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Motto benedettino "ora et labora" viene unanimemente considerato il miglior viatico che il lavoro manuale potesse ricevere, quand'era ancora oppresso dalla condanna biblica per il peccato originale ("Mangerai il pane con il sudore del tuo volto", Gen.3,19)
Adriano Tilgher e David Landes 1 hanno rilevato che, dopo tanta sprezzante disistima religiosa e laica per la fatica, questa sua prima valorizzazione - e quale valorizzazione, visto che accoppiò lavoro e preghiera - coincideva con una ferrea organizzazione del tempo operoso, del tempo come opera di Dio.
La svolta determinata con la Regola stabilita nell'anno 540 da Benedetto da Norcia pianificava per i monaci l'intera giornata con la determinazione dell'hora canonica, che costruiva ad un tempo sia le horas sia l'horarium. La Regola prescrive rigide e devote norme di condotta per il retto canone di vita dei monaci cenobiti, quelli cioè che vivono in monastero, militando sotto una regola e un abate, come Benedetto non manca di far notare, in polemica con gli anacoreti e i girovaghi.
Obbedienza, silenzio e umiltà sono gli strumenti per le buone opere tassativamente richiesti e, se necessario, imposti con pene corporali e perfino con la scomunica. Ciò che più colpisce, in un dispositivo di vita in base al quale i bravi monaci dovevano alzarsi in piena notte per pregare, leggere e cantare i salmi, venendo poi chiamati a turno per lavorare nell'orto, in cucina o nello scriptorium, non è insomma l'inflessibilità verso le debolezze umane, ma piuttosto l'inesorabilità nell'uso del tempo, che scorreva razionalmente, scandito 24 ore su 24, dal sonno ai pasti, i quali costituiscono un aspetto importante della Regola. Essi variano nella consistenza e nell'orario di somministrazione a seconda della stagione, del lavoro e, come vedremo, della salute del monaco.
La continenza alimentare nelle nostre regole non è oggetto di nessuna teoria. Secondo Benedetto è così evidente che il monaco debba osservare il digiuno e l'astinenza, da non aver bisogno di giustificazione. Del digiuno, come della castità, ci si limita a dire che deve essere "amato", perché l'uno e l'altra sono una componente essenziale della vita monastica. "Castigare il proprio corpo" secondo l'espressione di San Paolo2, ed "evitare le ghiottonerie, non darsi al vino e non mangiare molto", sono le poche massime che su questo tema emergono nella Regola benedettina.
Benedetto, come si vedrà nel terzo capitolo, fissò una triplice norma sull'alimentazione: misura del mangiare, misura del bere, orario dei pasti. I tre capitoli della Regola che trattano questi punti sono essenzialmente pratici. Soltanto alcune annotazioni appena accennate, lasciano intravedere il senso che Benedetto attribuisce a queste osservanze.
Questo laconismo e questa carenza si fanno sentire tanto più oggi in quanto il significato delle restrizioni alimentari, e perfino la loro pratica, ci è sempre meno familiare. Da un quarto di secolo a questa parte, la Chiesa ha soppresso quasi ogni traccia dei digiuni e delle astinenze tradizionalmente imposti ai fedeli. Quanto ai monaci, le loro osservanze, già molto attenuate, ora tendono ad assottigliarsi e a scomparire. Benedetto invece attribuiva un gran valore al digiuno che talvolta poteva essere mitigato da un semplice slittamento del pranzo al pomeriggio o in serata. Le razioni di cibo e di bevanda si prestano ad osservazioni particolareggiate; nell'insieme si può dire che il monachesimo benedettino dimostra comprensione e riguardo per i deboli e per i bambini. Questi ed altri precetti sono trattati in questo lavoro che è incentrato sull'alimentazione benedettina tra dottrina e spiritualità.YT
I.1 Il monachesimo in Oriente.
I.2 San Basilio.
I.3 Il monachesimo in Occidente.
I.4 Il monachesimo nei secoli V e VI.
I.5 Le Regole e i principi comuni. Ogni monastero aveva norme proprie e ogni abate fondatore abitualmente dava ai monaci una propria regola.
