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La Francia di Mazarino e la «Fronda» (1648 - 1653)
La pace firmata in Westfalia con l'Impero (1648) e quella dei Pirenei con la Spagna (1659) avevano sanzionato la vittoria e l'affermazione sul piano internazionale della Francia. Giulio Mazarino, il primo ministro designato dallo stesso Richelieu morente quale suo successore nella guida del governo, fu l'artefice non solo di quelle abili trattative, ma anche di scelte corrispondenti in politica interna. Tuttavia, per riportare quella vittoria sugli Asburgo - obiettivo primario già di Richelieu - si erano sacrificate riforme necessarie al paese e si pagò per questo il prezzo di una forte instabilità sociale. Anche in Francia, quindi, la partecipazione alla guerra concorse a produrre uno stato di rivolte diffuse, con pericolose lotte di potere nell'intera società francese.
Anche se già Richelieu aveva dovuto affrontare situazioni di forte tensione sociale, il momento più rischioso per la stessa monarchia si verificò, anche qui, nel corso degli anni '40. L'eco delle vicende inglesi, sul punto di esplodere nella rivoluzione, e delle rivolte spagnole non fu certamente senza importanza e servì da nuovo stimolo per i Francesi. Inoltre in Francia, la scomparsa di Richelieu (dicembre 1642) - immagine tipica del ministro autoritario - seguita a breve distanza da quella del sovrano (maggio 1643), riportò il paese nella crisi politica di una nuova reggenza. Luigi XIV era un bambino, Anna d'Austria era asburgica e spagnola e Mazarino era un uomo «nuovo», che i Francesi consideravano ancora un umile italiano giunto fortunosamente alla carriera politica: questa circostanza, simile a quella del passato, destò nuovamente le ambizioni e le conflittualità presenti tra i corpi particolari della società francese. La maggior gravità di questo caso consisteva nel perdurare dello stato di guerra, che aveva costretto il governo di Richelieu - e poi anche quello di Mazarino - ad attuare una politica fiscale sempre più pesante finalizzata ad alimentare il conflitto. Un primo contrasto fra Stato e società civile si manifestò nel 1643, quando il parlamento di Parigi -una delle più antiche e prestigiose istituzioni di Francia che oltre alle competenze giudiziarie e finanziarie proprie di tutti i parlamenti, era deputato, per consuetudine, a rappresentare la nazione nei rapporti con la monarchia, sostituendosi in un certo senso agli Stati Generali - rifiutò di approvare gli editti finanziari della corona emanati appunto per sostenere i costi della guerra. La politica centralistica e i provvedimenti fiscali che l'energia di Richelieu era riuscita ad imporre, seppur con qualche difficoltà, generavano ora una protesta diffusa nei diversi ordini. Gli aumenti delle imposte dirette e indirette andavano a colpire i ceti popolari delle campagne e delle città, suscitando ovviamente il malcontento per il peggioramento delle condizioni di vita, ma allo stesso tempo creavano non poche difficoltà nel prelievo delle tasse signorili parallele a quelle dello Stato, sottoposte tra l'altro a maggior controllo da parte dei nuovi «intendenti», che cosi ledevano gli interessi della vecchia aristocrazia e l'autonomia della nobiltà di toga. La rottura fra organismi statali e società, venutasi a creare in seguito ad una tale situazione, esplose nel 1648 in un vasto movimento di rivolta, la Fronda (la fronde era la fionda, usata dai ragazzini che parteciparono alle rivolte), che coinvolse, con motivazioni diverse, più strati della società. La Fronda (una rivolta postuma contro Richelieu) nella sua espressione più immediata, rappresentava una ribellione contro gli interventi dello Stato in materia fiscale che, toccando in varia misura tutti i livelli sociali, avevano consentito una certa solidarietà, momentanea non certo duratura né stabile, tra le classi dirigenti e le classi popolari, sia nei centri urbani che nelle campagne.
