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Israele e Iran
1947 - 1979: gli anni dell'alleanza
Il primo punto di contatto rilevante tra Iran e Israele risale a prima della nascita dello Stato di Israele stesso. L'Iran, infatti, fu selezionato come uno degli undici Paesi facenti parte dell'UNSCOP (United Nations Special Committee on Palestine), un comitato speciale delle Nazioni Unite creato con il compito di ascoltare le parti in causa (l'Alto comitato arabo, che pure inizialmente boicottò i lavori del comitato, e l'Agenzia ebraica ed elaborare una proposta di risoluzione da presentare in Assemblea Generale. Alla fine dei lavori del comitato, otto membri su undici presentarono un piano di divisione della Palestina e la contestuale creazione di due Stati, uno arabo e uno israeliano, con Gerusalemme posta sotto amministrazione internazionale. L'Iran non era tra questi otto Stati e, insieme a India e Jugoslavia, si oppose alla spartizione presagendo un esito violento: l'unica soluzione possibile per assicurare la pace, secondo lo Shah Mohammad Reza Pahlavi , sarebbe stata la «creazione di un singolo Stato federale formato da due componenti autonome, una ebraica e una araba» . Il rappresentante iraniano presso l'Onu si comportò conseguentemente il 29 novembre
1947, giorno in cui venne messa ai voti, in Assemblea generale, la Risoluzione 181 sulla Palestina, sommando il proprio dissenso alla lista degli altri dodici voti contrari alla partizione, e sancendo una posizione di mancato riconoscimento de iure dello Stato di Israele che sarebbe rimasta immutata per tutto il regno dello Shah, fino al 1979 quindi, e che viene portata avanti anche oggi . Questo primo approccio alla questione della sistemazione della Palestina si sarebbe dimostrato rivelatore di una tendenza caratterizzante l'atteggiamento dell'Iran dello Shah nei confronti di Israele, ossia quella di guardare con interesse e favore alla nascita di un nuovo Stato proprio al centro del Medio Oriente arabo in funzione di bilanciamento, appunto, del potente blocco arabo che, tradizionalmente, non aveva mai visto di buon occhio la vicina Persia. A tale costante si sarebbe però sempre affiancata l'impraticabilità di un riconoscimento formale di Israele da parte di Teheran. La Persia, storicamente, si era sempre dimostrata abbastanza refrattaria alla colonizzazione e civilizzazione araba, tanto da mantenere una distinzione linguistica (con la conservazione del farsi, lingua di origine indoeuropea) ma anche culturale in senso complessivo, con festività proprie (come il Nowruz - il nuovo anno) perfino più sentite di quelle religiose comuni a tutto il mondo musulmano ; la stessa - presunta - comunanza religiosa con gli arabi (basata sulla comune fede islamica) va relativizzata, in quanto in Iran si è affermato nel tempo il ramo dello sciismo , detto duodecimano , mentre la corrente maggioritaria dell'Islam, diffusa e nettamente prevalente negli Stati arabi (come in tutti gli Stati musulmani in Asia centrale e orientale) è il sunnismo . Ecco che il nuovo Stato di Israele avrebbe «assorbito l'attenzione e le risorse degli Stati arabi, da sempre i rivali tradizionali dell'Iran nella regione ; allo stesso tempo, però, e sempre nell'ottica del bilanciamento di potere, un riconoscimento de jure di Israele sarebbe risultato impraticabile, innanzitutto per non far infuriare le masse musulmane e per non attirare su di sé tutto il biasimo che invece lo Stato ebraico stava e avrebbe in futuro canalizzato . Insomma, Israele come parafulmine e contrappeso geopolitico. Fu così che l'Iran sotto lo Shah percorse sempre una strada insidiosa e piena di ambiguità e ipocrisie - di pura Realpolitik possiamo dire - intermedia «tra aperta ostilità e aperta alleanza»
Il governo israeliano formalizzò la sua richiesta di riconoscimento presso il governo iraniano una prima volta nel giugno del 1948. Una seconda richiesta fu avanzata nove mesi dopo, ancora senza successo. Come si è accennato, pur non arrivando mai un riconoscimento de jure di Israele, il 6 marzo del 1950 il gabinetto del Primo ministro iraniano Mossadeq si decise per un riconoscimento de facto di Israele e aprì le frontiere dell'Iran agli ebrei iracheni che da tempo cercavano di espatriare in Israele tramite l'Iran; Teheran quindi riconobbe lo Stato ebraico come una realtà di fatto nella regione, senza però avviare relazioni diplomatiche di alcun tipo con esso Le leaderships dei due Paesi non tardarono comunque a trovare fattori di vicinanza nello scacchiere mediorientale e mondiale, ovvero la comune avversione verso il blocco sovietico e i suoi alleati arabi. In Israele, infatti, dopo i primi anni di incertezza nei confronti della scelta tra blocco occidentale e orientale e di diffusa simpatia nei confronti dell'Unione sovietica - visto anche il predominio del partito socialista laburista Mapai nelle elezioni legislative israeliane fino al 197 e il gran numero di ebrei di origine slava - l'orientamento cominciò a virare nettamente verso il mondo occidentale guidato dagli Stati Uniti d'America, con cui i legami divennero via via più solidi e fruttuosi: questa definitiva "chiarificazione" e scelta di campo spianò la strada a un'intesa, quella tra Iran e Israele, che la geopolitica del Medio Oriente rendeva naturale. Al comune nemico sovietico si aggiunse presto l'Egitto di Nasser , il cui panarabismo e attitudine a porsi a capo delle masse arabe erano visti con sfavore non solo dall'acerrimo nemico israeliano, ma anche dallo Shah, che soffriva il presunto accerchiamento arabo A complicare ulteriormente la situazione e disturbare i sogni del sovrano iraniano si aggiunse prestissimo l'orientamento filo- sovietico adottato da Nasser per l'Egitto. Oltre alle compatibilità geostrategiche, a far avvicinare Iran e Israele concorsero anche diversi altri fattori. Innanzitutto le strette necessità energetiche di quest'ultimo, ovvero una sete crescente di petrolio, dovuta all'ovvio embargo arabo sulla vendita di greggio al nemico sionista, sete accresciuta dal boom economico israeliano e dal contemporaneo aumento del fabbisogno energetico.
La questione della fornitura di petrolio iraniano a Israele merita un breve excursus e sarà trattata qui di seguito.
Fino alla prima metà degli anni '50 Israele poté contare sulle forniture provenienti soprattutto da Unione Sovietica, Venezuela, Kuwait, e compagnie petrolifere internazionali. In seguito alla crisi di Suez del 1956 e per via degli alti prezzi del petrolio americano tali legami e forniture cessarono del tutto e si ripresentò più forte di prima il bisogno di approvvigionamenti stabili e consistenti di petrolio. Nel 1952 Israele importava petrolio per il 70% dal Venezuela e per il 30% dall'Iran: in pochi anni si arrivò a una completa dipendenza dall'Iran (con percentuali del 90% sul totale delle forniture) . Sotto questo aspetto, già nell'estate del 1957 si arrivò a un accordo con gli iraniani per la costruzione di un oleodotto del diametro di quaranta centimetri (finanziato dalla famiglia di banchieri Rothschild che andasse dal porto di Eilat sul golfo di Aqaba fino alla cittadina di Ashkelon sul Mediterraneo, la cui costruzione fu terminata molto rapidamente (nel tempo record di cento giorni) entro la fine dello stesso anno. Tale oleodotto, che serviva sia gli interessi iraniani (bypassando il sensibilissimo canale di Suez in mano a Nasser), sia il fabbisogno energetico israeliano, venne raddoppiato nel 195 Per tenere nascosto l'accordo e soprattutto la partecipazione iraniana, nel 1959 venne poi creata un'apposita società in Liechtenstein chiamata Fimarco, di cui l'Iran deteneva il 10%. Verso la metà degli anni 60, però, a causa dell'accresciuto fabbisogno israeliano, il condotto preesistente diventò insufficiente: vennero quindi avviati negoziati segreti tra i governi dei due Paesi per costruire un nuovo oleodotto. Inoltre, la guerra dei sei giorni del 1967 ebbe come conseguenza la chiusura del canale di Suez, il che obbligava le petroliere cariche di greggio destinato all'Europa di ritornare alla circumnavigazione dell'Africa:
«l'idea di israeliani e iraniani [fu] allora di far venire [tutto] il petrolio [iraniano] a Eilat e di inviarlo attraverso l'oleodotto verso i porti di Haifa e Ashkelon. Le compagnie petrolifere vi avrebbero fatto scalo per prendere il greggio e Israele avrebbe incassato una percentuale sui volumi transitanti sul proprio territorio . Lo Shah si convinse quindi ad accettare una partnership paritaria tra il governo israeliano e la National Iranian Oil Company (NIAC): nel 1968 venne quindi creata in Svizzera un'apposita compagnia, la Trans-Asiatic Oil (che gestisce tuttora il condotto) e furono trovati i fondi per finanziare il progetto (grazie alla Deutsche Bank). Già nel corso del 1969 l'oleodotto - di un metro di diametro - era completato e a dicembre divenne operativo, trasportando ingenti quantità di greggio iraniano verso Israele e l'Europa per quasi dieci anni (fino alla caduta dello Shah).
