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La crisi economica e il new deal




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LA CRISI ECONOMICA E IL NEW DEAL


Tra il 24 e il 29 ottobre 1929 tutta l'america viene scossa dal crollo di Wall Street. Gli indici della borsa di New York precipitano in conseguenza dell'annunciata crisi economica e finanziaria. Gli effetti sono devastanti e provocano fallimenti a catena degli istituti di credito, chiusura delle industrie, disoccupazione. Presto la crisi si estende in Europa provocando anche qui disastri sia sul piano economcio che su quello politico. Intanto negli Stati Uniti il nuovo presidente Roosevelt prende provvedimenti e inaugura la fase del New Deal che imposta un nuovo rapporto tra Stato ed economia, già teorizzato dall'economista Keynes.

La crisi scoppiata nell'ottobre del 1929 con il crollo della borsa di Wall Street è il prodotto inevitabile degli squilibri su cui poggia lo sviluppo incontrollato delle forze produttive negli Stati Uniti. La politica isolazionista, conformista e nazionalista americana, basata sulla filosofia della più completa libertà di iniziativa individuale, conduce il più ricco e potente Stato del mondo a una rovinosa crisi economica e sociale. Il vertiginoso aumento della produttività industriale e agricola nel decennio immediatamente precedente la crisi, al quale fa riscontro l'enorme volume dei profitti, e in piccola parte dei salari, non fa i conti con la saturazione del mercato interno. I governanti, contrari a qualsiasi intervento statale nell'economia, sottovalutano l'imminente pericolo. Continuano gli investimenti nei rami più produttivi dell'industria, che produce ormai al di sopra di ogni possibilità di assorbimento. Nel 1929 si manifesta l'incontrovertibile recessione, alla quale gli industriali reagiscono con la diminuzione della produzione, con la decisa riduzione dei salari e l'espulsione della forza lavoro dalle fabbriche. Il generalizzato impoverimento aggrava la spirale della crisi, abbassando ancora di più la possibilità di assorbimento interno della produzione. La crisi del 1929, manifestatasi con il Big Crash della Borsa di New York del 29 ottobre, durerà con virulenza fino al 1932. Le cifre della crisi parlano di oltre 5.000 banche fallite; circa il 50% della produzione industriale e del reddito agricolo crollati, di tredici milioni di disoccupati (con un tasso percentuale che toccherà il 25% nel 1933), e della diminuzione dei salari di circa il 45%. Milioni di piccoli e medi risparmiatori, che avevano investito il loro denaro in azioni, sono completamente rovinati.

Insieme con l'intensità e la durata, la crisi e la depressione si caratterizzano per la loro diffusione mondiale. Le ripercussioni non sono ovunque della stessa intensità, ma alcune conseguenze si faranno sentire in tutti i paesi a economia capitalistica. La diffusione della crisi è innanzitutto legata alla dimensione dell'economia statunitense, capace da sola di rappresentare circa il 45% dell'intera produzione mondiale. Malgrado le politiche protezioniste dei governi statunitensi degli anni venti, le importazioni americane raggiungono, prima della crisi, più del 10% del commercio internazionale. Anche i legami finanziari della moneta statunitense con le valute europee accresce la capacità di propagazione e internazionalizzazione della crisi.

Il crollo dei prezzi agricoli e delle materie prime si ripercuote sul mercato internazionale aggravando lo stato delle economie di tutti i paesi produttori. La prima misura per contrastare questa dinamica è quella di alzare barriere doganali: queste, tra il 1929 e il 1930, determinano un calo del 25% del commercio internazionale. La crisi monetaria si manifesta come ultimo atto della disgregazione dell'economia mondiale. In Europa colpisce per primi gli stati finanziariamente più deboli, come l'Austria, che vedono cessare gli investimenti americani. Alla chiusura degli istituti di credito austriaci segue l'analoga paralisi dell'economia monetaria tedesca, ancora alle prese con le riparazioni di guerra. Ancora più forte è la recessione che colpisce i paesi agricoli dell'Est europeo: il grano tocca i prezzi più bassi degli ultimi quattro secoli. Nel settembre del 1931 è svalutata la sterlina inglese, dopo qualche anno segue lo stesso destino il franco francese. Nell'estate del 1933 fallisce la conferenza internazionale di Londra per la ricerca di una via comune nel superamento della crisi. Le risposte alla depressione sono differenti: l'Inghilterra punta su una netta svalutazione della moneta e sul consistente aumento delle barriere doganali (potendosi avvalere del mercato "interno" del Commonwealt). La Francia, l'Italia e tutti i paesi che possono contare su consistenti riserve auree sottopongono l'economia a una pesante politica deflativa che consente il mantenimento della parità aurea della moneta. Una terza strada, intrapresa dalla Germania e in parte dall'Italia, è rappresentata dall'isolamento progressivo verso un'economia autarchica.

