nonostante rappresentasse forse il frutto più avanzato del settore, non trovò alla sua base una situazione storico- politica adeguata per la sua effettiva realizzazione.
La principale causa del fallimento della riforma penitenziaria è da rinvenirsi nell'aver ingenuamente affidato all'istituzione penitenziaria il duro compito di attuare la legge, nonostante un'impreparazione facilmente prevedibile. Tale insuccesso 'assume un valore emblematico sotto l'aspetto dei rapporti tra il testo della legge e le strutture operative, materiali e personali, necessarie per darvi attuazione. La legge penitenziaria è forse l'esempio più evidente di una riforma che, scritta sulla carta, è rimasta completamente priva di strumenti di attuazione'[37]. Così l'eccessiva distanza che ci fu tra legge e possibilità reali di realizzazione dette inizio, già all'indomani della sua approvazione, ad un acceso dibattito sfociato, dieci anni dopo, in una nuova legge: la l. 10 ottobre 1986 n°663, nota come legge Gozzini. Questo nuovo intervento del legislatore evidenzia quali siano stati i criteri ispiratori che hanno negli anni acceso gli animi, cercando al contempo di contemperarli con esigenze insopprimibili di sicurezza. Tali criteri furono vari, come la depenalizzazione e la collegata degiurisdizionalizzazione, ma, per ciò che qui ci interessa maggiormente, soprattutto quello della decarcerizzazione . La legge tenta di mediare le due opposte istanze: da un lato la sicurezza, dall'altro lo sviluppo di trattamenti individualizzati extramurari . Sul presupposto di differenziare il trattamento a seconda della persona che lo riceve, abbiamo in questa legge la coesistenza di istituti assai diversi, tendenti a raggiungere scopi opposti, ma conciliabili sotto la medesima ottica. Da un lato troviamo la possibilità di uscire dal carcere temporaneamente attraverso il lavoro esterno, i permessi premio e la semilibertà; inoltre un ampliamento del ventaglio di situazioni in cui il condannato può essere esentato dall'esperienza carceraria, come la detenzione domiciliare ab origine e l'affidamento in prova senza osservazione; la possibilità di vedersi ridotta la pena detentiva con gli istituti dell'affidamento in prova e detenzione domiciliare congiunta, liberazione anticipata, liberazione condizionale. Tutti questi istituti nella loro varia articolazione, riflettono quella tendenza politica tesa a ridurre in modo consistente la pena detentiva, offrendo delle aperture all'esterno del carcere se non proprio in sua sostituzione, tenendo conto dei singoli soggetti che ne possono usufruire. Dall'altro lato abbiamo istanze restrittive che sottolineano invece l'aspetto contenitivo dell'istituzione penitenziaria per il perseguimento degli scopi di ordine e sicurezza. In quest'ottica si collocano le previsioni di sorveglianza particolare commisurata ai criteri di pericolosità del soggetto, che sono l'espressione di una 'insopprimibile preoccupazione di difesa sociale' cui la società non può rinunciare. Meno sotterranee che nel passato sono in questi casi le esigenze di neutralizzazione del detenuto pericoloso cui l'istituzione sembra non poter reagire che in modo rigido. Queste due linee di pensiero opposte sottendono ad una stessa ispirazione di differenziazione trattamentale, che nel 1986 sembra essere finalmente più attuabile rispetto a dieci anni prima. Anche la riforma del 1975, come abbiamo visto, aveva come scopo fondamentale quello del 'trattamento individualizzato', ma solo con l'avvento della legge Gozzini, che ne rappresenta il naturale sviluppo, si riesce a trasformare le nuove istanze in realtà. Partendo dalle medesime premesse di base, la legge n.663/86 va a completare il quadro soltanto abbozzato della precedente riforma che aveva voluto, evidentemente troppo drasticamente, realizzare un ' capovolgimento della filosofia carceraria repressiva ed emarginante, alla quale si era ispirato il regolamento del 1931' . Nonostante lo sforzo teso a coordinare le disposizioni del 1975 con quelle della nuova legge per renderle applicabili e, in alcuni casi, comprensibili, il risultato non fu sempre soddisfacente. Mi riferisco, ad esempio, al mancato coordinamento tra i due nuovi istituti dell'affidamento in prova senza osservazione (artt. 47, 3° e 