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All'opera di ricostruzione iniziata in Russia con la Nuova Politica Economica Lenin non poté partecipare: dal dicembre 1922, quando la NEP era solo agli inizi, egli dovette abbandonare l'attività pubblica, colpito da ripetute emorragie cerebrali che lo condussero a morte, a soli 54 anni, il 21 gennaio del 1924.
Nel periodo della sua malattia, quando ancora non si escludeva che potesse riprendere la guida del Partito e del paese, il potere fu esercitato da Zinov'ev, Kamenev e Stalin, uniti fra di loro, se non altro, dalla comune avversione nei confronti di Trotzki che, per la sua superiorità culturale e per i meriti acquisiti nell'organizzazione dell'Armata Rossa e nella lotta contro i nemici della rivoluzione, era il più prestigioso esponente della dirigenza sovietica.
Stalin era apparentemente il membro meno influente del «triumvirato», ma in realtà egli si andava progressivamente impadronendo dell'apparato del Partito, del quale dall'aprile 1922 era divenuto segretario generale.
Dotato di concreto acume politico e di eccezionali capacità di organizzazione e di manovra, Stalin era fautore del «socialismo in un solo paese» e avvertiva chiaramente che la Russia, in quel momento, doveva soprattutto conservare e consolidare i risultati raggiunti; mentre l'impostazione trotzkista della «rivoluzione permanente» e della diffusione del comunismo in tutto il mondo, per quanto facesse parte dell'ortodossia bolscevica, era ampiamente fallita sul piano dei fatti e diveniva sempre meno plausibile col diffondersi in Europa di regimi e di movimenti fascisti o parafascisti. Considerazioni analoghe valevano per la polemica trotzkista contro la burocratizzazione del Partito e dello stato e in favore di una vivace dialettica politica che lasciasse spazio al dissenso: tale preoccupazione libertaria, condivisa da Lenin e dalla vecchia guardia bolscevica, non trovava però nelle masse russe - incolte, stremate dal lungo sforzo, premute da urgenti necessità materiali - una base di consenso sufficiente per imporsi.
Per questi motivi fondamentali (e per altri minori attinenti allo stile personale di Trotzki, brusco e poco diplomatico) già nel XIII Congresso del Partito, svoltosi a Mosca nel maggio 1924, i «triumviri» riuscirono a isolare il loro avversario e a ridurlo in una posizione marginale. Nel gennaio del 1925, in seguito a durissime polemiche e a una campagna diffamatoria nei suoi confronti, Trotzki fu allontanato dal commissariato degli affari militari.
Successivamente la solidarietà fra i «triumviri» si ruppe, e Zinov'ev e Kamenev passarono all'opposizione; ma era ormai troppo tardi perché la crescente autorità di Stalin potesse essere rovesciata. Trotzki, espulso dal partito alla fine del 1927 e confinato in un angolo remoto della Russia nel gennaio del 1928, fu costretto ad abbandonare la patria nel gennaio del 1929, mentre, per il momento, punizioni meno gravi toccarono a Zinov'ev e Kamenev, che peraltro saranno poi fucilati nel 1936.
Lo stesso Trotzki, rifugiatosi in Messico dopo varie peregrinazioni, verrà ucciso nel 1940 da un agente, presumibilmente bolscevico.
La libertà di critica e di dissenso era stata però drasticamente ridotta, prima che da Stalin, da una deliberazione del X Congresso del Partito (marzo per assicurare la compattezza e l'unità dei comunisti. Tale deliberazione, per il vero, non era rivolta a vietare il dissenso e a strozzare i dibattiti, ma imponeva solo che le discussioni avvenissero non «fra gruppi, ma fra tutti i membri del partito»; senonché, una volta vietato il «frazionismo», era quasi inevitabile che le minoranze dissenzienti apparissero come «frazioni» e venissero pertanto accusate di agire non nell'ambito del Partito, ma contro il Partito.
L'emarginazione di Trotzki e degli altri oppositori consolidò il potere di Stalin, ma ovviamente lasciò inalterate le strutture sociali del paese, dalle quali potevano nascere seri pericoli per la sopravvivenza del regime.
