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L'uomo nel settecento




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L'UOMO NEL SETTECENTO



All'inizio del Settecento, il mondo occidentale visse una fase di grandi fermenti politici e culturali.

I profondi mutamenti, che avevano sconvolto la società nel corso del secolo precedente, stavano ormai giungendo a compimento.

Debellate le terribili epidemie che, fin dal Medioevo, avevano scandito la storia umana, scongiurata la fame atavica, che accompagnava i contadini durante le annate di cattivi raccolti, l'uomo del Settecento poté rivolgersi al mondo che lo circondava con spirito diverso, ottimista e pieno di speranze per il futuro.

La storia delle grandi invenzioni di questo secolo e delle tecniche che portarono alla rivoluzione industriale ottocentesca è, prima di tutto, la storia dell'ingegno umano, della sua costante applicazione nella ricerca e nel perfezionamento di strumenti, che permettessero una vita migliore.


I decenni centrali del Seicento furono segnati dalle scorrerie dei "quattro cavalieri dell'Apocalisse", ossia la fame, la guerra, la peste e la morte, che non risparmiarono nessuna regione d'Europa.

"Liberaci o Signore dalla fame, dalla peste, dalla guerra".

Era questa una preghiera frequente che gli uomini avevano, fin dal Medioevo, rivolto a Dio, invocando la sua protezione dai terribili flagelli.

Soltanto a partire dal Settecento, scomparvero lentamente gli spettri della fame e delle malattie, grazie soprattutto all'istituzione in alcuni Stati europei di presidi igienici e sanitari, il cui scopo era quello di tutelare la salute delle popolazioni, garanzia irrinunciabile di prosperità e di ricchezza per una nazione.

Uno dei processi, che maggiormente caratterizzarono l'Europa del XVIII secolo, fu la crescita demografica.

Dopo due secoli di stagnazione, durante i quali ricorrenti crisi di mortalità avevano interrotto la crescita, dal terzo decennio del Settecento la popolazione europea cominciò a aumentare progressivamente. Era questo l'inizio di un movimento inarrestabile, che perdura ancora oggi.

Non era la prima volta che si verificava un evento simile: già nel Medioevo vi era stato un aumento considerevole di natalità, dovuto all'assenza di epidemie e a buoni raccolti, che permettevano una costante alimentazione. Adesso, tuttavia, all'incremento delle nascite si aggiunse una diminuzione della mortalità, in virtù di un aumento dei presidi sanitari e dei primi controlli igienici nelle città. Furono istituiti apposti uffici di sanità, furono bloccate le circolazioni delle merci e degli uomini, mentre gli ospedali e i lazzaretti, situati in genere al di fuori delle mura cittadine, accoglievano in isolamento malati e convalescenti.

Il miglioramento delle abitudini alimentari influì certamente su questo processo di crescita demografica. Ai progressi delle tecniche agricole, i quali permettevano maggiori raccolti, si unì la forte espansione della rete dei commerci, che consentiva ai prodotti di giungere in Europa dalle colonie d'oltremare, quando le congiunzioni non erano favorevoli per l'agricoltura del continente.

L'aumento dei traffici, combinato con l'estensione delle terre coltivate, si ripercosse così sulle condizioni di vita delle popolazioni e sulla cultura demografica.

L'incremento demografico concorse ad ampliare il volume dei consumi e, prima che si mostrassero i segni della rivoluzione industriale, si registrò un enorme sviluppo del commercio mondiale.


Nel 1630, scoppiò a Milano una terribile epidemia di peste, certamente favorita dall'annata di carestia, dalle pessime condizioni igieniche della città, e dal passaggio delle truppe in marcia verso la Germania, dove si stava combattendo la guerra dei Trent'Anni, e verso Mantova, dove si svolgeva un conflitto per la successione di quel ducato. Le milizie non soltanto saccheggiavano e devastavano ogni cosa, ma diffondevano anche le malattie da una parte all'altra del continente.

Tutto il Seicento è costellato da una serie di grandi pestilenze, ma quella che colpì l'Italia settentrionale tra il 1630 ed il 1631 fu una delle più gravi. Su circa quattro milioni di abitanti, che popolavano queste regioni, si calcola che ne morissero oltre un milione; nella sola Milano, i morti furono sessanta mila.

Gli strumenti di difesa contro il morbo erano insufficienti; mancando le cure, ci si limitava a isolare gli appestati nei lazzaretti, a bloccare la circolazione e ad arruolare personale medico, religiosi che fornissero assistenza e conforto spirituale ai moribondi, portantini e un enorme numero di becchini, i famigerati monatti.