4° comma; 47-bis ord. pen.) e della semilibertà 'senza espiazione' ( art.50, 6° comma ord. pen.) che realizzarono un linea politica ormai chiara di sottrarre quando possibile, determinati soggetti all'esperienza carceraria. Non furono inoltre chiariti alcuni dubbi su certe questioni lamentate negli anni passati riguardanti, ad esempio, il problema della revoca dell'affidamento in prova. Il legislatore del 1986 si incaricò di risolvere la questione, anche se in modo parziale, con gli artt. 51-bis e 51-ter inseriti nella legge del 1975. In particolare l'art. 51-bis riguarda i casi di sopravvenienza di nuovi titoli di privazione della libertà durante l'attuazione dell'affidamento in prova al servizio sociale o della detenzione domiciliare o del regime di semilibertà. Con l'intervento legislativo del 1986 si stabilisce in capo al magistrato di sorveglianza, la possibilità e non la necessità, almeno nei dubbi dell'interprete, di sospendere l'esecuzione della misura in corso in attesa della decisione definitiva del tribunale di sorveglianza. In caso contrario, e questo sembra lo scopo tendenziale della norma, il magistrato, tenuto conto del cumulo delle pene, se rileva che permangono le condizioni di cui al comma 1 dell'art. 47 (Affidamento in prova: la pena detentiva inflitta non supera i tre anni) o al comma 1 dell'art.47-ter (Detenzione domiciliare: pena della reclusione non superiore ai tre anni, adesso elevati a quattro con la l. n°165/98, nei casi previsti tassativamente ai punti 1, 2, 3, 4 dello stesso comma) o ai primi tre commi dell'art. 50 (Ammissione alla semilibertà), dispone con decreto la prosecuzione provvisoria della misura in corso. Queste disposizioni verificano la tesi precedentemente accennata di una tendenza decarcerizzante nei casi possibili, in base cioè alla realtà delle singole situazioni esecutive, affidando al magistrato il potere di adattare la misura stessa in base ai fatti nuovi sopravvenuti, munendolo però di un potere di intervento di ripristino dell'originaria detenzione nel caso di condotte trasgressive.
Altra novità di grande rilievo è stata la rielaborazione della fondamentale misura dell'affidamento in prova al servizio sociale ex art. 47. La legge di riforma del 1986 ha riscritto tale istituto eliminando numerose limitazioni stabilite dal legislatore del 1975[42]. Con il nuovo art. 47, così come modificato, i limiti sono ridotti, almeno per ciò che riguarda i limite esterno, alla sola necessità di una pena inflitta ( sorvolando sui gravi problemi interpretativi che questa ha provocato negli anni seguenti, risolti con l'interpretazione autentica fornita dal legislatore con la legge n.353/92, art. 14-bis) non superiore ai tre anni (art 47, 1° comma). Mentre per quello che riguarda il limite interno questo riguarda la 'prognosi di sufficienza delle prescrizioni' (art.47, 2°comma ) a garantire che il beneficiario non ricada nel reato e che queste siano idonee ad agevolare la sua rieducazione.
Altra importantissima modifica è l'abrogazione del vecchio 2° comma dell'art.47, modificato come abbiamo appena visto, che conteneva delle pesanti limitazioni in ordine ai tipi di reati che portavano all'esclusione della possibilità di usufruire della misura in discorso. Tali reati, la cui elencazione fu introdotta per la prima volta con la legge 12 gennaio 1977 n°1, poi aggiornata successivamente con la legge 13 settembre 1982 n°646, erano i c.d. reati ostativi, ostativi appunto alla concessione dell'affidamento. Per avere ben chiaro di cosa si trattasse è bene farne qui memoria: delitti di rapina, rapina aggravata, estorsione, estorsione aggravata, sequestro a scopo di estorsione o di rapina, e, dulcis in fundo, associazione a stampo mafioso. Anche la Corte Costituzionale[43] fu investita della sospetta legittimità costituzionale dell'articolo in questione per contrasto con gli art. 3 e 27 3°comma Cost., cioè per violazione del principio di uguaglianza e della funzione rieducativa della pena, ma le conclusioni di questa furono elusive sostanzialmente dell'effettivo problema, riaffermando la validità della norma. La legislazione 'd'emergenza' aveva così prodotto i suoi frutti, che solo attraverso gli anni e con l'ausilio di una dottrina tenace in materia, fu possibile estirpare.