Un ulteriore e importante fattore di riavvicinamento tra i due Paesi era costituito dalla numerosa comunità ebraica residente in Iran, che i governi di entrambe le parti erano interessati a far transitare dall'Iran ad Israele. L'interesse di quest'ultimo risiedeva innanzitutto nella volontà di popolare il proprio Stato cercando così di controbilanciare la preponderanza demografica arabo- palestinese
Dal punto di vista iraniano, il riavvicinamento era giustificabile dal bisogno delle conoscenze tecniche avanzate che Israele aveva già sviluppato in termini di irrigazione e coltivazione di suoli particolarmente ostici come quelli desertici. Allo stesso tempo si pensava di sfruttare il più possibile l'influenza israeliana (spesso ingigantita nella sua importanza, e non solo dall'Iran ma, si vedrà, anche dalla Turchia) sulle scelte politiche di Washington, per cercare di avvicinare e ingraziarsi gli Stati Uniti d America . Una collaborazione importante, in funzione principalmente antisovietica e anti-nasseriana, accomunava poi i servizi segreti di Israele, Iran e Turchia: stabilito nel 1958, il patto chiamato Trident si basava sulla cooperazione in tema di scambio di informazioni di intelligence sui movimenti di truppe, l'invio di convogli e le operazioni militari di Unione Sovietica, Egitto e Iraq . Il primo pericolo agli occhi dello Shah restò comunque la percezione della minaccia sovietica, che si manifestava attraverso un possibile attacco sia esterno" con il sostegno (politico, economico, militare) al panarabismo e alle sue varie realizzazioni nei diversi Paesi arabi (di cui l'Egitto di Nasser rappresentava l'esempio principale) sia proveniente dall'interno, con il sostegno e finanziamento ai vari gruppi e partiti di opposizione al regime dello Shah, tra cui, soprattutto, il partito comunista Tudeh . In tale ottica di prevenzione dell'avanzata sovietica, Israele si rivelava un alleato utile alla causa ma non decisivo. Diversa invece la posizione di quest'ultimo, secondo la quale l'Iran, «il più forte Stato alla periferia di Israele, era un fattore chiave nella grande strategia politica israeliana , basata sulle alleanze periferiche. La necessità politica di mantenere segreta la collaborazione con Israele consigliò e costrinse lo Shah a eludere molto spesso il ministero degli affari esteri e ricorrere direttamente alla Savak, la temutissima polizia segreta del regime
Le visite dei funzionari iraniani erano tenute all'oscuro e avvenivano via Turchia, senza alcun timbro sul passaporto al loro arrivo in Israele; venne creata pure una ambasciata iraniana ombra", a cui ci si riferiva con il nome di Berna 2" perché, per coprire il segreto della sua esistenza (comunque nota agli statunitensi, nonostante gli sforzi iraniani), tutti i suoi dipendenti risultavano residenti e impiegati in Svizzera. Allo stesso modo le visite di funzionari del governo di Israele (e, a maggior ragione, dei primi ministri seguirono tutte un protocollo di particolare segretezza, nonostante il desiderio israeliano di rendere il più possibile pubblico e visibile il rapporto con l'Iran dello Shah, per ovvie ragioni politico-diplomatiche. L'ambasciata segreta di Israele a Teheran non fu mai riconosciuta, i suoi dipendenti non parteciparono mai a eventi ufficiali, così come mai la bandiera con la stella di David poté sventolare sopra l'edificio adibito alla rappresentanza diplomatica, e tutto questo sebbene si trattasse di una ambasciata operante a tutti gli effetti e l'ambasciatore" avesse diretto contatto con lo Shah
La fine degli anni '60 e l inizio dei '70 videro significativi cambiamenti nella geopolitica del Medio Oriente: Israele vinse in maniera impressionante contro gli Arabi nella guerra dei sei giorni del 1967; la minaccia a Iran e Israele da parte dell'Iraq aumentò; il rapporto tra le due superpotenze passò dal contenimento" alla distensione"; l Egitto abbandonò la sua alleanza con l Unione Sovietica e si spostò verso lo schieramento occidentale dopo la guerra dello Yom Kippur del 1973; l'Iran sperimentò una crescita economica rapida e senza precedenti che gli assicurò un accresciuta influenza nella regione; i britannici decisero di ritirare la flotta dal Golfo Persico, il che permise allo Shah di giocare un ruolo dominante negli affari della regione e anche oltre. Tutti questi cambiamenti misero alla prova l equilibrio sul quale era fondata l intesa israelo iraniana
La lampante dimostrazione di forza israeliana nella Guerra dei sei giorni, con annesse conquiste territoriali e netto ridimensionamento delle ambizioni arabe, preoccupò lo Shah, che desiderava un Israele né troppo debole - per non rinforzare troppo il blocco arabo attirandone le attenzioni - né troppo forte - per evitare una minaccia alle ambizioni egemoniche iraniane sulla regione e rendere troppo amara e indigeribile per gli arabi l'intesa dell'Iran con Israele. In seguito al rifiuto di quest'ultimo di restituire i territori conquistati durante le operazioni di guerra, l'attitudine e i toni dello Shah, almeno pubblicamente, cambiarono in peggio, assumendo un carattere più duro e intransigente verso Israele: il monarca Palhavi in particolare insisté sul non riconoscimento di queste annessioni e sulla necessità di ricorrere alle Nazioni Unite. Tale atteggiamento verso lo Stato ebraico si spiegava con il costante timore dello Shah di attirarsi le critiche dei Paesi arabi, specialmente dopo la dura presa di posizione di questi ultimi nei confronti
di Israele contenuta nella "Khartoum Resolution" del 1967. In questo documento, siglato a Khartoum (capitale del Sudan) al termine di una riunione della Lega Araba, vennero formulati i famosi "tre no": no alla pace, no al riconoscimento, no alle trattative con Israele
In seguito all'approvazione all'unanimità della Risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU n° 242 del 22 novembre 1967, in cui si chiedeva a gran voce il «ritiro dell'esercito israeliano dai territori occupati e si enfatizzava «l'inammissibilità dell'acquisizione di territori attraverso la guerra , l'Iran si dichiarò apertamente a favore di tali principi e soluzioni, non solo per la già citata volontà di ingraziarsi i Paesi arabi, ma anche per ragioni interne, ovvero la necessità di scongiurare l'alienazione dei propri territori (es. Baluchistan e Kuzhestan) interessati da ambizioni separatiste e dalla bramosia dei Paesi vicini . Un altro fattore chiave nell'influenzare le relazioni israelo iraniane fu il mutato clima tra Iran e Egitto. Le relazioni diplomatiche tra i due Paesi erano state interrotte nel luglio 1960, per decisione di Nasser . Un Nasser indebolito accettò e annunciò il ripristino delle piene relazioni diplomatiche, con un comunicato congiunto, nell'agosto 197 . Il 6 luglio 1972 il nuovo presidente, Anwar Sadat, stanco della lentezza dei rifornimenti militari sovietici richiesti e desideroso di maggiore libertà strategica, effettuò la radicale scelta di passare al campo occidentale ordinando a più di quindicimila consiglieri ed esperti militari sovietici presenti in Egitto di lasciare il Paese entro una settimana
Nonostante la distensione tra Egitto e Iran potesse lasciar pensare a un venir meno definitivo delle basi su cui Iran e Israele avevano costruito la loro intesa segreta, l'emergere dell'Iraq come principale nemico e minaccia di entrambi i Paesi fornì il motivo a Tel Aviv e Teheran per continuare a coltivare i rapporti segreti tra di loro, in quanto - insieme alla Turchia - unici Stati non arabi della regione. Un campanello di allarme importante suonò in particolare il 9 aprile 1972, quando l'Iraq firmò un trattato di amicizia con l'Unione Sovietica, sostituendo l'Egitto come principale esempio della longa manus sovietica in Medio Oriente . Inoltre, uno dei frutti più rilevanti della distensione ovest est fu il minore interessamento delle superpotenze, ma soprattutto degli Stati Uniti, a occuparsi in prima persona delle faccende concernenti i propri alleati e potenze regionali. Tra gli anni '60 e '70, poi, gli americani avevano il problema del Vietnam che bastava a prosciugare la gran parte delle loro energie e risorse, ragion per cui «la nuova incertezza sull'affidabilità americana nel controbilanciare l'influenza sovietica e araba nella regione rese la cooperazione israelo iraniana ancora più importante»
