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La crisi di fine secolo e la svolta liberale
Negli ultimi anni del secolo scorso, l'Italia fu teatro di una crisi poltico-istituzionale paragonabile a quella vissuta dalla Francia. Lo scontro si concluse con un'affermazione delle forze progressiste, sufficiente a far evolvere la vita del paese.
Negli anni che seguirono le dimissioni di Crespi e il ritorno al potere di Rudunì, si delineò fra le forze conservatrici la tendenza a ricomporre un fronte comune contro le vere o supposte minacce portate all'ordine costituito dai "nemici delle istituzioni", socialisti, repubblicani o clericali che fossero.
La tensione esplose quando un improvviso aumento del prezzo del pane fece scoppiare in tutto il paese una serie di manifestazioni popolari. La risposta del governo fu durissima; prima massicci interventi delle forze di polizia, quindi proclamazione dello stato d'assedio, con conseguente passaggio dei poteri alle autorità militari, a Milano, a Napoli e nell'intera Toscana. La repressione fu particolarmente violenta a Milano dove l'esercito sparò sulla folla inerme. Capi socialisti, radicali, repubblicani, e anche esponente del movimento cattolico intransigente, furono incarcerati.
Dimessosi Rudinì, il suo successore fu Luigi Pelloux che presentò alla Camera nel '99 un pacchetto di provvedimenti che limitavano gravemente il diritto di sciopero e la libertà di associazione. I gruppi di estrema sinistra risposero con l'ostruzionismo, consistente nel prolungare all'infinito la discussione parlamentare. Pelloux sciolse la Camera ma, a causa del successo ottenuto dalle opposizioni nelle elezioni del giugno 1900, si dimise. Accettando la sue dimissioni a affidando la successione al senatore Giuseppe Saracco, Umberto I mostrava di prendere atto del fallimento di quella politica repressiva che lo aveva visto fra i suoi più attivi sostenitori. Un mese dopo, il re cadeva vittima di un attentato per mano di un anarchico, Gaetano Cresci, venuto appositamente dagli Stati Uniti per vendicare la vittime del '98.
Così il governo Saracco inaugurò una fase di distensione nella vita politica italiana. Una distensione che fu favorita dal buon andamento dell'economia e dall'atteggiamento del nuovo re, Vittorio Emanuele III.
Quando il governo Saracco fu costretto a dimettersi per il comportamento incerto e contraddittorio tenuto in occasione di un grande sciopero generale indetto dai lavoratori genovesi, il re seppe ben interpretare il nuovo clima politico chiamando alla guida del governo il leader della sinistra liberale Zanardelli, che affidò il ministero degli Interni a Giovanni Giolitti.
Nei suoi quasi tre anni di vita il ministero Zanardelli-Giolitti condusse in porto alcune importanti riforme. Furono estese le norme che limitavano il lavoro minorile e femminile nell'industria. Fu costituito un Consiglio superiore del lavoro, organo consultivo per la legislazione sociale, cui partecipavano anche esponenti delle organizzazioni sindacali socialiste. Ma più importante delle singole riforme fu il nuovo atteggiamento del governo in materia di conflitti di lavoro. Le organizzazioni sindacali, operaie e contadine si svilupparono rapidamente. In quasi tutte le principali città del Centro-nord si costituirono le Camere del lavoro, mentre crescevano anche le organizzazioni di categoria. Formate in prevalenza da braccianti e concentrate in prevalenza nelle province padane, le leghe rosse si riunirono nella Federazione italiana dei lavoratori della terra. Obiettivo finale e dichiarato delle leghe era la "socializzazione della terra". Obiettivi immediati erano l'aumento dei salari, la riduzione degli orari di lavoro, l'istituzione di uffici di collocamento controllati dai lavoratori stessi.
Lo sviluppo delle organizzazioni sindacali fu accompagnato da una brusca impennata degli scioperi. Ne derivò una spinta al rialzo dei salari destinata a protrarsi per tutto il primo quindicennio del secolo.
