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La ricostruzione del concetto di dio dopo auschwtz




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LA RICOSTRUZIONE DEL CONCETTO DI DIO DOPO AUSCHWTZ













. ti cerco eternamente invano,

tu, mio passato?

Tendo le mani

e prego -

e sperimento la realtà nuova.

Ciò che è passato ritorna a te

come parte vivente della tua vita

attraverso la gratitudine e il pentimento.

Di Dio cogli nel passato perdono e bontà

e prega che t'assista oggi e nel giorno che verrà.


Dietrich Bonhoeffer


Introduzione


Premesse:

- Auschwitz come evento storico



Auschwitz come scandalo:

1- della religione → Dio non può più rispondere agli attributi tradizionali. Il concetto di Dio si riconsidera in relazione all'uomo.

della ragione→ l'uomo non può più definirsi razionale, perché Auschwitz è la concreta negazione di questa caratteristica. Crolla il senso dell'uomo in ogni direzione storica.

dell'umanità→ la colpa metafisica


Il nuovo mondo:

la religiosità nuova→ la religiosità dell'uomo attivo e non religioso

2- il nuovo uomo al pari del vecchio→ il teatro dell'assurdo come emblema della società contemporanea, in cui fallisce la possibilità di una nuova religiosità ("Waiting for Godot", Samuel Beckett)


Conclusioni

"Un Dio che è morto, nei campi di sterminio Dio è morto"

Francesco Guccini canta queste parole, proverbiali, nel 1965. Sono passati 20 anni dall'Olocausto. Sono ormai 20 anni che Dio è morto.


È vero, la morte di sei milioni di ebrei, i campi di sterminio e di lavoro, fra tutti Auschwitz, la paura, l'annientamento di tutto ciò che esiste definibile con l'aggettivo "umano", sono gocce che avvelenano, annientano il divino.

O meglio, la percezione che l'uomo ha del divino, perché come lo stesso Immanuel Kant afferma, l'uomo può cogliere solo il fenomeno, ciò che appare, e nulla dell'essenza.

Non importa cosa sia accaduto prima, nulla del divino, ora, appare. Ma la stessa essenza, l'esistenza, su cui si è fatto affidamento per tutto il corso della Storia, a prescindere dalle convinzioni personali, dalle dottrine religiose e filosofiche che permeano i diversi momenti, quella certezza che costituisce il più grande fondamento dell'umanità, il più grande punto di riferimento, mai veramente scosso finora, ora viene messo in dubbio: non esiste più il garante dell'amore, della vita, ma, soprattutto, del significato dell'esistenza.

L'umanità è orfana dell'assoluto, del totalmente altro. L'umanità è orfana di se stessa perché perde il suo significato. Si mette in dubbio l'origine e, con essa, la fine.


L'opera di annientamento dell'identità personale e della memoria messa in atto dalla politica nazista ha, in ultimo, l'effetto di suscitare domande, inscindibili dall'uomo fin dalla sua comparsa, che ora non possono più in alcun modo essere ignorate.


Esistono bontà e giustizia, i primi principi messi in discussione da questi avvenimenti, gli strumenti, le virtù che, così ci hanno sempre insegnato, sono necessarie per vivere?

Esiste la felicità, non è una favola che consente all'uomo di vivere, esiste davvero per chi lotta per essa, compie il giusto, la merita?

Esiste un significato, la verità dell'esistenza di ognuno, la certezza dell'utilità di ogni attimo speso, della necessarietà di ognuno, dell'insensatezza del sentimento di vuoto che lacera l'uomo, che ognuno finge di colmare, in cui ognuno si perde, che necessita di essere dissolto?

Esiste qualcosa per cui vale la pena vivere, davvero, che non sia contingente, ma totalmente necessario, fine a se stesso, su cui non si possono fare domande, su cui non esistono risposte perché tutto è già insito in esso, esiste un'entità che sollevi l'uomo dal peso di dover bastare a se stesso?



Nel corso di queste domande, ricorrono le parole "vita", "vivere". Questo perché la condizione di vita è l'unica certezza con cui l'uomo nasce. Ciò non significa che sia sufficiente. Questa stessa vita è volta alla ricerca di un ente superiore. Paradossalmente, la ricerca della causa, è il fine supremo.

Questa appare una struttura circolare e, dunque, classicamente, dominata dall'armonia: eppure tutti la riconosciamo essere fonte primaria di dissidio.



"Dio è risorto", così conclude Guccini.

Questo percorso si pone di verificare se davvero Dio è risorto, se l'uomo, negli ultimi sessant'anni ha trovato la forza in se stesso di fare il "Salto" ed avere fiducia, nuovamente, nel totalmente altro. Oppure, se questa scossa è stata tanto forte da avere messo in crisi del tutto le possibilità dell'uomo contemporaneo di credere davvero di avere un significato, segnando una morte del tutto umana del divino: eterna.