Sotto la presidenza Nixon del resto venne coniata la strategia detta Twin Pillar policy, per designare la nuova politica di « coinvolgimento indiretto" nella regione del Golfo , tesa a promuovere i due più potenti alleati mediorientali degli Stati Uniti - l'Iran e l'Arabia Saudita - come guardiani degli interessi statunitensi nella regione e «pilastri di contenimento anticomunista : per rendere più attraente tale strategia, venne proposta all'Iran la possibilità di acquistare qualsiasi tipo di armamento di fabbricazione americana che non fosse di tipo nucleare . L'Iran pensò subito di approfittare di questa libertà e responsabilità, gettandosi in una folle corsa al riarmo: finanziata soprattutto grazie all'aumento vertiginoso delle rendite da petrolio e gas naturale, la sua spesa militare triplicò in tre anni, dai 6.10 miliardi di dollari del 1973 ai 18.07 del 1976; le dimensioni dell'esercito passarono dalle 22 '000 unità del 1972 alle 385'000 del 1975; dal 1972 al 1975 l'Iran acquistò, da solo, circa un terzo delle esportazioni di armi americane . Questa spesa in armamenti si giustificava sia con l'inquadramento nella Twin Pillar policy, sia, soprattutto, con le accresciute ambizioni dello Shah, che vedeva finalmente la concreta possibilità di fare dell'Iran «il Guardiano del Golfo" per l'Occidente nonché elevarlo al rango di prima potenza militare regionale» . Come si sa, il ruolo di potenza dominante, a livello globale o regionale, non è tanto conquistato quanto riconosciuto dagli altri Stati confinanti: di qui la necessità che veniva percepita negli ambienti di governo dell'Iran di ricevere il consenso degli Stati arabi e la loro accettazione del predominio iraniano sulla regione. Al riguardo, l'ottenimento di tale riconoscimento si dimostrò più difficile del previsto, nonostante gli sforzi dello Shah e gli aiuti economici indirizzati ai Paesi arabi confinanti: apparve presto chiaro, agli occhi del monarca iraniano, che i rapporti con Israele, alla conoscenza di tutti seppur tenuti nella maggiore segretezza possibile, impedivano nel presente e avrebbero impedito in futuro un vero e sincero avvicinamento tra la potenza persiana e gli Stati arabi , e tanto meno un pacifico riconoscimento da parte di questi ultimi della supremazia politico-militare di Teheran in Medio Oriente. «Più l'Iran cresceva, più lo Shah aveva bisogno dell'accettazione da parte araba delle aspirazioni politiche dell'Iran, più egli diventava sensibile alle critiche dei vicini arabi» . Il peso di queste critiche fece sì che, durante la guerra dello Yom Kippur , Teheran mantenesse una linea ufficiale di neutralità ma in realtà aiutasse gli Stati arabi, inviando petrolio all'Egitto, piloti e aeroplani in Arabia Saudita, assicurando assistenza sanitaria ai soldati siriani feriti e impedendo, al contempo, a volontari ebrei provenienti dall'Australia di raggiungere in aereo Israele passando per Teheran. L'aiuto iraniano andò perfino all'Unione Sovietica, sotto la forma del permesso di sorvolare lo spazio aereo iraniano per l'invio di materiale militare all'Iraq . Ciononostante, l'Iran non partecipò all'embargo petrolifero contro Israele e, anzi, continuò a rifornire lo Stato ebraico anche durante il conflitto ed estendendo il suo aiuto all'invio di armi . Insomma, Teheran tenne i piedi su due staffe, per acquisire i maggiori vantaggi possibili. Il cambio di campo dal blocco sovietico a quello occidentale dell'Egitto, avvenuto nel 1972, non aveva modificato di una virgola la pericolosità del vicino mediorientale agli occhi di Israele che, anzi, aveva subito un pesante attacco nel 1973; l'Iraq, poi, stava rapidamente aumentando le sue capacità militari difensive e offensive grazie al trattato di amicizia con l'Unione Sovietica, che ne aveva fatto il successore dell'Egitto come primo Paese per importanza in Medio Oriente ad essere legato al mondo comunista: con uno scenario del genere, «nonostante l'atteggiamento più freddo da parte iraniana, lo Stato ebraico aveva se possibile ancora più bisogno dell'Iran in seguito alla guerra [dello Yom Kippur] rispetto a prima. Israele, semplicemente, non aveva altra scelta che reinvestire nelle proprie relazioni con Teheran, dal momento che mancava di spazio di manovra per perseguire altre politiche e o alleanze . L'Iran, nel frattempo, stava cercando strade alternative - rispetto all'oleodotto Eilat-Ashkelon - per esportare il proprio petrolio verso l'Europa; inoltre, lo Shah adottò una posizione piuttosto rigida e filo-egiziana circa le trattative che seguirono la fine della Guerra dello Yom Kippur, premendo per il ritorno dei territori occupati da Israele all'Egitto e facendo ulteriori pressioni per interrompere la cooperazione militare israelo-iraniana e l'acquisto di armamenti israeliani da parte iraniana . Un ulteriore brutto colpo ai sogni di alleanza di Israele venne dal ritiro del sostegno iraniano alla guerriglia curda in Iraq, troncato nel marzo 1975. Fin dal maggio 1965, infatti, Israele e Iran avevano siglato un accordo con il leader dell'insurrezione curda in Iraq, Mustafa Barzani, per la fornitura, attraverso il territorio iraniano, di armi, istruttori militari, medici provenienti da Israele, in cambio della promessa che tali rifornimenti sarebbero stati usati per lanciare un'offensiva di larga scala contro il governo centrale iracheno e tenerne impegnato l'esercito, con ovvi vantaggi sia per Israele (da sempre preoccupato di un possibile attacco iracheno attraverso la Giordania) sia per l'Iran (desideroso di operare come leader regionale indiscusso e fortificare le proprie posizioni nel Golfo Persico e quindi interessati a un indebolimento del vicino iracheno). Anche se le riluttanze iraniane erano state vinte a fatica, visti i sospetti che si nutrivano circa le tendenze filo-sovietiche di Barzani (che aveva trascorso dodici anni in Russia come rifugiato politico), per una decina di anni agenti della Savak e del Mossad operarono fianco a fianco in territorio iracheno in sostegno dei curdi. Tale presenza in territorio curdo permise anche agli israeliani di rimpatriare molti ebrei iracheni attraverso il territorio iraniano (e la città di Rezaieh, in particolare), sempre con la collaborazione della Savak. Con il tempo si arrivò al dispiegamento di alcuni battaglioni, sia iraniani che israeliani, con il beneplacito degli statunitensi che avevano cominciato essi stessi a inviare aiuti ai curdi iracheni. L'operazione segreta terminò improvvisamente nel marzo 1975 a seguito della firma dell'accordo di Algeri , patrocinato dal presidente algerino Boumédienne, tra lo Shah e Saddam Hussein. Tale accordo sancì la divisione tra i rispettivi Stati del controllo sullo Shatt al Arab Arvand Rud, una via d'acqua navigabile anche dalle petroliere e quindi di estrema importanza per raggiungere il Golfo Persico e poi l'Oceano Indiano, ponendo fine (o, almeno, così credeva lo Shah) a decenni di dispute frontaliere tra Iran e Iraq. Inoltre, i termini dell'accordo privilegiarono l'Iran, per la gioia dello Shah che finalmente vedeva sancita e accettata la predominanza iraniana sulla regione del Golfo da uno dei suoi principali contendenti. Né Israele né gli Stati Uniti furono precedentemente informati degli accordi, ma ne vennero a conoscenza a cose fatte, anche perché, probabilmente, la decisione stessa di sedersi intorno a un tavolo e stipulare un'intesa fu piuttosto estemporanea. Sta di fatto che il 7 marzo 1975 lo Shah ordinò di interrompere il sostegno iraniano all'insurrezione curda in Iraq e a nulla servirono le vibranti proteste israeliane . Nonostante le previsioni ottimistiche dello Shah, l'Iraq sarebbe rimasto la più grande minaccia ai confini dell'Iran a causa del suo continuo riarmo finanziato e sostenuto dei sovietici e del sostegno ai principali leaders e movimenti di opposizione al regime iraniano, tra cui soprattutto l'Ayatollah Khomeyni
A stretto giro di posta, sempre nel 1975 arrivò un altro brutto colpo per Israele da parte iraniana, ovvero il voto positivo alla Risoluzione n° 3379 del 10 novembre dello stesso anno che equiparava il sionismo al razzismo e spingeva per la sua eliminazione (insieme all'apartheid) . Anche in questo caso, le ragioni di una tale scelta sarebbero da ricondurre alle ambizioni di leadership regionale dello Shah che rendevano praticamente inevitabile un voto positivo a fianco dei Paesi arabi di cui si voleva guadagnare il sostegno . Ovviamente e nuovamente, le proteste israeliane non poterono nulla per cambiare la posizione iraniana in proposito.