Con la crisi del 1929 tramonta definitivamente l'idea perseguita dalle amministrazioni repubblicane dello "sviluppo armonico del capitale". Nel novembre del 1932 i Democratici rappresentati da Franklin Delano Roosevelt, vincono le elezioni presidenziali, dando inizio a quella fase che passerà alla storia come New Deal.

Il programma rooseveltiano è il seguente: potenziamento dei lavori pubblici per favorire la diminuzione della disoccupazione; sostenere i prezzi agricoli per impedire l'ulteriore abbassamento del tenore di vita degli agricoltori; sviluppare e unificare le attività assistenziali; regolamentare i trasporti e i servizi pubblici; sottoporre al controllo governativo le banche e gli istituti finanziari; disciplinare i rapporti tra capitale e lavoro. Per attuare il suo programma Roosevelt capovolge quello che era stato il precetto repubblicano basato sul minimo intervento dello Stato nella società civile, e chiede con energia un forte potere esecutivo. Già seguace di Wilson e governatore dello Stato di New York, Roosevelt istituisce un rapporto diretto con le masse: in questo senso si possono ricordare i famosi discorsi radiofonici rivolti alla nazione, passati alla storia come "i discorsi del caminetto".

In breve, egli inaugura un nuovo rapporto tra Stato, industriali e forze lavoratrici. Nei primi giorni del suo mandato presidenziale, i cosiddetti "cento giorni", l'amministrazione favorisce il rialzo dei prezzi per incrementare i profitti delle imprese e salvaguardare il pagamento dei debiti. Opera una politica deflazionistica per ridurre la circolazione monetaria; riduce le spese dell'amministrazione centrale e gli stipendi degli impiegati pubblici. A sostegno dell'agricoltura, nel maggio del 1933 è promulgato l'Agricoltural Adjustament Administration con il quale si regolamenta la produzione e si riduce il tasso di indebitamento. Lo sviluppo delle opere pubbliche, capaci di limitare la forte disoccupazione, è affidata alla Federal Emergency Relief Administration organismo destinato a distribuire i finanziamenti pubblici. Anche la produzione industriale è riorganizzata con la National Industrial Recovery Administration, una legge per la regolamentazione dei prezzi, dei salari e degli orari di lavoro. Si garantisce, inoltre, l'attività sindacale dei lavoratori (legge Wagner, 1935). Oltre al finanziamento delle piccole e medie imprese, per favorire l'occupazione viene creato il Works progress Administration e con funzioni analoghe il Public Works Administration. Il New Deal di Roosevelt, in definitiva, segna la fine dell'idea della completa autonomia del capitale. L'intervento statale suffragato dalle nuove teorie economiche di Keynes, lungi dal risolvere completamente gli effetti devastanti della crisi, attenua la stessa e pone le basi per una nuova ristrutturazione capitalistica.

Il superamento della fase più acuta generata della crisi del 1929 afferma, attraverso la politica del New Deal, il nuovo ruolo dello Stato nella vita economica. Si afferma, cioè, il sodalizio organico tra grande capitale e direzione statale. La teorizzazione della funzione indispensabile dell'intervento pubblico nell'economia, ha il suo paladino nell'economista inglese John Maynard Keynes. Nel 1936 viene pubblicata la sua maggiore opera teorica: Teoria generale dell'impiego, dell'interesse e della moneta. L'economista individua nell'insufficiente capacità di consumo delle grandi masse i motivi reali della grande crisi. Conseguentemente, contrario alla compressione salariale, vede nell'innalzamento delle retribuzioni una ricetta per scongiurare i pericoli di un futuro crollo dell'economia. Anche i tassi di interesse operati dagli istituti di credito devono essere tenuti bassi per agevolare i prestiti alle imprese. Importante ancora l'investimento dei capitali industriali in attività produttive e non in speculazioni bancarie. Il sistema di tassazione dei redditi e dei profitti da parte dello Stato avrebbe, poi, creato le condizioni per assicurare al potere esecutivo il ruolo di centro di coordinamento dell'economia nazionale. Il programma keynesiano, alla base del cosiddetto Welfare State (in opposizione alla ricetta ultraliberista del Laissez-faire), è adottato nel New Deal rooseveltiano e in parte da alcuni governi europei, come quelli inglese e francese. Prevede il superamento del Gold-standard (valutazione della moneta in rapporto alla quantità di riserve auree) attraverso un sistema di collaborazione e di scambi internazionali che faccia riferimento alle reali capacità economiche di ciascun paese.

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