Decollo industriale e questione meridionale.
A partire dagli ultimi anni del secolo scorso, l'Italia conobbe il suo primo decollo industriale. La costruzione di una rete ferroviaria, avviata negli anni della Destra, aveva favorito i processi di commercializzazione dell'economia. La scelta protezionistica del 1887 aveva reso possibile la creazione di una moderata industria siderurgica. Infine, il riordinamento del sistema bancario attuato dopo la crisi della Banca romana aveva creato una struttura finanziaria abbastanza efficiente. Particolare importanza ebbe la costituzione di due nuovi istituti di credito, la Banca commerciale e il Credito italiano, che svolsero una funzione decisiva nel facilitare l'afflusso del risparmio privato verso gli investimenti industriali.
Furono appunto questi settori che fecero registrare i maggiori progressi. La siderurgia vide la creazione di numerosi nuovi impianti per la lavorazione del ferro. Nel settore tessile, i maggiori progressi si ebbero nell'industria cotoniera. Nel settore agro-alimentare si assisté alla crescita di un'altra industria protetta, quella dello zucchero.
Fra il 1896 e il 1907 il tasso medio di crescita annua fu del 6,7%. Fra il 1896 e il 1914, il volume della produzione industriale risultò quasi raddoppiato.
Il decollo industriale dell'inizio del '900 fece sentire i suoi effetti anche sul tenore di vita della popolazione. I segni di questo mutamento erano visibili soprattutto nelle città.
Le case operaie erano per lo più malsane e sovraffollate. Gli appartamenti dotati di servizi igienici autonomi restavano un'eccezione nelle grandi città. Il riscaldamento centralizzato era un lusso. Ma la diffusione dell'acqua corrente nelle case e il miglioramento delle reti fognarie costituirono un progresso contribuendo alla forte diminuzione della mortalità da malattie infettive. Anche la mortalità infantile fece registrare un notevole calo.
Questi progressi non furono sufficienti a colmare il divario che ancora separava l'Italia dagli Stati più ricchi e più industrializzati. L'analfabetismo era ancora molto elevato, mentre si avviava a scomparire in tutta l'Europa del Nord.
Tutte le regioni italiane parteciparono al fenomeno migratorio. Ma il contributo più rilevante venne dal Mezzogiorno. Dal punto di vista economico, il fenomeno migratorio ebbe alcuni effetti positivi: non solo perché allentò la pressione demografica, creando un rapporto più favorevole fra popolazione e risorse e attenuando tensioni sociali altrimenti insostenibili, ma anche perché le rimesse, degli emigranti alleviarono il disaggio delle zone più depresse e risultarono di giovamento all'economia dell'intero paese. Dall'altra parte, l'emigrazione così massiccia rappresentò un impoverimento, in termini di forza-lavoro e di energie intellettuali, per la comunità nazionale.
Gli effetti del progresso economico si fecero sentire soprattutto nelle regioni già più sviluppate, in particolare nel cosiddetto triangolo industriale che aveva come vertici Milano, Torino e Genova. E il divario fra Nord e Sud si venne perciò accentuando.
I governi Giolitti.
Su una realtà complessa e contraddittoria come quella dell'Italia all'inizio del '900 si esercitò l'opera di governo di Giovanni Giolitti. Egli restò al potere per oltre un decennio.
Quella esercitata da Giolitti fu una "dittatura parlamentare" molto simile a quella realizzata da Depretis e decisamente più aperta, nei contenuti. Tratti caratteristici dell'azione di Giolitti furono il sostegno costante alle forze più moderne della società italiana nemici delle istituzioni, la tendenza ad allargare l'intervento dello Stato per correggere gli squilibri sociali.
Il controllo delle Camere costituì l'elemento fondamentale del "sistema" di Giolitti.