A rendere il quadro dei rapporti bilaterali tra Iran e Israele ancora più complicato concorsero le elezioni politiche del giugno 1977 in Israele, che segnarono la vittoria del Likud di Menachem Begin, la cui visione politico-territoriale a favore dell'annessione dei territori occupati e soprattutto della Cisgiordania (chiamata Giudea e Samaria ponevano una seria ipoteca sui rapporti con l'Iran, vista la posizione dello Shah apertamente contraria al controllo e all'annessione israeliana di Sinai, Cisgiordania e Golan e, al contrario, favorevole al ritiro dello Stato di Israele dagli stessi e al loro ritorno agli Stati arabi (Egitto, Siria e Giordania). Significativa, a tale proposito, una sua intervista del 1976 in cui sollecitava una effettiva applicazione delle Risoluzioni dell'Onu 242 del 196 e
338 del 197 . Dopo il 1973, lo Shah aveva chiesto al generale Hassan Toufanian , a capo del programma iraniano di acquisto e approvvigionamento di armi, di raffreddare i rapporti con Tel Aviv sul piano della collaborazione militare . Tuttavia, le forti preoccupazioni iraniane legate al riarmo dell'Iraq (e in particolare all'acquisizione dai sovietici dei missili Scud, che avrebbero ampliato notevolmente le capacità offensive di Baghdad) e la ritrosia degli Stati Uniti di Carter a vendere missili Pershing a Teheran (per via della capacità di questi missili di ospitare testate nucleari costrinsero ben presto lo Shah a rivedere tale politica per tornare a rivolgersi a Israele: queste le premesse e cause scatenanti di una serie di accordi militari tra cui il controverso Project Flower
Lo Shah diede istruzioni al gen. Toufanian di rivolgersi agli israeliani per acquisire tecnologie missilistiche. La risposta israeliana andò ben oltre la semplice vendita di missili di fabbricazione americana. Tel Aviv propose una collaborazione che avrebbe utilizzato fondi iraniani e know how israeliano per lo sviluppo di un missile con una gittata di 200 miglia. ] Le discussioni preliminari erano già cominciate sotto il governo Rabin. Lo Shah e l allora ministro della Difesa Shimon Peres firmarono un accordo nell aprile del 1977 a Teheran, insieme a cinque altri contratti petrolio per armi per un totale di un miliardo di dollari. L'obiettivo era estendere il raggio di azione di un missile israeliano esistente e rimpiazzare parti e componenti di fornitura americana in modo che Israele potesse legalmente esportarle senza l approvazione americana. Il missile israeliano includeva un sistema di navigazione inerziale e un sistema di guida fabbricati in America che Tel Aviv aveva il divieto di rendere disponibili ad altri Paesi. ] L Iran inviò, come caparra, 280 milioni di dollari in petrolio ] e Israele cominciò la costruzione di un impianto di assemblaggio vicino a Sirjan, nell'Iran centro meridionale, e un centro di test missilistici vicino a Rafsanjan
I missili sviluppati in collaborazione avrebbero potuto ospitare testate nucleari e venne discussa anche l'ipotesi di adattarli al lancio a partire da sottomarini. Il Project Flower" Perah in ebraico) era solo uno di sei accordi, che andavano sotto la dicitura di Operazione Tzor", siglati nel 1977, e che prevedevano la fornitura all'Iran di missili Jericho di fabbricazione israeliana e capaci di trasportare testate nucleari , la produzione congiunta di mortai e pezzi di artiglieria e il progetto di un aereo da caccia chiamato "Lavi" (o "Young Lion" . Il progetto di più ampia portata riguardava un missile balistico terra terra di fabbricazione israeliana che avrebbe dovuto avere una gittata di
700 chilometri. Le trattative per arrivare alla firma degli accordi e la gestione delle collaborazioni venne affidata a Uri Lubrani, ambasciatore" di Israele in Iran e, per parte iraniana, al generale Toufanian. Per evitare qualsiasi sospetto e mantenere la più completa segretezza era prevista la creazione di società di copertura in Svizzera, di proprietà di altrettante società con sede legale alle isole Vergini: insomma, un sistema di scatole cinesi necessario a sviare l'attenzione internazionale e coprire la partecipazione diretta dei vertici di entrambi gli Stati. Gli ambiziosi progetti di collaborazione, comunque, non arrivarono mai a conclusione per via dello stop imposto dalla rivoluzione khomeinista del 197
1979 - 1992: un periodo di transizione
«I rapporti tra Israele e l'Iran cambiarono radicalmente nel 1979, così come quelli tra Stati Uniti e Iran. Con il regime rivoluzionario i due più utili alleati del Paese divennero i suoi più acerrimi nemici . Il regno dello Shah Reza Pahlavi stava finendo: spese di corte faraoniche, altrettanto folli spese militari, disomogeneità nella distribuzione delle pur abbondanti risorse del Paese, diffuse inefficienze, sprechi e una corruzione dilagante spiegano in parte il cattivo andamento dell'economia iraniana e dell'insoddisfazione popolare. Se alla sciagurata gestione delle finanze pubbliche appena descritta aggiungiamo la dura repressione politica portata costantemente avanti dalle forze armate e dalla Savak, la spietata polizia segreta del regime, che impediva di fatto uno sbocco legale del malcontento popolare, appare chiaro come le condizioni per un rivolgimento politico in Iran fossero mature già ben prima del ritorno di Khomeyni dall'estero . L'ayatollah in esilio, già negli anni '70 era diventato l'esponente di spicco dell'opposizione al regime , cosicché, quando egli rientrò in patria il 1° febbraio 1979 dal breve e finale esilio parigino con un volo della Air France, «fu accolto da milioni di persone all'aeroporto di Teheran e, senza sparare un colpo, sconfisse il sesto più forte esercito del mondo . Lo Shah, peraltro malato, al momento del ritorno di Khomeyni dall'esilio non era nemmeno più in patria avendo lasciato il Paese il 16 gennaio
per l'Egitto dopo aver affidato le chiavi del governo a Shahpour Bakhtiar. Costui, uno degli oppositori del regime, sarebbe restato in sella per poco meno di un mese . A nulla valsero per prevenire la deriva islamica del Paese alcuni provvedimenti populistici del suo governo, come la rottura dei rapporti con il Sud Africa dell'apartheid (storico alleato di Tel Aviv) e la sospensione dei rifornimenti di petrolio a Israele
Nel frattempo, prima della definitiva caduta dello Shah, Israele aveva cominciato a richiamare in patria gran parte dei membri della delegazione segreta israeliana a Teheran e della stessa comunità ebraica della città, a cominciare dagli esperti dell' "Operazione Tzor . A testimonianza del fatto, durante il brevissimo interregno di Bakhtiar, i voli della compagnia di bandiera israeliana El Al erano rimasti gli unici a collegare Teheran con il resto del mondo . La caduta di Reza Pahlavi, in ogni caso, non aveva sorpreso più di tanto gli israeliani, i cui servizi segreti si basavano su una fitta rete di informatori e la cui spina dorsale era costituita dalla ben integrata comunità ebraica a Teheran; inoltre, durante i non infrequenti incontri al vertice di alti funzionari dello Stato e dell'esercito di entrambe le parti, la verità di un regime scricchiolante era emersa ampiamente in superficie, spesso per stessa ammissione degli iraniani, che più volte avevano cercato addirittura l'aiuto e il consiglio dei colleghi israeliani, nella vana speranza di far rinsavire lo Shah . L'ex- generale Moshe Dayan, a quel tempo ministro degli Esteri, decise di mantenere una pur minima presenza israeliana e tenere in funzione il più a lungo possibile l' ambasciata" a Teheran, nella speranza mal riposta che si sarebbe potuto convincere il nuovo governo a prolungare i rapporti con Israele. Tuttavia, a inizio 1979 il clima era ormai deteriorato e le condizioni per garantire la presenza israeliana nella capitale iraniana andavano svanendo. Il 10 febbraio, addirittura, la sede della missione diplomatica di Tel Aviv venne assaltata dalla folla e data alle fiamme, costringendo il personale ancora presente a cercare frettolosamente rifugio presso abitazioni private di ebrei- iraniani. Il giorno dopo, il governo voluto da Khomeyni era ormai in carica: ciononostante venne fatto un ultimo sforzo da parte israeliana, con la richiesta dell'autorizzazione a poter restare, ma la risposta da parte del governo rivoluzionario fu negativa e l'ingiunzione a partire perentoria. Il 18 febbraio vennero definitivamente rotti tutti i rapporti tra Iran e Israele, compresa la vendita di petrolio e i collegamenti aerei diretti . Cominciava in questo modo una nuova era nei rapporti bilaterali tra i due Paesi, segnata da una profonda discontinuità rispetto al passato, una frattura che ha portato, soprattutto a partire dagli anni 90, a una rappresentazione dicotomica e manichea dei rapporti reciproci e all'emersione di giudizi netti e spesso estremamente duri e bellicosi da entrambe le parti. Eppure, per tutto il decennio degli anni 80, per il persistere di uno scenario geopolitico immutato, le condizioni che avevano reso possibile una collaborazione anche stretta tra i due Paesi rimasero e fecero in modo da controbilanciare la veemenza delle dichiarazioni di intenti e le antitetiche prese di posizione politiche. Israele e l'Iran, quindi, continuarono a tendersi la mano per un po', o meglio, fu ancora una volta Israele che, in ossequio all'imperitura strategia delle alleanze periferiche, cercò più di una volta di recuperare" il regime rivoluzionario islamico che aveva messo piede a Teheran, credendolo abbastanza ingenuamente una manifestazione passeggera della rabbia covata per molto tempo dal popolo iraniano nei confronti del suo precedente monarca assoluto. L'Iran, per parte sua, avrebbe dimostrato di non disdegnare, in un'ottica di pura Realpolitik, le ripetute profferte di Israele ma, come e più che in passato, avrebbe confinato questi rapporti clandestini nella cornice del più completo segreto e vi avrebbe fatto ricorso solo nel momento dell'estremo bisogno. L'Iran filo occidentale dello Shah e l'Iran islamico e rivoluzionario di Khomeyni, benché separati da profonde divergenze di ordine ideologico, avevano gli stessi obiettivi strategici e gli stessi nemici di prima, ovvero «Paesi arabi ostili a sud e ovest e l'aggressiva superpotenza russa [che nel 1979 aveva invaso l'Afghanistan] a nord . L'ambizione della nuova leadership religiosa restò quella di fare dell'Iran il Paese leader del Medio Oriente. Le modalità per ottenere un tale risultato, invece, cambiarono: mentre lo Shah aveva cercato il riconoscimento della supremazia iraniana attraverso l'alleanza con Washington e l'aiuto economico e militare ai Paesi arabi, per Khomeyni questa supremazia regionale sarebbe dovuta e potuta arrivare solo nel momento in cui l'intero scenario politico mediorientale fosse mutato, quindi attraverso l'esportazione della rivoluzione islamica in tutti i Paesi a maggioranza musulmana, in modo da sollevare i regimi filo-occidentali che ne reggevano le sorti, irrimediabilmente corrotti nei costumi, per instaurare veri governi islamici. «La situazione si era rovesciata: la minaccia panaraba all'Iran era stata rimpiazzata con una minaccia islamica - e specificamente sciita - agli Stati arabi [di rito sunnita] . Per Israele, nonostante l'apparente venir meno del suo più acerrimo nemico sul fronte occidentale (ovvero l'Egitto) in seguito alla firma della pace nel 197 e all'avvio di piene relazioni diplomatiche l'anno successivo, il mantenimento della collaborazione con l'Iran restava non meno di prima un fattore chiave della propria visione strategica, modellata attorno alle alleanze periferiche. Già nel 1980, nonostante la retorica accesa e infiammata di Teheran contro Israele e la sua stessa esistenza, molto presto le due parti ricominciarono a parlarsi, per la gioia dello Stato ebraico. La rottura dei rapporti tra Stati Uniti e Teheran in seguito all'assalto all'ambasciata statunitense, alla cattura degli ostaggi e al loro mantenimento in prigionia per ben 444 giorni aveva privato l'Iran dei rifornimenti di armi e ricambi fondamentali per il suo esercito e messo sotto pressione il regime attraverso un pesante embargo internazionale; Saddam (diventato nel 1979 presidente dell'Iraq, nonostante fosse de facto l'unico uomo al potere da tempo , era sempre più minaccioso ai confini e, nel settembre 1980, avrebbe attaccato penetrando a fondo in territorio iraniano; l'Urss aveva invaso l'Afghanistan e minacciava l'Iran sia da nord che da ovest; le monarchie del Golfo si stavano dimostrando nettamente ostili al regime degli ayatollah. Tutti questi fattori spinsero nuovamente l'Iran a cercare l'aiuto a Israele, aiuto che si tradusse da subito nella fornitura di pezzi di ricambio per gli aerei da caccia iraniani di fabbricazione americana (come l'F-4 Phantom, l'F-5 Tiger e l'F-
