LA
GUERRA DEL GOLFO
Il 1990 segna il ritorno dell'attenzione
internazionale sul Golfo Persico. Dopo la conclusione della lunga e sanguinosa
guerra (1980-1988) che aveva visto contrapposti Iran e Iraq, l'occupazione del
Kuwait da parte dell'Iraq fa si che gli occhi di tutto il mondo vengano
nuovamente rivolti verso quella zona, da diversi anni considerata a rischio, a
causa delle sue notevoli risorse petrolifere. L'occupazione da parte irachena è
sostenuta da motivazioni di ordine economico-politico, in seguito al rifiuto
kuwaitiano di aderire alle eccessive pretese del governo di Bagdad:
- la completa cancellazione del debito contratto dall'Iraq;
- il "risarcimento" per il petrolio pompato illecitamente dai
kuwaitiano nei giacimenti iracheni durante la guerra e la cessione della
zona di confine da parte del Kuwait.
Immediata e pressoché unanime la reazione di
condanna dell'operato di Hussein a livello mondiale. Particolarmente dura la
risposta americana: gli USA pongono l'embargo su importazione ed esportazioni
in Iraq, preparandosi contemporaneamente ad un intervento armato nel Golfo. Più
caute, Mosca e la CEE, si limitano ad una decisa condanna verbale. Nei giorni
successivi l'irrigidimento della posizione irachena spinge la CEE ad associarsi
all'embargo e l'ONU a decretare pesanti sanzioni economiche nei confronti
dell'Iraq. La crisi si aggrava ulteriormente in seguito, soprattutto a causa
dell'atteggiamento intransigente del dittatore iracheno che, oltre a proclamare
irreversibile l'invasione, comincia a ventilare l'utilizzo dei cittadini
stranieri presenti in Kuwait come "merce di scambio": La replica dell'occidente
continua ad essere ferma: Gli Stati Uniti ed i Paesi alleati intimano ad
Hussein l'immediato rilascio degli ostaggi e cominciano l'invio di truppe nel
Golfo. La gravità della situazione spinge il presidente americano Bush e quello
sovietico Gorbaciov ad un vertice comune, tenutosi ad Helsinki il 9 settembre.
Dall'incontro emerge una sostanziale concordia - che può essere definita
<<storica>> - tra le due Superpotenze sulla posizione da tenere nei
confronti dell'Iraq, pur persistendo le divergenze sull'iter da seguire per
raggiungere una soluzione della crisi: mentre per gli Usa lo sbocco armato pare
inevitabile, l'URSS insiste sull'uso della diplomazia. Sul finire dell'estate
la situazione del Golfo si presenta in fase di stallo, mentre si delineano i
primi tentati di mediazione volti alla risoluzione di problemi generali in
Medio Oriente. Tra i più attivi a cercare uno sbocco alla crisi, il presidente
francese Mitterand e il segretario generale dell'ONU Perez de Cuellar. A
novembre le forze americane ammassate nell'area del Golfo sfiorano ormai le
400.000 unità, sebbene Gorbaciov definisca "inaccettabile" una soluzione
militare della crisi. L'Iraq, intanto, annuncia l'intenzione di liberare gli
ostaggi, sulla sorte dei quali si era da tre mesi accentrata la preoccupazione
dell'opinione pubblica dei Paesi occidentali. Decine di diplomatici europei,
tra i quali il tedesco Brandt e l'italiano Formigoni, si recano in visita in Iraq per incoraggiare il
regime a tener fede all'impegno proclamato. Si ha subito, tuttavia,
l'impressione che la partenza dei cittadini occidentali dall'Iraq renda più
probabile, anziché evitarlo, uno scontro tra i due schieramenti bellici
contrapposti nel Golfo. Sono a quel punto presenti nell'area due imponenti
eserciti: 700.000 iracheni nel Kuwait e nel sud del Paese e circa mezzo milione
di uomini al comando dell'ONU, con una concentrazione di armamenti mai
registrata in alcun conflitto precedente. Il 29 novembre il Consiglio di
Sicurezza dell'ONU fissa la data ultima per il ritiro delle truppe irachene dal