Qualunque sia il risultato, ciò che è davvero importante è la reale natura dell'uomo che si realizza pienamente solo quando cerca l'assoluto, completamente fuori di sé ed al contempo completamente coincidente con la ricerca di se stesso.

Dopo tutto, lo stesso Platone scrive, nel Fedone: "Pare a me, o Socrate, e forse anche a te, che la verità sicura in queste cose nella vita presente non si possa raggiungere in alcun modo, o per lo meno con grandissima difficoltà. Però io penso che sia una viltà non studiare sotto ogni rispetto le cose che sono state dette in proposito, e lo smettere le ricerche prima di aver esaminato ogni mezzo".

Premesse - Auschwitz come evento storico


Il termine "Auschwitz" verrà qui utilizzato, come spesso nelle considerazioni contemporanee sull'argomento, nella sua valenza emblematica, cioè come nucleo (una parola di pietra, si potrebbe dire) che sintetizza in sé tutta la violenza e la criminalità nazista.

In esso si manifesta ogni volto della barbarie nazista: deportazione di prigionieri politici e di guerra, di detenuti comuni, di omosessuali, sperimentazioni mediche, lavoro coatto, sterminio attraverso il lavoro, sterminio diretto.

Auschwitz è il termine ultimo dell'istituzione criminale nazista, tanto cronologicamente quanto nell'obiettivo : è la soluzione finale, che va oltre il sottrarre la vita, ma giunge a "sottrarre all'uomo la sua stessa umanità" (Hanna Arendt).


La logica dello sterminio si avvia con l'invasione della Polonia e va incontro ad un brutale incremento con l'invasione dell'Unione Sovietica. I mezzi in esso impiegati, così come il personale che vi partecipa,  erano stati ampiamente collaudati a partire dal 1939 nell'ambito dell'operazione T4, il programma di eutanasia messo in atto per sopprimere le "bocche inutili" che malati mentali e incurabili costituivano e solo dopo estesi alle razze inferiori da annientare: ebrei e zingari.


Ma Auschwitz come evento storico chiama in causa un aspetto in particolare dell'individuo: la coscienza storica. L'evento rappresenta una cesura definitiva con essa, per come fino a questo momento era stata intesa: sconvolge la nostra visione storica del mondo. La storicità prima di Auschwitz è dominata dalle grandi figure emblematiche che forgiano l'Europa, formando una coscienza storica ampiamente condivisa. Caratteristica dominante di questa coscienza era la convinzione ch'essa fosse riuscita a superare i momenti storici "contraddittori" che l'avevano plasmata attraverso il tempo. Essa affermava la propria superiorità sulla altre culture, si nutriva della fiducia nelle proprie possibilità.

Già dopo la Prima Guerra Mondiale il mondo non può più essere considerato quello di prima, ma questo conflitto è ancora in certa misura razionalizzabile e perciò inquadrabile in questa elaborata costruzione che la coscienza storica rappresenta.


L'evento Auschwitz spezza questa forma di storicità, e frantuma questa forma di coscienza storica .

Esso è la negazione assoluta e radicale del principio umano, del principio di unità della specie. Fino ad allora, nonostante tutte le barbarie portate agli occhi dell'uomo attraverso i secoli, si era ammessa l'integrità della sfera dei valori riconducibili al concetto di "umanità".


La nostra coscienza storica, che a questa genesi si riconduce, mostra le proprie crepe se messa a confronto con questa situazione: essa si dimostra incapace di integrare in sé la realtà di questo evento, di ammetterlo possibile e immaginabile, e reagisce secondo strategie diverse: il negazionismo nasce laddove la coscienza storica si rifiuta totalmente di ammettere l'evento Auschwitz come verificato, cancellando con esso otto milioni di vittime; questo atteggiamento non si dimostra peggiore di un'assoluta demonizzazione dell'intero stato nazista, come improvviso palesarsi di forze oscure e irrazionali che avrebbero deviato la storia fuori dalla storia; atteggiamento differente, ma tanto complesso quanto diffuso, vede la razionalizzazione dell'evento attraverso procedimenti comparativi e analogici. Il risultato è quello di storicizzarlo come prodotto di leggi razionali più ampie e a lungo termine ma anche, inevitabilmente di banalizzarlo attraverso quello che viene definito "revisionismo". Si riconosce, in ultimo, la strategia definita "funzionalista", che comporta numerosi risvolti positivi, tra i quali un approfondimento nella conoscenza e nella comprensione dell'evento, attraverso una meticolosa analisi delle strutture e del funzionamento del Terzo Reich. Tutto ciò comporta, però, un distacco, una certa dose di asetticità nell'affrontare l'evento.