L'occasione per manifestare l'opposizione aperta allo Stato venne dal rinnovamento della già tanto discussa paulette, (quella tassa che, rendeva ereditarie le cariche). Il continuo bisogno di denaro indusse infatti Mazarino a riconfermare la paulette, modificata però con una ritenuta su parte dello stipendio del funzionario, che la rendeva ancora più onerosa. I gruppi interessati dal provvedimento, del resto già notevolmente impensieriti dal dissesto finanziario, che comprometteva il regolare pagamento della rendita e dall'inflazione delle cariche che ne svalutava il prestigio, chiesero il sostegno del Parlamento di Parigi, che a sua volta aveva buoni motivi per lamentarsi degli abusi compiuti dalla monarchia nel settore della giustizia e delle finanze. Le accuse rivolte dal parlamento parigino riguardavano il rispetto delle competenze, erano insomma una denuncia dell'arbitrio governativo da intendersi come atto di protesta contro il centralismo monarchico. In effetti, per il ceto dei parlamentari il tema fiscale offriva l'opportunità per ribadire non solo la propria indisponibilità a finanziare la guerra, ma soprattutto per dichiarare e ricordare alla corona - dietro l'esempio inglese - gli antichi diritti costituzionali, per opporsi in ultimo a quel progetto assolutistico, in parte già in atto, che li avrebbe resi subalterni al potere centrale.
Mazarino del resto continuava sulla linea aperta da Richelieu e, di fronte al fermo proposito dei parlamentari parigini di imporre il proprio controllo sulla spesa pubblica, la disputa divenne più violenta. L'arresto di uno dei capi del movimento parlamentare di Parigi diede motivo per uno scontro frontale: le contestazioni partite da Parigi non tardarono a diffondersi nei parlamenti delle province, dove assunsero talvolta, come nel caso di Bordeaux, toni di radicalismo repubblicano.
Di facile presa anche sulle masse popolari, toccate in prima persona dall'aumento delle imposte, la protesta antifiscale si trasformò, nell'agosto 1648, in una sommossa urbana in piena regola, con barricate e scontri per tutta Parigi.
Il governo Mazarino che, senza denaro non poteva né continuare la guerra, né organizzare alcun tipo di repressione all'interno, si persuase infine ad accettare alcune delle richieste avanzate dalla Fronda.
La rivolta sociale della plebe urbana (che a Parigi aveva visto quadruplicare il prezzo del pane) unita alla rivolta politica dei Parlamenti contro il sistema centralistico del governo, nel gennaio del '49 aveva nuovamente trascinato la Francia in una guerra civile: addirittura, la notte del 5 gennaio, Mazarino, Anna d'Austria ed il figlio Luigi XIV dovettero abbandonare in tutta fretta la capitale. Il rischio per la monarchia era doppiamente spaventoso, se si pensa che nello stesso periodo l'Inghilterra rivoluzionaria decideva di decapitare il suo re (30 gennaio 1649). Ma anche le élites parlamentari, per quanto contestassero la politica assolutistica degli ultimi anni e rivendicassero la propria competenza costituzionale, non intendevano mettere in discussione la sopravvivenza della monarchia in quanto istituzione e su questo punto comune, oltre che per il timore di eccessivi disordini pubblici, trovarono l'accordo con la Corte. Nel marzo seguente tutti i parlamenti, anche quelli più ostinati, abbandonarono il campo della rivolta.