Sebbene gran parte di queste regole non ci siano pervenute, è possibile evidenziare gli orientamenti di fondo di quelle note. Lo studio delle regole antiche porta a fissare alcune nozioni fondamentali. Innanzitutto tutte le regole primitive dipendevano da archetipi. Si può dire che ogni regolamento era ispirato ad un tipo di monachesimo chiuso, basato sulla fuga mundi e sull'isolamento oppure ad uno stile di vita più aperto, che comportava rapporti con la società. Inoltre si può affermare che le prime esperienze monastiche occidentali, sotto il profilo organizzativo, si attennero soprattutto ad un regime cenobitico, anche se alcune adottarono forme miste, cioè semi - eremitiche e semi - cenobitiche 27.
Il primo monachesimo si configurò, in genere, come un tipo ideale di vita che veniva proposto ai laici; il monaco non era clericus e non entrava a far parte dell'organismo gerarchico che era proprio del clero, anche se, molto spesso, gli abati erano dei sacerdoti 28. I primi regolamenti davano limitata importanza alle istituzioni e allo svolgimento preciso della vita monastica oppure quando ne facevano menzione ne trattavano a margine di altri argomenti (preghiere, virtù). Le regole definivano le virtù monastiche essenziali, attraverso le quali, si attua l'ascesi del monaco. Esse erano: l'umiltà, il dominio del proprio corpo e l'abnegazione di se stessi, la carità. Infine i regolamenti consideravano la preghiera non soltanto un mezzo per essere in comunicazione con Dio, ma anche un metodo di perfezionamento interiore .
I.6 La Regola del Maestro.
I.7 Le grandi regole.
Capitolo II QUESTIONI SULLA REGOLA DI SAN BENEDETTO.
II.1 Il contenuto della Regola.
II.2 Il monastero e i suoi abitanti.
II.3 Vita quotidiana del monaco.
Capitolo III LA REGOLA E I SUOI PRECETTI ALIMENTARI.
III.1 Il regime alimentare nella Regola di San Benedetto. I padri del monachesimo antico diedero grande importanza all'alimentazione: essa serviva come palestra per esercitarsi nella mortificazione e nella penitenza cosicché i monaci compresero ben presto che una alimentazione controllata aveva un ruolo importante per il loro perfezionamento spirituale. Cassiano, ad esempio, impone alcune norme ben precise; in un capitolo delle Istitutiones chiarisce quali devono essere le caratteristiche dei pasti di un monaco: l'alimentazione deve mortificare gli ardori della concupiscenza, potersi preparare facilmente ed essere la meno costosa 65. In breve il regime alimentare dei monaci per Cassiano avrebbe dovuto avere tre obiettivi: dominare l'ingordigia e, indirettamente, la lussuria; essere coerente con la povertà che si è professata e infine favorire l'orazione e in generale tutte le attività di preghiera del monaco.
La Regola di San Benedetto contiene abbastanza elementi per capire l'importanza che egli dava ad una alimentazione adatta per i monaci.
Lo scopo è quello dell'organizzazione della vita cenobitica, della preoccupazione per l'equilibrio alimentare e la volontà di controllare attraverso l'alimentazione la vita spirituale dei monaci e aiutarli a raggiungere la perfezione della loro dedizione a Dio. Esiste anche un altro aspetto, quasi simbolico: staccarsi, anche alla mensa, dalle abitudini dei laici, distinguersi da questi per la moderazione e la rinuncia. Occorre infatti tener presente che un buon numero di monaci proveniva dall'aristocrazia fondiaria che considerava l'abbondanza di cibo come uno status simbol e che quasi tutti i monasteri erano ricchi di terra e di campi, sicché l'alimentazione dei cenobiti avrebbe potuto essere varia e abbondante come quella dei loro parenti laici. È quindi significativo che l'imposizione di una mensa parca possa indicare una scelta decisiva di vita, che imponeva sacrifici e rinunce.
Il capitolo trentacinquesimo tratta dei settimanari di cucina, cui segue il capitolo sul lettore di mensa, il quale prende servizio la domenica con un rito liturgico sobrio che si svolge in chiesa dopo la Messa, in cui si chiede di vincere lo spirito di superbia e di vanagloria. Essere scelto per la lettura pubblica era, soprattutto a quei tempi, di pochi, in quanto non potevano farlo tutti, ma solo chi era in grado di farlo in maniera degna: Benedetto lo dice espressamente alla fine del capitolo trentottesimo e anche altrove (RB. 47,3) San Benedetto dedicò il capitolo trentaseiesimo agli infermi e il capitolo trentasettesimo ai vecchi e ai fanciulli, cioè a coloro che potevano fare qualche eccezione alla Regola. Questi, per la debolezza insita nella loro stessa età, sono da avvicinarsi molto ai malati. San Benedetto ricorda, nel capitolo trentasettesimo, un principio generale, cioè la naturale tendenza dell'uomo a compatire i vecchi ed i fanciulli. Però vuole che intervenga anche l'autorità della Regola perché in una comunità monastica ci può essere sempre chi vede di malanimo le eccezioni e certi temperamenti rigidi vogliono che la Regola si applichi fedelmente e scrupolosamente in tutto e a tutto. San Benedetto con la sua grande discrezione e la considerazione della soggettività, vuole che si tenga conto sempre dei più deboli e si usi "un'affettuosa condiscendenza" 66 nei loro confronti.
