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Regime fascista italiano
Sistema politico e periodo della storia d'Italia dominato dall'ideologia fascista e dal regime totalitario di Benito Mussolini; durò dal 28 ottobre 1922, data della marcia su Roma e della nomina di Mussolini a capo del governo, al 25 luglio 1943 quando, in seguito all'ordine del giorno di sostanziale sfiducia votato dal Gran consiglio del fascismo, il duce fu esautorato dai suoi gerarchi e dal re dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia.
Le caratteristiche sostanziali che contraddistinsero il regime fascista furono: liquidazione dello stato liberale e delle sue istituzioni; negazione del pluralismo democratico dei partiti e conseguente repressione violenta delle opposizioni; progressiva organizzazione corporativa dei rapporti economici e sociali; irreggimentazione dei cittadini per categorie sociali, di sesso e di età; dirigismo statale nell'economia; organizzazione gerarchica dell'amministrazione pubblica; nazionalismo (connotato, dopo l'avvicinamento alla Germania hitleriana, in senso razzistico) e pretesa di svolgere una politica estera di potenza. Tratto saliente del fascismo fu pure l'allargamento della sfera del consenso a vasti settori della popolazione, attraverso un gigantesco apparato di propaganda e la repressione violenta di tutte le voci di dissenso. Al fine di accrescere il consenso fu fatto ricorso a una serie di provvedimenti di varia natura: furono promosse le nuove forme di comunicazione di massa (in primo luogo la radio) e fu favorita l'assimilazione della cultura a cultura di regime, e, per ottenere l'adesione dei cattolici, fu stipulato un concordato fra lo Stato italiano e la Santa Sede. Restò invece solo un aspetto di facciata l'ammodernamento e il rafforzamento dell'apparato militare, la cui esaltazione propagandistica da parte del regime non resse alla prova dei fatti. Il regime fascista inoltre, a parere di alcuni storici, diede luogo a un totalitarismo imperfetto, nella misura in cui dovette scendere a compromessi con le forze tradizionali della società italiana, quali la Chiesa, l'esercito e la monarchia.
I PRIMI GOVERNI MUSSOLINI (1922-1924)
La prima fase del fascismo al potere fu un periodo di trapasso, in cui non furono ancora soppresse le istituzioni ereditate dallo stato liberale, a cominciare dallo Statuto albertino; vennero tuttavia piegate da Mussolini (a capo di un governo di coalizione che comprendeva fascisti, liberali di varie correnti, nazionalisti e popolari) a interventi finalizzati alla creazione di un regime autoritario e totalitario. Fra questi interventi occorre ricordare l'istituzione della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, che di fatto inquadrava le forze paramilitari fasciste (vedi Camicie Nere); la nuova legge elettorale del 1923 (detta "legge Acerbo"), che attribuiva alla lista di maggioranza relativa i due terzi dei seggi alla Camera, e inoltre la repressione delle forze d'opposizione e del movimento sindacale. Proprio la fine di ogni forma palese di conflittualità sociale, grazie all'intimidazione degli oppositori, garantì al governo la simpatia di gran parte della pubblica opinione, stanca o spaventata per le continue turbolenze sociali del triennio seguito alla fine della prima guerra mondiale e convinta che la sostanza autoritaria e poliziesca della politica fascista fosse soltanto transitoria. A favorire il consenso contribuirono l'istituzione di organi per l'assistenza dei lavoratori, delle donne e dell'infanzia, e anche alcuni successi nella politica estera, quali l'azione di forza dell'Italia contro la Grecia nel 1923 (occupazione di Corfù) e l'accordo italo-iugoslavo del 1924, che sancì il passaggio della città di Fiume sotto la sovranità italiana.
IL REGIME TOTALITARIO
L'esito delle elezioni politiche del 1924, svoltesi in un clima di intimidazione nei confronti delle opposizioni, fu duramente contestato dal deputato socialista-riformista Giacomo Matteotti, che in un discorso al Parlamento denunciò le violenze e i brogli commessi dai fascisti: pochi giorni dopo fu trovato ucciso. Ne seguì una grave crisi, ma nonostante il disorientamento iniziale di ampi settori della popolazione che avevano sostenuto il fascismo, Mussolini riuscì alla fine a rafforzare le sue posizioni, anche per l'appoggio ricevuto dal sovrano. Le opposizioni (formate dai liberali di Giovanni Amendola, dai popolari di Alcide de Gasperi, dai socialisti, dai comunisti, dai repubblicani) avevano abbandonato i lavori parlamentari, dando luogo alla cosiddetta Secessione dell'Aventino: ma la loro protesta non ebbe conseguenze, sia perché restava affidata alla speranza di un ripensamento da parte del re, sia perché continuavano a svolgere un ruolo determinante le divisioni soprattutto tra comunisti, socialisti e popolari. Con il discorso del 3 gennaio 1925 il duce si assunse la piena responsabilità delle illegalità fasciste ed esautorò il Parlamento.