Nonostante l'incompletezza dell'esame della riforma del 1986 si può avanzare un quadro generale ricostruttivo del discorso. La legge 663/86 combinata con la riforma del 1975 dà luogo ad un sistema differenziato di espiazione della pena, nonché alla adattabilità della stesse con delle modalità elastiche ed adattabili alle singole esigenze. Le conseguenze di tale impostazione danno luogo al fenomeno della 'decarcerizzazione delle misure alternative'[45], ovvero dire nella possibilità senza limitazioni di usufruire di misure alternative, essendo venuto meno anche il limite della necessità della attuale esecuzione della pena . Queste decisive innovazioni hanno lo scopo evidente di permettere o comunque agevolare il reinserimento del condannato nel tessuto sociale ed evitare quel fenomeno stigmatizzante che è il carcere, che notoriamente produce una desocializzazione difficilmente sanabile in un secondo momento. Nonostante i nobili intenti del legislatore parte della dottrina, in particolare Bricola e Ferrajoli, ne evidenzia i difetti e i pericoli intrinseci. Bricola mette in risalto come questo binomio indulgenza-afflittività sia molto meno alternativo di quanto non si creda, ma che gli istituti 'indulgenziali' siano l'eccezione che vuole, anzi, riaffermare la regola del 'carattere afflittivo e retributivo del sistema sanzionatorio complessivo, anche se ammantata da finalità di rieducazione' . Ferrajoli ha messo in luce un aspetto decisamente presente nella realtà penitenziaria dei nostri giorni, evidenziando come l'aver affidato a singoli soggetti la decisione circa l'ammissibilità o meno delle misure alternative possa essere causa di gravi disparità di trattamento dovute a scelte che rimangono necessariamente discrezionali. Il giudice che può disporre delle misure 'non accerta fatti, ma valuta persone e per quanto dal suo giudizio si determinino legalmente i presupposti, questi saranno sempre delle scatole vuote, oggetto non di asserzioni o prove, ma di giudizi potestativi di un uomo su di un altro uomo, destinati a sconfinare nell'arbitrio' . In effetti, i rilievi critici dell'Autore non sono privi di fondamento sol che si pensi a quanto, su una scelta di questo tipo, possano influire le personalissime convinzioni, inclinazioni, opinioni culturali, politiche ecc.. Un potere siffatto nelle mani di un solo soggetto porta inevitabilmente a pericoli di abuso; non resta che sperare che chi lo possiede ne faccia un uso il più possibile imparziale, dato che ogni deviazione da detto criterio porta immancabilmente ad una diretta incidenza sulla sorte di una persona.
Due degli aspetti più rilevanti sopravvenuti recentemente e che devono essere trattati in questa sede sono sia le modifiche apportate alla Riforma del '75 con la cosiddetta legge Simeone, che il nuovissimo regolamento penitenziario approvato negli ultimi giorni e che rinnova, almeno formalmente, la situazione carceraria italiana. Vediamoli separatamente partendo dalle modifiche normative della legge 27 maggio 1998, n.165.
Dopo la riforma intervenuta nel 1986 con la legge 663/86 la strada imboccata dal legislatore in materia di rieducazione e conseguente differenziazione della pena, sembra finalmente aver acquistato una sua, relativa, stabilità. Le garanzie e gli istituti introdotti e migliorati da questa subiranno comunque, nel corso degli anni, dei continui adattamenti e correttivi necessari a sanarne le imperfezioni o le carenze strutturali. La legge di riforma dell'ordinamento penitenziario del 1975, oltre all'importantissima riforma del 1986, subì numerose modificazioni ad opera sia di interventi della Corte Costituzionale sia dello stesso legislatore, alcuni dei quali furono il d.l. 13 maggio 1991, n°152 convertito dalla l. 12 luglio 1991, n°203, il d.l. 8 giugno 1992, n°306 convertito dalla l. 7 agosto 1992, n°356, fino ad arrivare ad un'importante quanto discusso intervento del legislatore del 1998 con la l. 165/98, nota anche Legge Simeone.
La l. 165/98, il cui disegno è dovuto principalmente all'on. Simeone di ben due anni prima della sua promulgazione, approvato dalla Camera dei Deputati il 1°ottobre 1996 e poi modificato dal Senato, è riuscita a vedere la luce il 27 maggio 1998. Tale legge, composta da soli otto articoli, disegna un nuovo testo dell'art.656 c.p.p. riguardante l'esecuzione delle pene detentive e corregge la legge del 26 luglio 1975, n°354 relativamente ad alcuni istituti quali l'affidamento in prova al servizio sociale e la detenzione domiciliare. In più detta una nuova disciplina sul personale degli assistenti sociali e degli operatori amministrativi, rafforzandone la dotazione organica.
La legge è intervenuta ad eliminare incongruenze e difetti di coordinamento tra il Codice di Procedura Penale del 1988, il Testo Unico in materia di stupefacenti (d.P.R. 9 ottobre 1990, n° 309) e la complessa normativa sull'ordinamento penitenziario. Il risultato, pur non essendo perfetto[49], è sicuramente lodevole sia dal punto di vista di un indispensabile riordino del sistema, sia per gli scopi che si intendono perseguire. Gli obiettivi che la legge ha inteso perseguire sono stati innanzitutto quello pratico di ridurre il sovraffollamento delle carceri, decongestionandole dalla presenza dei condannati per reati di lieve entità ed agevolare il loro accesso alle misure alternative. Una popolazione carceraria superiore alle possibilità contenitive delle nostre strutture, provoca, a tacer d'altro, una disfunzione organizzativa tale da rendere difficile se non addirittura impraticabile quel 'trattamento individualizzato' che sembra aver un ruolo tanto fondamentale nel nostro ordinamento penitenziario.
