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La bomba atomica




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LA BOMBA ATOMICA








Tutta la storia dal progetto manhattan allo scoppio delle bombe


Nell'agosto del 1942, gli Stati Uniti vararono il Progetto Manhattan, per l'invenzione e la fabbricazione della bomba atomica. Iniziò cosi il periodo della sperimentazione nucleare, condizionata dalla seconda guerra mondiale in corso.

Alcuni scienziati, preoccupati del probabile utilizzo militare, si astennero fin dal 1939 dal continuare la ricerca, come fece Hahn in Germania, dove, anche a seguito di una scelta politica di Hitler, venne bloccato un potenziale sviluppo, nel vano tentativo di produrre i missili V1 e V2. Leo Szilard, fisico di origine ungherese ed ex collaboratore di Albert Einstein, proponendo di far cessare la divulgazione sulla fissione nucleare, scrisse in quel periodo al collega Joliot: «Qualora si liberi più di un neutrone, sarà evidentemente possibile una reazione a catena. Questo, in determinate circostanze, potrebbe consentire la realizzazione di bombe estremamente pericolose, ma più particolarmente tra le mani di certi governi».

Nel frattempo il Progetto Manhattan cercava di assicurare le condizioni indispensabili per la produzione di energia dal processo di fissione nucleare. Tali condizioni sono quattro: il materiale fissile deve essere in quantità sufficiente e disposto secondo una determinata 'geometria'; i neutroni impiegati devono essere 'lenti', cioè dotati di velocità idonea a dar vita alla reazione; il flusso di neutroni deve essere regolato per controllare la fissione; infine, l'energia scaturita deve essere utilizzabile. Per soddisfare queste condizioni si fece ricorso all'uranio 235, poiché il suo nucleo è facilmente scindibile con neutroni 'lenti', dal momento che la 'sezione d'urto', cioè la possibilità di dividere il nucleo, risulta, in prima approssimazione, inversamente proporzionale alla velocità dei neutroni. L'uranio 238 invece, pur presente in maggiori quantità, non è 'fissile', ma 'fertile': vale a dire che 'cattura' un neutrone per diventare, con una successiva e immediata trasformazione, un elemento fissile (il plutonio 239, non presente infatti in natura). Per rallentare i neutroni venne impiegato un elemento 'moderatore', capace di generare nell'urto una riduzione di velocità senza perdite o assorbimento: ad esempio l'acqua, ma anche la grafite, una forma naturale del carbonio.

Infine, per regolare l'attività di un reattore nucleare, si ricorre a barre di controllo mobili all'interno del reattore, e costituite da sostanze in grado di assorbire fortemente i neutroni e rallentare, fino a fermarlo, il processo di reazione a catena. La macchina in cui si produsse per la prima volta una fissione nucleare, caratterizzata da una reazione a catena controllata e capace di automantenersi, fu la famosa 'pila atomica', il prototipo dei futuri reattori nucleari; realizzata da Enrico Fermi, assistito da colleghi e tecnici, era un reattore a uranio e grafite sovrapposti in 'pila', eretto su un campo da gioco e sostenuto da una struttura in mattoni. Entrò in funzione a Chicago il 2 dicembre 1942. Il primo passo era compiuto; per il Progetto Manhattan rimaneva ancora da risolvere l'arricchimento della disponibilità del materiale fissile occorrente per tentare l'esperimento di reazione a catena non frenata: l'esplosione di una bomba atomica. Non passò comunque molto tempo. Nel frattempo, per scongiurare un possibile e ravvicinato impiego bellico, il fisico danese Niels Bohr si adoperò affinché Usa e Urss organizzassero il necessario controllo internazionale, informando i rispettivi governi dell'arretratezza della Germania in proposito; lo sforzo non ottenne risultato per volontà della Gran Bretagna e del suo primo ministro Churchill, che impedì un accordo russo-americano, e anzi, nel 1943, ne raggiunse uno con gli Stati Uniti per l'embargo totale dell'uranio e delle informazioni atomiche (Accordo del Quebec).

Dopo la sconfitta della Germania, nel maggio 1945, si formò negli Usa un comitato presieduto da James Byrnes e coadiuvato da un sotto-comitato scientifico composto dai tre premi Nobel Arthur Compton, Enrico Fermi, Ernest Lawrence e dal responsabile del Centro per la produzione della bomba di Los Alamos, Robert Oppenheimer, per decidere se effettuare una dimostrazione preventiva oppure il diretto impiego militare per accelerare la conclusione della guerra. La decisione cadde tragicamente su quest'ultima ipotesi, nonostante che a sostegno della prima si fossero pronunciati Leo Szilard e i principali scienziati di Chicago con il loro presidente e Premio Nobel James Franck, auspicando una dimostrazione in zona disabitata dinanzi a rappresentanti delle Nazioni Unite. Il 16 luglio 1945 si verificò la prima esplosione nucleare della storia ad Alamogordo, nel deserto del New Mexico (Usa). Gli effetti furono terrificanti, al di là di ogni previsione: la reazione a catena non frenata generò una luce più intensa di quella solare e un vento tempestoso e travolgente seguito da un tuono possente tale da evocare ai testimoni, situati a 15 km di distanza, una vera apocalisse. Alla fine, sul luogo dell'esplosione rimase un profondo cratere.

Questa esperienza non servi d'ammonimento e non valse a impedire, meno di un mese dopo, due vergognosi e immani eccidi destinati a sconvolgere il mondo.