Della quantità e qualità dell'alimentazione si tratta nel capitolo trentanovesimo cui segue il capitolo quarantesimo che riguarda la qualità del cibo e la quantità del vino permesso.
Il controllo dell'alimentazione per i monaci, a qualsiasi ordine appartenessero, fu uno dei settori prescelti con cura quasi maniacale per esercitare l'ascetismo, forse ancora più delle preghiere nella liturgia delle ore 67. Questa predilezione pone l'accento sul fatto che i monaci erano uomini provenienti da un ambiente sociale elevato, non oppresso dalla paura della possibile scarsità di cibo, uomini che amavano la buona tavola, in quanto - in caso contrario - non avrebbero avuto bisogno di costanti e ripetuti inviti alla moderazione ad alla rinuncia dei cibi considerati più appetibili, ma anche più costosi, (quali le spezie) e - in particolare - carichi di forti valenze simboliche (come la carne rossa). I racconti agiografici tendono indubbiamente ad esagerare da un lato la frugalità monastica, mentre novelle e tradizioni laiche ne sottolineano, dall'altro lato, la golosità. Il regime alimentare proposto dalla regola benedettina era, in ogni caso, un regime sano e naturale, anche se abbastanza monotono, condizionato inoltre dalla produzione agricola stagionale e dalla diversa collocazione geografica dei monasteri e pertanto anche della conseguente diversa qualità degli ingredienti usati per la preparazione delle vivande, che avrebbero dovuto in ogni caso essere presentate sulla mensa monastica in modo quasi sempre uniforme, giorno per giorno, mese per mese, in modo così monotono da allontanare i cenobiti da ogni forma di intemperanza e golosità.
Le possibili fluttuazioni (almeno quelle previste dalle varie regole) della qualità della dieta, e quindi della variabilità dei cibi, dipendevano in genere soltanto da imprevedibili mutamenti contingenti, quali guerre, carestie, epidemie, flagelli che ovviamente non toccavano soltanto l'economia del chiostro; anzi i monaci vi potevano complessivamente far meglio fronte grazie alle derrate immagazzinate negli anni favorevoli entro i depositi del monastero. Le varie portate non dovevano quindi risvegliare l'ingordigia o la golosità dei monaci; conseguenza della ripetitività dei piatti, sempre gli stessi, secondo un breve prevedibile intervallo scandito dalla regola e dall'alternarsi delle stagioni.
Ben poco si può dire sul valore energetico delle diete monastiche che, in modo molto generale, prendendo in considerazione le regole dei singoli ordini, avrebbe dovuto consistere in un 20% di pesce, uova e formaggio, in un 18% di pane, in un 20% di vino, in un 2% di spezie (o cipolle, aglio, rafano e altri prodotti locali per insaporire i pulmentaria) e in un 40% di legumi ed ortaggi (che avevano quasi un valore mistico, essendo un metasegno di povertà ed umiliazione) o di frutta 68.
Accettati questi dati, puramente ipotetici, si potrebbe presumere che in genere i monaci potessero soffrire di deficienze di vitamine, specie della vitamina A in quanto la frequente cottura dei legumi e degli ortaggi e l'uso de pesci secchi e salati comporta una diminuzione di circa il 70% di questa preziosa vitamina. Dovevano invece maggiormente patire di eccessivi apporti proteici e di glucidi, legati al continuo consumo di legumi. Un regime alimentare di questo tipo comportava l'insorgere di molte malattie discrasiche ed una notevole incidenza di iperostosi 69.