Tra le novità salienti della legge, merita di essere ricordata la riforma, che in origine doveva essere solo processuale sul comma 2 dell'art.656 c.p.p. in tema di ordine di ingiunzione, sull'intero articolo in questione comportando delle vere e proprie innovazioni. La legge n°165/98 sostituisce integralmente il testo dell'art.656 c.p.p. con il 5°comma dell'art.1, disponendo l'obbligo per il pubblico ministero di sospendere d'ufficio l'esecuzione di tutte le condanne irrevocabili a pena detentiva non superiore a tre anni, ovvero, non superiore a quattro anni nei casi di cui agli art. 90 e 94 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n°309 (t.u. stupefacenti) anche se costituenti parte residua di maggior pena. L'ordine di esecuzione e il decreto di sospensione sono contestualmente al condannato con l'avviso allo stesso della facoltà di presentare istanza, entro trenta giorni, completa delle indicazioni e della documentazione necessaria, per ottenere la concessione di una delle misure alternative alla detenzione. Tale avviso assolve ad una importantissima funzione informativa come strumento di conoscenza per il detenuto, che sarà d'ora in poi nella condizione favorevole di poter facilmente accedere al meccanismo della sospensione, già previsto dal 4°comma dell'art.47 ord.pen[51]. Ad una lettura attenta della disposizione in questione è agevole rendersi conto di come vada positivamente ad incidere su quei soggetti sprovvisti di adeguata assistenza legale per frequenti situazioni di disagio economico e che pertanto si trovano nella oggettiva difficoltà di seguire la propria vicenda penale. questo sistema cerca di evitare disparità di trattamento che incidano negativamente sulla vita del condannato sprovvisto di mezzi con una esecuzione immediata difficilmente evitabile se non attraverso un efficace strumento di conoscenza come dovrebbe essere, appunto, l'avviso del P.M. Il meccanismo della sospensione automatica della carcerazione del condannato a reati di minore gravità, assolve ad un compito fondamentale per la nostra istituzione carceraria: quello di evitare l'ingresso ai condannati a pene di breve durata nell'ottica già evidenziata di decercerizzazione e di differenziazione del trattamento, nonché di umanizzazione della pena . Dal momento di ricezione da parte del tribunale (non più dalla presentazione dell'istanza) della richiesta del condannato, che deve essere presentata entro trenta giorni dalla comunicazione del P.M., è stabilito il termine ordinatorio di quarantacinque giorni per la decisione circa la concedibilità o meno della misura. Questa disciplina incontra delle limitazioni di applicabilità in relazione all'automatismo della sospensione per determinate categorie di soggetti. Tali limiti sono enunciati ai commi 7, 8, e 9 dell'art.1 e sono: si impedisce che la sospensione dell'esecuzione per una stessa condanna possa essere disposta più di una volta, anche se per una diversa misura o con differente motivazione, per evitare la paralisi della carcerazione attraverso tale strumento dilatorio, se così utilizzato; il mancato tempestivo esercizio della facoltà del condannato di proporre istanza, se viene respinta o dichiarata inammissibile dal tribunale di sorveglianza; nei confronti dei condannati per i delitti di cui all'art. 4-bis della l.354/75 o coloro che nel momento della condanna si trovano sottoposti alla misura cautelare della custodia in carcere. In questi ultimi due casi è evidente che lo sbarramento deriva da una valutazione di elevata pericolosità sociale, per cui risulta impossibile un giudizio positivo sull'applicabilità di una misura alternativa.
Altra novità riguarda la nuova formulazione dei commi 3 e 4 dell'art 47 ord.pen. attraverso l'art.2 della legge. Il primo comma modificato non fa altro che codificare quanto già deciso con la sentenza della Corte Costituzionale n°569 del 1989, per cui si ribadisce che l'affidamento in prova al servizio sociale può essere disposto anche senza una preventiva osservazione in istituto, quando il reo, dopo la commissione del reato, abbia tenuto un comportamento tale da far esprimere un giudizio prognostico favorevole. Il 4° comma prevede il caso di una proposizione dell'istanza di affidamento in prova al servizio sociale non si siano avvalsi della possibilità di ottenere il decreto di sospensione (per carenza di assistenza legale o mancata conoscenza di tale facoltà, o altro) e quindi lo facciano in un secondo momento anche se già colpiti dall'ordine di carcerazione. Ovviamente dovranno sussistere i presupposti per l'affidamento in prova e il grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione e non vi sia pericolo di fuga.
L'art.3 della legge prevede invece l'abrogazione dell'art.47-bis ord. pen., già sospetta d'implicita abrogazione con l'entrata in vigore del d.P.R. n°309/90, art.90, con il quale si era verificata una sovrapposizione di disciplina in tema di sospensione dell'esecuzione e di presentazione dell'istanza di affidamento al servizio sociale da parte del condannato tossicodipendente o alcooldipendente.