Coloro che erano ritenuti responsabili della diffusione della malattia, i così detti untori, erano condannati a terribili pene: dopo la rottura delle ossa delle gambe e della braccia sulla ruota, essi venivano arsi vivi sulle piazze.

Il ricordo di questi bui momenti riemerge dalle pagine dei Promessi sposi di Alessandro Manzoni, il quale ambientò in questo desolante scenario il suo capolavoro letterario. "I pochi guariti dalla peste - scrive il Manzoni -  erano, in mezzo al resto della popolazione, veramente come una classe privilegiata. Una gran parte dell'atra gente languiva o moriva; e quelli ch'erano stati fin allora illesi dal morbo, ne vivevano in continuo timore; andavan riservati, guardinghi, con passi misurati, con visi sospettosi, con fretta ed esitazione insieme; ché tutto poteva esser contro di loro ferita mortale."

Anche dopo la fine del contagio, gli esiti si fecero sentire a lungo nella città di Milano, dove occorsero molti mesi prima che la vita tornasse alla normalità. Solo il 2 febbraio 1632 la città venne dichiarata a suon di trombe fuori pericolo e, in ringraziamento, furono celebrate solenni processione e funzioni liturgiche.

Le continue crisi di mortalità, che scandirono l'intera storia del Seicento, dovute alle continue guerre, alle carestie e alle epidemie, generarono forme di psicosi collettiva in tutta l'Europa.

Alla ricerca di un capro espiatorio, che giustificasse l'accanimento divino su popolazioni così duramente provate, la gente credette di identificarlo nel Demonio, scatenando una vera caccia al Maligno, ritenuto il solo responsabile di tante calamità, e alle streghe, donne di ogni ceto sociale, accusate di essere agenti al servizio di Satana.

La semplice presunzione era sufficiente per l'arresto, la tortura e il processo. Un'accusata che non versava lacrime al momento di iniziare la deposizione, o che restava con lo sguardo rivolto a terra intenta a parlare tra sé era da ritenersi colpevole secondo il giudice Henri Boguet, autore dei Discours exécrable des sorciers (1603). Magistrato nella cittadina di Saint-Claude, egli fu responsabile, si dice, di novecento vittime, mandate a morte sul rogo.

La cerimonia del supplizio era pubblica, una sorta di macabro spettacolo che obbediva a una collaudata liturgia di svolgimento.

I tanti processi, le confessioni volontarie o estorte con le torture di donne nevrotiche o isteriche diffusero sempre più il terrore per il malefico. Gli storici ritengono che le persone che persero la vita nel corso del XVII secolo fossero circa un milione.

Cattolici e riformati perseguitarono le streghe con eguale accanimento. In Italia, i roghi non furono numerosissimi e riguardarono quasi esclusivamente la Repubblica di Venezia e la Valtellina.

Al rogo finirono anche molti intellettuali, che levarono la loro voce di protesta nei confronti dei processi sommari e delle terribili torture.

Solo nel Settecento le persecuzioni diminuirono, fino a cessare: ancora due donne furono uccise per stregoneria nel 1782 in Spagna e una in Svizzera, ma l'Europa andò lentamente evolvendosi verso la tolleranza nei confronti di queste persone, spesso vittime dell'isteria, autosuggestionate o in preda a sostanze stupefacenti. Più radicato fu, invece, l'accanimento in paesi come il Messico e il Perù, dove, per tutto il XIX secolo, si susseguirono condanne capitali per stregoneria.


L'ASSETTO DELLA CITTA


L'immagine di una città del Seicento a un ipotetico "viaggiatore" dei nostri giorni, di colpo proiettato nel passato, apparirebbe senza dubbio assai desolante.

Si aggiravano allora per le strade larghe masse di poveri e di accattoni, accresciute nelle annate di cattivi raccolti e di sanguinose guerre, che spopolavano la campagna, facendo riversare i superstiti all'interno delle mura cittadine, nella speranza di guadagnarsi qualcosa per vivere.

Soltanto in occasione delle feste, le città assumevano l'aspetto vivace, conferito loro dalla folla variopinta abbigliata con il vestito della domenica, desiderosa di divertirsi e di assistere agli spettacoli allestiti per lei dalle municipalità.


La divisione tra classi sociali si rispecchiava anche in attività ludiche collettive come le feste.

L'economia ancora fortemente rurale, che caratterizzava l'Europa del Sei e del Settecento, rendeva le feste contadine un momento di forte socializzazione. Momenti festivi scandivano le stagioni della vita, dalla nascita al matrimonio, alla morte, spesso celebrata con grandi banchetti funebri presenziati da decine di partecipanti.