Per i socialisti rivoluzionari e per i cattolici democratici Giolitti era colpevole di far opera di corruzione all'interno dei rispettivi movimenti, dividendoli e attirandone le componenti moderate entro il suo sistema di potere trasformista. Per converso i liberali-conservatori accusavano Giolitti di attentare alle tradizioni risorgimentali, venendo a patti con i nemici delle istituzioni e mettendo così in pericolo l'autorità dello Stato. Diversamente motivate erano le accuse lanciate a Giolitti dai meridionalisti come Gaetano Salvemini. Per loro la denuncia del malcostume politico imperante nelle regioni del sud si legava alla critica severa della politica economica governativa, che avrebbe favorito l'industria protetta e le "oligarchie operaie" del Nord, ostacolando lo sviluppo delle forze produttive nel Mezzogiorno.
Durante l'età giolittiana furono varate alcune importanti iniziative in favore del Mezzogiorno: in particolare le leggi speciali del 1904, volte a incoraggiare lo sviluppo industriale e la modernizzazione dell'agricoltura mediante stanziamenti statali. Altri provvedimenti di rilievo realizzate in questo periodo furono la statizzazione delle ferrovie e l'istituzione di un monopolio statale delle assicurazioni sulla vita, i cui proventi dovevano servire a finanziarie il fondo per le pensioni di invalidità e vecchiaia dei lavoratori.
Sempre nel 1912 fu varata la più importante tra le riforme giolittiane: l'estensione del diritto di voto a tutti i cittadini maschi che avessero compiuto trent'anni e a tutti i maggiorenni che sapessero leggere e scrivere o avessero prestato il servizio militare: in pratica, il suffragio universale maschile. Il significato politico di questa riforma fu però controbilanciato dalla contemporanea decisione del governo di procedere alla conquista della Libia: una vicenda che contribuì a mettere in crisi l'intero "sistema" giolittiano.
Socialisti e cattolici.
Man mano che si venivano delineando i limiti del liberismo giolittiano, si affermò in seno al Partito socialista italiano una corrente rivoluzionaria, per la quale si doveva opporre una linea rigida allo Stato monarchico e borghese. Nel congresso di Bologna le correnti rivoluzionarie assunsero la guida del partito e in seguito a un "eccidio proletario" verificatosi in Sardegna nel corso di una manifestazione di minatori, indissero il primo sciopero generale nazionale della storia d'Italia. Forti furono le pressioni sul governo, ma Giolitti lasciò che la manifestazione si esaurisse da sola, salvo poi a sfruttare le paure dell'opinione pubblica moderata per convocare le nuove elezioni in cui le sinistre segnarono una battuta d'arreso. Durante le agitazioni si era sentita l'esigenza di un più stretto coordinamento nazionale. Proprio dalle federazioni di categoria controllate dai riformisti partì l'iniziativa che portò alla fondazione delle Confederazione generale del lavoro.
Nel congresso di Reggio Emilia, la guida del partito tornò nelle mani degli intransigenti, fra i quali venne emergendo la figura di un giovane agitatore romagnolo, Benito Mussolini. Il congresso decise l'espulsione dal partito di tutti gli aderenti alla tendenza revisionista che faceva capo a Leonida Bissolati e a Ivanoe Bonomi e che prospettava la trasformazione del Partito socialista italiano in un partito di tipo "laburista" disponibile per una collaborazione di governo con le forze democratico-liberali. Mussolini chiamato alla direzione dell'Avanti! Portava nella propaganda socialista uno stile nuovo, basato sull'appello diretto alle masse e sul ricorso a formule agitatorie prese a prestito dal sindacalismo rivoluzionario.
La novità più importante fu l'affermazione del movimento democratico-cristiano, guidato da Romolo Murri. Il nuovo pontefice Pio X, temendo che l'Opera dei congressi potesse finire sotto il controllo dei democratici cristiani, non esitò a scioglierla. Successivamente Murri venne sospeso dal sacerdozio. Il movimento sindacale cattolico continuò comunque a svilupparsi. Nel frattempo il papa e i vescovi favorivano le tendenze clerico-moderate che miravano a far fronte comune con i "partiti d'ordine" per bloccare l'avanzata delle sinistre.