14), così come di armi per l'esercito; vennero anche rispediti in Iran carri armati che lo Shah aveva inviato in Israele per manutenzione . Al momento dell'attacco iracheno all'Iran, quest'ultimo si trovava in una situazione assai deteriorata e pericolosa, isolato e o minacciato non solo dalle due superpotenze, Usa e Urss, ma anche dagli Stati arabo musulmani della regione; i suoi profitti petroliferi erano in caduta libera a causa dei tagli alla produzione in seguito al caos post- rivoluzionario; lo stato di salute del suo esercito era pessimo, in seguito a fughe in massa e o purghe tra i ranghi degli ufficiali , alle spese militari in picchiata e al crollo degli effettivi . L'Iraq invece era in piena ascesa, con un esercito sempre più numeroso, spese militari in crescita esponenziale da anni e un ampio sostegno internazionale - e in particolare da parte dei vicini arabi e dell'Unione Sovietica. L'Iraq aveva al contempo molto da guadagnare: il possesso della via d'acqua dello Shatt al Arab, fondamentale per collegare i campi petroliferi al Golfo Persico, e della regione del Khuzestan, ricca di petrolio, avrebbe fatto dell'Iraq la potenza leader della regione
Dopo aver interrotto le relazioni diplomatiche con l'Iran nel giugno 1980, l'Iraq dichiarò lo Shatt al Arab parte del proprio territorio il 17 settembre 1980, di fatto invalidando gli accordi di Algeri. Saddam lanciò un invasione su larga scala dell'Iran il 22 settembre, adducendo a pretesto un presunto tentativo iraniano di assassinare il ministro degli esteri iracheno Tareq Aziz
Dopo i primi successi e l'invasione irachena del Khuzestan, l'esercito di Saddam dovette arrestarsi di fronte alla strenua resistenza delle pur male organizzate truppe iraniane: ben presto
l andamento del conflitto finì per capovolgersi e le operazioni militari si spostarono in territorio iracheno. Rigettate da Teheran nel 1981 le offerte di pace avanzate dall Iraq, lo scontro si trasformò in un insensata guerra di posizione. ] Fino al 1988, infatti, l imam rifiutò sempre ogni offerta di armistizio e ogni mediazione internazionale
Il 13 luglio 1982 l'esercito iraniano respinse per la prima volta le truppe di Saddam di nuovo in territorio iracheno, dichiarando di mirare, come ultimo obiettivo, a Gerusalemme . Dal 1984 gli attacchi aerei e missilistici vennero intensificati, con bombardamenti sulle città, sulle principali infrastrutture, quindi sui campi petroliferi e perfino sulle petroliere. L'Iraq arrivò a fare ripetutamente un uso massiccio di gas letali, in spregio ai divieti imposti dall'Onu. Finalmente Khomeyni «acconsentì ad accettare la Risoluzione Onu 598, che imponeva il cessate il fuoco . Il
20 luglio 1988 si interruppero finalmente le operazioni militari. La rapida avanzata irachena dei primi mesi preoccupò Israele, per cui una vittoria di Baghdad rappresentava una prospettiva decisamente da evitare , perché avrebbe creato una potenza regionale - da sempre ostile ad Israele
- «con le terze riserve petrolifere al mondo e un esercito grande più di quattro volte quello israeliano ; una vittoria iraniana invece non impauriva lo Stato ebraico, innanzitutto a causa della distanza geografica che impediva a Teheran di portare un attacco credibile al territorio israeliano e anche perché la maggioranza degli analisti e membri del governo, tra cui Yitzhak Rabin,
«continuavano a credere che l'Iran fosse un "naturale alleato" di Israele , secondo la sempreverde strategia delle alleanze periferiche. La comune e storica ostilità nei confronti dell'Iraq, poi, faceva sì che Israele e Iran avessero il forte obiettivo comune di indebolire Baghdad
Poco tempo dopo lo scoppio delle ostilità tra Iran e Iraq, e in barba alla presunta ostilità radicale e irriducibile tra Teheran e Tel Aviv, si tennero incontri segreti, in Svizzera, tra alti membri dell'esercito israeliano e iraniano, per discutere di fornitura di armi, pezzi di ricambio, addestramento; allo stesso tempo, cominciava a Washington un'intesa operazione di lobbying da parte israeliana in favore dell'Iran,
per ammorbidire il rigido atteggiamento dell amministrazione Carter sebbene ormai a fine mandato] sulla vendita di armi a Teheran ed esprimere i timori di Tel Aviv sulle implicazioni di una vittoria irachena ] La nuova] amministrazione Reagan, per parte sua, mantenne in vigore l embargo ma chiuse un occhio sulle vendite di armi israeliane all'Iran . Il segretario di Stato Alexander Haig, noto per le sue posizioni filo israeliane, diede il suo informale via libera per andare avanti con le vendite di armi .] In tutto, grosso modo l 80% degli armamenti acquistati da Teheran immediatamente dopo lo scoppio della guerra vennero da Israele»
Una delle prime e più fruttuose operazioni di vendita di ingenti quantitativi di armi all'Iran da parte di Israele e il complesso sistema di spedizione e trasporto degli stessi andarono sotto il nome di Operation Seashell". Gli ordini arrivavano dall'Iran a Israele attraverso una serie di intermediari, commercianti di armi e compagnie fittizie di copertura e gli armamenti desiderati erano associati a semplici codici. «La spedizione via mare era fuori di questione. Ragioni di segretezza richiedevano l'ideazione di un complesso sistema di trasporti aerei, eseguiti interamente di notte tramite aerei privi di contrassegni per assicurare che né Israele né l'Iran fossero associati all'operazione.» : per garantire ancora maggior sicurezza ed evitare che fosse consentito a piloti non israeliani di sorvolare lo spazio aereo dello Stato ebraico, si decise di dividere i vari viaggi in due tappe, Tel Aviv-Larnaca (tratto affidato esclusivamente a piloti israeliani) e Larnaca Teheran. Di tale operazione si venne però a conoscenza quando, durante il nono volo, il cargo (argentino) che trasportava gli armamenti si schiantò al suolo in territorio armeno, costringendo Iran e Israele a smentire il diabolico" accordo per cercare di bloccare lo scalpore provocato dalla notizia . Il ruolo tenuto da Israele non si limitò alla fornitura di armi e pezzi di ricambio, ma assunse anche una connotazione di aiuto attivo e in prima persona all'Iran. Nel giugno 1981, poco meno di un mese dalla creazione del Consiglio per la cooperazione nel Golfo (composto da Arabia Saudita, Oman, Bahrein, Qatar, Kuwait, Emirati Arabi Uniti e sostanzialmente creato in funzione di bilanciamento anti iraniano , Israele decise di attaccare e distruggere il sito nucleare iracheno di Osirak
Il 7 giugno 1981 otto F 16 e sei F 15 israeliani lasciarono la base aerea di Etzion in quella che fu conosciuta come Operazione Opera. .] Lo squadrone aereo distrusse rapidamente il sito del reattore, spostando indietro di diversi anni il programma nucleare iracheno. Tutti i jet tornarono senza danni alla base dopo un operazione giudicata impeccabile. Secondo il londinese Sunday Telegraph, Israele fu aiutato da fotografie e mappe dell installazione nucleare fornite dagli iraniani. L'attacco a Osirak era stato discusso da un funzionario israeliano e un rappresentante del regime di Khomeyni in Francia solo un mese prima ] A quell appuntamento, gli iraniani esposero i dettagli del loro infruttuoso attacco al sito nucleare del 30 settembre 1980 e diedero il permesso agli aerei israeliani di atterrare sulla pista di Tabriz, in Iran, in caso di emergenza
L'annuncio del successo dell'operazione venne dato dalla radio israeliana, il giorno dopo, 8 giugno
Un altro evento di fondamentale importanza nel disegnare lo scenario mediorientale degli anni '80 fu l'intervento israeliano in Libano nel 198 Il 6 giugno 1982 le forze armate israeliane iniziarono le operazioni di guerra in Libano, in quella che venne chiamata Operazione Pace in Galilea:
la ragione dell invasione era la presenza dei guerriglieri dell OLP nel Libano meridionale, al confine con Israele, e i razzi Katyusha che venivano usati per bombardare i villaggi nel nord di Israele. Begin dichiarò pubblicamente che l obiettivo della guerra era di avanzare solo quaranta chilometri" oltre il confine, precisamente la gittata dei razzi, al fine di rimuovere la minaccia. Ma il vero scopo dell esercito, tenuto parzialmente celato perfino a Begin stesso, era diverso. Il ministro della difesa Ariel Sharon diede istruzioni alle forze armate israeliane di prepararsi ad espellere le forze dell OLP e i siriani dall intero territorio libanese. Particolarmente seccante per Israele era l impiego in Libano, da parte siriana, dei sofisticati sistemi missilistici anti aereo di fabbricazione sovietica
I guerriglieri dell'OLP, nonostante una strenua resistenza, si ritirarono a Beirut che venne poi assediata dagli israeliani e da cui i palestinesi - in seguito a un accordo negoziato da Philip Habib, inviato speciale del presidente statunitense Reagan - furono poi costretti a lasciare il Libano, in parte via terra verso Siria e Iraq, in gran parte via mare verso la Tunisia; la Siria, per parte sua, subì una serie di lezioni da parte degli israeliani, che, nel corso dei combattimenti, abbatterono ottantasei MiG di Damasco senza subire alcuna perdita e annientarono tutte le installazioni missilistiche siriane in Libano . Chiaramente la Siria meditava vendetta: la migliore soluzione a breve termine venne individuata - ascoltando finalmente gli iraniani che la sponsorizzavano da tempo - nel favorire la crescita di un'organizzazione terroristica di stanza in Libano. Gli iraniani, alleati di Damasco, colsero la palla al balzo e individuarono nella figura di Abbas al Musawi , transfuga di Amal, il leader della futura organizzazione islamica sciita, ed ecco che, a metà 1983, nacque Hezbollah, che cominciò a fare adepti sin dal primo giorno. I membri di tale organizzazione vennero subito addestrati e sostenuti da elementi delle Guardie Rivoluzionarie iraniane e dalla VEVAK, l'agenzia di intelligence di Teheran.