Festività liturgiche tradizionali erano in Italia Ognissanti, Natale, Epifania, Pasqua, Corpus Domini e le due feste mariane estive del 15 agosto e dell'8 settembre.

In una società fortemente cristianizzata com'era quella italiana, ogni comunità aveva, inoltre, particolari celebrazioni legate al culto dei santi patroni, festeggiati non solo con processioni e liturgie, ma anche con giochi e balli.

Una serie di riti legati al lavoro dei campi segnava il calendario contadino, dal trapianto degli alberi a maggio, ai fuochi delle stoppie a giugno, alla vendemmia in settembre.

Fiere e sagre paesane costituivano, assieme alle feste ecclesiastiche, l'occasione per organizzare giochi collettivi, come l'albero della cuccagna e il tiro alla fune. Le fiere costituivano per i contadini l'occasione di scambiare prodotti della terra, oggetti artigianali o capi di bestiame.

Sacro e profano convivevano pure nelle feste cittadine, celebranti la municipalità o il patrono. Ai tradizionali giochi paesani si univano partite di un gioco simile all'odierno calcio e spettacoli pirotecnici, i quali non mancavano mai nelle capitali in occasione di matrimoni di regnanti, nascite di Delfini, sottoscrizioni di pace con le altre nazioni.

Come ci testimoniano numerosi dipinti dell'epoca, la vita delle grandi città era sempre animata da una folla variopinta di giocolieri, acrobati, ciarlatani, venditori ambulanti che costituivano il divertimento e lo svago dei cittadini.

Un particolare momento di aggregazione sociale era costituito dal Carnevale, la maggior festa popolare dell'anno. In questo periodo, la vita dei popolani e quella dei nobili, i quali godevano di frequenti occasioni mondane segnate da balli, concerti e rappresentazioni teatrali, si incrociava.

La stagione carnevalesca iniziava in gennaio, e diveniva sempre più animata via via che si avvicinava la Quaresima. Il luogo per la sua celebrazione era all'aperto, nel centro delle città, che si trasformava in un grande palcoscenico dove la gente ballava e cantava, vestendo le più diverse maschere.


LA FAMIGLIA



La famiglia rappresentava il nucleo essenziale della società, anche se le sue forme erano estremamente varie, a seconda delle regioni e delle classi sociali. La proporzione di famiglie multiple, formate cioè dalla coabitazione tra genitori e figli sposati con la presenza di collaterali, era molto più alta nei paesi mediterranei che non nell'Europa del Nord.

Nel diritto di famiglia, vigevano ancora le norme affermatesi a partire dal IV secolo, secondo cui erano vietati il concubinaggio, il matrimonio tra consanguinei e il divorzio.

Momento centrale della socialità familiare era il pranzo quando, attorno al desco, si riunivano le famiglie della campagna, così come quelle della città.

Il diffondersi, nel Settecento, del rito del tè e della cioccolata aumentò le occasioni conviviali per i ceti aristocratici e per quelli della media e alta borghesia.

Le donne si occupavano dei figli e di attività tipicamente muliebri come il ricamo, la musica, mentre, negli strati sociali più bassi, si diffondevano compiti riservati esclusivamente a loro, quali la cura degli animali da cortile, la coltivazione degli ortaggi e, nelle città, l'aiuto nelle piccole attività commerciali. Nel Settecento, poi, anche alle donne furono aperti i templi del sapere. Non era raro incontrare dame nei salotti letterari. Anzi, alcuni dei più famosi circoli intellettuali, che costellarono con la loro presenza il secolo dei Lumi, si riunivano proprio nelle abitazioni di intraprendenti e intelligenti signore della buona società.

Nelle famiglie facoltose, il matrimonio era un evento importante di strategia sociale ed economica. Il contratto nuziale costituiva un vero e proprio patto tra casate, il cui oggetto era la determinazione della dote delle fanciulle. Essa era rappresentata dai beni che la donna, trasferendosi dalla famiglia paterna a quella del marito, portava con sé a titolo di contributo alla spese della vita coniugale.

Presso le famiglie aristocratiche, fino da piccoli i figli avevano il destino segnato. Le decisioni erano prese dal capofamiglia, che esercitava la patria potestà al fine di mantenere il prestigio e l'unità della dinastia. Per conservare intatti i beni familiari, in genere, si sposava soltanto il primogenito, mentre gli altri figli erano obbligati al celibato o alla carriera ecclesiastica. Lo stesso avveniva per le figlie femmine.