Le speranze di vita, in genere molto avanzate, almeno rispetto ai loro contemporanei laici, erano forse dovute quindi non tanto alle consuetudini alimentari, quanto al ritmo regolare dei pasti, legato alle ore canoniche in cui si doveva strutturare la giornata per organizzare la preghiera ed il lavoro, senza lasciare tempo all'ozio, ritmo determinato dal calcolo monastico della durata delle ore, correlate al susseguirsi stagionale della luce di giorno e dell'oscurità di notte, cioè dalla prima ora canonica a compieta, sul far della sera. Infatti le ore di luce estive hanno una durata assai maggiore di quelle invernali. Siccome però la durata delle ore di luce e di quelle di oscurità sono diverse a seconda delle stagioni e della latitudine, variava, di conseguenza, anche la durata delle ore, ovverosia delle vigiliae.
La longevità dei monaci benedettini e le loro generali buone condizioni di salute possono addirittura lasciare stupiti se si dovessero tenere presenti le continue alternanze tra astensioni, divieto di consumare determinati cibi e conseguente dieta poco equilibrata delle razioni giornaliere: si può infatti affermare che nella quotidianità i monaci si saziavano di glucidi, di farinacei, di legumi secchi, ricchi in protidi, in quantità che oggi sembrano insostenibili, anche se temperati dall'apporto di vitamine e di sali minerali contenuti nelle portate di vegetali crudi, che però ovviamente erano condizionati dalle stagioni e dalle situazioni climatiche del territorio ove sorgeva il monastero.
Il regime alimentare monastico, prevalentemente vegetariano, o meglio le sue prescrizioni 70, costituiscono tuttavia anche, e forse soprattutto nei casi di palese divieto o disobbedienza, un parametro molto significativo delle pratiche alimentari della società laica, sulle quali non sempre si è informati in modo diretto, in quanto la documentazione a questo riguardo non è mai molto esplicita. Nella sua Regola Benedetto prescrive un regime alimentare semplice, ma equilibrato dal punto di vista nutritivo, capace di soddisfare le necessità energetiche dei monaci, impegnati anche in quei lavori nei campi che il Maestro aveva escluso per i suoi cenobiti.
L'abate di Montecassino dedica ben sette capitoli consecutivi, che vanno dal trentacinquesimo al quarantunesimo, alla trattazione dell'alimentazione dei suoi monaci. Il costume dietetico dei monaci (numero, qualità e quantità e orario dei pasti per giorno) è chiaramente indicato nella regola di San Benedetto, perché in essa l'alimentazione sobria e regolare fu considerata la struttura più valida per esercitare la mortificazione fisica e spirituale, in quanto evocava e realizzava già sulla terra, in quantum fieri potest, la Gerusalemme celeste nella quale non ci sarebbe stato bisogno di nutrirsi 71. Inoltre, su un piano strettamente ideologico e pragmatico, la scelta dell'uomo di chiesa e in particolare del monaco significava già di per sé il rifiuto del mondo e dei suoi piaceri, sicché i modelli alimentari vennero plasmati sulla rinuncia totale alle logiche del potere sull'archetipo della povertà e frugalità contadina dell'alto medioevo. Sul piano della mensa questa lezione di voluta rinuncia si tradusse quindi nel rifiuto della carne e delle spezie e dei conviti costituiti da molteplici portate, usuali nei ceti signorili; si attuò invece nella scelta della parca temperanza contadina, basata essenzialmente sui prodotti vegetali. La presunta continua condizione di fame e la scarsità della carne nel vitto dei rustici (che nei primi secoli del medioevo furono più un'ossessione che una realtà ) vennero sublimate nell'adozione quasi totalizzante del consumo dei legumi e nelle pratiche ascetiche di astinenza e di digiuno, sebbene tale digiuno, eccetto quello quaresimale molto più stretto benché non totale, consistesse in realtà in un unico pasto giornaliero, anche se ritardato all'ora nona o a quella del vespro per accentuare la mortificazione.
Nei giorni di digiuni l'unico pasto era dunque, di solito, consumato a metà pomeriggio, ma si presentava decisamente vario e completo, costituito non solo da prodotti vegetali, ma eventualmente anche da pesce, uova, formaggio e vino.