Qualunque sia la strategia messa in atto dalla coscienza storica individuale, appare innegabile che essa, nella sua accezione fino a questo momento riconosciuta, muore con gli otto milioni di vittime che l'evento Auschwitz miete. Con la coscienza storica muore una parte dell'individuo, muore una parte vitale dell'uomo.


Auschwitz mette a morte l'uomo per mano dell'uomo.

Ma giunge a spingersi oltre: per mano dell'uomo mette a morte il concetto di Dio fino ad allora accettato.  



AUSCHWITZ COME SCANDALO

1- Scandalo della religione


Auschwitz rappresenta lo "scandalo" del XX secolo: non l'unico, ma quello per eccellenza, perché posto a confronto, nessun altro avvenimento può essere considerato di pari peso.

È scandalo della religione, è scandalo della ragione, è scandalo dell'umanità.

Alla prima definizione si riconduce perché nega gli elementi alla base delle religioni ebraica e cristiana con cui si confronta.

"Auschwitz, per il credente, mette in discussione il concetto stesso di Dio", questa l'affermazione alla base dell'analisi di Hans Jonas, filosofo ebreo, che col proprio sentimento religioso si confronta. Auschwitz mette in discussione il concetto stesso di Dio buono, onnipotente e per lo meno in parte conoscibile, che deve essere nuovamente sottoposto a vaglio: dopo Auschwitz, Dio non può più essere quello di prima.

Jonas procede dunque all'analisi di questi tre attributi fondamentali di Dio, giungendo all'unica tesi possibile, alla luce di quanto accaduto: non possono più essere coesistenti nel Divino. Se così fosse, Auschwitz non sarebbe potuto essere.

Fondamentale è ricordare che l'ambito di analisi è ebraico, ma investe anche quello cristiano: alla luce delle religioni ebraica e cristiana è impossibile negare la conoscibilità di Dio, poiché negherebbe l'essenza stessa di queste religioni, rivelate, che proprio sulla conoscibilità del Verbo si fondano.

Al pari, è irrinunciabile il concetto di un Dio buono, caratterizzato, cioè, dalla volontà del Bene: essa è inseparabile dal nostro concetto di Dio e non può sottostare a nessuna limitazione.

Soccombe invece l'attributo dell'onnipotenza sotto ragioni di ordine logico e ontologico. Da un punto di vista logico, infatti, di per se stessa l'idea di onnipotenza è contraddittoria: potenza totale, assoluta, significa potenza che non è limitata da nulla, neppure dall'esistenza di qualcosa in generale, estraneo ad essa e da essa distinto. La "potenza", per mantenersi intatta nella propria assolutezza dovrebbe infatti distruggere questa realtà estranea. Non ha, dunque, nessun oggetto su cui poter agire. Ma questo nega la potenza nella sua stessa essenza: è potenza priva di potenza, che nega se stessa. In ottica logica, dunque, in quanto "potenza" è un concetto di relazione, esige un rapporto con qualcosa che sia "altro", nel caso specifico necessita di una "resistenza", poiché in caso contrario non è diversa dall'assoluta mancanza di potenza. Ciò su cui agisce deve perciò avere una potenza propria, anche se derivante dalla potenza originaria, data alla realtà altra in contemporaneità con l'esistenza, in virtù di un atto di rinuncia da parte della potenza originariamente illimitata: cioè nell'atto della creazione.

A queste ragioni si sommano altre di carattere teologico-religioso: l'onnipotenza divina può coesistere con la bontà assoluta solo se si ammette una totale inconoscibilità del Divino. Non si può pensare, dopo Auschwitz, in accordo con un sentimento autenticamente religioso, che un Dio buono e onnipotente abbia permesso ciò: è troppo per la ragione dell'uomo, è INCOMPRENSIBILE per il campo di azione della ragione umana. Se Dio, sulla base di queste premesse, è comprensibile in un certo modo e in certo grado, allora la sua bontà non deve escludere la presenza del male; ma una tale manifestazione del male può esistere solo in quanto Dio non è onnipotente, non ha la potenza (intesa anche come possibilità) di agire su tutto. È evidente come, tra gli attributi, questo sia il più instabile e incerto: è questo, inevitabilmente, a soccombere.


L'argomento viene dimostrato, inevitabilmente, con i mezzi della ragione umana, che già di per sé costituiscono un limite alla possibilità di penetrare nell'ambito del divino. Alla luce di questo pensiero, però, ciò che viene definito "Dio" va ora considerato all'interno del sistema del "Creato", cioè del raggio d'azione umano. Con questo tipo di considerazione non si vuole sminuire questa entità, ma piuttosto definire l'ambito in cui è possibile ora, per l'uomo, confrontarsi col proprio senso religioso. Sulla base di queste premesse, "tutto" è in mano all'uomo, la possibilità di agire, le implicazioni morali, se stesso, consegnatogli nel momento stesso della sua esistenza. Come afferma Jonas: la potenza data con l'esistenza. Sulla base di queste premesse, quindi, "Dio" è innanzitutto ciò che corrisponde alla scintilla divina che è in noi, sia essa intesa laicamente come zona della coscienza che al nostro bisogno del divino risponde, sia che venga considerata come quella potenza data con l'esistenza nel momento della creazione. Sia in ambito pratico che in ambito morale.


