PROGREDENDO VERSO IL
FONDO: OKU
Siamo così arrivati al terzo ed
ultimo concetto. La nozione
di oku, sta ad indicare,
secondo il dizionario Kojien, un
luogo situato profondamente
nell'interno delle cose,
lontano dalle loro aspetto esterno
( il suo contrario
è kuchi, il limite).
Da ciò segue
tutta una serie
di accezioni: quello che
è segreto,
difficile da conoscere, l'arcano o il profondo
del cuore,
ciò che avviene
alla fine o comunque dopo,
il recesso,
l'avvenire.
Ad un'altra scala il termine
designava una volta il nord
dell'isola di Honshu, paese del
fondo, terra
di confine situato alla fine degli itinerari, michi-no oku, e da cui il numero
di quella zona
come Michinoku. Nel concetto
di oku è ancora
presente l'aspetto temporale: ad esempio, nel
termine okute, il riso tardivo.
Per riassumere diciamo che oku esprime
la profondità, effettiva o
immaginaria, in quanto essa
implica una traslazione percepita come orizzontale.
L'architetto Fumihiko
Maki ha affrontato
con interesse lo studio del
concetto di oku; è a lui che
i giapponesi devono il neologismo okuità basato sul
concetto di okusei, in
cui si fondano intimamente le nozioni di progressione
e di deviazione. Maki nota
come, in effetti, i processi
architettonici associati alla nozione di
oku generino un determinato spazio: creando
il senso della
profondità, che si procurano
una sensazione di ampiezza,
proprio dove, sul piano dell'estensione bruta, lo spazio
è poco abbondante. Colpito dall'impressione di altitudine si percepiva nei vecchi quartieri di Yamanote,
a Tokyo, quando
invece questa parte a monte
non dominava i quartieri più
bassi che da
un dislivello di appena 20 o
25 cm.
La stessa logica si ritrova nella concezione della strada giapponese. Abbiamo visto
che il tracciato
è volontariamente labirintico: questa complicazione
dei percorsi ha come funzione
quella di accentuare
la sensazione del camminare,
dell'avanzare. È per
questa tessa ragione che i
sentieri che portano ai santuari
sulle colline descrivono spesso delle serpentine
superflue: quello che importa è
che la progressione
sia percepita come tale,
al fine di rinforzare la sacralità del santuario. In una strada ordinaria
la destinazione culpa divino del
percorso: i
percorsi in Giappone per certi
versi privilegiano il processo (la progressione, avanzamento)
piuttosto che la meta finale, l'arrivo in
se stesso.
Va notato inoltre
che questo indebolimento della funzione di transito
subordina ancora più la strada
al quartiere che essa serve. Sembra quasi
che chi cammina
nella strada giapponese non abbia una meta precisa, ma
faccia solo per il piacere
di essere là. Tutto vi
presta: il
gioco delle
insegne, la moltitudine dei piccoli negozi che aprono presto al mattino e
chiudono tardi la sera,
tutti i giorni della settimana, i ristoranti
di cui piatti
fanno bella mostra di sé
nelle vetrine, gli scaffali
delle librerie, dove si
può leggere sul posto anche senza
comprare. Le
serate d'estate
poi, tutto
il quartiere si ritrova in
strada per prendere il fresco, con i
bambini che giocano con i
fuochi d'artificio. Vi si vaga alla
domenica, se
non c'è niente di meglio alla
televisione... Tutto
un mondo di
attività, in
cui il semplice transito o passaggio
non è che
l'uso minore che viene fatto della
strada.
Il termine oku è dunque affermato nella vita quotidiana dei giapponesi e nel
loro modo di esprimere lo spazio, sia costruito
che naturale. Studiando le varie
forme di oku e compaiono già nei più antichi
tipi di abitazione
giapponese, si può vedere chiaramente come il concetto di
oku occupi una posizione
di particolare importanza nella definizione dei problemi legati
allo spazio e dal suo
particolare status della società giapponese. Gli stessi
principi visti fin qui si applicano, infatti,
alla scala della abitazione: della complessità
dei percorsi nasce la profondità
dello spazio.