Solo nel corso dell'Ottocento il matrimonio perse il carattere d'istituzione esclusivamente dettata dall'interesse, affermandosi il presupposto dell'amore e dell'affetto quale indispensabile prerogativa al buon successo della vita in comune dei coniugi.


SVILUPPO ECONOMICO E SCIENTIFICO


Nella seconda metà del Settecento, venne delineandosi un processo di crescita e di trasformazione economica che, pochi decenni più tardi, avrebbe cambiato il volto dei paesi dell'Europa occidentale, creando una società sempre più dominata dalla produzione industriale e dal progresso della scienza tecnica.

Grandi progressi furono fatti nella ricerca di nuove fonti energetiche, mentre le scoperte tecnologiche permisero di sostituire il lavoro manuale con quello svolto dalle macchine.

All'invenzione del telaio meccanico a opera dell'inglese Edmund Cartwright, fece seguito quella della macchina a vapore di James Watt, scoperte che portarono ad un rapido e intenso sviluppo dell'economia europea.


Il Seicento è il secolo che segna la rinascita della scienza.

Una visione meccanicistica della natura e degli esseri viventi, maturata dalle nuove correnti di pensiero filosofico, porterà un rinnovato interesse anche nel campo della medicina.

Si cominciano a sezionare i cadaveri e a studiare i funzionamenti dei diversi organi e degli apparati. Il celebre dipinto di Rembrandt che illustra La lezione di anatomia del dottor Nicolaes Tulp ben rappresenta il nuovo spirito di ricerca sperimentale, opponendosi a secoli di oscurantismo, in cui la medicina era basata sui principi aristotelici mediati dall'opera di Galeno (II sec. D.C.).

Risalgono a questo secolo la scoperta della circolazione sanguigna da parte dell'inglese William Harvey (1578-1657) e le prime applicazioni del microscopio nello studio dei tessuti umani da parte di Marcello Malpighi (1628-1694).

A cavallo tra il Seicento e il Settecento, grazie all'opera di Giambattista Morgagni (1682-1771), nacque l'anatomia patologica, quella branca della medicina che mette in relazione i sintomi clinici con le alterazioni riscontrate al tavolo settorio.

I caratteri del metodo scientifico si affermano e si rafforzano nel Settecento, secolo in cui la fiducia nelle possibilità di conoscenza razionale sono applicate a tutti i campi del sapere.

Si sviluppano allora le scienze di base, quali la chimica, l'elettrologia, la biologia, mentre Carlo Linneo, in questo sforzo di razionalizzazione, cerca di sistematizzare tutti gli organismi viventi.

A fronte di queste scoperte, la pratica medica resta impotente nella terapia, rimanendo ancorata, soprattutto a livello accademico, a un approccio speculativo nei confronti del malato.

Contro le epidemie non esistevano cure, ma solo principi d'igiene e di salute pubblica maturati dall'esperienza.

E' solo dalla fine del Settecento che la medicina apportò novità di rilievo sociale. Primo in Europa, nel 1785, il granduca di Toscana, Pietro Leopoldo, sensibilizzato dall'opera del medico Vincenzo Chiarugi (1759-1820), fondò un ospedale per malati di mente, dove questi potessero essere sottoposti a cure umane. Fino ad allora, infatti, la follia era considerata non una malattia, ma una devianza sociale, e i malati di mente erano segregati e sottoposti a torture.

La storia della medicina del Settecento si chiude con la grande figura del medico inglese Edward Jenner (1749-1823), che introdusse la pratica della vaccinazione, intraprendendo la strada che avrebbe portato alla scomparsa del vaiolo.

Nel corso della seconda metà del Settecento, l'Europa assistette a una fase di scoperte e di invenzioni, che avrebbero mutato la storia sociale e civile delle popolazioni.

Nel 1771, sfruttando la scoperta della macchina a vapore compiuta da Thomas Newcomen (1663-1729) e perfezionata da James Watt (1736-1819), all'Arsenale di Parigi l'ingegnere militare Joseph Cugnot (1725-1804) inventò la prima vettura a vapore, antesignana della vettura automobile e della locomotiva ferroviaria. Destinata al trasporto di carichi, essa procedeva ad una velocità di quattro chilometri orari.

Mentre l'uomo procedeva verso la lenta conquista tecnica e le accademie francesi e inglesi assistevano alla fioritura di esperimenti e ricerche empiriche, diffuse ampiamente dalle prime pubblicazioni scientifiche, i fratelli Joseph-Michel (1740-1810) e Jacques-Etienne (1745-1799) Montgolfier inventavano la prima mongolfiera, così denominata dal loro cognome.