Altro breve cenno merita di essere fatto alle modifiche apportate all'art.47-ter della legge 26 luglio 1975, n°354 dall'art.4 della legge in discorso in materia di detenzione domiciliare. La novità più rilevante riguarda il limite di pena stabilito dalla legge per la concessione della misura che è ora stato aumentato a quattro anni contro i tre della previgente disciplina. Inoltre la legge estende alcuni presupposti per l'applicabilità della misura in esame per garantire una tutela più incisiva nei confronti dei detenuti con figli minori. intanto è stata aumentata l'età della prole del detenuto/a a dieci anni, anziché cinque come nell'originaria previsione dell'art.47-bis, 1°comma, n°1. Poi è stato aggiunto un caso di concedibilità della misura al 'padre, esercente la potestà, di prole di età inferiore ad anni dieci con lui convivente, quando la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole'. Quest'ultima disposizione non fa altro che confermare una sentenza della Corte Costituzionale[53] che aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale della mancata previsione di tale eventualità.
Al termine di questa breve panoramica sull'evoluzione della pena negli ultimi decenni è possibile fare qualche considerazione sui mutamenti intervenuti e le prospettive di questi. Come abbiamo osservato l'idea rieducativa che la nostra carta costituzionale ci imporrebbe di considerare, a scanso di interpretazioni distorsive e limitanti, come fine della pena, ha portato lentamente ad una evoluzione culturale e legislativa in materia di umanizzazione e differenziazione non di poco conto, anche se lungi dall'essere ancora vagamente risolta ogni questione in materia. Si è assistito, a partire dalla riforma del 1975 fino ai giorni nostri, ad una progressiva 'scomposizione del monocentrismo della struttura carceraria' per creare in sua vece una 'struttura composita e relativamente disarticolata'. Val la pena di ricordare la bella metafora utilizzata da M. Pavarini nel 1986 per descrivere questo fenomeno in cui il carcere è paragonato ad un 'carciofo' che presenta 'un cuore interno relativamente compatto ed omogeneo, coperto da strati plurimi di foglie, le cui ultime ed esterne finiscono per coincidere con modalità di esecuzione relativamente attenuate'[54].
Nonostante gli enormi sforzi della dottrina per sensibilizzare l'opinione generale sugli aspetti più 'umani' e 'costituzionali' della pena, ho il disincantato timore che i successi ottenuti siano dovuti a spinte propulsive di natura diversa, celate dietro a nobili quanto non assorbiti principi. Uno, per fare un esempio, dei problemi maggiori che la nostra società si è trovata ad affrontare, è stato quello dei costi spaventosi che il carcere comporta e quindi, a maggior ragione, il fenomeno del sovraffollamento. Se in effetti questo maligno sospetto fosse fondato, le reali intenzioni del legislatore sono state comunque abilmente mascherato dalla circostanza che tali preminenti esigenze, di tipo quindi forse più politico o, meglio ancora, economico, piuttosto che idealistico, si siano sposate, per ironia della sorte, in modo perfetto con il principio della rieducazione ed i vari corollari che da questo prendono le mosse. Infatti, quando una civiltà raggiunge delle conquiste solide e convinte, sottoponendola ad una prova della resistenza, come in questo caso potrebbe essere una situazione che crea allarme sociale, la reazione non dovrebbe essere quella di rinnegare la bontà del sistema proprio in questi frangenti, come invece puntualmente succede[55].
Per una indagine storica sui molteplici fattori che condizionarono l'elaborazione teorica e non sul tema rieducativo si rinvia a Fassone, op.cit.
Cfr. Petrocelli, Retribuzione e difesa nel progetto di codice del 1949, in Riv. it. dir. proc. pen.,1950, I, 126; Bettiol, Repressione e prevenzione nel quadro delle esigenze costituzionali, in Riv. it. dir. pen. 1951, 376; Spasari, Diritto penale e Costituzione, Milano, Giuffrè ed.,1966, cap.III, pag.117 e ss.
Su tale carattere afflittivo della pena ecco un ragionamento logico a cui pervenne Petrocelli: 'Se le pene avessero dovuto avere un contenuto essenzialmente ed esclusivamente rieducativo; se, insomma, le pene non avessero dovuto avere carattere () punitivo, il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità non avrebbe avuto ragione di essere, perché una funzione che sia essenzialmente rieducativa esclude da sé, per la sua stessa natura, i trattamenti contrari al senso di umanità, senza bisogno di alcuna dichiarazione esplicita', Retribuzione e difesa nel progetto di codice del 1949, in Riv. it. dir. proc. pen. 1950, 449.