Non passò molto tempo però che una nuova «Fronda», sostenuta questa volta dall'opposizione nobiliare, riprese la protesta antimonarchica. La Fronde princière, la fronda dei principi, era capeggiata dal duca d'Enghien detto altrimenti il Gran Condé, il generale che aveva guidato l'esercito francese nella battaglia di Rocroi contro gli Spagnoli. Il suo prestigio da quella gloriosa vittoria era andato crescendo e lo aveva autorizzato a mettersi alla testa del movimento antimonarchico sostenuto dall'antica nobiltà, ancora piena di risentimento verso Richelieu, le sue teorie sull'assolutismo e il suo sistema degli «intendenti», divenuti per le necessità della guerra sempre più solleciti. La Fronda aristocratica, per breve tempo appoggiata anche dai parlamentari, illusi di trovare un'unità contro il fiscalismo monarchico, esplose nel 1650. Questa volta la monarchia corse pericoli ancora maggiori: il popolo parigino ritornava alla sommossa seguendo l'onda dei rivoltosi, nelle campagne i contadini si ribellarono ai funzionari dello Stato giunti a prelevare le imposte. Il Condé mirava a restituire il potere all'antica nobiltà combattendo Mazarino e la sua costruzione burocratica dello Stato. La tensione raggiunse livelli assai pericolosi e Mazarino stesso fu costretto ad abbandonare Parigi nel febbraio del 1651. Il ministro, tuttavia, ben consapevole della fragilità di quella opposizione, troppo divisa in rivalità interne per reggersi a lungo, proseguì nell'intento di difendere l'istituzione contro i particolarismi nobiliari e organizzò contro il principe di Condé una spedizione militare guidata dal generale Turenne che gli consentì infine di rientrare a Parigi (1652) come rappresentante vittorioso dello Stato. Il capo della Fronda aristocratica venne esiliato e volle continuare la sua lotta contro Mazarino andando a combattere con gli Spagnoli, da lui stesso, nel passato, sconfitti più volte.
Anche se queste rivolte furono scatenate in occasione della revisione della paulette, sarebbe limitante interpretare la Fronda parlamentare e nobiliare esclusivamente come un movimento antifiscale e la sua valutazione deve tener conto della concomitanza di vari fattori che, intrecciandosi, acuirono la tensione prodotta dalle nuove imposte. La difficoltà stessa nel dare una definizione univoca a queste rivolte riflette l'ampiezza degli elementi che le composero e che le resero possibili. E' indiscutibile che la guerra fu tra le cause prime dei provvedimenti fiscali del governo e che a questa si sovrapponeva una congiuntura economica tra le peggiori, scatenando il malessere dei contribuenti delle classi popolari. Mentre nei ceti politicamente colti della Fronda parlamentare, l'ideologia costituzionalistica (si è parlato a questo proposito di «rivolta dei giudici»), a quel tempo sbandierata dall'Inghilterra, ebbe sicuramente un certo rilievo; cosi come la progressiva perdita di potere, di status e di prestigio, unita alle maggiori difficoltà nell'esazione dei diritti feudali, in concorrenza con le imposte dello Stato, toccarono nel vivo gli interessi della nobiltà di provincia.
Motivazioni diverse, dunque, avevano dato origine alle rivolte, che solo la complessa situazione politica del momento aveva coagulato in un'unica esplosione, confusa e apparentemente unitaria, contro gli organismi dello Stato. Ma la conflittualità da tempo esistente all'interno delle stesse classi dirigenti impedì la formazione di un gruppo compatto, anzi la vecchia nobiltà di sangue e la nobiltà degli uffici - sebbene entrambe esautorate dalla burocrazia parallela degli intendenti statali - trovarono qui una nuova occasione per rinfocolare la loro rivalità, e oltrepassando la comune opposizione all'assolutismo, offrirono a Mazarino la carta per uscire vittorioso.
La pacificazione della Fronda con lo Stato avvenne sulla base del reinserimento delle élites nobiliari e parlamentari nello stesso sistema monarchico. Dopo anni di disordini queste si resero conto che, in ultima istanza, il loro benessere dipendeva dall'ordine e dalla stabilità politica, nonché da un efficiente apparato di riscossione delle imposte in grado di consentire allo Stato il pagamento dei loro stipendi.
L'abilità di Mazarino nel condurre le trattative garantì, dal 1653, il ritorno alla pace sociale che gli consentì di proseguire nel rafforzamento del governo centrale contro i particolarismi locali e di intraprendere una politica economica mercantilistica. Quando il grande ministro morì (1661) fu il sovrano in persona, il giovane «Re Sole», a prendere le redini del potere, ritenendo in questo modo di imprimere una «svolta» nella storia della Francia, ma in realtà egli non faceva che portare a compimento il programma dei due ministri-cardinali: la monarchia assoluta, preparata con fatica tra conflitti e opposizioni dentro e fuori il paese, stava giungendo al suo compimento imponendosi all'Europa come un modello istituzionale da imitare.
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