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L'Assolutismo Paternalistico nella Roma dei Flavi




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L'Assolutismo Paternalistico nella Roma dei Flavi

L'assolutismo Paternalistico sviluppatosi nella seconda metà del I sec. d.c. è un ottimo esempio, si fusione di due essenze apparentemente antitetiche come il Totalitarismo positivo e quello negativo; una forma governativa costituita dallo scontro continuo tra innovazione e tradizione. Dopo la caduta della gens giulio-claudia ,a causa di una rivolta capeggiata da Sulpicio Galba, Roma si trovò al centro di continue lotte intestine tra altri funzionari governativi (69 d. C. anno dei 4 imperatori). Infine risultò vincitore Tito Flavio Vespasiano che iniziò un opera di razionalizzazione delle infrastrutture imperiali. Le riforme vespasiane miravano al riconoscimento totale del princeps come massima auctoritas e alla subordinazione totale del Senato. In primis la stessa razionalizzazione del potere costruendo le fondamenta del proprio potere su basi quali la cultura, la religione, l'arte e la stessa società; ciò avvenne quasi duemila anni dopo in Italia, Germania ed Unione Sovietica. In poche parole chi vuole avere il potere non deve trovare il consenso di chi il potere lo possiede già ma di chi dà la possibilità di avere il potere. Vespasiano inoltre cercò di demisticizzare la figura del princeps, ritenuta di origine divina, e renderlo simile più ad un magistrato che, possedendo maggiore auctoritas degli altri, aveva il compito di mantenere l'ordine dell'intero impero; per ciò aveva anche la possibilità di usare violenza per mantenere la pace interna e quindi l'ordine. Inevitabile, inoltre, era la presenza della cultura alternativa composta dai dissidenti; il princeps non esitò a sopprimere ogni tipo di cultura alternativa che potesse danneggiare la figura imperiale perché capace di unire i dissidenti politici e di originare delle ribellioni. Tale atteggiamento è tipico dei Totalitarismi negativi moderni, il dissenso politico che nasce dalla cultura alternativa è sempre stato oppresso ed eliminato; in questi regimi si cerca di pianificare del tutto la società e la cultura, ogni cittadino deve avere morale, etica ed ideologie uguali: il Totalitarismo si fonda sulla cultura poiché solo così può svilupparsi, e quindi ogni cosa che può minare queste fondamenta, come una cultura alternativa, deve essere controllata o addirittura oppressa. La razionalizzazione del potere imperiale venne continuata dai due figli di Vespasiano: Tito e Domiziano. Soprattutto Domiziano cercò di abbandonare definitivamente la figura divina dell'imperatore per conferire un potere completamente mondano. Di Domiziano si ricorda soprattutto la sua crudeltà, tuttavia non era una crudeltà gratuita ma, come accadde anche nella Sparta di Licurgo, era dettata dalla necessità di mantenere quell'ordine di cui egli stesso era il rappresentante; dunque la violenza era ancora una volta una conseguenza  del Totalitarismo. Il valore e il potere del Senato era stato messo, nello scenario politico romano, in secondo piano; questa situazione cambiò quando Cocceio Nerva succedette a Domiziano, egli applicò una riforma per la successione del princeps in base al quale lo stesso princeps doveva essere designato e votato dal Senato, questa riforma era carica di grandi significati. Infatti la carica del princeps non venne più trasmessa per eredità, quindi non era una proprietà dello stesso princeps, ma era un sorta di compito affidatogli dal Senato (imperatori d'adozione) il Senato dava un mandato in base al quale il princeps aveva il dovere e la possibilità di governare come meglio credeva l'Impero. Comunque tale manifestazione di Totalitarismo ebbe delle conseguenze che volsero verso il vero Totalitarismo negativo reale. Successe a Nerva, il figliastro Traiano che si fece promotore dell'ordine "civile" imperiale, l'essenza del proprio governo era infatti costituita dalla necessità dell'ordine, alquanto dovuto data l'immensità del territorio gestito. La