Hezbollah, che significa il partito di Dio , non voleva solamente un regime islamico in Libano. Il suo fine era, in ultima analisi, uno Stato islamico mondiale, centrato sull'Iran, con Khomeyni come suo leader. Gli obiettivi di Hezbollah ] erano prevedibili: l'espulsione dal Libano] delle forze armate straniere, in primo luogo quelle di Israele, Stati Uniti e Francia; lo sradicamento definitivo dello Stato ebraico; la liberazione di Gerusalemme; e la sottomissione dei cristiani libanesi alla legge islamica
L'Iran percepì fin da subito l'importanza di un tale movimento quale mezzo ideale per espandere nella regione l'ideologia islamica rivoluzionaria e diventare, in virtù della strategica collocazione geografica del Paese dei cedri, un giocatore fondamentale nel conflitto israelo-palestinese . L'aiuto iraniano, lungi dal limitarsi all'addestramento militare dei membri di Hezbollah, nelle intenzioni di Teheran comprendeva ogni aspetto della vita delle comunità sciite libanesi: attraverso una rete di agenzie semi governative che gestivano i finanziamenti, l'Iran cominciò a creare un apparato parastatale nelle aree controllate dal "partito di Dio" che, in quanto tramite, forniva tutti i servizi propri di uno Stato funzionante. Per aumentare il flusso di denaro di cui disporre, Hezbollah si dedicò a numerose attività illegali, tra cui la produzione e il commercio di droga . Tuttavia, perché Teheran potesse intervenire in maniera talmente intrusiva in Libano, era necessario ricercare il beneplacito della Siria, che Hafez al-Assad concesse, assicurando anche una via terrestre per far arrivare i rifornimenti militari dall'Iran fino alla Valle della Beka'a, luogo di concentrazione e addestramento delle milizie sciite
Hezbollah cominciò subito il suo battesimo del fuoco con una serie di ripetuti attacchi alle forze armate israeliane e alla forza multinazionale (composta da truppe statunitensi, francesi e italiane) che era stata inviata in Libano per far rispettare i termini dell'accordo raggiunto grazie al negoziato dell'inviato di Reagan, Philip Habib . In particolare si ricorda il sanguinoso e duplice attentato effettuato tramite due autobombe il 23 ottobre 1983, la prima contro il quartier generale dei marines presso l'aeroporto di Beirut e la seconda contro una sede del contingente francese che causarono complessivamente più di trecento morti . Oltre agli attentati, Hezbollah mise in atto numerose altre azioni drammatiche ed eclatanti, quali il dirottamento del volo 847 della compagnia aerea TWA e decine di rapimenti di cittadini stranieri, e precisamente occidentali, in Libano: si calcola che in quattro anni, dal 1982 al 1986, novantasei stranieri siano stati sequestrati in Libano, cinquantuno per diretta responsabilità di Hezbollah . L'Iran stava dietro a quasi tutti questi rapimenti , che avevano come obiettivo diretto (e ovvio) quello di scoraggiare la presenza straniera nel Paese dei cedri, e l'obiettivo indiretto di fornire a Teheran un elemento di pressione da far valere nei suoi rapporti con i Paesi occidentali, e soprattutto con gli Stati Uniti, una leva, insomma, in grado di convincere Washington a rivedere la sua dura politica di embargo verso l'Iran che colpiva il bene più prezioso per Teheran, in quegli anni di guerra all'ultimo sangue con l'Iraq: le armi . Il protrarsi della Prima guerra del Golfo e, nello specifico, i ripetuti rifiuti di Khomeyni delle (piuttosto tardive) proposte di pace di Saddam Hussein, avevano spinto gli Stati Uniti, nonostante la loro dichiarata neutralità, a sostenere sempre più decisamente il regime del dittatore iracheno già dal 1982, con informazioni di intelligence e supporto e forniture militari; inoltre venne ancora inasprito l'embargo nei confronti di Teheran, attraverso la cosiddetta "Operation Staunch", lanciata nel 1984, ovvero un'azione di pressione nei confronti dei governi alleati per dissuaderli dalla vendita di armi di fabbricazione americana all'Iran: anche Tel Aviv, a malincuore, dovette nettamente ridimensionare la dimensione del proprio commercio) più o meno) segreto di armi con l'Iran. In Israele, però, si era molto preoccupati perché la luna di miele" tra gli Stati Uniti e l'Iraq non stava apportando nessun miglioramento nei rapporti tra l'Iraq stesso e lo Stato ebraico, che rimanevano pessimi . La dottrina della periferia, inoltre, ancora viva negli anni 80, continuava a influenzare pesantemente la politica delle alleanze dello Stato di Israele: pur convintisi di non poter influenzare Khomeyni, gli analisti e politici israeliani volevano creare dei legami con gli elementi iraniani moderati nell'esercito e nell'amministrazione dello Stato, con la sincera convinzione che il fenomeno della rivoluzione islamica sarebbe cessato con la scomparsa dell'ayatollah
Nel 1984 l'Iraq aveva lanciato la "guerra delle petroliere" a cui, l'anno dopo, sarebbe seguita la guerra delle città", ovvero una serie di attacchi missilistici alle maggiori città iraniane; l'uso indiscriminato di armi chimiche da parte di Saddam rischiava, poi, di fiaccare il pur alto morale delle truppe iraniane. L'Iran, insomma, aveva un bisogno disperato di rifornimenti militari; era ormai ben chiaro che gli Stati Uniti non solo non avrebbero accettato - quanto meno nel breve termine - una revisione della loro politica di embargo ma, anzi, stavano intensificando l'isolamento iraniano attraverso l'Operazione Staunch; Israele, per ragioni strategiche, scalpitava per poter fornire all'Iran i rifornimenti tanto desiderati, nella convinzione che un aiuto militare a un Paese stremato dall'annoso conflitto con Saddam avrebbe rappresentato la chiave giusta per crearsi buoni amici a Teheran e preparare un eventuale cambio di regime nel breve-medio termine
«Washington voleva il rilascio degli ostaggi, Tel Aviv sognava rapporti più stretti con l'Iran e Teheran aveva un disperato bisogno di armi : adesso si trattava di convincere gli Stati Uniti, e l'unico intermediario possibile tra Teheran e Washington era Israele. Il primo ministro Shimon Peres, il ministro della difesa Rabin e il ministro degli esteri Shamir approvarono il piano di vendita di armi nella primavera del 1985, «a condizione che solo armi catturate o di fabbricazione israeliana sarebbero state vendute all'Iran; le armi americane dovevano esserne escluse . Un intervento diretto di Peres, le preoccupazioni americane che l'Iran post-Khomeyni potesse cadere sotto l'influenza sovietica e soprattutto l'interesse a vedere liberi gli ostaggi riuscirono a convincere Reagan a dare il suo consenso a tale vendita di armamenti. Fu così che due partite di missili anti- carro raggiunsero l'Iran già tra agosto e settembre 1985, consegna a cui seguì il rilascio di un ostaggio americano . Gli accordi in questione erano basati su una complessa triangolazione tra Stati Uniti, Israele e Iran, per il quale gli statunitensi fornivano a Israele materiale in eccesso proveniente dagli arsenali europei della NATO per rimpiazzare gli armamenti israeliani i quali, a loro volta, erano stati venduti a Teheran a prezzi sensibilmente più alti di quelli di mercato. Tale operazione permetteva di mettere da parte dei fondi neri che venivano riutilizzati da Washington per finanziare segretamente tramite una società di copertura (la GeoMiliTech Consultants Corporation controllata dalla CIA, i ribelli Contras del Nicaragua . Lo stesso Israele partecipò a questi traffici, vendendo armi in grande quantità agli stessi movimenti centro americani già finanziati dalla CIA, attraverso una sua propria compagnia fittizia con sede in Portogallo (la Soprofina . Il commercio di armi e la suddetta triangolazione andarono avanti fino a quando una rivelazione alla stampa fece venire allo scoperto tale patto perverso. Gli Stati Uniti d'America e Israele aiutavano un regime con il quale, almeno teoricamente, i rapporti sarebbero dovuti essere pessimi, visto l'annoso embargo statunitense nei confronti dell'Iran e il vigente "divieto" per gli alleati di vendere armi americane a Teheran, e il tutto con l'aggravante, per gli Stati Uniti, di fornire sostegno militare a entrambi i contendenti della sanguinosa Prima guerra del Golfo, Iraq e Iran , senza contare l'aiuto ai ribelli controrivoluzionari contras, schierati contro il governo sandinista democraticamente eletto. Ovviamente le reazioni furono forti: in Iran si negò strenuamente ogni collaborazione con gli acerrimi nemici, in Israele si cercò di relativizzare l'entità dello scandalo facendo appello a un tentativo di ingraziarsi i moderati iraniani, mentre sugli Stati Uniti ricadde il biasimo generale Ogni tipo di rapporto tra Iran e Israele fu quindi interrotto immediatamente.