Si trattava di un pallone ad aria calda gonfiato con un gas più leggero dell'aria che poteva sollevarsi nell'atmosfera.

Dopo un primo, riuscito esperimento, condotto con un involucro di seta a forma di parallelepipedo, aperto all'estremità inferiore e riempito di aria calda, ottenuta dalla combustione di lana e paglia umida, il 5 giugno 1783, essi ripeterono la prova ad Annonay, in Francia, con un nuovo aerostato della capacità di settecento cinquanta metri cubi sul quale presero posto, nella cesta di vimini sottostante, Pilatre de Rozier e il marchese d'Arlandes. Al formidabile evento volle assistere anche il re Luigi XVI, che fece ripetere il volo, pochi mesi dopo, a Versailles tra lo stupore della corte e della folla incuriosita, accorsa in questa cittadina alle porte di Parigi.

Lo stesso Joseph-Michel Montgolfier volle provare l'ebbrezza del volo, nel 1784, a Lione assieme ad altre sei persone.

I voli in mongolfiera, dopo questi primi esperimenti, si moltiplicarono rapidamente in tutta Europa. A Brugherio, presso Milano, si alzò in volo il 25 febbraio 1784 l'italiano Paolo Andreani, seguito dal conte Giovanni Zambeccari, che si librò in aria, il 15 aprile dello stesso anno, su un aerostato costruito dal procuratore veneziano Francesco Pesaro.

Le imprese divennero sempre più ardue. Da Dover, il 7 gennaio 1785, partì il pallone aerostatico di Blanchard, che avrebbe sorvolato la Manica con maggior fortuna di Pilatre de Rozier, che perse la vita durante questo tentativo, pochi anni dopo.


Sebbene le antiche, prestigiose Università fossero restie ad accettare le novità introdotte dalle nuove scoperte scientifiche, e altrettanto rigida fosse la resistenza delle alte gerarchie ecclesiastiche nel vedere affermate nuove "leggi" della Natura, gli scienziati seicenteschi operarono una grande rivoluzione di pensiero, i cui principi sono ormai divenuti patrimonio culturale comune a tutta l'umanità.

Il campo astronomico era già stato sconvolto dal trattato De Revolutionibus orbium coelestium (1543) del polacco Niccolò Copernico (1473-1543), il quale aveva proposto, contro le tradizionali dottrine scientifiche, che al centro dell'universo non fosse collocata l'immobile Terra, attorno alla quale giravano il Sole e i pianeti, bensì lo stesso Sole, attorno a cui ruotavano la terra e gli altri pianeti.

Nonostante le condanne, questa teoria iniziò a diffondersi appassionando scienziati di ogni nazionalità.

Nel 1609, il tedesco Keplero (1571-1630), sviluppando le ricerche dell'astronomo danese Tycho Brahe (1546-1601), stabilì le leggi del moto planetario, apportando alcune modifiche alle osservazioni copernicane. I movimenti degli astri non erano circolari, bensì si compivano secondo un'orbita ellittica; inoltre, essi non avvenivano sempre alla medesima velocità.

Negli stessi anni, Galilei iniziò a usare il cannocchiale per l'indagine celeste, compiendo numerose e importanti scoperte sulla superficie della Luna, del Sole e sull'esistenza di quattro satelliti del pianeta Giove. Condannato dal tribunale delle Santa Inquisizione e costretto a ritrattare le sue teorie, Galilei aprì la strada alle grandi scoperte astronomiche degli anni a venire.

Dalle leggi di Keplero e dalle ricerche di Galilei, Isaac Newton giunse, nel 1687, a formulare il principio della gravitazione universale, rendendo possibile spiegare il fenomeno delle maree e calcolare i moti dei pianeti.

L'astronomo inglese Edmund Halley (1656-1742) estese l'indagine al sistema stellare, scoprendo, nel 1715, i moti propri delle stelle. Grazie ai suoi calcoli, egli riuscì a prevedere, con decenni di anticipo, per il 1759, il ritorno della cometa che da lui prese il nome.

William Herschel (1738-1822) calcolò la direzione e la velocità del moto del sistema solare nello spazio e, nel 1781, scoprì il pianeta Urano con i suoi due satelliti, Titania e Oberon.

Gli studi astronomici proseguirono su questa scia per tutto il secolo successivo, giungendo alle grandiose scoperte che portarono alla nascita della moderna astronomia e astrofisica.