La guerra di Libia e la crisi del sistema giolittiano.
A partire dal 1896 la politica estera italiana subì una netta correzione di rotta. Il conseguente miglioramento dei rapporti con la Francia portò a un accordo per la divisione delle sfere di influenza in Africa settentrionale: accordo con cui l'Italia otteneva il riconoscimento dei suoi diritti di priorità sulla Libia, lasciando in cambio mano libera alla Francia sul Marocco.
La nuova situazione creò qualche motivo di contrasto con gli alleati della Triplice. Contrasti che si accentuarono quando l'Austria-Ungheria procedette, senza consultare l'Italia, all'annessione della Bosnia-Erzegovina. In questo clima poté affermarsi un movimento nazionalista che si organizzò nella Associazione nazionalista italiana e che iniziò una martellante campagna per la conquista della Libia. La guerra con la Turchia, che esercitava la sovranità sulla Libia, scoppiò nel 1911 e terminò con la pace di Losanna, con la quale la Turchia rinunciava alla sovranità politica sulla Libia. Durante la guerra la maggioranza della opinione pubblica borghese si schierò a favore della impresa coloniale e la appoggiò con grandi manifestazioni patriottiche anche se i costi del conflitto furono molto pesanti e le ricchezze naturali della Libia si scoprivano inesistenti.
La guerra di Libia scosse gli squilibri su cui si reggeva il sistema giolittiano e favorì il rafforzamento delle ali estreme. La destra liberale, i clerico-conservatori e soprattutto i nazionalisti trassero nuovo slancio dal buon esito di un'impresa che avevano sostenuto. Sull'opposto versante, quello socialista, l'opposizione alla guerra fece emergere le tendenze più radicali e indebolì quelle correnti riformiste e collaborazioniste che avevano costituito fin allora un elemento non secondario degli squilibri politici giolittiani.
Altri elementi di novità nel sistema politico furono apportate dalle elezioni del novembre 1913, le prime a suffragio universale maschile. Il conte Ottorino Gentiloni, presidente dell'Unione elettorale cattolica, invitò i militanti ad appoggiare quei candidati liberali che si impegnassero a rispettare un programma che prevedeva fra l'altro la tutela dell'insegnamento privato, l'opposizione al divorzio, il riconoscimento delle organizzazioni sindacali cattoliche. Moltissimi candidati liberali, accettarono segretamente di sottoscrivere questi impegni.
Nel maggio 1914, Giolitti rassegnò le dimissioni, indicando al re come suo successore Antonio Salandra. Giolitti incoraggiò dunque un'esperienza di governo conservatore con la prospettiva di lasciarla logorare rapidamente e di tornare poi al potere a capo di un ministero orientato a sinistra. Ma la situazione era molto cambiata rispetto a quattro o cinque anni prima. La guerra di Libia aveva radicalizzato i contrasti politici; e anche la situazione economica si era nuovamente deteriorata, provocando un inasprimento delle tensioni sociali.
Un sintomo evidente del nuovo clima fu la cosiddetta settimana rossa del giugno 1914. la morte di tre dimostranti durante una manifestazione antimilitarista ad Ancona provocò un'ondata di scioperi in tutto il paese.
Gli echi della "settimana rossa" non si erano ancora spenti, quando lo scoppio del conflitto mondiale intervenne a distogliere l'opinione pubblica dai problemi interni e determinare nuovi schieramenti fra le forze politiche italiane. La grande guerra avrebbe reso irreversibile la crisi del giolittismo e messo in luce la debolezza di una politica che aveva avuto il merito di favorire la democratizzazione delle società, incoraggiando al tempo stesso lo sviluppo economico, ma che si rivelava inadeguata a fronteggiare le tensioni sprigionate dalla nascente società di massa.
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