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La diplomazia italiana




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La diplomazia italiana


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La diplomazia italiana non ha mai mancato di esperti in affari tedeschi. Alcuni di questi hanno fatto la storia dei rapporti tra Italia e Germania: da Bernardo Attolico negli anni '30, a Pietro Quaroni e Luigi Vittorio Ferraris nel dopoguerra. A questa lunga tradizione appartiene anche Silvio Fagiolo che dopo aver trascorso quattro anni a Berlino da ambasciatore ha appena lasciato la carriera diplomatica.
In 36 anni al ministero degli Esteri, Fagiolo ha lavorato oltreché a Berlino a Washington, Bruxelles, Mosca e Bonn. In Germania, Paese a cui è legato anche per motivi familiari, l'ex diplomatico ha trascorso tre lunghi periodi: da studente della Freie Universitä;t a Berlino tra il 1965 e il 1966, da consigliere politico dell'ambasciata d'Italia a Bonn tra il 1982 e il 1986, e da ambasciatore tra il 2001 e il 2005.
Pochi giorni prima della sua partenza dalla Germania, «Il Sole-24 Ore» lo ha incontrato per discutere della situazione tedesca a qualche settimana dalle elezioni federali che potrebbero sancire il ritorno al potere dei democristiani. Nei suoi ricordi di studente e di diplomatico si riflette la parabola della socialdemocrazia tedesca e dei suoi attuali dirigenti politici.
«Quando arrivai a Berlino nel 1965, il Muro era appena stato costruito e la città era un'isola nel comunismo, alla frontiera di un mondo che finiva in Siberia. Si passava a Est per assistere agli spettacoli di Bertolt Brecht al Berliner Ensemble. Ricordo che c'era l'angoscia di perdere l'ultimo métro e di essere catturati da un mondo alieno. La città era ancora semidistrutta: tuttora a Berlino i vuoti sono più importanti dei pieni perché indicano qualcosa che non c'è più».
A metà anni '60, la Germania come la Francia e poi l'Italia stava già facendo i conti con i primi movimenti studenteschi. «Se oggi la Germania non è più piccolo borghese è grazie anche al 1968. Il mio professore di tedesco all'Università di Roma, Werner Rautenberg che fu interprete per molti anni di Konrad Adenauer, mi disse un giorno che 'ufficio' in tedesco si scrive Amt, con la maiuscola come tutti i sostantivi, ma che un tedesco se potesse lo scriverebbe AMT».
«Grazie al movimento studentesco di quegli anni i tedeschi hanno perso quel senso di riverenza di fronte al potere che aveva caratterizzato il periodo nazista e prima ancora quello prussiano. Oggi il Paese è capace di criticare il potere, prima non lo era». Proprio il '68 contribuì alla transizione politica e all'arrivo al potere dei socialdemocratici di Willy Brandt che per 13 anni, dal 1969 al 1982, governarono la Germania inaugurando la Ostpolitik. Fagiolo torna nel Paese proprio mentre l'Spd si appresta a lasciare il governo. Nel 1982 Helmut Schmidt fu costretto a dimettersi. Al suo posto fu eletto Helmut Kohl. La sconfitta di Schmidt dipese per molti versi dai laceramenti interni all'Spd: molti, a iniziare da Willy Brandt e Gerhard Schröder, erano contrari alla politica del cancelliere. «La crisi fu aperta da un documento sull'economia in cui si metteva l'accento sull'indebolimento strutturale della Germania. In questo Schmidt fu di luciferina lucidità: aveva capito con vent'anni di anticipo che la Germania non poteva continuare a essere governata dal modello renano». Era anche il periodo in cui la Germania doveva dare il suo benestare allo spiegamento sul suo territorio di missili da puntare contro l'Unione sovietica. «Nel settembre 1983, da consigliere d'ambasciata, fui mandato a toccare con mano lo stato d'animo dei manifestanti riuniti davanti all'Università di Bonn. Il rischio naturalmente è che la Germania potesse rifiutare i missili trascinando con sé altri Paesi europei, a iniziare dall'Italia».
Quella manifestazione pacifista a cui parteciparono decine di migliaia di persone dette a Fagiolo l'impressione di essere «un'enorme scampagnata», i partecipanti mancavano di determinazione. «Mi sembrava più un quadro di Bruegel, dalle tinte tranquillizzanti e gioiose che un dipinto di Bosch dalle visioni apocalittiche». Il Governo tedesco non si lasciò quindi intimidire e gli euromissili furono dispiegati in Germania, così come in Italia.
«Sembravamo al culmine della guerra fredda, invece si stava preparando la fine dell'Urss. Stava cominciando un nuovo periodo nella storia europea. Le date d'altro canto parlano chiaro: nel 1985 mentre a Bruxelles Jacques Delors diventava presidente della Commissione europea, a Mosca Mikhail Gorbaciov assumeva il potere. La crisi dell'Urss è da attribuirsi alla debolezza del sistema sovietico, ma anche al processo di maturazione dell'Europa e a un suo crescente potere d'attrazione».
Così come negli anni '60, anche negli anni '70 e '80 i socialdemocratici modificarono in profondità la società tedesca. «In questo periodo, la Germania acquista le virtù primarie. Mi spiego meglio. Nel dibattito tra sinistra e destra in Germania si è discusso per un lungo periodo delle virtù tedesche: accanto a quelle più tradizionali definite secondarie dall'Spd - affidabilità, credibilità, precisione - si sono aggiunte con il tempo quelle primarie: indipendenza di giudizio, libertà di espressione, spirito di iniziativa».
Dopo la lunga era del Governo Kohl, dal 1982 al 1998, proprio queste «virtù primarie» hanno segnato il ritorno al potere dell'Spd alla fine del decennio scorso. In questi anni, spiega sempre Fagiolo, la socialdemocrazia tedesca non è stata capace di capire e adattarsi alle sfide del l'economia.
Mentre la questione dello spiegamento dei missili americani negli anni '80 spaccò l'Spd fino al «regicidio» (il voto di sfiducia ai danni di Schmidt), nel 2001 la guerra in Irak ha indotto Schröder a opporsi alla politica di Washington, coagulando il partito e mettendo drammaticamente in dubbio la tradizionale fedeltà nei confronti dell'alleato americano. A tutta prima la posizione di Berlino - «dai toni antiamericani che appartengono più alla tradizione francese che a quella tedesca» - avrebbe dovuto rafforzare l'Unione europea.
Invece la crisi economica della Germania, tra globalizzazione e unificazione, ha contribuito al risorgere del nazionalismo in Europa. «In questo senso non c'è crisi dell'Europa. C'è una crisi di una società tedesca più povera che comporta la crisi dell'Europa. Il grande dilemma ormai è se la vocazione europea della Germania verrà salvata. Certo, è più difficile mantenere questa vocazione se i confini dell'Europa sono indistinguibili o troppo lontani. In questo contesto i sacrifici economici sono più difficili da fare».
Prevale il pessimismo quindi? Non agli occhi di Fagiolo: «Gli ultimi quarant'anni hanno sancito la forza della società tedesca che ha rivelato in sé profondi radici democratiche, un grande equilibrio di fondo, senza eccessivi estremismi politici. In questo senso, la Germania del dopoguerra è un capolavoro di acume e dimostra che la Storia migliore la scrivono i vinti, non i vincitori».

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