La NEP aveva ricreato una classe borghese di commercianti, di industriali, di tecnici e soprattutto di kulak, che non avevano alcuna ragione organica di fedeltà al comunismo e che anzi sarebbero stati avvantaggiati da una riforma democratico-borghese del regime.
Dal punto di vista internazionale la Russia, d'altra parte, si sentiva non a torto isolata e minacciata: perduravano, è vero, i buoni rapporti economici (e segretamente anche militari) con la Germania, ma lo «spirito di Rapallo» si era alquanto offuscato da quando i Tedeschi avevano accettato il piano Dawes, avevano firmato gli accordi di Locarno ed erano entrati nella Società delle Nazioni; la Polonia, dominata dal dalla dittatura reazionaria del colonnello Pilsudski, manifestava una chiara ostilità contro il regime sovietico; la Cina - morto nel Sun Yatsen, fautore dell'amicizia con la Russia - era passata sotto il governo di Jiang Jeshih (Ciang Kai-scek), che nel aveva operato una sanguinosa rottura con i comunisti all'interno e aveva interrotto i precedenti rapporti amichevoli con la repubblica sovietica; dall'Estremo Oriente pendeva la minaccia dell'imperialismo nipponico.
Pertanto, sia per non rafforzare ulteriormente la rinata borghesia russa, sia per conseguire quell'ampliamento della produzione senza il quale un regime socialista non poteva reggere, sia infine per dotare la Russia di una potenza industriale che le garantisse adeguate capacità di difesa militare, Stalin e i suoi collaboratori decisero di abbandonare la NEP e di promuovere una rapida industrializzazione della Russia adottando la politica dei piani quinquennali.
Il primo di questi, inaugurato nell'ottobre del fu concluso con notevole anticipo nel dicembre
il secondo occupò il quinquennio
il terzo, varato nel dovette presto essere interrotto, perché l'evidente approssimarsi di un nuovo conflitto mondiale costrinse la Russia a concentrare gli sforzi nella produzione bellica.
Per la realizzazione dei piani si dovettero superare difficoltà inimmaginabili. La Russia, in linea di partenza, era una nazione agricola, carente di cultura industriale e di capitali; nessuno stato borghese le avrebbe concesso gli enormi prestiti necessari per una rapida espansione industriale, se non nella speranza di dawesificarla: ed era appunto ciò che Stalin (che introdusse per l'occasione questo neologismo) intendeva assolutamente evitare.
L'obiettivo principale dei piani era lo sviluppo dell'industria pesante, base di tutta la produzione, compresa quella militare; ma per conseguirlo si doveva ristrutturare l'intera economia secondo una concezione unitaria e globale.
Pertanto la Commissione statale pianificatrice (Gosplàn), istituita fin dal 1921, raccolte da tutta l'Unione le informazioni, provvide a rielaborarle in vista dei fini da raggiungere e stabilì le quantità di tecnici, di operai, di macchine e di materie prime da impiegare nei singoli settori dell'economia, nelle diverse regioni, nelle singole fabbriche e aziende. Naturalmente, perché persone e cose si incontrassero nei luoghi e nei momenti richiesti dallo sviluppo del piano fu necessario ampliare enormemente la quantità e il potere dei funzionari e dei controllori, e ne derivò un allargamento dell'apparato burocratico non imputabile alla volontà soggettiva della dirigenza stalinista, ma inerente all'essenza stessa della politica pianificatrice.
Al reperimento dei capitali si provvide nell'unico modo possibile, cioè mediante la compressione dei salari (che recuperarono i livelli del 1928 solo nel 1940) e mediante un forte prelievo dai redditi delle campagne.
L'agricoltura, d'altronde, doveva comunque essere ristrutturata perché i piani fossero realizzabili: infatti la piccola proprietà contadina, formatasi nei primi anni della rivoluzione grazie all'appropriazione individuale delle terre, era coltivata secondo metodi antiquati, e assorbiva pertanto una tal quantità di mano d'opera da lasciare l'industria a corto di braccia.
Salvo brevi momenti di pausa, si procedette perciò alla collettivizzazione coatta delle terre e, dall'unificazione di centinaia di migliaia di piccole aziende, nacquero i kolkoz e i sovkoz.
