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Pirro




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PIRRO

Nel mondo ellenistico, la grandezza di qualsiasi sovrano aveva un inevitabile termine di paragone: la figura di Alessandro Magno. "Gli altri re - scrisse uno storico antico - non imitavano Alessandro che nella porpora, nelle guardie, nel modo di piegare il collo e nel conversare ad alta voce; solo Pirro nelle armi e nelle azioni".

Molti contemporanei, in effetti, videro in lui un nuovo Alessandro Magno: anzitutto per la grandiosità dei progetti. Pirro avrebbe voluto creare un grande stato monarchico, che raccogliesse sotto il suo scettro i Greci e i "barbari" ellenizzati dell'Italia e della Sicilia. Come Alessandro, Pirro univa le competenze belliche e il talento tattico di un grande generale (uno dei più grandi dell'antichità) all'eroismo di un guerriero che si gettava nella mischia incurante della morte.

Ecco, tra i tanti esempi, che cosa si raccontava della presa della città siciliana di Erice, nel 278 a.C.:

Quando l'esercito fu pronto, rivestì l'armatura e uscì sul campo. Fece voto a Eracle di istituire gare e sacrifici in suo onore, se il dio gli dava occasione di dimostrare agli Elleni che abitavano la Sicilia lottatore degno della sua stirpe [.]. Quindi fece dare il segnale con la tromba, disperse i barbari coi proiettili, avvicinò le scale e per primo salì le mura. Molti avversari gli si pararono innanzi, e nel difendersi da essi ne spinse alcuni giù dalle mura, rovesciandoli in basso, sia all'interno che all'esterno della fortezza; tuttavia moltissimi li ammucchiò, cadaveri, davanti a sé a colpi di spada. Non subì nessuna ferita, anzi, costituì una visione spaventosa per i nemici che lo guardavano (Plutarco, "Vita di Pirro", 22, trad. di C. Carena).


Nella vita normale, a differenza di Alessandro Magno, Pirro era un uomo mite ed equilibrato, alieno dagli scatti d'ira e dalla violenza. In battaglia veniva invece trascinato da quel furore incontenibile che suscitava l'ammirazione dei suoi soldati e dei nemici. La fama del suo coraggio gli valse uno splendido soprannome: Aquila.

I Romani, come tutti i popoli, non elogiavano facilmente i nemici. Pirro fu un'eccezione. Essi esaltarono nel re dell'Epiro non solo il coraggio e il genio del condottiero ma anche la lealtà di un sovrano dall'animo nobile: tutto il racconto della guerra che li contrappose a Pirro è intessuto non solo di terribili battaglie, ma anche di episodi in cui i contendenti davano continuamente prova di comportamenti cavallereschi, basati sulla fiducia reciproca. I Greci ritrassero invece Pirro come un conquistatore volubile, che combatté ora in Grecia e in Macedonia, poi in Italia e in Sicilia, e di qui ancora in Italia e in Macedonia, quasi preso da un'incontenibile irrequietezza. In realtà, quel continuo spostamento degli scenari bellici non dipese certo dal carattere del sovrano: fu una necessità imposta dalle circostanze. Pirro e il suo esercito avevano le capacità per vincere molte battaglie, ma non per piegare la potenza romana in Italia o quella cartaginese in Sicilia e in Africa: il cuore del regno, l'Epiro, era una regione montagnosa e arretrata, che non aveva risorse umane e materiali adeguate alle ambizioni del suo sovrano. Ecco perché la vita di questo condottiero, pur costellata di numerosissime vittorie, fu segnata in profondità dal fallimento.

Persino nella morte la vicenda di Pirro ebbe qualcosa d'incompiuto. Un combattente come lui non poteva che cadere in battaglia, e così avvenne, nel 272, durante l'assedio della città di Argo. Ma per un amaro tiro della sorte, a ucciderlo sarebbe stata una vecchia donna, che lo tramortì con una tegola scagliata dal tetto della sua casa. Il re, si raccontava, perse conoscenza e fu ucciso dai nemici.

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