In questo senso, Auschwitz è da ricercarsi integralmente all'interno della responsabilità umana, sia per quanto è stato fatto che per quanto non è stato fatto. Auschwitz è scandalo della religione, ed ora appare chiaramente in quale misura: tanto della religione in riferimento al divino, quanto della religione in relazione all'uomo, del senso religioso dell'uomo in relazione a se stesso.


Auschwitz spoglia l'uomo della dimensione esterna rispetto a sé del divino e lo lascia a confrontarsi con la propria umanità e la scintilla di divino in essa contenuta. La ricerca del divino, del "senso", ora, non può che spostarsi dalla dimensione "esterna" del divino, alla dimensione "interna" dell'uomo.

Ora l'uomo non può che rivolgersi alla caratteristica peculiare della propria interiorità: la ragione.

2- Scandalo della ragione


Auschwitz riesce a negare anche quanto di più basilare si era considerato fino a quel momento: l'aristotelica definizione dell'uomo come animale razionale.

Questa negazione è possibile sotto molti punti di vista, siano essi pratici o morali, in ogni caso strettamente legati fra loro.

Ciò che immediatamente appare a chiunque si accosti ad Auschwitz (qui non solo come evento emblematico, ma anche come luogo reale) è l'irrazionale violenza. Non c'è alcuna spiegazione per la violenza di Auschwitz. Non c'è spiegazione, non c'è pensiero che possa spiegare o anche solo tollerare l'idea del campo. I brividi che inevitabilmente investono chi entra in Auschwitz, il silenzio dal peso irreale, tanto che pare di soffocare, che perdura per quanto si possa urlare, si possa piangere, l'intollerabilità dell'aria di Auschwitz, il monumentale complesso emozionale che crolla su chiunque si avvicini a questo luogo, e che è impossibile da dimenticare per chiunque vi sia stato, costituiscono già autonomamente la spiegazione sentimentale dell'irrazionalità di Auschwitz. Questa è una caratteristica che si percepisce, si avverte, ancor prima che la mente giunga a supporto con ragioni d'ordine logico, comunque individuabili.


È il filosofo Max Horkheimer, che proprio di questi temi si occupa nella sua ricerca all'interno della "Scuola di Francoforte", a chiarire cosa si possa intendere propriamente come ragione nella società moderna. Egli identifica una ragione oggettiva ed una ragione soggettiva: la prima tende ad individuare un ordine dei fini, la seconda si sofferma sui mezzi, identificando quali, tra questi, siano più adatti al raggiungimento di determinati scopi; ma questi ultimi non hanno in se stessi ruolo centrale, e la ragione si formalizza.

È proprio questo tipo di ragione soggettiva ad affermarsi sovrana nella società moderna: la decentralizzazione e perdita di vista dei fini effettivi porta con sé lo sconvolgente effetto della perdita di critica ed autocritica, la capacità di fare e farsi domande.

È questa la ragione strumentale, che diventa totalmente irrazionale: la caratteristica alla base della razionalità dell'uomo è la capacità di porsi domande, per tendere ad un fine. Ora non esiste più.

Ed Auschwitz è incarnazione e dimostrazione di tutto questo.


Il campo di sterminio risponde in se stesso ad un'organizzazione ferrea, ad una forma pressoché priva di falle. A monte della logica dello sterminio e della sua attuazione sta una minuziosa pianificazione: i mezzi, in questo, vengono massimamente esaltati. Auschwitz è una costruzione perfetta.

Auschwitz vive una perfezione atta alla cancellazione dell'uomo.

Come è possibile accettare questo fine?

La domanda, all'interno del sistema Auschwitz, non sussiste: non c'è pensiero, non c'è domanda. Tutto si consuma nel fare, non nella cosa da fare.

E questo è l'elemento peggiore: coloro che concorrono allo sviluppo della pianificazione-Auschwitz, di questa organizzazione meticolosa, non sono malvagi. Sono "neutri": abdicano alle domande, abdicano alla razionalità.


Questa è la più grande disfatta per l'uomo. L'argomento era lampante ancor prima della sua dimostrazione. La risposta "c'erano altri a pensare per noi" alle domande, alle accuse rivolte agli aguzzini di Auschwitz è ricorrente e quanto mai nota. Ma tornarvi con la mente è ogni volta una ferita che lacera la carne dell'universale "uomo".