La rinuncia a certi cibi dalle forti valenze semiologiche (in particolare la carne rossa, come si dirà di seguito) e la frugalità estrema in determinati periodi dell'anno, attraverso l'astinenza da certi cibi ed il digiuno, tendevano ad assicurare la salute dell'anima al fine di perseguire tre obiettivi: vincere il vizio della gola e indirettamente quello della lussuria, considerato connesso al primo; essere coerenti con la propria professione di povertà e indirizzare gli animi alla preghiera ed alla meditazione, cioè rafforzare l'impegno mistico del monaco, che avrebbe potuto facilmente essere distratto nella sua spiritualità dai sollazzi materiali della mensa. Tale risultato poteva essere raggiunto soltanto con un'obbedienza assoluta con l'autocontrollo e con la perseveranza. Questi tre obiettivi tendevano ad un processo di totalizzazione che si poneva di "bonificare" fondamentalmente l'identità degli individui, costringendoli, non solo materialmente, in un sistema chiuso, in cui era facile (o si credeva facile affidandosi all'autorità dell'abate o del priore) imporre determinati modelli di comportamento e facilitarne il controllo.
III.2 Il sistema settimanale.
III.3 La funzione del lettore a mensa.
III.4 La refezione dei monaci nella Regola di San Benedetto: la misura del cibo.
III.5 Il divieto alla carne rossa.
III.6 La misura del bere.
"Ciascuno ha da Dio un suo dono, l'uno in un modo, l'altro in un altro; e quindi la misura del nutrimento per gli altri si stabilisce da noi con una certa scrupolosità: tuttavia tenendo conto della impotenza dei meno validi crediamo che una emina di vino al giorno basti per ciascuno". Così si legge nel quarantesimo capitolo della Regola. E' importante il formale riconoscimento della differenza dei corpi umani, delle anime, delle grazie che sono in noi. "Ciascuno ha da Dio il suo dono particolare; questo per l'uno, quello per l'altro" è scritto anche nella prima lettera ai Corinzi (capitolo 7,7). In ragione di queste varietà individuali San Benedetto confessa che non indica senza qualche inquietudine e senza un po' di timidezza, la regola per il vitto altrui. Non si tratta di determinare una misura assolutamente invariabile e rigida e non bisogna nemmeno prendere se stessi come modello per tutti. Benedetto bada alla debolezza dei piccoli e alle loro forze fisiche e, in vista di tutti costoro, ritiene che un'emina di vino al giorno basterà ad ogni religioso. L'emina romana equivale press'a poco a un quarto di litro 90.
Benedetto scrive anche: "Quelli per cui Dio dona di tollerare l'astinenza, sappiano che ne avranno particolare mercede. Che se le esigenze del clima ho la fatica, o il calore dell'estate richiedessero una misura maggiore, ne giudichi il superiore; egli però stia attento che non sottentri sazietà od ebbrezza" 91.
Dopo aver dato una media ragionevole, la Regola, preoccupata insieme dello spirito di mortificazione, dell'obbedienza, della condiscendenza, prevede i casi principali che possono Presentarsi. Un monaco che pensa di potersi privare del vino in tutto od in parte potrà così chiedere all'abate il permesso della rinuncia ottenendo il doppio merito della generosità e della sottomissione.
Così come succede che l'emina è di troppo, può accadere che sia troppo poco per la necessità del luogo, il lavoro, l'arsura dell'estate. In questo caso spetta all'abate decidere un supplemento sorvegliando affinché non si giunga insensibilmente all'ubriachezza o ad una sazietà che l'ubriachezza si avvicina. Benedetto sembra ricordare con rammarico l'eroismo dei Padri d'Oriente, infatti scrive: "Veramente leggiamo che il vino non è proprio per i monaci, ma poiché ai nostri tempi non si riesce a persuaderli, badiamo almeno a questo, di non bere fino ad esserne sazi, ma di usare del vino con maggiore parsimonia, poiché il vino fa apostatare anche i saggi" e prosegue: "Dove invece le condizioni locali non permettono che neppure la quantità indicata si possa procurare, ma molto meno, o anche nulla affatto, i monaci che vi abitano benedicano Iddio, e non mormorino: e questo soprattutto raccomandiamo, che siano alieni dal mormorare" 92. Benedetto pensa dunque anche alla circostanza in cui l'emina di vino debba ridursi o non si possa proprio avere perché il monastero è povero, il paese no ha vigne. In questo caso i monaci dovranno benedire Dio, dal quale viene la privazione e affronteranno in pace tale strettezza.
III.7 Le ore dei pasti.
III.8 La mensa dell'abate.Conclusione
Come molti altri campi di osservazione, già studiati da secoli, anche una ricerca sull'alimentazione 97 degli ordini monastici può certamente rendersi utile per comprendere i contenuti peculiari che contraddistinguono le esperienze cenobiali.