Nel 1989 si aprì una possibile finestra di distensione nei rapporti tra i due Paesi, dopo il gelo seguito allo scandalo Irangate: il 3 giugno 1989, infatti, morì l'ayatollah Khomeyni, a cui successe, nella carica di rahbar (ovvero "guida suprema"), l'ex presidente della repubblica Ali Khamenei; presidente della repubblica divenne a sua volta l'ex presidente del parlamento, Ali Akbar Hashemi Rafsanjani . La morte del grande ayatollah portò con sé la speranza (israeliana) di un abbandono del fanatismo religioso e ideologico e il proclamato odio per Israele che avevano caratterizzato la politica estera di Teheran per un decennio; con il permanere della minacce comuni, ovvero il pericolo iracheno e l'acuirsi dell'isolamento internazionale e regionale iraniano in seguito alla guerra con l'Iraq, le condizioni erano perfette per un riavvicinamento. Inoltre, il nuovo presidente Rafsanjani apparve come la persona giusta con cui dialogare, essendo animato dalla convinzione che il suo Paese dovesse rompere l'isolamento in cui era finito: durante i primi anni del suo mandato, e precisamente dal 1989 al 1992, l'ala dei falchi rimase perciò esclusa dal potere. Rafsanjani cercò di riavvicinarsi agli Stati Uniti, assicurando il rilascio degli ostaggi catturati e trattenuti in Libano da Hezbollah, e con i vicini arabi, soprattutto le monarchie del Golfo membri del Gulf Cooperation Council (GCC). A ciò si aggiunga che, ultimamente, con l'Unione sovietica di Gorbaciov i rapporti erano nettamente migliorati, dato che non esistevano più le principali cause di attrito tra i due Paesi si vedano il supporto di Mosca al partito comunista iraniano, il suo aiuto militare all'Iraq e l'occupazione dell'Afghanistan, al confine orientale iraniano . Un presidente dialogante era particolarmente ben visto In Israele, dove, tra la fine degli anni '80 e l'inizio dei 90, si sperava ancora di recuperare l'Iran alla presunta causa comune, sempre su ispirazione della strategia delle alleanze periferiche. I contatti tra le due parti, benché ancora più timidi, erano stati numerosi, così come le dichiarazioni di amicizia fatte dai più importanti esponenti politici israeliani di quel tempo.
Quello che per molti anni non venne compreso in Israele fu che, all'inevitabilità di un'alleanza tra i due Paesi come veniva vista da Gerusalemme, corrispondeva, a Teheran, un mero bisogno a breve termine: «Israele non era una risorsa in sé, ma un bene di consumo, una relazione necessariamente di breve durata che rispondeva a bisogni tattici immediati e la cui funzione era di ridurre le minacce pendenti sull'Iran, salvaguardando al contempo il vero obiettivo strategico iraniano, ovvero la leadership regionale . Nel frattempo però anche in Israele cominciavano a sentirsi gli scricchiolii della decennale strategia delle alleanze periferiche. Si stava (finalmente) maturando la consapevolezza che
il regime degli ayatollah e la sua rigida opposizione a Israele potesse durare molto più del previsto. La cerchia interna di Stati arabi , nel frattempo, era diventata sempre più moderata. Sia Egitto che Iraq, d altra parte, erano gravitati verso il campo occidentale .] Il trattato di pace con l Egitto datava ormai diversi anni e l Iraq di Saddam Hussein, sebbene non fosse affatto un amico di Israele, aveva formato un alleanza con il blocco occidentale contro l Iran. Anche la minaccia siriana si era considerevolmente attenuata dopo la batosta subita dagli israeliani durante la guerra in Libano. Di conseguenza, la minaccia a Israele proveniva dalla periferia iraniana - sia direttamente che tramite Hezbollah in Libano - piuttosto che dalla vicinanza araba
A modificare definitivamente l'assetto geopolitico regionale e mondiale intervennero due avvenimenti significativi: la sconfitta dell'Iraq nella Seconda guerra del Golfo e il crollo dell'Unione sovietica. Le ragioni dell'invasione irachena del Kuwait risiedono nelle rivendicazioni storiche accampate da Saddam, secondo cui il piccolo emirato, che sotto gli ottomani faceva parte della stessa suddivisione amministrativa insieme all'Iraq, apparteneva di diritto a Baghdad. Il 2 agosto
1990 iniziarono da parte irachena le operazioni militari che portarono alla formale annessione del Kuwait già l'8 agosto. «Gli Stati Uniti guidarono l'alleanza politica globale per isolare l'Iraq da ogni punto di vista, politico, economico e militare per forzare, così facendo, il suo ritiro , ritiro che però non avvenne. Si arrivò quindi allo scontro, che cominciò con una intensa campagna di bombardamenti aerei e missilistici nel gennaio 1992 e condusse presto alla disfatta irachena. Israele restò, per decisione statunitense, fuori dalla coalizione anti-Saddam. La presenza degli Stati arabi sarebbe stata del resto incompatibile con quella israeliana. Tale esclusione fu ancora più pesante da sopportare visti i ripetuti lanci di missili Scud dal territorio iracheno verso gli insediamenti israeliani. Le ragioni che spinsero un Saddam sull'orlo della sconfitta a sfidare Israele erano molteplici. Per la precisione Saddam aveva tre obiettivi. Innanzitutto vendicarsi di Osirak e in secondo luogo il dittatore iracheno sperava in un ingresso dello Stato ebraico nel conflitto, fatto che avrebbe molto probabilmente rotto l'unità dell'alleanza multinazionale e provocato il ritiro degli Stati arabi sotto la pressione delle rispettive opinioni pubbliche e trasformato la guerra in uno scontro tra Paesi arabi e occidente. Infine, Saddam cercava l'approvazione delle piazze arabe e un contentino per il morale delle sue truppe. Ciononostante Israele non intervenne, per il mancato sostegno popolare di un intervento, per difficoltà logistiche legate alla risposta da sferrare, ma soprattutto per la ferma opposizione americana. Su questo piano gli Stati Uniti esercitarono forti pressioni sulla leadership israeliana, al fine di mantenere fino in fondo l'unità della coalizione e in particolar modo la presenza araba . L'Iran, invece, nel momento in cui la pericolosità di Saddam diventava manifesta per tutti, ebbe buon gioco nel denunciare la scarsa lungimiranza dei Paesi arabi, che per anni avevano sostenuto l'Iraq contro l'Iran. A Teheran si decise di mantenere una posizione di neutralità positiva, «opponendosi all'occupazione irachena e rifiutandosi di aiutare Saddam e, allo stesso tempo, restando fuori dall'alleanza a guida americana contro l'Iraq . Anche criticando l'intervento americano come un pretesto per mettere piede nel golfo Persico, l'Iran collaborò con gli Stati Uniti, permettendo anche l'uso del suo spazio aereo. L'esito (piuttosto scontato) del conflitto vide l'esercito iracheno uscirne decimato: «la [sua] spesa militare annua passò dai 26.4 miliardi di dollari del 1990 ai 2 miliardi del 1991 e le sue forze armate, che contavano 1.4 milioni di uomini nel 1990, piombarono a 475'000 alla fine della guerra Saddam restava in sella e l'Iraq manteneva un esercito di tutto rispetto, ma la sua minaccia, da quel momento, passò in secondo piano sia per l'Iran che per Israele.
Con la caduta dell'Unione sovietica e la fine della Guerra fredda, pure il "pericolo rosso" cessò di esistere per entrambi i Paesi. Per l'Iran la Russia diventò un Paese amico, con il quale coltivare buoni rapporti era divenuta una priorità, vista l'ingombrante presenza degli Stati Uniti nel giardino di casa" iraniano, il golfo Persico. Per Israele la caduta del comunismo permise a milioni di ebrei residenti nell'ex Unione sovietica di spostarsi liberamente: lo Stato ebraico, per cui la battaglia demografica con gli arabi era di fondamentale importanza per l'unità del Paese, accolse così a braccia aperte quasi un milione di ebrei in pochi anni, tutti provenienti dall'ex URSS . Inoltre, con la fine ingloriosa del Paese leader del blocco comunista, venne a mancare il fondamentale sostegno a due Paesi arabi particolarmente ostili a Israele, quali Siria e Iraq. L'uscita di scena dell'Unione sovietica, però, non portò solo vantaggi: il rapporto con gli Stati Uniti si fece, infatti, più problematico. Israele, con la fine del mondo bipolare, sembrava aver perso la sua storica funzione di avamposto del mondo occidentale e democratico in un Medio Oriente arabo dominato ancora da dittature militari cresciute sotto la protezione di Mosca. Rispetto al recente passato, invece, la situazione si era ribaltata, con un ritorno di fiamma tra Washington e gli Stati arabi (soprattutto le monarchie del Golfo Persico), sopraggiunto in particolare dopo la guerra all'Iraq, e con un addomesticamento (iniziato da lungo tempo) dell'Egitto. L'Iran, poi, sembrava rappresentare agli occhi dell'America un asset più interessante, vista la sua posizione intermedia tra due delle aree con la più alta concentrazione di riserve di idrocarburi al mondo (golfo Persico e mar Caspio). Alla perdita di importanza strategica di Israele si univa la volontà molto sentita di Washington di patrocinare il dialogo israelo-palestinese e arrivare a vedere una volta per tutte la risoluzione dell'annoso problema della convivenza di quei due popoli in Palestina: l'unica superpotenza mondiale rimasta, ansiosa di mostrare le sue doti di taumaturgo e libera di esercitare in piena autonomia la predestinata funzione di poliziotto del mondo, desiderava in particolare l'interruzione degli insediamenti illegali di Israele in Palestina ed era pronta ad esercitare la necessaria pressione politica su Israele per arrivare almeno a tale risultato
In Iran, intanto, il fronte dei moderati" governava la politica estera da qualche anno, mostrando degli importanti segnali di disgelo all'amministrazione americana: oltre all'aiuto per il rilascio dei prigionieri americani in Libano, significativo della buona volontà iraniana era in particolare l'andamento della sua spesa militare nel periodo 1990-1995, che passò dai 9.9 ai 5.3 miliardi di dollari, e la dimensione dell'esercito, che passò dai 654.000 uomini ai 480.000, una chiara dimostrazione di intenti
In questi anni, in Iran, per via delle colombe" al potere e per il conseguente, logico ridimensionamento delle ambizioni politiche nel contesto della regione del Golfo seguito al sanguinoso conflitto con l'Iraq, Israele non era percepito come una minaccia militare, ma continuava a restare, invece, quello che era sempre stato a partire dalla rivoluzione islamica, al netto dei sogni di Tel Aviv su un improbabile avvicinamento, cioè una minaccia di ordine politico e, tutt'al più, un mezzo e un tramite tra avvicinare Teheran a Washington.