La prima conseguenza indiretta di tutto ciò è proprio l'ormai evidente impossibilità di ricondurre la caratteristica "razionalità", "ragione", alla specie umana. L'uomo non è razionale, non lo è sempre, per lo meno, e questo basta a strappargli il diritto di definirsi tale. L'uomo può essere razionale, ma non è caratteristica necessaria. Può esserlo stato, può essere sembrato tale in passato. Ma dopo Auschwitz questo non si può più pensare.


La seconda conseguenza indiretta è forse ancor più raccapricciante. Considerazioni come quelle precedentemente effettuate mettono in luce come la caratteristica considerata "data" con lo stesso concetto di vita dell'uomo, la ragione, non sia più da considerarsi tale. Questo attributo era l'unico in grado di rivestire il ruolo di "vaccino" contro le barbarie e di alimentare la speranza nell'uomo, nel mondo, nel futuro. La coscienza storica nelle "Premesse" analizzata, quella tradizionale, qui soccombe definitivamente. Quelle che erano state definite come contraddizioni dialettiche (che avevano però sortito l'effetto positivo di avere plasmato la storia), qui appaiono in tutta la crudezza e la verità della loro natura. Questi avvenimenti non sono stati "errori", non sono stati momenti in cui un ingranaggio si è guastato all'interno del meccanismo storico che comunque alla ragione si riconduceva.

Qui crolla la ragione, portando con sé tutta l'impalcatura della costruzione storica. Si perde allora il senso della storia, che trova origine nel passato e proseguirà nel futuro.


Con la ragione, l'uomo perde il senso di se stesso, perde il senso delle proprie origini, perde il senso della meta che sta inseguendo. Perde la "scintilla divina", la possibilità di trovare un senso nella dimensione della propria interiorità.


Ciò che ora gli rimane, è la nuda e scarna definizione di uomo, di "umanità".




3-Scandalo dell'umanità


Nell'analisi relativa alla questione della colpa del popolo tedesco per tutte le azioni criminali riconducibili al Terzo Reich, il filosofo Karl Jaspers, che a questo stesso popolo appartiene, giunge ad una condivisibile, ed estremamente interessante, definizione di umanità.

Essa si presenta qui slegata da definizioni di ordine strettamente morale e da altre di ordine logico. Caratteristica dell'essere umano in quanto tale, riconducibile solo al concetto di nuda "umanità" che non chiama in alcun modo in causa gli attributi che ad essa si legano, è "l'impulso incondizionato esistente tra uomini, per cui, dove vengono inflitte delle atrocità a uno o a un altro, si vuole o che si viva insieme o che non si viva affatto". In altre parole, come Jaspers avrà più volte modo di riprendere, umanità è quella caratteristica per cui, nel momento in cui si riconosce nell'altro l'"essere umano", il proprio simile, non si può in alcun modo accettare che una barbarie venga commessa su di lui senza provare un impulso alla solidarietà. Ma soprattutto, questo impulso alla solidarietà, nel portatore di "umanità", si risolve inevitabilmente o nel tentativo di fermare la barbarie o nel condividerne le pene col proprio simile. Umanità è non poter accettare, per lo meno non passivamente, una qualsiasi atrocità commessa contro il genere umano, sia pure contro un suo solo esponente.


L'Europa del XX secolo lascia morire di fame, di stenti, di avvelenamento per mezzo di gas, senza opporsi, otto milioni di ebrei, zingari, omosessuali, prigionieri politici. L'Europa popolata dall'uomo moderno non si muove di fronte allo sterminio di massa. L'uomo moderno vede sorgere Auschwitz, contempla, conosce le atrocità che vi vengono compiute e non si muove: guarda e resta immobile.

Nelle definizioni delle possibili forme che la colpa può assumere in relazione ad un evento del calibro di Auschwitz, Jaspers identifica in questo comportamento la "Colpa Metafisica": l'esserci, statico, mentre all'altro veniva tolta l'esistenza, il sopravvivergli.


L'Europa tutta, dell'uomo moderno, dell'uomo contemporaneo, si macchia della Colpa Metafisica.

La Colpa Metafisica, dunque, rappresenta la morte dell'ultimo attributo che l'uomo aveva fin qui mantenuto: la propria umanità. Qui muore anche l'identità dell'uomo.



L'analisi sin qui condotta spoglia, passo per passo, l'uomo di tutti i principi cui si era ricondotto per trovare se stesso, e trovare una risposta alla domanda ultima. Per trovare delle origini, trovare una meta, trovare un significato per se stesso e per il proprio esistere (in questo senso "significato" potrebbe venire ad assumere valore di "divino", come risposta ultima alla domanda ultima).

Lungo questo cammino l'uomo abbandona la propria concezione di Dio, la tradizionale modalità di rapportarsi con Esso. Lascia cadere la propria razionalità, la tradizionale modalità di rapportarsi con se stesso e col mondo. Si spoglia dell'umanità, la modalità di rapportarsi con la propria intima natura, ma anche con quanto di essa riconosce nel suo simile.