Si può infatti affermare che conoscere meglio un ordine monastico dipende anche dalla comprensione che noi possediamo delle sue regole alimentari, che si possono ricavare dalle norme alimentari contenute nelle diverse regole in quanto queste costituiscono una chiave particolare per accedere ad un mondo che non ci è familiare.
Lo zoccolo duro di tutte le regole monastiche è l'uso del digiuno e l'astinenza dalla carne come, strumento - ovviamente insieme ad altri più spirituali - per avvicinare a Dio, rafforzare la fede, tenersi lontano dalle tentazioni carnali.
L'astinenza (dal latino abs - teneo, tengo lontano, evito) è un precetto di natura penitenziale. La religione cristiana (e quindi le regole monastiche) rifiutarono gli interdetti musulmani e ebraici. Il Cristianesimo diede sin dalle origini una grande importanza ai primi cinque libri dell'Antico Testamento, Torah in ebraico, Pentateuco in greco. Nel I di questi libri, Genesi, ci sono due passi molto importanti, in Genesi (1,29) Dio dice "Ecco, io vi ho dato tutta la vegetazione che fa seme sulla superficie dell'intera terra e ogni albero sul quale è il frutto d'un albero che fa seme. Vi serva di cibo".Pare evidente l'invito di Dio a limitare il consumo alle sole erbe e frutta, ribadito ancora in Genesi - 2,9-16 98 e in Genesi 3,2-18 .
Il digiuno, cioè l'astinenza totale o parziale dal cibo (Benedetto obbligherà i suoi monaci a fare un unico pasto nella giornata) è un ulteriore e più pesante atto di penitenza e di mortificazione 100, le cui giornate furono scelte a ragionevole motivo: il quarto e il sesto giorno della settimana (mercoledì, giorno del tradimento di Giuda e venerdì), mentre venne proibito il giovedì in ricordo dell'Ultima Cena. La rinuncia al cibo venne dunque considerata dalle regole monastiche un mezzo attraverso il quale riuscire a raggiungere uno scopo spirituale, anche se il valore penitenziale del digiuno rimase ovviamente intatto.
Successivamente, dopo la caduta di Adamo ed Eva, il fratricidio di Caino e il diluvio universale sembra terminare quel mondo in cui gli uomini erano vegetariani e così si legge nella Genesi nel passo 1-30: "E ad ogni bestia selvaggia della terra e a ogni creatura volatile dei cieli e a ogni cosa che si muove sopra la terra in cui è vita come un'anima ha dato tutta la verde vegetazione per cibo", infatti nella nuova alleanza che Dio siglò con Noè, è presente un chiaro riferimento al nuovo ordine alimentare che regolerà il rapporto uomo - animali: "Ogni animale che si muove ed è in vita vi serva di cibo. Come nel caso della verde vegetazione, vi do in effetti tutto questo. Solo non dovete mangiare la carne con la sua anima, con il suo sangue" 101.
Più che un gesto di indulgenza, il permesso di mangiare carne sembra un allontanamento da quella condizione privilegiata in cui Adamo ed Eva vivevano nel Paradiso Terrestre. Forse proprio per questo motivo nell'aspirazione a un'ascesi completa, a un rinnovamento totale, il monaco non doveva toccare carne. Nella tradizione benedettina e del monachesimo medievale si esclude la carne dei quadrupedi più simili all'uomo e si consuma la carne dei pesci e dei volatili, perché ritenuti lontani dalla vita dell'uomo e - secondo Rabano Mauro - creati da Dio in momenti diversi rispetto agli altri animali.
Vi è, come si vede, un motivo psicologico alla base del rifiuto della carne, che è più forte delle motivazioni ideologiche e culturali: c'è minor disagio a mangiare animali lontani dall'uomo, anche se il Cristianesimo ha affermato la differenza tra uomo e animale: l'uomo è al centro dell'universo e gli animali sono stati creati per aiutarlo nel lavoro o per nutrirlo. Ciò nonostante, a livello psicologico ed emotivo, questa distinzione non è stata compiutamente assimilata. E' il disagio del cannibalismo - sostiene Massimo Montanari 102 è il tabù dell'antropofagia che spinge i cristiani ad astenersi dalle carni.