politica di Traiano fu più liberale, per quando riguarda l'espressioni culturali, rispetto ai suoi predecessori. Egli, infatti, cercò di dare vita ad un periodo denominato "felicitas temporum" in cui ogni forma culturale era accettata. Tuttavia questa libertà, almeno culturale, era "fittizia", infatti l'unico uomo libero nell'impero era lo stesso princeps che possedeva praticamente una libertà di decisione e di azione infinità, l'unico limite alla sua libertà era rappresentato dalla sua coscienza, morale ed etica. Anche per questo motivo uno dei grandi letterati di quel tempo, lo storiografo Tacito, prima illuso e poi disilluso da tale libertà, affermerà che il princeps et libertas sono antiteticamente opposti. Il rapporto di Tacito con il potere è stato sempre ambiguo: come leggiamo nel III capitolo dell'Agricola lo storiografo sostiene che lui per 15 anni, ovvero la durata del regno dei Flavi, non ha potuto parlare e che solo con l'avvento di Nerva "..nunc demum redit animus" lui si sente libero di esprimersi e di poter dire ciò che vuole, quindi è palese la sua critica nei confronti del regime precedente. L'intento che Tacito vuole perseguire è quello di compiere un elogio ".neque amore sine odio." dei tempi che si trova a vivere perché identifica in Nerva (ed anche in Traiano) l'uomo che ".miscuerit principatum et libertatem.". Sembra proprio che Tacito manifesti un sentimento di speranza di conciliazione e congiungimento tra il potere e l'auctoritas del princeps e la libertas del Senato; un governo che ha per essenza l'armonia dei poteri che apparentemente potrebbero sembrare poli opposti ma che con i "giusti uomini" possono trovare un punto in comune. Sia nel III capitolo dell'Agricola che nel I capitolo delle Historiae lui dice di voler fare un elogio dei tempi che si trova a vivere anche se in seguito non rispetterà questa volontà, forse perché si rende conto che gli imperatori che secondo lui dovevano portare la felicità e la tranquillità in realtà si sono comportati come i loro predecessori. Tacito, pur pensando questo, nelle Historiae, scrive riguardo al governo di uomini "giusti":"qui nec totam servitutem pati possunt nec totam libertatem (che non sanno reggere né una totale schiavitù né una totale libertà)" (Hist. 1, 16), traspare in Tacito una saggia consapevolezza dell'impossibilità della possibilità di una totale libertà, in quanto una situazione simile porterebbe alla distruzione l'intera struttura imperiale, ciò nondimeno la politica "giusta" non deve attuare una strategia estremamente antiliberale che opprima i cittadini trasformandoli in sudditi. In quella piccola affermazione di Tacito individuiamo l'essenza vera delle democrazie moderne, fondate sulla libertà. La gestione migliore di uno Stato è caratterizzata dal riconoscimento della libertà individuale ma anche dal limite della stessa per attuare un'amministrazione equa. Quindi Tacito giustifica storicamente il principato perché è l'unico modo di governare un impero così vasto. L'animo dell'autore cambia totalmente negli Annales, la sua ultima opera in cui narra le vicende storiche romane dalla morte di Augusto (14 d.C.) a quella di Nerone (68 d.C.). Negli Annales Tacito è completamente rassegnato ritenendo definitivamente non compatibili il princeps e la libertas, questo decadimento è dovuto alla "degenerazione dei costumi"; tuttavia per Tacito questa situazione non è segnata dal decadimento del tutto ma dallo stesso sistema, che secondo lo storico, è il "meno giusto", dunque, le conseguenze non sono causate dal decadimento dell'uomo ma dal sistema politico stesso che portò definitivamente alla rinuncia della libertas. La libertas divenne solo prerogativa del princeps ed era soggetta alla personalità malvagia dello stesso.

Quindi inevitabilmente il Totalitarismo negativo sia quello antico che quello moderno, come vedremo successivamente, porta ad un decadimento dei costumi, causati, tuttavia, non dal sistema politico , ma dall' uomo che cerca di far degenerare il tutto.

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