Auschwitz distrugge l'uomo in quanto tale, Auschwitz distrugge il senso stesso dell'uomo.


È con tutto ciò che l'uomo del dopo Auschwitz deve confrontarsi. Solo sulle ceneri della vecchia concezione di sé può costruire una nuova umanità, con tutti i nuovi attributi ch'essa comporta.

IL NUOVO MONDO

1- La religiosità nuova


Ogni attributo umano muore con Auschwitz, ma l'individuo "uomo" sopravvive ad esso. Questo uomo, del tutto nudo di fronte all'esistenza, necessita di nuovi attributi, di nuovi valori a cui appoggiarsi, di un nuovo codice della propria umanità.

Se tutto è da ricostruire, per prima cosa non si può che rivolgersi alle origini assolute, individuabili nel divino. Il primo mattone per la ricostruzione dell'uomo è la ricostruzione della religione.


Dietrich Bonhoeffer, teologo tedesco imprigionato dal Terzo Reich, dunque contemporaneo di Auschwitz, durante la prigionia osserva come il suo tempo costituisca una svolta, un limite. Si trova ora a chiedersi, riconoscendo che è "passato il tempo dell'interiorità e della coscienza, cioè appunto il tempo della religione in generale", cosa sia veramente ora, per noi oggi, la religione.

Egli verifica che si stia andando verso un tempo completamente non religioso, il nostro: gli uomini, alla luce di tutto ciò non possono più essere religiosi.

La religione, fino a questo punto, si basava sull' "apriori religioso" dell'uomo religioso. Ora si palesa come questo apriori non esista più, come si sia trattato solo di una forma di espressione umana, storicamente condizionata e caduca

Come può allora Dio essere signore dei non-religiosi?


Ma la ricostruzione della religione che su un Dio si fonda appare molto più possibile alla luce della non-religiosità. La ricostruzione dal nulla, su un territorio dove non compare traccia di una religiosità preconcetta, di un Dio incastonato nella religiosità storica trova, letteralmente, carta bianca.

Dio non si po' più ricondurre a soluzione, fittizia alla luce di tutto questo, di problemi insolubili, o a forza di fronte al fallimento umano, individuandolo sempre sfruttando la debolezza umana di fronte ai limiti umani. In questo modo, descrive perfettamente il teologo, "è come se volessimo soltanto timorosamente salvare un po' di spazio per Dio", un Dio che accorre a salvare l'uomo nei momenti di difficoltà.

Ma allora questa vecchia religiosità giunge a definirsi come una religiosità passiva, in cui l'uomo, impotente di fronte al mondo e a se stesso, attende l'intervento esterno del divino.


La religiosità nuova si fonda proprio su una dimensione religiosa che non può più in alcun modo essere passiva, ne' può totalmente essere esterna, perché mira alla ricostruzione del proprio sé interiore.

La domanda dell'uomo non è stata soppressa con Auschwitz, e proprio la necessità di ricondursi ad essa nel ricercare le proprie origini ne è la prova.


La religiosità nuova si fonda su un uomo "non-religioso" e attivo, al fine di ricostruire se stesso: cerca Dio per se stesso e in se stesso, un Dio nuovo, che non risponde più agli statici attributi tradizionali, per un nuovo sé.

Della religiosità nuova può essere protagonista solo un uomo che non attende l'intervento del divino ma va a ricercarlo, a chiedere risposte, che non può permettersi di aspettarlo ne' di immaginarlo, ma che lo cerca nella sua forma autentica e lo chiama a gran voce.


2. The new man like the old one: the failure of the new religiosity


Once identified the foundations of the possibility of this new religiosity, it is necessary to analyse if they can be verified: if the man is really a new one, if he can build a new self.

One of the best analysis of contemporary society has been made by Samuel Beckett, through all his dramas, but in particular through "Waiting for Godot".

Here the author faces exactly those aspects of the man-after-Auschwitz that can underline if this new society, completely naked in front of itself, owns at least the two features that would let it be fertile soil for a new meaning of life: the non-religiosity and the action.


All the drama is constructed round the character of Godot, that never really appears but hides behinds himself the figure of a God. But what kind of God? "He could be the one who saves, the one who doesn't exist, who doesn't come. The ontological-God or the illusion-God, his achievement, his denial, the messianic hope or its satire. The irony of the author doesn't seem to strike any ideology, it just underlines the grotesque of an absurd wandering, reduced to a monotonous and useless mistake of naïve and unhappy clowns"(G. Cattanei) . The central element is not God, but the man.

These unhappy clowns are Estragon and Vladimir, main characters of the drama but even symbols of each other human being of this society.


Through few characters, Godot, Vladimir and Estragon, Beckett describes all the complex picture of the possibility of the religiosity in the new society. But in the end it doesn't seem different from the old one.


