Dallo statuto albertino alle "disposizioni sulla legge in generale"
Seguendo un naturale ordine d'importanza, va ricordata anzitutto la
graduale comparsa di varie specie di atti aventi forza di legge, promananti dal
potere esecutivo e tale da assumere un rango equiparabile a quello spettante
alle leggi formali. Con questo fondamento implicito, si ritenne che
l'ordinamento statuario ammettesse il ricorso ad altrettanti decreti
legislativi di prerogativa regia. Ben più notevoli furono comunque i frutti del
ricorso alla delegazione legislativa del Parlamento al Governo. Che il potere
legislativo potesse venire così delegato non era in verità previsto dallo
Statuto albertino. Nondimeno nella prassi si affermò l'idea che la flessibilità
dello Statuto albertino lasciasse spazio alle leggi formali di delegazione: con
cui si consentiva al governo, in deroga allo Statuto, l'esercizio di questa o
quella funzione legislativa delegata, fino all'estremo rappresentato dalla
deleghe dei pieni poteri in periodo di guerra. Infine, in contrasto con la
lettera dello Statuto, l'esecutivo non esitò a porre in essere decreti-legge,
fuori dagli ambiti della prerogativa regia e prescindendo da previe delegazioni
legislative. A stretto rigore, atti normativi del genere avrebbero dovuto
considerarsi extra ordinem, con la conseguenza che le autorità giudiziarie non
avrebbero dovuto dar loro applicazione. Ma l'opinione di gran lunga più
prevalente fu invece nel senso che i decreti-legge costituissero atti normativi
con forza di legge. Stando all'art. 6 dello Statuto albertino, poteva in realtà
sembrare che fossero ammissibili i soli regolamenti governativi emanati dal Re.
In realtà nessuno di quei disposti, in quanto dettati da leggi ordinarie, valse
ad impedire che altre leggi attribuissero la potestà regolamentare ad altre
autorità del potere esecutivo, quali i singoli ministri: donde i regolamenti
ministeriali, quelli prefettizi ed altri ancora, emanati senza una previa
delibera del Consiglio dei ministri e senza che fosse sentito il parere del
consiglio di Stato. Del pari, al di là dei regolamenti di esecuzione previsti
dallo Statuto, si ebbero i più vari regolamenti indipendenti, per la disciplina
della facoltà spettanti al potere esecutivo nelle materie non considerate
organicamente dalle leggi. In varie ipotesi, anzi, la dottrina
amministrativistica ragionava addirittura di regolamenti delegati, intesi come
atti normativi carenti della forza di legge ma "autorizzati" dalle leggi a
superare i limiti comunemente propri della potestà regolamentare. Ma la
cosiddetta delegazione della potestà regolamentare non dava luogo ad un tipo di
regolamento a sé stante, bensì era "sempre accessoria di una potestà
regolamentare ordinaria". I regolamenti di organizzazione potevano altresì
considerarsi "delegati" giacché l'esecutivo veniva autorizzato a servirsene
quand'anche si trattasse "di materie sino ad oggi regolate per legge". Per
completare il quadro, ragionando dalle fonti introdotte nella fase fascista
dell'ordinamento statuario, bisogna in primo luogo aggiungere un riferimento ai
contratti collettivi di lavoro. Lungo questa linea si inserirono le norme
corporative. In terzo luogo assunsero specifico rilievo le leggi
costituzionali, che in determinate materie dovevano essere approvate dopo aver
"sentito il parere del Gran consiglio".
Un primo livello veniva attribuito alle leggi in genere, senza che la
distinzione fra leggi ordinarie e leggi costituzionali rilevasse agli effetti
giudici, nonché agli "atti del governo aventi forza di legge". Sul secondo
piano si collocavano gli atti regolamentari, nell'ambito dei quali i
"regolamenti emanati dal governo" prevalevano su quelli emessi da "altre
autorità", statali e non statali. Seguivano, su di un terzo piano, le "norme
corporative", cui restava impedito di "derogare alle disposizioni imperative
delle leggi e dei regolamenti".