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TACITO - Il Matricidio




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TACITO

Il  Matricidio

Annales XIV


Della vita di Cornelio Tacito sappiamo ben poco, ed esclusivamente grazie ad alcune lettere di Plinio il Giovane. Probabilmente nacque intorno agli anni 55-57. Compì il tradizionale corso di studi destinato ai giovani che avrebbero intrapreso incarichi pubblici. La sua famiglia doveva essere agiata e ben nota, come dimostrano l'amicizia con Plinio il Giovane ed il matrimonio, nel 78, con la figlia di Giulio Agricola, uno dei militari più in vista del tempo. Probabilmente fu proprio grazie a questo che egli poté intraprendere il cursus honorum entrando così a far parte del senato romano. Fu questore forse già sotto Vespasiano, edile o tribuno della plebe sotto Domiziano e nell'88 raggiunse la pretura, diventando anche membro onorario dell'antichissimo collegio sacerdotale dei quindecemviri. Nell' 88/89 insieme alla moglie lasciò Roma per alcuni incarichi importanti in Germania o nella Gallia Belgica. Alla fine del regno di Domiziano si ritirò a vita privata, tornando al pubblico impiego nel 97/98, e fu console sotto Nerva, mentre con Traiano ebbe il proconsolato dell'Asia. Degli ultimi anni non sappiamo molto, eccetto che morì quasi sicuramente dopo il 117, all'inizio del regno di Adriano.

Cosa ci racconta il testo

Nel 59, dopo anni di tensione, Nerone decide di liberarsi della madre, troppo invadente ed ambiziosa, cosa non facile dal momento che Agrippina, figlia di Germanico e sorella di Caligola, aveva una grande influenza sulle milizie. Dunque incarica un sinistro liberto, Aniceto, che anni dopo aiuterà Nerone ad eliminare anche Ottavia, di escogitare un piano. Ma questo piano fallisce e Nerone chiama a consiglio Burro e Seneca. Sarà proprio Seneca ad escogitare il nuovo piano, che verrà questa volta attuato da Aniceto e da alcuni sicari presi dall'esercito. La narrazione, dettagliata, fosca e drammatica, riprende a modello alcuni canoni ellenistici. Sono qui riportati alcuni paragrafi ( 1,2,3,4,5) estrapolati dall'ottavo capitolo degli Annales.

Testo 1.Interim, vulgato Agrippinae pericolo, quasi casu evenisset, ut quisque acceperat, decurrere ad litus. Hi molium obiectus, hi proximas scaphas scandere; alii, quantum corpus sinebat, vadere in mare; quidam manus protendere; questibus, votis, clamore diversa rogitantium aut incerta respondentium omnis ora compleri; adfluere ingens multitudo cum luminibus, atque, ubi incolumem esse pernotuit, ut ad gratandum sese expedire, donec aspectu armati et minitantis agminis deiecti sunt.  2. Anicetus villam statione circumdat, refractaque ianua, obvios servorum abripit, donec ad fores cubicoli veniret; cui pauci adstabant, ceteris terrore inrumpentium exterritis. 3. Cubicolo modicum lumen inerat et ancillarum una, magis ac magis anxia Agrippina, quod nemo a filio ac ne Agermus quidam: aliam fore laetae rei faciem; nunc solitudinem ac repentinos strepitus et extremi mali indicia. 4. Abeunte dehinc ancilla, «Tu quoque me deseris» prolocuta, respicit Anicetum, trierarcho Herculeio et Obarito, centurione classiario, comitatum; ac, si ad visendum venisset, refotam nuntiaret, sin facinus patraturus, nihil se de filio credere: non imperatum parricidium. 5. Circumsistunt lectum percussores, et prior trierarchus fusti caput eius adflixit; iam in mortem centurioni ferrum destringenti protendens uterum, «Ventrem feri» exclamavit, multisque vulneribus confecta est.


Traduzione    1. Frattanto si era sparsa la voce del pericolo corso da Agrippina, che si credeva del tutto accidentale, e ognuno si precipitava alla spiaggia a mano a mano che apprendeva la notizia; alcuni salivano sui moli, altri sulle barche che si trovavano a portata di mano; chi si inoltrava nel mare fin dove per la sua statura riusciva a toccare il fondo, chi tendeva le braccia; tutta la spiaggia era piena di lamenti, di invocazioni, di un vocio confuso in cui si intrecciavano domande contrastanti e risposte incerte: si andava radunando una folla immensa con le torce accese, quando giunse la notizia che Agrippina era salva, e tutti allora si avviarono per andare a congratularsi con lei, ma la vista di una minacciosa schiera di armati li costrinse a disperdersi.  2. Aniceto circondò la villa con un cordone di uomini, quindi, sfondata la porta, fece trascinare via tutti i servi che gli si facevano incontro finché giunse davanti alla porta della stanza da letto: qui stava di guardia uno sparuto gruppo di domestici, perché tutti gli altri si erano dileguati atterriti dall'irruzione dei soldati. 3. Nella camera, illuminata da una luce fioca, si trovava una sola ancella, mentre Agrippina era sempre più in ansia perché non arrivava nessun messo da parte del figlio e non ritornava neppure Agermo: le cose sarebbero state ben diverse, all'intorno, se gli eventi avessero preso una piega favorevole; ora invece non vi era che solitudine, un silenzio rotto da grida improvvise e tutti gli indizi di una irrimediabile sciagura. 4. Poiché l'ancella stava per andarsene, Agrippina si volse verso di lei per dirle: «Anche tu mi abbandoni?», e allora vide Aniceto accompagnato dal trierarco Erculeio e dal centurione navale Obarito. E subito gli disse che, se era venuto per farle visita, poteva riferire a Nerone che si era ristabilita; se invece era lì per compiere un delitto, ella non poteva credere che ubbidisse a un ordine del figlio: era certa che egli non aveva comandato il matricidio. 5. I sicari circondarono il letto e il trierarca per primo colpì al capo con un bastone; quindi il centurione impugnò la spada per finirla, e allora Agrippina, protendendo il ventre, esclamò: «Colpisci qui», e spirò trafitta da più colpi.

