LE PROSPETTIVE DEL TRATTATO COSTITUZIONALE
EUROPEO NELL'ANALISI DEL PRESIDENTE DEL SENATO: LE RADICI SONO ANCHE CRISTIANE
Di Marcello Pera, presidente del Senato
Tutti sanno che il Trattato costituzionale europeo ha
un preambolo che comincia con una citazione di Tucidide, la quale dice
che «la nostra Costituzione si chiama democrazia perché il potere non è nelle
mani di pochi, ma dei più». Di per sé, da questa definizione verbale, da
vocabolario scolastico, non si può arguire alcunché, neppure che la democrazia
sia un bene. Ma non è questo il punto che intendo sollevare. Il punto
importante è che i padri costituenti europei, dopo la citazione, dicono che
essi si ispirano «alle eredità culturali, religiose ed umanistiche
dell'Europa».
Ora, non è il caso di essere filosoficamente ingenerosi con un testo giuridico,
ma è chiaro che il riferimento a queste «eredità culturali, religiose e
umanistiche» e a tutto il resto che segue è abbastanza generico, e anche
ridondante (le eredità umanistiche, ad esempio, non sono anche culturali?). È
il caso invece di osservare - ciò che peraltro è stato osservato e discusso
molte volte - che tra queste eredità non è menzionata l'eredità cristiana.
Assai più generico del primo preambolo è il secondo (perché, curiosamente, la Costituzione
europea ne contiene due). In questo, che introduce la Carta dei diritti dei
cittadini europei (la Carta di Nizza), si dice, sempre a proposito delle nostre
radici, che noi (cioè, noi Capi di Stato e di Governo) ci ispiriamo al
«patrimonio spirituale e morale» dell'Europa, neppure a quello genericamente
«religioso».
Ciò che colpisce è che, con la citazione di Tucidide, si indichi uno soltanto
dei nostri genitori, la Grecia. Certo, l'Europa è figlia della Grecia, come ci
dice il nostro stesso linguaggio. «Democrazia» deriva da lì, e così
«repubblica» che viene dalla polis, e «parlamento» o «assemblea» che vengono
dalla boulé. Ma se ci fermiamo a questo punto, non facciamo giustizia a tutta
la nostra eredità, perché, anche riguardo solo alle istituzioni, noi siamo
figli di altre tradizioni. Ad esempio, come si può spiegare il diritto in
Europa senza fare rif erimento a Roma, al diritto romano, alle grandi
codificazioni? Dunque, se vogliamo essere equi non soltanto con Tucidide,
dobbiamo considerarci eredi della tradizione greco-romana.
Ma non basta ancora, evidentemente. Come si spiega l'origine di tanti valori,
poi diventati princìpi e istituti, senza fare riferimento ai comandamenti di
Mosè? «Rispetta il padre e la madre», «Non uccidere», «Non dire il falso»,
erano scritti sulle Tavole e ora sono nostro patrimonio comune, un credo a tal
punto condiviso che la sua violazione oggi è sanzionata dai codici penali.
E poi c'è il Vangelo, la «Buona Novella» di Cristo, la predicazione degli
apostoli, l'evangelizzazione e tutto il séguito della penetrazione cristiana in
Europa. Dal concetto del Dio persona, deriva il concetto dell'uomo
immediatamente dotato di dignità, in quanto persona creata da, e ad immagine
di, Dio. Ecco allora che, se vogliamo veramente riferirci alla complessità
delle radici della nostra cultura europea, e soprattutto se queste radici
vogliamo chiamarle per nome, senza nasconderci dietro quel linguaggio
«politicamente corretto» che oggi in Europa serve più a strizzare l'occhio che
a dire, non possiamo dimenticare né la tradizione greco-romana, né la
tradizione giudaico-cristiana. Se le si dimentica entrambe, sembra che siamo
figli di nessuno.
Perché, allora, nel preambolo, anzi, nei preamboli, al Trattato costituzionale
c'è questa curiosa dimenticanza, questo buco? Non perché l'Europa ignori
realmente da dove deriva la sua democrazia. Non perché l'Unione Europea non
riconosca e tuteli i valori cristiani - basta scorrere il Trattato, in
particolare la Carta dei diritti, per vedere che questi diritti, che sono gli
stessi sanciti dalla Costituzione italiana e da molte altre, sono di
derivazione cristiana. E neanche perché l'Europa predica e pratica il principio
della laicità dello Stato o dell'istituzione, dal momento che, quando si invoca
il principio di laicità dello Stato e delle istituzioni politich e, di nuovo si
invoca un principio del Vangelo: quae sunt Caesaris Caesari, eccetera. Da
questa tradizione non si scappa. Noi la viviamo, l'abbiamo nella carne, nel
linguaggio, nel paesaggio, nelle carte, nelle dichiarazioni, nelle nostre
professioni di fede, anche le più laiche possibili.