La repressione del dissenso
Con le leggi eccezionali del 1925-26 (dette "leggi fascistissime") fu realizzato lo stato totalitario: furono sciolti tutti i partiti, a eccezione naturalmente di quello fascista, e furono dichiarati decaduti dal mandato parlamentare i deputati dell'opposizione; furono soppresse tutte le pubblicazioni periodiche contrarie al fascismo; venne vietato lo sciopero e furono messi al bando i sindacati non fascisti; fu approvata una nuova legge elettorale che prevedeva una lista unica, governativa; venne introdotta la pena di morte e istituito il Tribunale speciale per la difesa dello stato, incaricato di reprimere ogni forma di dissenso. Molti esponenti dell'antifascismo emigrarono all'estero, in particolare a Parigi. Migliaia di oppositori, in maggioranza socialisti e comunisti, subirono pesanti condanne al carcere e al confino per reati di opinione o per attività antigovernative.
Nella prima fase (dal 1922 al 1924) la politica economica del fascismo fu favorita da un ciclo di espansione economica e si caratterizzò, nell'azione del ministro delle finanze Alberto de Stefani, per una serie di provvedimenti ispirati ai principi del liberismo economico. Dopo la crisi monetaria del 1925-26 prevalse invece una linea di politica economica ispirata a un interventismo statalista. Misure di questo tipo furono la rivalutazione della lira (fissata a 'quota 90' rispetto alla sterlina) e la 'battaglia del grano', volta a estendere l'area seminativa e a introdurre un forte protezionismo doganale.
La politica interna
Con i Patti lateranensi nel 1929 fu chiuso il conflitto tra Stato italiano e Chiesa cattolica: il Vaticano veniva riconosciuto come stato indipendente e il cattolicesimo veniva dichiarato religione ufficiale. Nel paese, fatta eccezione per una ristretta minoranza di anticlericali, il successo di questa iniziativa diplomatica fu immenso. Al regime fascista veniva assicurato il sostegno della Santa Sede e del clero, anche se non mancarono negli anni momenti di contrasto acuto fra la Chiesa e il fascismo, specialmente in merito alla volontà della Chiesa di mantenere in vita istituzioni educative come l'Azione cattolica.
Gli effetti della Grande Depressione del 1929 giunsero in Italia l'anno successivo. Il governo ricorse a misure di difesa della produzione nazionale, all'accentuazione del protezionismo e all'estensione dell'intervento dello stato nell'economia. Furono ridotti salari e stipendi, fu varato un piano di opere pubbliche e di risanamento dell'agricoltura (bonifica dell'Agro Pontino, ammodernamenti e interventi urbanistici nelle principali città), fu incoraggiato il processo di concentrazione delle imprese. Nel 1933 fu fondato l'IRI, finanziato dallo stato allo scopo di salvare banche e industrie di importanza strategica, che divennero proprietà pubblica. Tra il 1934 e il 1936 fu varata la riforma del sistema bancario che fu posto sotto il controllo della Banca d'Italia. A partire dal 1936, in concomitanza con la guerra di conquista dell'Etiopia, il fascismo proclamò la politica autarchica, finalizzata a ridurre il più possibile le importazioni.
Sul piano dei rapporti tra imprenditori e lavoratori vennero aboliti lo sciopero sindacale e la serrata padronale: ai classici strumenti del conflitto tra capitale e lavoro doveva subentrare un'armonia fondata sulle corporazioni, delle quali erano chiamati a far parte sia i datori di lavoro che i lavoratori delle diverse categorie e che finirono per configurarsi come veri e propri organi statali. Già delineato nel 1927, il sistema corporativo trovò però la sua attuazione giuridica solo nel 1934 e culminò nella legge del 19 gennaio 1939, che aboliva la vecchia Camera dei deputati e istituiva la Camera dei fasci e delle corporazioni. In quegli anni il fascismo diede organicità, carattere pubblico e dimensioni di massa all'assistenza sociale con una serie di misure: sistema pensionistico, settimana lavorativa di quaranta ore, sabato semifestivo, ferie, dopolavoro, assistenza alla maternità e all'infanzia, promozione dell'associazionismo culturale e sportivo nelle fabbriche e nelle scuole.