SVILUPPO AGRICOLO


L'aumento della produzione agricola, ottenuto con il perfezionamento delle tecniche di coltivazione, l'evoluzione tecnologica e l'accrescimento degli investimenti in agricoltura portò, nel corso del Settecento, a un miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni contadine.

Dal procedere delle stagioni dipendeva, infatti, la loro sopravvivenza, minata dalla siccità così come dalle piogge troppo abbondanti che potevano distruggere i raccolti dei campi.

La vita di campagna era scandita dal calendario dei lavori agricoli.

Il lavoro conosceva pause soltanto in occasione delle feste e dei matrimoni, quando, sulle mense apparecchiate nelle aie, comparivano vino e cibi in abbondanza.



Lo spettro della fame, che aveva accompagnato, durante tutto l'arco del Seicento, la vita di milioni di contadini europei, scomparve nel secolo successivo, assieme al terribile flagello delle epidemie.

La diffusione capillare della coltivazione del granoturco, cereale originario dell'America centro-settentrionale, permise una fonte certa di alimentazione per i contadini, a partire dalla metà del Settecento, sostituendo nelle mense i grani più poveri come il miglio e la segale.

In certe regioni italiane, dove ancora non si era affermata la coltivazione della patata, come in altre regioni europee, l'ingresso del mais nella dieta alimentare portò a un nuovo tipo di malnutrizione, il cosiddetto monofagismo maidico. L'assunzione esclusiva di questo cereale causava un tipo di malattia che colpiva il sistema nervoso, minando spesso le facoltà mentali degli individui sottoposti a dieta monofagica. Soltanto negli anni Venti del Novecento, le scoperte mediche hanno consentito di appurare che il mais è totalmente privo della vitamina PP, indispensabile all'organismo umano. Si diffuse così la malattia della pellagra, che portava a lesioni celebrali irreversibili e, spesso, alla morte, anche perché la sua cura presupponeva un miglioramento di abitudini alimentari che al contadino erano precluse.

In città, questa malattia non ebbe diffusione, perché qui anche i ceti più poveri potevano avvicinarsi a una dieta più varia.

L'alimentazione dei ceti contadini era costituita soprattutto da vegetali e da verdure, ai quali si univano il latte, il burro e il formaggio. Una volta la settimana, nei giorni di festa, si mangiava la carne, manzo, vitello, capretto, selvaggina, maiale. Queste abitudini alimentari non mutarono nel secolo successivo, perpetuandosi fino alla Seconda Guerra Mondiale.

In occasione delle feste estive, nelle campagne si svolgevano grandi tavolate all'aperto, dove trovavano posto carni e vino in quantità, un'abbuffata irripetibile per i contadini fino alla festività successiva, ma anche l'occasione per riunirsi in un allegro convivio.



Nei paesi dell'Europa occidentale, si diffondeva nelle campagne il sistema di rotazione quadriennale, che sui campi alternava la semina dei cereali a quella delle piante foraggere per garantire un migliore sfruttamento delle terre, e si affermava la figura del 'fittavolo', un imprenditore agricolo che curava gli interessi della sua azienda fondiaria, nella quale investiva capitali al fine di procurarsi profitti di impresa. Nello stesso tempo, invece, in alcune regioni dell'Europa orientale sopravviveva la servitù della gleba.

In paesi come la Russia, la Polonia e, in minor misura, anche la Sicilia, il lavoro rurale dipendente mantenne forme di vero e proprio servaggio.

Si moltiplicarono qui le prestazioni di lavori e servizi gratuiti ai padroni terrieri, mentre vigeva ancora il divieto per i contadini-servi di trasferirsi altrove. Allo scopo di recuperare coloro che tentavano la fuga, venivano organizzate delle vere e proprie battute di caccia, che spesso si concludevano con la cattura dei fuggiaschi e la loro riconsegna ai padroni.

Legare indissolubilmente a sé i contadini era ritenuto dai proprietari fondiari l'unico mezzo per arginare la diminuzione delle popolazioni rurali, e la conseguente crescita del costo del lavoro agricolo.

In Russia, furono addirittura varate leggi che permettevano ai possidenti terrieri di mantenere i propri contadini, vietando loro l'arruolamento nelle fila delle truppe cosacche e il rifugio nelle sterminate terre siberiane.

L'impiego di manodopera servile a bassissimo costo permise a queste zone dove vigeva il servaggio di specializzarsi nella produzione agricola: la Polonia, a esempio, fu, per tutto il Seicento, il "granaio" d'Europa.