Dunque, come si spiega la dimenticanza o il buco delle nostre radici nella
Costituzione europea? Avanzo una spiegazione, sotto forma di ipotesi che
sottopongo alla valutazione di coloro che mi ascoltano. Penso, anzi temo, che
quell'assenza di un riferimento esplicito alle nostre radici in particolare
cristiane, si debba ad una convinzione, oggi molto diffusa in Europa, che la
religione cristiana appartenga alla sfera della soggettività, che debba essere
relegata soltanto nel foro privato, e che non possa né debba fare mostra di sé
in pubblico, nella società, nelle istituzioni. Non sono solo a pensarla così.
Nello scorso mese di agosto, il cardinale Ratzinger in una intervista al
giornale francese Le Figaro ha usato un'espressione ancora più colorita di
quella che ho usato io adesso: ha parlato del tentativo di tanta parte della
cultura europea di relegare il cristianesimo in particolare, e la religione in
generale, nel «ghetto della soggettività». Mi si può chiedere: dovremmo forse
rimettere in discussione quella che è una conquista dell'Europa, cioè la
distinzione tra la sfera pubblica e la sfera privata? Dovremmo ripensare la
distinzione tra le istituzioni e la religione? La mia risposta è: no. Ma
aggiungo: dovremmo ripensare che cosa significhino quella distinzione e
separazione. La separazione tra religione e Stato, tra confessioni religiose e
istituzioni civili o politiche, non può essere una cesura. Lo Stato, ed in
particolare lo Stato moderno, lo Stato democratico e sociale, è sempre
costituzionalmente, intrinsecamente, uno Stato che adotta princìpi etici.
Soprattutto i parlamentari lo sanno bene. In qualunque legislazione, sotto
qualunque legge, soprattutto quelle che riguardano tutele sociali o diritti
civili, c'è sempre un principio etico. Se si fa una legislazione sulla
legislazione stradale, c'è il valore della incolumità dei cittadini. Se si fa
una legislazione sulle questioni alimentari, c'è il principio del benessere. Se
si fa una legislazione medica, c'è la salute. Se si fa una legislazione penale,
un codice penale o un codice processuale, ci sono la libertà, la incolumità, la
dignità, la giustizia. Ogni volta che lo Stato ed in particolare lo Stato moderno,
democratico e sociale legifera, lo voglia o no, assume un punto di vista ed una
scelta di valori. La domanda è: da quale parte entrano, nella legislazione,
questi valori? Entrano dalla parte della società. Il legislatore trasforma in
diritto positivo valori morali che trova diffusi fra i cittadini e che essi
presentano come richieste o avanzano come domande di diritti.
Ecco perché si può e si deve fare la distinzione e anche la separazione tra la
sfera privata dei valori, compresi quelli religiosi, e la sfera pubblica delle
istituzioni. Ma ecco anche perché questa distinzione e questa separazione non
possono essere una cesura e la cesura non può trasformarsi in ghetto. Se ciò
accadesse, non avrebbero più rilievo nemmeno per la legislazione positiva la
più elementare e lo stesso Stato moderno ne soffrirebbe.
Qui cade la distinzione che dal mio punto di vista di laico è decisamente
fondamentale. Si tratta della distinzione tra laicità e laicismo. La dico in
breve. La laicità è un principio di autonomia, di tolleranza, di rispetto
riguardo a fedi, credi, filosofie. Il laicismo è il contrario: è una ideologia,
qualche volta è una religione, e qualche altra volta è una religione cieca,
ottusa e dogmatica.
Forse questa religione laicista spiega più di tutto il resto la «dimenticanza»
delle radici cristiane d'Europa nel preambolo del Trattato. Certo è che il
laicismo spiega tanti fatti curiosi che stanno accadendo in Europa. Non è
questione di laicità, ma di laicismo il divieto alle ragazze musulmane francesi
di indossare il velo a scuola; il tentativo (attualmente sottoposto all'esame
della nostra Corte costituzionale) di eliminare il crocifisso dalle scuole
pubbliche; la decisione (poi fortunatamente rientrata) di dividere in classi
scolastiche separate ragazzi cattolici e ragazzi musulmani. E forse è questione
di laicismo e non di laicità anche l'andamento di una audizione di un
commissario cattolico candidato alla Commissione europea.
Come, in concreto, risolvere questi casi non saprei dire, né è compito su cui
intendo interferire con coloro che ne hanno responsabilità politiche. Li
segnalo qui a voi, però, perché le questioni che essi sollevano sono, o
dovrebbero essere, al centro delle nostre riflessioni. E li segnalo anche con
un senso di allarme. Stiamo parlando di noi, della nostra identità, del nostro
destino. Non dovremmo essere frettolosi e ancor meno timorosi. La tolleranza è
anch'essa una virtù cristiana. Ma l'indifferenza non lo è. Non è neanche una
virtù laica. È semplicemente una resa.
Da Avvenire, 29 ottobre 2004. L'intervento è stato pronunciato al Sacro
Convento di Assisi il 15 ottobre 2004