Kuwait: il 15 gennaio 1991, giorno dopo il quale gli Stati Membri sono
autorizzati ad intervenire militarmente. Il mese di dicembre scorre
relativamente tranquillo, fra la liberazione degli ostaggi (avvenuta nella
prima decade) e il continuo slittamento delle date fissate per l'incontro dei
rappresentanti statunitensi con quelli iracheni. Prima di Natale Hussein, che
non intende in alcun modo tenere conto dell'ultimatum impostogli dall'ONU
annuncia che, in caso di aggressione militare, il primo obbiettivo che intende
colpire è Israele. La minaccia nasconde il rischio di un'estensione del
conflitto a tutti i paesi arabi ostili allo stato ebraico ai quali Hussein si
rivolge per far causa comune sotto la bandiera dell'Islam. In tutto il mondo
occidentale si comincia a parlare con insistenza e preoccupazione delle armi
chimiche la cui devastante efficacia si è manifestata nel lungo e inutile
conflitto Iran-Iraq. Il 3 gennaio 1991 il presidente
americano Bush, di fronte all'avvicinarsi della scadenza dell'ultimatum,
propose un incontro tra i ministri degli esteri Baker
e Aziz da tenersi a Ginevra. Hussein accetta la
proposta americana, ma rifiuta seccamente di incontrarsi personalmente con i
ministri degli esteri della CEE, dopo una richiesta avanzata dalla stessa
Comunità Europea. Anche gli ultimi tentativi di risoluzione della crisi
naufragano miseramente: il vertice di Ginevra termina il 9 gennaio con un nulla
di fatto; tre giorni dopo, il segretario generale dell'ONU Perez de Cuellar si
reca a Bagdad, accolto con indifferenza dalla autorità irachene. Non da
risultati neanche una proposta del ministro degli esteri italiano De Michelis che prevede il ritiro delle forze irachene dal
Kuwait sotto la vigilanza dei caschi blu dell'ONU e la creazione di una "zona
cuscinetto" tra le due regioni. La stessa sorte tocca all'iniziativa tentata in
extremis dal presidente francese Mitterand che incontra l'indisponibilità degli
Stati Uniti, fermamente contrari alla subordinazione del ritiro iracheno dal
Kuwait, alla risoluzione della questione palestinese. Le residue speranze per
un accordo dell'ultima ora si infrangono con il diffondersi della notizia
relativa all'uccisione, avvenuta a Tunisi, di due stretti collaboratori di
Arafat, il leader dell'OLP, intenzionato a fare da intermediario fra le parti
in causa. I fondamentalisti islamici responsabili dell'assassinio, appartenenti
alla fazione di Abu Nidal, affossano ogni possibile mediazione palestinese e
seminano il caos nel mondo arabo. La soluzione della crisi del Golfo resta
quindi affidata alle armi. A mezzanotte del 15 gennaio scade l'ultimatum
dell'ONU, mentre le diplomazie di molti paesi sono ancora in attività nel vano
tentativo di evitare un conflitto che sembra non far paura al solo Saddam
Hussein. Il mondo vive ora di mobilitazione generale: i diplomatici si offrano
vanamente, i militari si preparano, le polizie dei paesi occidentali raddoppiano
i controlli nei timore di attentati terroristici, pacifisti organizzano veglie e fiaccolate per
la pace. Dopo 24 ora di snervante attesa le truppe dell'ONU danno inizio al
conflitto con un massiccio lancio di missili "Cruise" su Bagdad e con numerose
incursioni aeree contro obbiettivi militari e raffinerie. In questa missione,
le forze americane sono supportate dalle aviazioni francesi ed inglesi. Le
truppe italiane da tempo stazionate nel Golfo attendono invece il benestare dei due rami del Parlamento, acceso da
roventi contrasti sorti in seno alla stessa maggioranza, così come
nell'opposizione. Nella notte tra il 17 e il 18 gennaio - giunta dall'Italia
l'autorizzazione all'intervento militare - i Tornado dell'aeronautica Italiana