The new man is blindly religious as well as the old one: Vladimir and Estragon wait for Godot, a God that reveals himself only partially, but they rely totally on this partial revelation. They blindly believe in it: they don't check it, they accept it like a religious a priori , becoming themselves religious-men a priori. This kind of vision of God isn't different from the old one: he's a God father, omnipotent ("And if we dropped him"- "He'd punish us", although they don't know why and how). They wait for it because he's strong and can compensate for human weakness, because maybe he'll fill up and overcome their human, trivial, limits.


But there is even a recurrent sentence that contains the meaning of this relationship:

"Let's go."

"We can't."

"Why?"

"We're waiting for Godot"

Everything is nullified by the waiting, by the illusion of the arrival.

In the waiting Vladimir and Estragon efface themselves, and the only possibility they could have of really meeting Godot, God. Vladimir and Estragon live an existential paradox: their interiority, agreeing with this "old" complex, communicates them that, if they went away, at best they would lose the possibility of meeting him, at worst he would punish them. But their essence of men after the XX century horrors, after Auschwitz, implies that there is not possibility of finding God a part from looking for it, from moving, acting . "But in this waiting, act becomes impossible".

It is their same conception of Godot that cancels him from their possibilities: they still refer to him with the old religiosity, but impossible by now. Godot  is set, blocked, because of their attitude, in the parameters of the old religiosity that have no more foundation.

Godot can be any kind of God, but this way they'll never reach him.



Here is the contemporary man. Vladimir and Estragon's eyes are our eyes, their feelings are our feelings, their questions are our questions.

WE ARE VLADIMIR AND ESTRAGON

We are this society, we behave this way, we accept these conditions.

But in this society, in this way, we won't find Godot. God. We won't find ourselves .


2. L'uomo nuovo al pari di quello antico: il fallimento della religiosità nuova


Una volta individuati i fondamenti della possibilità di questa nuova religiosità, è necessario analizzare se essi sono verificati: se l'uomo è davvero un uomo nuovo, se può costruire un nuovo sé.

Una delle migliori analisi della società contemporanea è stata fatta da Samuel Beckett, attraverso ognuna delle sue opere, ma in particolare attraverso "Waiting for Godot".

Qui l'autore affronta esattamente quegli aspetti dell'uomo dopo Auschwitz che possono mettere in luce se questa nuova società, completamente nuda innanzi a se stessa, possiede almeno i due attributi che le consentano d'essere terreno fertile per la nuova religiosità: la non-religiosità e l'azione.


Tutta l'opera è costruita attorno al personaggio di Godot, Che non appare mai realmente, ma nasconde dietro di sé la figura di un Dio. Ma quale Dio? "quello che salva o quello che non esiste , che non viene. Dio ontologico o Dio illusione, la sua affermazione o la sua negazione, la speranza messianica o la satira d'essa. L'ironia dell'autore non colpisce direttamente, a quanto sembra, alcuna ideologia, essa pone soltanto in evidenza il grottesco di un vagabondaggio assurdo, ridotto ad una sorta di monotono e inutile errore di pagliacci ingenui e tristi"(G. Cattanei). L'elemento centrale non è Dio, quanto piuttosto l'uomo.

Questi pagliacci infelici sono Estragon e Vladimir, personaggi centrali all'interno dell'opera ma anche simboli di ogni altro essere umano appartenente a questa società.


Attraverso pochi personaggi, Godot, Vladimir ed Estragon, Beckett delinea tutto il quadro complesso della possibilità di una religiosità nella società nuova. Ma, in ultimo, questa non appare diversa da quella antica.


L'uomo nuovo è ciecamente religioso al pari di quello vecchio: Vladimir ed Estragon aspettano Godot che si rivela solo parzialmente, ma essi si affidano totalmente a questa rivelazione solo parziale. Vi credono ciecamente: non la indagano, la accettano come un apriori religioso, incorrendo essi stessi nell'apriori dell'antico uomo religioso. Questo modo di guardare a Dio non si discosta dal precedente: è un Dio padre padrone, onnipotente ("E se lasciassimo perdere?" "Ci punirà", nonostante essi non sappiano perché né come). Lo aspettano perché egli è forte, e può sopperire alla debolezza umana, laddove l'uomo non è forte, può colmare e superare i triviali limiti umani.


Ma vi è una frase che periodicamente viene ripetuta e lasciata cadere, e che sintetizza la natura di questo rapporto:

"Andiamo"

"Non possiamo"

"Perchè"

"Aspettiamo Godot".

Tutto viene annullato dall'attesa, dall'illusione della venuta.