Robert Oppenheimer fu il direttore scientifico del progetto Manhattan, che portò alla realizzazione delle prime bombe nucleari. Dopo la guerra, quale presidente del comitato consultivo del governo americano per i problemi nucleari, si oppose, insieme a Fermi, alla realizzazione della bomba all'Idrogeno. Fu accusato di essere poco affidabile e privato del permesso di accesso alle informazioni riservate. Allontanato dalle ricerche di interesse militare, fu nominato direttore dell'Istituto di Studi Avanzati di Princeton, dove lavorava, tra gli altri, Einstein.

Quest'ultimo non partecipò alla progettazione della bomba atomica. Scrisse una lettera al presidente Roosevelt in cui diceva di ritenere che la recente scoperta della fissione da parte di un fisico tedesco apriva la via alla realizzazione di un ordigno di straordinaria potenza ed inoltre affermava che i fisici tedeschi rimasti nella Germania nazista erano ovviamente al corrente di questa possibilità. Da questa lettera prese il via il processo politico che porto' poi alla decisione di realizzare il progetto Manhattan. Pochi giorni prima di morire firmo' il manifesto Einstein-Russel con il quale si invitavano gli scienziati di tutto il mondo a riunirsi per discutere dei modi per favorire la distensione ed evitare una catastrofe nucleare. Da questo manifesto nacquero le 'conferenze Pugwash per la scienza e gli affari mondiali' che l'anno scorso hanno ricevuto il premio Nobel per la Pace per la loro attività in favore della pace e contro la minaccia delle armi nucleari.

In breve Einstein fu pacifista durante la prima guerra mondiale, interventista di fronte alla minaccia nazista e di nuovo pacifista durante la guerra fredda.



Nel luglio 1945, il secondo conflitto mondiale aveva ormai stremato intere popolazioni. Le distruzioni, le perdite militari e civili, le precarie condizioni economiche, il consumo eccezionale di risorse e il razionamento alimentare avevano colpito tutti i continenti. Tuttavia la guerra proseguiva e la vittoria degli Alleati non era completa. Il Giappone, ultima forza dell'Asse, continuava a resistere alle incursioni aeree e ai bombardamenti americani e, poiché aveva rifiutato di accettare la resa incondizionata il 28 luglio, gli Stati Uniti decisero di utilizzare la bomba atomica per porre fine alla guerra. Il presidente Truman ordinò gli attacchi: vennero fatte esplodere due bombe, il 6 agosto a Hiroshima e il 9 a Nagasaki. Le due città erano tra le meno danneggiate dai numerosi bombardamenti (i raid su Tokyo avevano provocato la morte di 150.000 persone in una sola notte) e pertanto le piú idonee a dare dimostrazione di fronte al mondo della straordinaria potenza distruttrice della bomba e della supremazia militare e tecnologica degli Stati Uniti. Le condizioni meteorologiche e di visibilità, fortuitamente buone al momento dell'azione, consegnarono tragicamente Hiroshima e Nagasaki alla storia. Su Hiroshima, la mattina del 6 agosto 1945 fu sganciata, dal B-29 Enola Gay (dal nome della madre del suo comandante, Paul Tibbets), la bomba all'uranio 235 'Little Boy'(ragazzino), dotata di una potenza pari a piú di 20.000 tonnellate di tritolo ed equivalente a un carico usuale di 2000 aerei B-29. L'orrenda deflagrazione generata dallo scoppio della bomba causò la morte immediata di oltre 70.000 persone e di altrettante, per le ferite riportate, nei giorni seguenti. La vita fu cancellata nella zona d'impatto della bomba, dove si produsse una temperatura di alcune migliaia di gradi Celsius con l'istantanea cremazione di ogni essere vivente. Nelle zone limitrofe molti subirono orrende ustioni, lacerazioni e malformazioni; i superstiti (hibakusha) portano ancora oggi i segni della bomba indelebilmente scolpiti sul proprio corpo. Molti di loro descrissero l'esplosione con il termine pika (lampo), mentre chi si trovava fuori dalla città lo ricordò come pikadon (lampo-boato). In un raggio di decine di chilometri regnava la morte. Tibbets, testimone, con gli altri esecutori della missione, di uno spettacolo allucinante, scrisse sul diario di bordo: «Hiroshima non c'è piú, al suo posto c'è un orribile nube purpurea che ribolle, espandendosi come un fungo, in una pentola di olio nero». Le autorità giapponesi censurarono le notizie sull'accaduto; Truman e Churchill si assunsero la responsabilità di proseguire. Cosí il 9 agosto fu la volta di Nagasaki, raggiunta di mattina dal Bock's Car del maggiore Charles Sweeney, che vi scaricò una bomba al plutonio, 'Fat Man' (grassone). Complessivamente nelle due esplosioni perirono 300.000 persone e per il 17 o 18 agosto era prevista una nuova missione. Ma il Giappone capitolò. La guerra era vinta. Agli occhi degli Stati Uniti e del mondo questo sembrò il prezzo da pagare per ottenere la fine di anni di atrocità. Tibbets e molti altri sostengono, oggi come allora, che la bomba risparmiò migliaia di nuove vittime da sacrificare se si fosse resa necessaria l'invasione del Giappone e che non meno distruttivi e sanguinosi furono, per la loro intensità, i bombardamenti convenzionali.

Questa esperienza lasciò comunque tracce indelebili; è sufficiente riportare la drammatica esclamazione proferita dal capitano Robert Lewis subito dopo lo scoppio: «Mio Dio, che cosa abbiamo fatto?». Theodore van Kirk, navigatore di bordo sull'Enola Gay, ammise: «Io lasciai Hiroshima, ma Hiroshima non lasciò mai me».




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