compiono la loro prima incursione aerea, che si conclude con un pessimo
bilancio: 6 velivoli ritirati per difficoltà meteorologiche, un aereo
abbattuto, due piloti dispersi (che risulteranno poi fatti prigionieri dalla
contraerea irachena). Dopo l'iniziale speranza di una rapida conclusione del
conflitto, le forze armate delle Nazioni Unite si trovano a far fronte il 18
gennaio alla prima consistente reazione nemica. La contraerea comincia ad
aggiustare la mira sui velivoli alleati; ma ciò che è peggio, missili iracheni
"Scud" (di fabbricazione sovietica) piovono si Israele. I vettori non
trasportano testate chimiche, come temuto dalle autorità irachene, ma
accrescono il rischio di coinvolgimento del Paese nel conflitto. Per evitare la
reazione ebraica, Stati Uniti e Olanda inviano a Israele missili anti-missile
"Patriot" per assicurare una protezione di massima in vista degli attacchi
successivi. Le previsioni di una guerra breve si scontrarono inesorabilmente
con la superbia di un dittatore fermamente intenzionato a prolungare il più
possibile la sua sfida alle nazioni occidentali. Da parte sua, Saddam sembra
contare, più che sulle possibilità del suo esercito di impedire l'affermazione
militare della forza multinazionale, sulla instaurazione a livello mondiale di
un clima di terrore. In questo senso
vanno interpretati i continui appelli del presidente iracheno alle popolazioni
arabe affinché intraprendano azioni
terroristiche volte a colpire in tutto il mondo gli interessi del "regno di
Satana" (come lui stesso definisce i Paesi capitalisti). L'esortazione ad una
partecipazione attiva di tutti gli arabi a questa "guerra santa" fa tuttavia
maggior presa sulle popolazioni musulmane, attratte dall'integralismo islamico
di cui Saddam si è erto a paladino, più che sugli stessi governi. Infatti,
nonostante le spinte filoirachene provenienti dal
basso, i regimi di Iran, Giordania e Siria mantengono una posizione di cauta
neutralità. I primi giorni di guerra sono seguiti minuziosamente da un vero e
proprio esercito di giornalisti giunti nel Golfo da tutti i paesi occidentali.
Molte polemiche sorgono attorno alla massiccia mobilitazione dei media e agli
interessi commerciali legati alla diffusione di notizie e immagini sulla
guerra. La ripresa diretta delle fasi più drammatiche del conflitto, oltre che
turbare la coscienza e il senso etico del mondo occidentale, decretano
l'avvento di una nuova era bellica, un'era segnata dalla tragica fusione di
brutalità e di spettacolo. Si assiste ad un rigurgito delle ideologie pacifiste
in tutta Europa, soprattutto in Italia: si moltiplicano le manifestazioni di
piazza e da più parti viene invocata una soluzione diplomatica del conflitto. Anche
il Papa rivolge ripetuti appelli alle forze belligeranti affinché la ragione
prevalga sulla violenza, sottolineando tuttavia che la pace non può essere
realizzata senza la giustizia. Da segnalare come, in questa occasione, la
solidarietà della Santa Sede sia indirizzata anche ad Israele, con il quale non
erano mai stati intrapresi rapporti diplomatici. Il continuo della guerra vede
il proseguire dei bombardamenti degli alleati sull'Iraq. Particolarmente
colpita risulta essere la città di Bassora, unico sbocco iracheno sul Golfo
Persico. Scopo dei continui
bombardamenti è quello di isolare le forze irachene, rendendole scarsamente
operative. La reazione di Saddam si manifesta nell'intensificazione del lancio
su Tel Aviv di missili Scud, che, per quanto quasi sempre intercettati dai
Patriot, riescono ugualmente a provocare danni e vittime. Gli iracheni inoltre
incendiano numerosi pozzi di petrolio kuwaitiano e rovesciano nei Golfo Persico
tonnellate di greggio, dando origine ad un vero e proprio disastro ecologico.