Il monachesimo non si limitò a portare alle più estreme conseguenze il rifiuto del cibo (o di certi cibi), concedendo generalmente solo il consumo di acqua, pane, degli ortaggi coltivati o spontanei, dei legumi e della frutta, ma - seppure velatamente- giunse a concludere che chi mangia con piacere, riversa sul cibo la sua anima, in modo tale che questo diventa condimento a quel che mangia, come affermò Bernardo da Chiaravalle (1091-1159) nelle sue "Meditationes pissime ad humanae conditionis cognitionem". Tuttavia nella Regola benedettina, come si è rilevato, il digiuno viene prescritto senza estremismo, anche perché tutta la Regola dispone la vita del monaco in modo equilibrato e moderato: mancano gli sforzi disumani degli asceti orientali, mentre trova spazio la sensibilità di adattare le rinunce alle condizioni climatiche a ai lavori nei campi che segnavano la vita del monaco.
Compaiono così sulla mensa più portate e il vino, senza per questo ridurre i tempi classici del digiuno, né concedere a tutti il consumo della carne.
La Regola di San Benedetto è quindi pensata da un uomo rivolta ad altri uomini di cui ben conosce la natura, le debolezze, le necessità. E' destinata alla gente comune che vive una vita qualunque, non è scritta per mistici o eremiti; essa venne scritta per fornire un modello di crescita spirituale all'uomo medio intenzionato a vivere un'esistenza che andasse oltre la superficialità o l'indifferenza. E' scritta per quanti hanno una profonda sensibilità e un serio interesse spirituale e non cercano di mettersi in cammino per fuggire dal proprio mondo, ma per infondere la visione di Dio nelle loro scelte etiche.ADRIANA
GLI INIZI DEL MONACHESIMO: DALL'EREMITISMO AL CENOBITISMO. I.1 Il monachesimo in Oriente.I.2 San Basilio.
I.3 Il monachesimo in Occidente.
I.4 Il monachesimo nei secoli V e VI.
I.5 Le Regole e i principi comuni.
Ogni monastero aveva norme proprie e ogni abate fondatore abitualmente dava ai monaci una propria regola.
Sebbene gran parte di queste regole non ci siano pervenute, è possibile evidenziare gli orientamenti di fondo di quelle note. Lo studio delle regole antiche porta a fissare alcune nozioni fondamentali. Innanzitutto tutte le regole primitive dipendevano da archetipi. Si può dire che ogni regolamento era ispirato ad un tipo di monachesimo chiuso, basato sulla fuga mundi e sull'isolamento oppure ad uno stile di vita più aperto, che comportava rapporti con la società. Inoltre si può affermare che le prime esperienze monastiche occidentali, sotto il profilo organizzativo, si attennero soprattutto ad un regime cenobitico, anche se alcune adottarono forme miste, cioè semi - eremitiche e semi - cenobitiche 27.
Il primo monachesimo si configurò, in genere, come un tipo ideale di vita che veniva proposto ai laici; il monaco non era clericus e non entrava a far parte dell'organismo gerarchico che era proprio del clero, anche se, molto spesso, gli abati erano dei sacerdoti 28. I primi regolamenti davano limitata importanza alle istituzioni e allo svolgimento preciso della vita monastica oppure quando ne facevano menzione ne trattavano a margine di altri argomenti (preghiere, virtù). Le regole definivano le virtù monastiche essenziali, attraverso le quali, si attua l'ascesi del monaco. Esse erano: l'umiltà, il dominio del proprio corpo e l'abnegazione di se stessi, la carità. Infine i regolamenti consideravano la preghiera non soltanto un mezzo per essere in comunicazione con Dio, ma anche un metodo di perfezionamento interiore .
I.6 La Regola del Maestro.
I.7 Le grandi regole.
Capitolo II
QUESTIONI SULLA REGOLA DI SAN BENEDETTO.
II.1 Il contenuto della Regola.
II.2 Il monastero e i suoi abitanti.
II.3 Vita quotidiana del monaco.
Capitolo III
I.2 Il sistema settimanale.
III.3 La funzione del lettore a mensa.
III.4 La refezione dei monaci nella Regola di San Benedetto: la misura del cibo.
III.5 Il divieto alla carne rossa.
III.6 La misura del bere.