La politica culturale ufficiale tentò di orientare gli italiani in senso nazionalistico e bellicistico. La gioventù veniva irreggimentata nell'Opera Nazionale Balilla (fra gli 8 e i 18 anni) e nei Fasci giovanili (tra i 18 e i 21 anni), che nel 1937 confluirono nella Gioventù italiana del Littorio. Questi organismi erano rivolti ad attività sportive, ricreative, ma anche paramilitari, per quanto le manifestazioni militaresche si rivelassero soprattutto di facciata e di propaganda. Stampa, cinema e radio furono soggetti alla censura, con cui si impediva la circolazione di notizie che potessero danneggiare l'immagine dell'Italia fascista; venne appositamente istituito il Ministero della cultura popolare (Minculpop), il quale impartiva direttive ai giornali e alle radio, cui era obbligatorio attenersi.
La fondazione dell'impero coloniale
La politica estera fascista per oltre un decennio rimase ancorata al sistema uscito dalla conferenza di pace di Versailles del 1919 e alle alleanze della prima guerra mondiale. Ma l'ideologia nazionalista e la politica autarchica, che indirizzavano gran parte della produzione industriale verso gli armamenti, nonché la politica culturale e demografica indirizzata alla guerra, comportarono un'inevitabile svolta. Questa si verificò nel 1935 con la guerra d'Etiopia e la proclamazione dell'impero, la cui corona fu assunta da Vittorio Emanuele III (vedi Colonialismo italiano).
L'avvicinamento alla Germania nazista
L'impresa coloniale comportò il formale isolamento internazionale dell'Italia, che si legò allora alla Germania nazista. Con questa, nel 1936, intervenne nella guerra civile spagnola al fianco dei generali ribelli guidati da Francisco Franco. Quindi, aderendo nel 1937 al patto Anticomintern siglato tra Germania e Giappone, avallò le annessioni tedesche dell'Austria e della Cecoslovacchia. In questo modo l'Italia si rendeva corresponsabile della spirale di eventi che portarono alla seconda guerra mondiale.
Il progressivo avvicinamento alla Germania nazista comportò una serie di concessioni: nell'estate 1938 il regime, per compiacere Hitler, emanò le leggi 'per la difesa della razza', che colpivano soprattutto gli ebrei italiani (circa 40.000 persone), ridotti al rango di cittadini di serie B: venne proibito agli studenti ebrei di frequentare le scuole secondarie pubbliche, si stabilì l'esclusione degli ebrei dal servizio militare e dall'amministrazione pubblica, furono vietati i matrimoni misti.
LA GUERRA E IL CROLLO DEL FASCISMO
L'Italia entrò in guerra del tutto impreparata e con l'illusione che il conflitto sarebbe stato di breve durata. Prima attaccò la Francia già messa in ginocchio dalla Germania, il 10 giugno 1940, poi il 28 ottobre aggredì la Grecia (vedi Campagna di Grecia), estendendo così il teatro di guerra a tutto il Mediterraneo. Dopo gli entusiasmi iniziali, gli italiani conobbero e subirono privazioni e sconfitte su ogni fronte.
Il 10 luglio 1943 gli angloamericani sbarcarono in Sicilia; fra il 24 e il 25 luglio il Gran consiglio del fascismo, su un ordine del giorno di Dino Grandi, mise in minoranza Mussolini, che il 25 luglio venne arrestato per ordine del re, il quale sperava di disgiungere in extremis le sorti della monarchia da quelle del fascismo. Il regime crollò nell'esultanza popolare. L'8 settembre il nuovo governo del maresciallo Badoglio annunciò la firma dell'armistizio con gli Alleati e - insieme con il re, la regina e il principe Umberto, nonché qualche esponente della corte - fuggì da Roma, senza dare istruzioni alle truppe sparse su diversi fronti. Il paese, divenuto teatro di guerra, precipitava nella tragedia di una duplice occupazione e di un sanguinoso conflitto civile
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