A lungo andare, però, l'esclusivo concentrarsi dei profitti nel ceto signorile e le condizioni civili ed economiche miserevoli dei contadini costituirono un freno al formarsi di un vivace mercato locale, come in altre nazioni d'Europa.


IL VESTIARIO

Gli abiti hanno sempre dimostrato lo status sociale delle persone che li indossano.

La società europea del Sei e del Settecento aveva proprie gerarchie basate sull'abbigliamento.

I vestiti sontuosi, le sete, i ricami, la biancheria impreziosita dai merletti rivelavano le classi privilegiate.

Giacche di panno grossolano, prive di decorazioni, e semplici gonne a pieghe accompagnate dalla camicia col corsetto erano, invece, gli elementi distintivi della gente di modesta condizione.

Parigi era la capitale della moda, la città che dettava le tendenze in fatto di abbigliamento e di accessori; da qui il gusto dei grandi sarti francesi si propagava a tutta l'Europa.

La corsa all'eleganza non riguardava soltanto il gentil sesso; anche gli uomini ostentavano sete sgargianti, tessuti preziosi, raffinati ricami e trine sottilissime.



UNA GIORNATA MODELLO


La giornata di una dama del Settecento iniziava con un'accurata toilette. Non essendosi ancora diffusa l'abitudine della pulizia personale, in questa quotidiana cerimonia, i profumi e la biancheria intima candida costituivano i riti d'obbligo.

I capelli erano affidati al parrucchiere di fiducia, l'abbigliamento a un sarto. L'ultimo grido in fatto di moda era dettato da "Il giornale delle nuove mode di Francia e d'Inghilterra", uno dei primi periodici femminili europei. Uomini e donne del bel mondo vestivano, infatti, seguendo la moda francese, che richiedeva per le signore busti rigidi con stecche di balena che affilavano il vitino. Le gonne, al contrario, erano ampie e rigonfie, sostenute dai cosiddetti paniers, vere intelaiature che evidenziavano ancor più la sottigliezza del giro vita.

Una volta abbigliata, la signora passava al trucco, abbondando in cipria per esaltare il candore della pelle, e collocando qua e là sul volto i nei posticci che conferivano un'aria maliziosa.

Abbondanti incipriature erano riservate anche ai capelli e alle parrucche che spesso li coprivano. Acconciature altissime, sostenute da fili di ferro e ornate da gioielli e piume, richiedevano ore e ore di preparazione.

Solo verso la fine del secolo, si impose una maggiore semplicità. Lo stile neoclassico, che dettava le norme artistiche, si diffuse anche nell'abbigliamento. Paniers, volants, ricami e broccati furono abbandonati per tessuti più leggeri, quasi trasparenti, dai colori pallidi, confezionati in abiti più accostati alle linee del corpo. I fianchi erano adesso enfatizzati da un cuscino imbottito apposto sul fondo schiena, al quale vennero date varie denominazioni: pouf, faux cul, cul postiche, tutte in lingua francese.

Una dama non usciva mai di giorno senza il suo ombrellino, sempre coordinato all'abito. Tanto meno si privava del ventaglio, al quale ella affidava l'incarico di dire cose che non avrebbe potuto pronunciare per la decenza legata al suo sesso. Fin da piccole, le fanciulle imparavano, infatti, il linguaggio di questo strumento di seduzione, un gergo universale che doveva apparire ben chiaro anche agli uomini. "Le donne - si diceva all'epoca - fanno maggiori prodezze col ventaglio che gli uomini con la spada". 

Se agitato lentamente, il messaggio era chiaro: "Vi voglio bene"; se mosso con forza: "Vi amo appassionatamente". Se chiuso con decisione, all'uomo non restavano possibilità: il cuore della signora era già impegnato; chiuso con lentezza, invece, dava fondate speranze. Lo spasimante doveva arrendersi di fronte a un ventaglio chiuso e posato sulle ginocchia o sul parapetto di un palco a teatro: l'amore della donna era ormai finito.



Il Seicento fu uno dei secoli più creativi e movimentati nella storia della cultura europea.

Alle sconvolgenti proposizioni filosofiche di Cartesio e alle audaci esperienze scientifiche di Galilei, si aggiunsero i trionfi musicali di Monteverdi, i successi teatrali della commedia dell'arte, e l'irruzione sulla scena artistica di geni assoluti quali Caravaggio e Bernini.

Con il Settecento, il secolo dell'Illuminismo e dell'ottimismo della ragione, si scoprì il gusto di osservare la realtà con occhi nuovi, liberi da pregiudizi.