Bettiol, Repressione e prevenzione nel quadro delle esigenze costituzionali, Riv. it. dir. pen., 1951, 376
Il Delitalia (Prevenzione e repressione nella riforma penale, in Riv. it. dir. pen., 1950) ebbe il merito, pur nell'ambito di questa concezione retributiva in chiave cristiana, di tentare un bilanciamento tra retribuzione e prevenzione sociale, mostrandone la non necessaria inconciliabilità : 'Ma se il diritto deve essere giusto ed utile insieme, ne deriva che- già da questo punto di vista- sia l'una che l'altra concezione risultano fallaci, perché colgono solo una parte di verità: il quia peccatur e il ne peccetur non rappresentano due esigenze opposte inconciliabili, ma l'una l'essenza e l'altra il fine della sanzione punitiva' (op. cit., pag.598).
Nuvolone, Il problema dell'unificazione delle pene e delle misure di sicurezza ( Riv. it. dir. pen., 1954, I, 126); ID., La prevenzione nella teoria generale del diritto penale ( Riv. it. dir. pen., 1956, 13 e segg.); ID., Le sanzioni criminali nel pensiero di E. Ferri e nel momento storico attuale (id.,1957, 3).
Fiandaca, op. ult. cit. Gli atti del convegno sono raccolti nel volume collettivo AA.VV., Problema della rieducazione.
Bettiol, Il mito della rieducazione in AA.VV., Problema della rieducazione del condannato, Atti del II Convegno di diritto penale, pag.3 e segg.. Dello stesso autore, Sulla rieducazione del condannato, in Riv. it. dir. pen., 1958, 633.
Zuccalà, Della rieducazione del condannato nell'ordinamento positivo italiano, in AA.VV., Problema della rieducazione cit.
Bettiol, Diritto penale, pag. 749. L'autore mostra di aver mutato almeno parzialmente il proprio pensiero arrivando ad una distinzione tra 'scopo' e 'fondamento' della pena.
E. Fassone, La pena detentiva in Italia dall'800 alla riforma penitenziaria, Ed. Il Mulino, Bologna 1980, pag. 98
P. Allewijn, Relazione al V Congresso delle Nazioni Unite per la prevenzione del crimine ed il trattamento dei delinquenti, 1975, pag.32
E.Fassone, La pena detentiva in Italia dall'800 alla riforma penitenziaria, pag. 99
Ricci- Salierno, op.cit., danno una visione d'insieme della realtà carceraria dei, loro, ultimi 14 anni. Potranno sembrare statistiche un po' datate, ma se si considera che a parte l'incremento della delinquenza extracomunitaria negli ultimi decenni, rimangono tuttora interessanti. Per quello che riguarda, ad esempio la provenienza geografica per circoscrizione territoriale di nascita, questi erano i dati: NORD 27,1%, CENTRO 12,3%, SUD 56,9%, ESTERO 3,7%. Quest'ultimo dato, come ho avvisato, non è più valido. Secondo statistiche più recenti rinvenute sul sito www.diritto.it/articoli/penale/andreoni.htm, Fernando Massimiliano Andreoni, Dal carcere alla comunità di recupero, dalla comunità di recupero alla società civile. Analisi di un percorso possibile, la quota che egli stesso ritiene già ampiamente superata si aggirava nel 1996 intorno al 20%.
Per ciò che attiene alla provenienza sociale si di vide la popolazione detenute in due sottocategorie: per livello d'istruzione e per attività professionale. La prima, come è immaginabile, porta a deduzioni agghiaccianti: ANALFABETI 12,2%, ISTRUZIONE MEDIA 12%, ISTRUZIONE ELEMENTARE 75%, ISTRUZIONE UNIVERSITARIA 0,8%. Per ciò che riguarda l'attivatà professionale: DISOCCUPATI 29,2%, LAVORATORI 68%, IMPRENDITORI e DIRIGENTI 2.8%. Volendo fare un confronto tra le tipologie di reato, solo alcune, tra i dati in possesso di Ricci-Salierno e i dati attuali ( almeno fino al 1996) interessanti sono queste variazioniper i REATI CONTRO LA PERSONA: si parte nel 1954 con un 36,1%, per scendere, già nel 1960 al 30,6%, arrivando nel 1996 ad un 16%. Per i REATI CONTRO IL PATRIMONIO si osserva il medesimo fenomeno: si parte da un 47,8% nel 1954, un già ridotto 44,8% nel 1960, fino ad un 28,5% nel 1996. Diversa la situazione per i REATI CONTRO LA P.A. E L'ORDINE PUBBLICO che sono notevolmente aumentati: da un modesto 6% nel 1954 pressoché stabile per un decennio, si passa ad un 17,2% nel 1996 (da suddividere in 13,9% per i r. contro l'ordine pubblico e un 3,3% per quelli contro la P.A.). Nuovi e pesanti i reati connessi alla legislazione sulla droga che ricoprono oggi una grossa fetta delle cause detentive, nel 1996 ben il 17,9%. La comparazione temporale in oggetto è interessante per notare come, nonostante il mutare delle tendenze criminali, rimangono comunque stabili, o di poco modificate, quelle riguardanti l'estrazione sociale.