"Ciascuno ha da Dio un suo dono, l'uno in un modo, l'altro in un altro; e quindi la misura del nutrimento per gli altri si stabilisce da noi con una certa scrupolosità: tuttavia tenendo conto della impotenza dei meno validi crediamo che una emina di vino al giorno basti per ciascuno". Così si legge nel quarantesimo capitolo della Regola. E' importante il formale riconoscimento della differenza dei corpi umani, delle anime, delle grazie che sono in noi. "Ciascuno ha da Dio il suo dono particolare; questo per l'uno, quello per l'altro" è scritto anche nella prima lettera ai Corinzi (capitolo 7,7). In ragione di queste varietà individuali San Benedetto confessa che non indica senza qualche inquietudine e senza un po' di timidezza, la regola per il vitto altrui. Non si tratta di determinare una misura assolutamente invariabile e rigida e non bisogna nemmeno prendere se stessi come modello per tutti. Benedetto bada alla debolezza dei piccoli e alle loro forze fisiche e, in vista di tutti costoro, ritiene che un'emina di vino al giorno basterà ad ogni religioso. L'emina romana equivale press'a poco a un quarto di litro 90.
Benedetto scrive anche: "Quelli per cui Dio dona di tollerare l'astinenza, sappiano che ne avranno particolare mercede. Che se le esigenze del clima ho la fatica, o il calore dell'estate richiedessero una misura maggiore, ne giudichi il superiore; egli però stia attento che non sottentri sazietà od ebbrezza" 91.
Dopo aver dato una media ragionevole, la Regola, preoccupata insieme dello spirito di mortificazione, dell'obbedienza, della condiscendenza, prevede i casi principali che possono presentarsi. Un monaco che pensa di potersi privare del vino in tutto od in parte potrà così chiedere all'abate il permesso della rinuncia ottenendo il doppio merito della generosità e della sottomissione.
Così come succede che l'emina è di troppo, può accadere che sia troppo poco per la necessità del luogo, il lavoro, l'arsura dell'estate. In questo caso spetta all'abate decidere un supplemento sorvegliando affinché non si giunga insensibilmente all'ubriachezza o ad una sazietà che l'ubriachezza si avvicina. Benedetto sembra ricordare con rammarico l'eroismo dei Padri d'Oriente, infatti scrive: "Veramente leggiamo che il vino non è proprio per i monaci, ma poiché ai nostri tempi non si riesce a persuaderli, badiamo almeno a questo, di non bere fino ad esserne sazi, ma di usare del vino con maggiore parsimonia, poiché il vino fa apostatare anche i saggi" e prosegue: "Dove invece le condizioni locali non permettono che neppure la quantità indicata si possa procurare, ma molto meno, o anche nulla affatto, i monaci che vi abitano benedicano Iddio, e non mormorino: e questo soprattutto raccomandiamo, che siano alieni dal mormorare" 92. Benedetto pensa dunque anche alla circostanza in cui l'emina di vino debba ridursi o non si possa proprio avere perché il monastero è povero, il paese no ha vigne. In questo caso i monaci dovranno benedire Dio, dal quale viene la privazione e affronteranno in pace tale strettezza.
G. Penco, Storia del monachesimo in Italia dalle origini alla fine del Medioevo, Roma 1961, pp. 75 - 84.
D'Haenens, La quotidienneté monastique au Moyen Age Paris, 1984, pp. 31 - 42; G. Zimmermann, Ordensleben und Lebensstandard. Die "cura corporis" in dem Ordensvorschriften des abendslandischen Hochmittelalters, Müsters 1973.
A Sèguy, Une sociologie des sociétés imaginées: monachisme et utopie, Paris 1981, pp. 328 - 355.
M. Montanari, L'alimentazione contadina nell'alto medioevo,Napoli 1976, pp. 28 - 29.
A. De Vogüé, La Règle du Maitre, cit., p. 48.
P. Lugano, San Benedetto, Vita e Regola, Roma 1929 pp. 97 - 104.
G. Turbessi, La Regola di San Benedetto nel contesto delle antiche regole monastiche, Roma 1972, pp. 57 - 95.
M. Montanari, La fame e l'abbondanza. Storia dell'alimentazione in Europa, Bari 1993, pp. 35 - 37.
La Regola di San Benedetto cit., capitolo XL.
"Così Dio fece crescere dalla terra ogni albero desiderabile a vedersi e buono da cibo e anche l'albero della vita nel mezzo del giardino e l'albero della conoscenza del bene e del male" e ancora: "E Dio diede all'uomo anche questo comando: d'ogni albero del giardino puoi mangiare a sazietà".
"A ciò la donna disse al serpente: del frutto degli alberi del giardino possiamo mangiare" e ancora: "Ed essa ti produrrà spine e triboli, e dovrai mangiare la vegetazione del campo".
M. Montanari, La fame e l'abbondanza. Storia dell'alimentazione in Europa, Bari 1993, pp. 35 - 37.
La Regola di San Benedetto cit., capitolo XL.
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