L'"onda nera" investe infatti una consistente superficie d'acqua, arrivando a
minacciare anche l'Arabia Saudita e gli impianti di desalinizzazione situate
lungo le sue coste. Si assiste nel frattempo all'inizio della "fuga" di
cacciabombardieri iracheni in Iran; le forze alleate si interrogano sul
significato del gesto, chiedendosi se esso vada interpretato come una
dissertazione o sia invece una mossa strategica di Saddam per preservare la
propria forza aerea. Ci si domanda se esista un accordo segreto fra Iran e Iraq, ma l'atteggiamento della
Repubblica Islamica, che continua a mantenersi neutrale, non fornisce alcuna
indicazione chiarificatrice. L'inasprirsi del conflitto provoca il
moltiplicarsi delle iniziative di pace. In primo piano in questo compito è
l'attività sovietica: il Ministro degli Esteri Bessmertnik
e lo stesso Gorbaciov sollecitano più volte Saddam Hussein ad abbandonare il
Kuwait, proponendo in cambio l'impegno ad affrontare la questione palestinese.
L'atteggiamento del leader iracheno continua però a mantenersi intransigente,
mentre l'esercito alleato affretta i preparativi per l'attacco terrestre. Si
intensificano i bombardamenti sulle città irachene: Bassora viene ripetutamente
e pesantemente colpita ed un missile cade su un bunker di Bagdad, provocando la
morte di circa 300 civili. In un clima sempre più teso e infuocato, l'URSS opera
un estremo tentativo di pace, proponendo a Saddam un piano che comprende il
ritiro incondizionato dal Kuwait e offre in cambio qualche garanzia. L'Iraq
risponde positivamente, ma l'accordo non viene raggiunto, in quanto i Paesi
della coalizione alleata, pur constatando il diverso atteggiamento dell'Iraq e
la sua maggiore disponibilità ad accettare alcune risoluzioni dell'ONU, esigono
il ritiro incondizionato. Il 23 febbraio gli Stati Uniti lanciano un ultimatum
a Bagdad affinché provveda ad iniziare lo smantellamento della macchina bellica
e il ritiro dal Kuwait entro 24 ore. Scaduto il tempo concesso senza una
risposta positiva, inizia il grande attacco di terra; le forze alleate
penetrano nell'emirato da più direzioni e, con un'abile mossa strategica, chiudono
l'esercito iracheno che, completamente allo sbando, comincia una disordinata e
convulsa fuga. Nell'arco di tra giorni tutto il Kuwait è libero; la disfatta
dell'Iraq è totale: 29 divisioni sono state messe fuori combattimento, 3700
carri armati sono stati distrutti, 100.000 soldati sono morti e 50.000 sono
stati fatti prigionieri. Piuttosto contenute, invece, le perdite da parte degli
alleati. Il 28 febbraio Saddam Hussein dichiara di accettare tutte le
risoluzioni dell'ONU e di essere pronto ad arrendersi incondizionatamente: il
conflitto si conclude così dopo 42 giorni, lasciando aperta una serie di
problemi, primo dei quali quello del futuro assetto del Medio Oriente. Vengono
rilasciati dal regime di Bagdad tutti i prigionieri alleati, fra cui anche i
due piloti italiani abbatuti durante la prima
missione. Mentre il Kuwait inizia una lunga e faticosa normalizzazione, l'Iraq
precipita nel caos: le forze dell'opposizione (soprattutto i musulmani sciiti e
i curdi) occupano Bassora ed il sud del paese, ma
Saddam scatena nei loro confronti una durissima repressione.