E. Fassone, op. cit.., pag.100. V. anche D. Matza, Come si diventa devianti, Bologna, Il Mulino, 1976; D.Melossi, Criminologia e marxismo: alle origini della questione penale nella società de ' Il Capitale, in 'La questione criminale', 1975, pag.319; M. Pavarini, Struttura sociale ed origine dell'istituzione penitenziaria, Bologna, Il Mulino, 1974; A.M. Platt, L'invenzione della delinquenza, Firenze, Guaraldi, 1976; D. Melossi- M. Pavarini, Carcere e fabbrica. Alle origini del sistema penitenziario, Bologna, Il Mulino, 1979, 2°vol.
La bibliografia di questi anni è vastissima e di varia natura. Per citare solo alcuni degli autori o associazioni che parteciparono al dibattito: A.Bozzi, Il detenuto scomodo, Milano, Feltrinelli, 1972; S. Notarnicola, L'evasione impossibile, Milano, Feltrinelli, 1972; G. Salierno, La spirale della violenza, Bari, De Donato,1969. Tra i documenti: Lotta Continua (a cura di), Liberare tutti i dannati della terra, 1972, Ci siamo presi la libertà di lottare, 1973. Tra le inchieste: G.B.Lazagna, Il carcere, Milano, Feltrinelli, 1975; G. Salierno, La repressione sessuale nelle carceri italiane, Roma Tattilo, 1973; E.Sanna, Inchiesta sulle carceri, Bari, Laterza, 1970; P.G. Valeriani, Scuola e lotta in carcere, bari, De Donato, 1975; R.Vivian, La fogna del comportamento sociale, Udine, Società Editrice Friulana, 1977.
La 'reinassance néo-classique' è frutto del Quinto Congresso delle Nazioni Unite, Ginevra, 1-12 settembre 1975, di cui si appropria in Italia C.Pedrazzi nella Relazione di sintesi al ' Quinto Congresso delle nazioni Unite per l arevenzione del crimine ed il trattamento del delinquente'.
E.Fassone, La pena detentiva in Italia dall'800 alla riforma penitenziaria, Il Mulino, 1980, cap. II, par.7
Sia dottrina ( M.Spasari, Capacità a delinquere e pena, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1978, pag.30) che giurisprudenza (Cass., 12 gennaio 1978, in Cass. pen. Mass. annot., 1978, pag. 560) tornano a identificare nella funzione retributiva la funzione essenziale della pena a cui possono accedere, solo con carattere sovrastruttrale, finalità diverse come quella rieducativa.
Di Gennaro-Bonomo-Breda, Ordinamento penitenziario e misure alternative, Milano,1987
Il fallimento della riforma è nota dolente ed ormai scontata del nostro ordinamento. In tal senso G. Certomà, Il servizio sociale penitenziario tra involuzione e progettualità, Roma, 1995; E.Fassone i Aa.Vv., Alternative alla detenzione e riforma penitenziaria, Bologna, 1982.
Bricola, Ordine e democrazia nella crisi ( a proposito delle più recenti tendenze normative in materia di tutela dell'ordine pubblico), in Aa.Vv. Referendum ordine pubblico Costituzione, Atti del primo convegno giuridico promosso dal gruppo parlamentare radicale, pag.23.
Sul punto, Padovani, Ordine e sicurezza negli istituti penitenziari: un'evasione dalla legalità, in Aa.Vv., Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, a cura di Grevi, pag. 285 e segg.; Bricola, Introduzione a Aa.Vv., Il carcere 'riformato' a cura di Bricola, pag.9 e segg.; ID., Ordine e democrazia, pag.23 e segg.
così V.Grevi, Scelte di politica penitenziaria e ideologie del trattamento nella l. 10 ottobre 1986, in Aa.Vv., L'ordinamento penitenziario dopo la riforma, Padova,1988; F.Bricola, Le misure alternative alla detenzione nel quadro di una nuova politica criminale, in Pene e misure alternative nell'attuale momento storico, Milano,1977; M. Pavarini, Fuori dalle mura del carcere: la dislocazione dell'ossessione correzionale, in Dei delitti e delle pene,1986.
G.Neppi Modona, Alternative alla detenzione e riforma penitenziaria, Milano, 1977
A.Margara, Memoria di trent'anni di galera, in AaVv., Il carcere, le voci di dentro, le voci di fuori, Il Ponte, 1995; F.C.Palazzo, La riforma penitenziaria del 1986: contenuto, scopi e prospettive di un ulteriore provvedimento di decercerizzazione, in Politica del diritto, 1988.