L'intensificazione degli scambi e degli spostamenti di artisti e letterati determinò un clima di internazionalità, che contraddistinse tutto il Settecento europeo.

Il cosmopolitismo del secolo si ripercosse nelle arti, nella letteratura, nella musica, dove fiorirono personalità eccelse, originali, a volte audaci


ARTE

La riflessione sulle possibilità espressive della realtà fu il tema centrale della poetica figurativa di Caravaggio; questi operò in pittura una rivoluzione, con cui dovettero confrontarsi le successive generazioni di artisti.

Egli non formò una scuola, né ebbe allievi, ma la forza della sua personalità e l'irruenza della sua arte attirarono su di lui l'ammirazione dei pittori, che gravitavano nell'ambiente cosmopolita di Roma, una città che attirava artisti da ogni parte di Europa.

Al di là di ogni rapporto di diretta dipendenza, eredi ideali del messaggio caravaggesco si posero Rembrandt e Velazquez, pittori tra i maggiori di ogni tempo e al di fuori delle mode, lontani dal realismo minuzioso così come dai capricci del Barocco.



L'osservazione della realtà è l'elemento che sta alla base dell'intera evoluzione artistica del Caravaggio. Il pittore lombardo pone la natura come maestra contrapponendosi alle elaborazioni intellettuali che stavano alla base dell'arte manierista. Questo atteggiamento induce il pittore a rifiutare il disegno, espressione dell'idea, e a dipingere direttamente con il colore. Caravaggio predilige raffigurare scene di genere e traduce in termini quotidiani e popolari anche i temi sacri, suscitando spesso le proteste dei suoi committenti. A Roma, dove trascorse diversi anni della sua breve e avventurosa vita, il maestro approda ad una pittura fortemente contrastata, realizzata 'a lume di notte', dove le figure risaltano violentemente sul fondo scuro, amplificando l'effetto drammatico.

Il tema della solitudine e della morte diviene ossessivo nei dipinti degli ultimi tormentati anni di vita dell'artista. Ogni sosta nella continua fuga da Napoli a Malta, dalla Sicilia nuovamente a Napoli è segnata da un'attività intensa e da un impressionante crescendo di tensione drammatica che si concluderà soltanto con la morte del pittore, bruciato dal sole e dalla febbre malarica su una spiaggia della Maremma, il 18 luglio 1610.

Lo stile di Caravaggio influenzerà numerosi pittori italiani e stranieri che nel corso della prima metà del Seicento adottarono gli stessi caratteri stilistici.



Il dipinto, eseguito dal Caravaggio nel 1608 per la cattedrale di La Valletta a Malta, ha proporzioni monumentali. La composizione si sviluppa in orizzontale, chiusa sul fondo dalla spoglia architettura del carcere. Il boia sta perfezionando la decapitazione di san Giovanni Battista, non riuscita al primo colpo di spada, usando il coltello. Una vecchia, inorridita da tanta ferocia, si porta le mani al volto, mentre una fanciulla porge la bacinella di rame dove il carceriere indica che dovrà essere posata la testa recisa.

Il gruppo si inserisce a semicerchio entro l'arcata del portone retrostante, colpito dalla luce che scende a evidenziare l'ultimo palpito di vita di quel corpo disteso a terra, con le mani legate dietro la schiena. Due carcerati osservano l'evento al di là delle sbarre, impietriti dal terrore e un silenzio attonito cala sulla scena.



Dal 1607 il dipinto, eseguito tra il 1595 e il 1596, figura nella collezione del cardinale Federico Borromeo, che probabilmente l'aveva acquistato durante il soggiorno romano.

Il cardinale amava molto quest'opera, tanto che descrivendola, ricordava di non essere riuscito a trovarle un pendant, a causa della sua incomparabile bellezza.

Il canestro è visto dal basso e domina in primo piano.

Da questa prospettiva risaltano la trasparenza dei chicchi d'uva, la luminosità della mela, la morbida rugosità del fico.

L'occhio dell'artista indaga ogni aspetto della realtà rappresentata ed indugia sul frutto bacato, sulle foglie accartocciate o mangiate dai vermi.

Pochi anni più tardi il pittore affermerà il principio dell'imitare bene le cose naturali e la convinzione che 'tanta manifattura gli è a fare un quadro buono di fiori come di figure', proclamando la pari dignità di tutti i generi pittorici.

Già in questo dipinto giovanile emerge l'importanza che la luce acquisterà nelle opere mature del maestro anche se qui è ancora predominante come elemento costruttivo e chiaroscurale, come emerge in particolare nella foglia di fico all'estrema destra.



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