Nei primi la terra apparteneva allo stato, ma le abitazioni e piccole aree coltivabili erano di proprietà individuale;
i secondi, assai più vasti, appartenevano per intero allo stato, e i contadini li lavoravano in qualità di operai agricoli salariati.
Stazioni di Macchine e Trattori, opportunamente dislocate, fornivano ai kolkoz, secondo turni concordati localmente, sia i mezzi tecnici per una coltivazione razionale, sia la consulenza dei loro periti agrari. Le dimensioni quantitative della trasformazione sono riassumibili in queste cifre: nel 1928 le aziende agricole collettive russe costituivano solo l'1,7% del totale; nel 1940 le aziende erano state collettivizzate nella misura del 97%.
La razionalizzazione dell'agricoltura non consentì di aumentare considerevolmente la quantità della produzione, ma la resa lavorativa pro capite crebbe a tal punto che, nel corso di un decennio, circa 20 milioni di lavoratori poterono essere trasferiti dalla campagna all'industria, com'era richiesto dalla politica dei piani.
Il costo umano della collettivizzazione forzata fu enorme. I kulak, legati appassionatamente alle loro terre, cercarono di opporsi alla riforma, sia resistendo con le armi ai funzionari governativi, sia imboscando le derrate, diminuendo le seminagioni, macellando indiscriminatamente il bestiame. Dal 1929 al 1932 il patrimonio zootecnico del paese subì pertanto una paurosa decurtazione
I rifornimenti alimentari divennero insufficienti: nel 1932 intere regioni furono colpite dalla carestia, e le vittime si contarono a centinaia di migliaia.
A loro volta i kulak furono oggetto di una persecuzione sistematica: sterminati o deportati in massa e adibiti al lavoro coatto nelle regioni più impervie dell'Unione, essi cessarono di esistere come classe sociale.
I risultati del primo piano quinquennale furono grandiosi: la produzione del carbone, del petrolio, della ghisa, dell'acciaio e del rame raddoppiò; la produzione dell'energia elettrica triplicò; l'analfabetismo, per combattere il quale il piano aveva impiegato grandi riserve di capitali e di personale, si ridusse al 10% della popolazione; a contatto con tecnici, ricercatori e ingegneri fatti venire dall'estero, sì formò una classe dirigente industriale russa, legata al regime da solidi vincoli di fedeltà.
Inoltre, mentre precedentemente l'agricoltura e l'industria contribuivano in misura pressoché uguale alla produzione globale della Russia, al termine del Piano l'industria vi contribuiva per il 70,7% e l'agricoltura solo per il 29,3%.
L'industria leggera, produttrice di quei beni di consumo che rendono più confortevole la vita, era stata sacrificata all'industria pesante
I sacrifici sopportati dalla popolazione furono proporzionati ai risultati raggiunti
Alla conclusione del primo piano quinquennale, infatti, mentre la produzione pesante (mineraria, metallurgica, meccanica) era cresciuta del 179%, quella leggera era aumentata «solo» dell'87%. E questi tassi di sviluppo, che non avevano precedenti nella storia mondiale, erano stati ottenuti sottraendo ai consumi e dedicando ai reinvestimenti circa un terzo del reddito nazionale annuo.
Durante l'attuazione del secondo piano quinquennale (1933-1937) le condizioni di vita cominciarono a migliorare: il razionamento dei viveri fu abolito nel 1935, una maggiore attenzione fu dedicata anche all'industria leggera, l'ampia meccanizzazione consentì una crescita della produzione agricola dell'8%; ma il tasso di sviluppo dell'industria fu ancora tale da richiedere enormi investimenti: rispetto ai livelli raggiunti alla fine del 1932 si ebbe infatti un ulteriore incremento della produzione industriale del 121%.
Alla fine del 1938 la Russia era la più grande produttrice mondiale di trattori e di locomotive. Le industrie, un tempo concentrate in poche regioni della Russia occidentale, erano ora presenti in tutto il paese, fin nel Turkestan e nella Siberia.
Per consentire gli scambi fra i nuovi centri di attività, le ferrovie erano state talmente sviluppate che nel 1938 potevano trasportare un volume di merci cinque volte superiore a quello del 1913.
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