E' stato eliminato il presupposto negativo dell'applicazione della misura di sicurezza detentiva per il soggetto ritenuto pericoloso ex. art 203 c.p. cosicché può, con l'avvenuta modifica, essere destinatario ugualmente della misura dell'affidamento in prova. Tutto ciò in linea con le tendenze sviluppatesi negli anni seguenti alla riforma del 1975. Per alcuni spunti critici sull'argomento: A.Margara, Aspetti pratico-operativi delle misure alternative alla detenzione, in Aa.Vv., Pene e misure alternative nell'attuale momento storico, 1977, pagg. 47-91; E.Fassone, Probation e affidamento in prova, in Enc. dir., XXXV, 1986, pagg.783 e segg.
E. Fassone, Probation e affidamento in prova, op.cit.; V.Grevi, L'art.47 comma 2 dell'ordinamento penitenziario: una disposizione da rivedere, in RIDPP, 1976, pagg.577 e segg.; Giostra, Un limite non giustificato in tema di misure alternative, in Politica del diritto, 1978, pag. 435 e segg.
L'espressione è di F.C.Palazzo, La riforma penitenziaria del 1986: contenuto, scopi, e prospettive di un ulteriore provvedimento di decarcerizzazione, in Politica del diritto, 1988.
Nella riforma del 1975 le misure dell'affidamento in prova e della semilibertà potevano essere applicate solo a quei soggetti che si trovavano già in carcere, essendo quindi impossibile applicare tali istituti per evitare completamente l'esperienza detentiva. Ora con la legge Gozzini tale limite è stato eliminato.
F. Bricola, Le misure alternative alla pena nel quadro di una nuova politica criminale, in Aa.Vv., Le misure alternative nell'attuale momento storico, 1977.
I compilatori della legge non hanno tenuto in debito conto alcune decisioni della Corte Costituzionale intervenute durante i tempi per l'approvazione della stessa. Una delle materie in cui il legislatore ha dimostrato poca attenzione è stata quella dell'art.47-ter comma 9, dichiarato costituzionalmente illegittimo con sentenza 13 giugno 1997, n°269; questa norma faceva derivare in modo automatico, la sospensione della misura dalla presentazione della denuncia di evasione. Con l'art.4 della legge Simeone è stato appunto modificato l'istituto della detenzione domiciliare(di cui all'art.47-ter), mantenendo tuttavia inalterato il comma suddetto. Per maggiori approfondimenti sull'argomento, G.Catelani, Le novità della legge Simeone in tema di condanna a pena detentiva e misure alternative, Riv. Diritto penale e Processo,n°7/1998.
Secondo dati aggiornati al 30 giugno 1996 (F.M.Andreoni, Dal carcere alla comunità di recupero, dalla comunità di recupero alla società civile. Analisi di un percorso possibile, sito web relativo,1996, pag.6) i detenuti presenti in tale data era di 48.694 unità a fronte di una capienza effettiva 36.222 posti. La proporzione è di 100 detenuti da ospitare contro 77 posti disponibili. L'autore ci ricorda come il fenomeno del sovraffollamento sia abbastanza recente: infatti è dal 1983 che si trovano dati superiori alle 40.000 unità, con un calo progressivo che nel 1990 era di 26.150 presenze. Tali cifre sono, nel biennio 1993-1994, salite vertiginosamente oltre le cinquantamila unità, come conseguenza della normativa in materia di stupefacenti, la c.d. Jevolino-Vassalli.
Per maggiori rilievi critici P.Canevelli, L'analisi delle singole norme, in riv. di Diritto penale e processo, n°7/1998, pag814.
G.Catelani, Uno sguardo d'insieme: più pregi o più difetti?, in Riv. di Diritto penale e processo, N°7/1998, pag. 811.
Corte Cost. sent. 4 aprile 1990, n°215
M. Pavarini, Fuori dalle mura del carcere: la dislocazione dell'ossessione correzionale, Dei delitti e delle pene, 2/1986, pag. 264; sul tema della differenziazione, sempre M. Pavarini, 'Concentrazione' e 'diffusione' del penitenziario. La tesi di Rusche e Kirchheimer e la nuova strategia del controllo sociale in Italia, in La questione criminale, IV, 1978, 2-3, pagg. 39-61.
Per dare un fondamento a questa mia modesta teoria, riporto qui di seguito alcuni interessanti dati raccolti dall' Associazione Antigone, che verranno pubblicati a giugno dall'editore Castelvecchi di Roma. Riporto tali cifre, pubblicate sul Sole-24 ore di lunedì 15 maggio 2000, pag.5, con cui l'autore dell'articolo Antonello Cherchi, Poche risorse per il recupero, mette in luce quali siano le somme annualmente destinate alla rieducazione:' nel carcere di Napoli Secondigliano, su 75 miliardi annui di budget complessivo, alla rieducazione vengono destinati 275 milioni; a Bari, su 30 miliardi, le attività trattamentali assorbono 232 milioni; a Spoleto, su 30 miliardi, 17 milioni sono dirottati per il reinserimento; a Torino Vallette, su 80 miliardi, per le iniziative educative vengono spesi 180 milioni'.
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