Nell'attesa Vladimir ed Estragon si annullano essi stessi, annullano la sola possibilità che potrebbero avere di incontrare Godot, Dio. Vladmir ed Estragon vivono un paradosso esistenziale: la loro interiorità, accordandosi con questa "antica" costruzione, li porta a concludere che, se effettivamente se ne andassero, nel migliore dei casi perderebbero la possibilità di incontrarlo, nel peggiore egli li punirebbe. Ma la loro struttura intrinseca di uomini dopo le tragedie del XX secolo, dopo Aushwitz, implica che non esista possibilità di trovare Godot all'infuori del cercarlo, del muoversi, dell'agire. "Ma in questa attesa, agire diventa impossibile".

È la loro stessa concezione di Godot che lo elimina dalle loro possibilità: si rivolgono ad esso ancora con la vecchia religiosità, ormai impossibile. Godot è incastonato, bloccato, a causa del loro atteggiamento, nei parametri della vecchia religiosità i cui fondamenti sono stati destrutturati.

Godot può essere ogni tipo di Dio, ma in questa maniera non potrà mai essere raggiunto.



Ecco l'uomo contemporaneo. Gli occhi di Vladimir ed Estragon sono i nostri stessi occhi, i loro sentimenti sono i nostri sentimenti, le loro domande le nostre domande.

NOI SIAMO VLADIMIR ED ESTRAGON.

Noi siamo questa società, aderiamo a questo comportamento, accettiamo queste condizioni.

Ma, in questa società, in questa maniera, non potremo trovare Godot. Dio. Noi stessi.

Conclusioni


La ricerca, in ultimo, si rivela fallimentare: non esiste più il Dio del "prima di Auschwitz", ma non esiste nemmeno un uomo che si possa definire tale.

L'uomo contemporaneo si accontenta di una percezione falsata di sé, per poter arrivare al giorno dopo, e a quello dopo ancora.

Ma non è vivere: è sopravvivere, ricacciando indietro la domanda, la quale però diviene un tarlo che noi stessi nutriamo, che ci logora dall'interno ("nutriamo i nostri rimorsi come i mendicanti nutrono i loro insetti " con le parole di Baudelaire).


Non rimane che rifuggire ogni immagine che possa anche solo lontanamente assomigliare ad un Dio-tappabuchi, e dedicarci soprattutto alla ricerca, sebbene essa possa rivelarsi vana: non rimane che rivolgerci in noi a cercare la nostra essenza più intima, il nostro "passato assoluto". Ripiegarci su noi stessi, e così facendo protenderci con ogni forza. Vivere pienamente, senza timore e riconoscendo come tale questa nuova realtà.

E solo allora il nostro passato assoluto assumerà il volto di Dio, di un Dio eterno e contemporaneo, partecipe della nostra vita, parte di questa stessa vita, in un rapporto dialettico, positivo e negativo.

Allora il Dio infinitamente buono sarà, non la infinita bontà, forza, onnipotenza, ogni caratteristica oltre l'umano limite cui rivolgersi per colmare questo, un Dio non ai limiti, ma al centro, non nelle debolezze, ma nella forza. Un Dio non più oggetto di religione, ma qualcosa di totalmente altro, non signore di un "aldilà" al limite della nostra vita, ma al centro della nostra vita.


". ti cerco eternamente invano,

tu, mio passato?

Tendo le mani

e prego -

e sperimento la realtà nuova.

Ciò che è passato ritorna a te

come parte vivente della tua vita

attraverso la gratitudine e il pentimento.

Di Dio cogli nel passato perdono e bontà

e prega che t'assista oggi e nel giorno che verrà."

Bibliografia

Zygmunt Bauman, "Modernità e Olocausto" - Società editrice il Mulino,1992

Samuel Beckett, "Aspettando Godot" - Giulio Einaudi Editore, 1961

Samuel Beckett, "Waiting For Godot" - Mondadori Bruno Scolastica, 1977

De Luca, Ellis, Pace, Ranzoli, "Words that speak" - Loescher, 2006

Giovanni Cattanei,"Samuel Beckett" - La Nuova Italia, 1967

Karl Jaspers, "La questione della colpa - Sulla responsabilità politica della Germania" - Raffaello Cortina Editore, 1996

A.A.V.V., "Il bene e il male dopo Auschwitz" - Paoline Editoriale Libri, 1998

Dietrich Bonhoeffer, "Resistenza e Resa" - Edizioni San Paolo, 1988

Francesca Occhipinti, "Logos" - Einaudi Scuola, 2005

A.A. V.V., "Educare dopo Auschwitz" - Vita e pensiero, 1995

Hans Jonas, "Il concetto di Dio dopo Auschwitz" - Il Nuovo Melangolo, 1989

Max Horkheimer, "La nostalgia del totalmente altro" - Queriniana, 1972

Hannah Arendt, "La banalità del male" - Feltrinelli, 1964

Charles Baudelaire, "I fiori del male" - R.C.S. Libri, 1980





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