Analisi del testo

Nel capitolo, che descrive il momento culminante del matricidio programmato da Nerone, emerge tutta la grande abilità di "tragediografo" di Tacito. Come una sorta di regista, sposta lo sguardo da spazi esterni a spazi chiusi, dal campo lungo al primo piano. In un percorso che conduce il lettore dall'anonimato della folla al dramma interiore di Agrippina, avvincendolo. L'intero brano può essere suddiviso in cinque parti: scena corale, l'irruzione del sicario nella villa di Agrippina, l'ansia e la solitudine di Agrippina, l'irruzione del sicario nella camera da letto ed il matricidio. 


Scena corale

La scena è confusa, disordinata, prevale il vociare della folla disorientata. Emerge il tema dell'ignoranza del popolo (quasi casu evenisset), escluso dai meccanismi del potere e dagli intrighi di corte. E' un popolo ridotto a massa amorfa, ingens multitudo, soggiogato dal fascino perverso del princeps lontano, magnificente. La politica è degenerata diventando ambiguo vincolo pseudoaffettivo. L'incertezza riguardo la sorte dell'imperatrice agita la folla portandola a compiere gesti irrazionali, (quidam manus protendere), in una sorta di dichiarazione di dipendenza verso i sovrani. La narrazione è ricca di ellissi, d' infiniti narrativi e ricorre spesso alla variatio del soggetto. Dalla sensazione uditiva ricreata si passa ad un riferimento alla luminosità delle torce, ridefinendo così anche ombre e contrasti chiaroscurali. E' come se l'artista seguisse dall'alto la folla, ondeggiante sia fisicamente che psicologicamente, prima dispersa (hi, hi, alii, quidam), poi compatto (adfluere infens multitudo e ad gratandum sese expedire), poi di nuovo sparpagliato (deiecti sunt con constructio ad sensum). 


Irruzione del sicari nella villa

La scena d'azione ora è la villa dell'imperatrice sul lago Lucrino, dove è stata condotta in salvo dai pescatori. Il ritmo è incalzante in quanto segue le mosse fulminee di Aniceto, dall'esterno (villam statione circumdat) alla porta di ingresso (refractaque ianua) alle porte della camera della vittima. Funzionale alla drammaticità della sequenza è l'ellissi narrativa sulla sorte dei pauci rimasti di guardia della stanza, ma che al lettore è facile immaginare.   


L'ansia e la solitudine di Agrippina

Tacito a questo punto sospende momentaneamente l'azione di Aniceto all'ingresso della stanza da letto. Introduce qui una lunga pausa, cuore del capitolo, per seguire i moti dell'anima della vittima. Prima di Aniceto è infatti il lettore ad entrare nella stanza di Agrippina. L'atmosfera è cupa e funerea, l'insistenza fonosimbolica e minacciosa dell'uso della "u", aiuta ulteriormente a creare uno sfondo drammatico. Significativo il contrasto tra il modicum lumen e i luminibus della folla nella scena iniziale, che accentua l'isolamento della donna. La tecnica qui usata pare un'anticipazione del discorso indiretto libero moderno. La prospettiva esterna si fa interne portandosi dietro gli stessi paesaggi appena descritti.( magis ac magis anxia). Agrippina sta facendo chiarezza sugli eventi accaduti e prevede ormai con gran semplicità la sua fine, è incredula. Il ritmo sintattico è affannato, interrotto e conciso, traduce lo stato d'animo della vittima: omissione del verbo (venerat), ellissi del verbum sentiendi (cogitabat). Esplicativa la frase: aliam fore laetae rei faciem che condensa in una breve oggettiva l'apodosi di un periodo ipotetico dipendente da una proposizione reggente sottintesa (la frase completa sarebbe: Agrippina cogitabat, si res laeta esset, aliam fore eius faciem).


L'irruzione del sicario nella camera da letto

Si approssima la fine del dramma. La porta finalmente si apre ed entra Aniceto. L'angoscia e la perdita di controllo della vittima la portano a sperare vanamente in una visita di piacere, nonostante l'intuizione del reale motivo della visita sia ormai palesemente il matricidio. L'ultima difesa diviene paradossalmente l'autoinganno, ed in questo, Tacito, sembra addirittura anticipare la psicoanalisi. La sintassi si complica ulteriormente. Agrippina ora non è più la donna spregiudicata, ambiziosa e avida di potere, è solo donna. O meglio è solo vittima, sola, tradita dal figlio. Suscita nel lettore un senso di pietà. Tacito qui appare umano ed indulgente nel giudicare quella donna che, precedentemente, negli altri brani, aveva definito atrox e falsa. Così la condanna si ripercuote su Nerone.


Il Matricidio

Agrippina è circondata e colpita al capo. Agrippina non perde la sua dignità, Tacito ce la presenta come un'eroina tragica, immolata ad un potere corrotto e degenerato. Le sue frasi hanno funzione prettamente teatrale. Come "tu quoque deseris", chiara ripresa dell'uccisione di Cesare da parte di Bruto. Altra frase è "ventrem feri", imperativo rivolto al sicario, un ordine dunque che fa si che si conservi l'autorità della fiera madre del princeps. E' una sorta di vendetta e di autopunizione. Una simbolica uccisione del figlio, oltre che della madre, che ha peccato in quanto ha partorito un figlio degenerato. La donna comanda dunque anche la sua morte.



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