Eppure, nonostante anni di politiche moderate, mirate a tale risultato, gli sforzi e le aperture di Rafsanjani furono ripetutamente ignorate e frustrate dagli statunitensi: il rilascio degli ostaggi americani in Libano non portò a nessun miglioramento nei rapporti tra i due Stati e, anzi, l'Iran ricevette un brutto sgarbo quando fu l'unico Paese del Medio Oriente a non essere invitato dagli Stati Uniti alla conferenza di Madrid nell'ottobre 1991. Tale evento, che per Washington doveva sostanzialmente dimostrare al mondo il ruolo di leadership globale assunto dagli Stati Uniti e il suo impegno per trovare una soluzione di pace in Medio Oriente, era suddiviso in «due negoziati paralleli, uno bilaterale e uno multilaterale. Il percorso bilaterale comprendeva i primi colloqui di sempre tra Israele e i suoi immediati vicini arabi, finalizzati a risolvere il conflitto israelo- palestinese e trovare la pace tra Israele e i suoi vicini [] I negoziati multilaterali erano intesi a costruire il Medio Oriente del futuro
Le ragioni del mancato invito risiedono nel fatto che Washington non aveva nessuna relazione diplomatica con Teheran dai tempi dell'assalto all'ambasciata statunitense e la presa degli ostaggi, e vedeva l'Iran come un'entità irrilevante nel contesto del conflitto israelo palestinese; inoltre, dalla parte americana non si voleva offrire al Paese mediorientale una vetrina, né l'opportunità di fare la parte del disturbatore dell'evento . Sta di fatto che Rafsanjani cominciò a pagare lo scotto di una linea politica già molto costosa dal punto di vista domestico, e che, oltretutto, non portava alcun risultato sul piano internazionale, ma solo frustrazione e delusioni: si arrivò alla conclusione che la soluzione migliore era cambiare decisamente tono e appoggiare con maggiore decisione la causa palestinese e Hezbollah, rispondendo colpo su colpo agli Stati Uniti. Nell'immediato venne addirittura organizzata una contro conferenza a Teheran di opposizione a Madrid, che riunì anche gruppi militanti palestinesi
1992 - 2014: la rottura dei rapporti
Il punto di rottura che (almeno per quanto riguarda il pilastro iraniano) segnò l'abbandono della strategia delle alleanze periferiche, da sempre (fin dalla creazione dello Stato) fil rouge di tutta la politica estera israeliana, fu rappresentato dalle elezioni del giugno 1992, che videro la vittoria schiacciante del partito laburista di Rabin e Shamir , che consentì di escludere il Likud dal governo per la prima volta dal 1977. Nella visione del Labour, guadagnare di nuovo il pieno sostegno statunitense era un obiettivo centrale dell'agenda politica e l'unica soluzione per farlo era accontentare gli americani cercando una soluzione alla questione palestinese, il più possibile di concerto con i vicini Paesi arabi. L'Iran, che, per le sue caratteristiche di Stato di media potenza interessato a un ruolo di leadership regionale era stato a lungo considerato un gemello di Israele, con cui condivideva (prima e dopo la rivoluzione khomeinista) il ruolo nello scacchiere mediorientale e le minacce (Unione sovietica e nazionalismo arabo), proprio per queste stesse caratteristiche cominciò a essere visto come un rivale da contrastare, una volta venuta meno la più grande minaccia, il pericolo comunista.
Gli israeliani si erano di colpo resi conto che la leadership religiosa non avrebbe passato la mano, almeno non nel futuro prossimo, e che la morte del grande ayatollah Khomeyni non aveva causato le attese turbolenze interne e capovolgimenti di fronte a livello politico. Peggio ancora, l'Iran si configurava come un «nemico permanente che aveva visto crollare il suo grande contrappeso storico, l'Iraq, azzoppato dall'effetto combinato dell'operazione Desert Storm, delle pesanti sanzioni economiche contro il regime e dell'istituzione della no-fly zone
L'uscita di scena dell'Iraq avrebbe potuto liberare le potenzialità militari e le ambizioni geostrategiche iraniane, per il momento (apparentemente) sopite da una politica estera "da colomba" che, però, cominciava a mostrare il fianco a sempre maggiori critiche e attacchi in patria per via dell'assenza di risultati tangibili sul piano internazionale. Il nuovo credo della leadership israeliana di estrazione laburista uscita vincitrice dalle elezioni si manifestò come il perfetto ribaltamento di quanto finora proposto, mutandosi, quindi, nel motto
«fare la pace con i palestinesi e dipingere l'Iran come una minaccia di portata regionale e globale» . «Teheran approggiava e foraggiava il peggior nemico di Israele in Libano, Hezbollah, intratteneva da tempo una solida alleanza con la Siria, era sospettato di assistere Hamas nei territori palestinesi occupati : esso andava quindi arrestato nella sua progressiva, futura crescita a livello regionale. Il ministro degli esteri Shimon Peres, in particolare, come emerge da varie sue dichiarazioni pubbliche e interviste, aveva in mente un'area di libero scambio nella regione che coinvolgesse gli Stati arabi e marginalizzasse il regime iraniano . Il primo ministro Itzhak Rabin, inizialmente scettico, nel giro di poco tempo abbracciò convintamente questa nuova, rivoluzionaria linea di politica estera Le circostanze per un capovolgimento di fronte, del resto, c'erano tutte e comprendevano anche un'inusuale debolezza e o "addomesticamento" dei Paesi arabi, dall'Egitto in pace con Israele da un quindicennio, a Saddam sconfitto e ridimensionato, alla Siria reduce dalla lezione del 1982 in Libano, all'OLP, indebolita dalle scelte sbagliate di Arafat, tra cui il suo sostegno politico all invasione irachena del Kuwait, che gli aveva inevitabilmente alienato le simpatie e soprattutto i petrodollari delle monarchie del golfo Persico . «L'idea di farsi amica la periferia - che aveva i mezzi per essere una minaccia - al fine di indebolire i vicini di casa di Israele
che erano, invece, troppo deboli per porre minacce concrete - perse gran parte del suo fondamento logico, mettendo a tacere lo schieramento pro-periferia interno a Israele Venne quindi avviata da parte di Israele una intensa e duratura campagna di stampa e furono diffuse dichiarazioni diffamatorie sul conto dell'Iran, a prescindere dalla loro veridicità e probabilità, in modo tale da esercitare pressione nei confronti dell'amministrazione Clinton appena insediatasi. In particolare l'Iran fu accusato di nutrire aspirazioni nucleari, e secondariamente in quanto Stato irrazionale poiché basato sull ideologia del khomeinismo (quindi capace di azioni non prevedibili A nulla valse a cambiare il nuovo orientamento dello Stato ebraico lo scetticismo dei vertici militari israeliani - tra cui il capo dell'intelligence militare, generale Uri Saguy, e il generale Ehud Barak che continuavano ad individuare il vero pericolo nel pur sconfitto Iraq 67 - nonché di molti analisti ed esperti che sottolineavano l'incongruenza di attaccare l'Iran additandolo come la più grande minaccia per Israele nel momento di sua massima debolezza Infatti, una semplice analisi dei dati avrebbe mostrato una tendenza opposta a quella che avrebbe dovuto giustificare una posizione così fieramente anti-iraniana. Rafsanjani tagliò [addirittura] la spesa militare iraniana dai
6.7 miliardi di dollari del 1991 ai 4.2 del 199 ; l'Arabia Saudita, invece, in quegli anni aumentò ancora le proprie spese militari, riuscendo a spendere, nel 1991, l'astronomica cifra di 40 miliardi di dollari; agendo in maniera apparentemente contro-intuitiva ma per alcuni particolarmente lungimirante, Israele ordinò in quegli anni 25 F-15 modificati con maggiore autonomia, in grado di raggiungere l'Iran Tuttavia il livello di minaccia rappresentata da Teheran era ancora oggettivamente basso anche perché, nel 1992, l'influenza iraniana non era ancora attestata nei territori israeliani, cioè non c'erano una o più organizzazioni di riferimento foraggiate da Teheran come già Hezbollah in Libano: tale situazione sarebbe però presto cambiata in risposta al duro voltafaccia" israeliano.
Negli anni '80, in virtù di una fede a volte cieca nella strategia delle alleanze periferiche (e sostanzialmente illogica nella sua intensità) si era capito, in Israele, che non valeva - giustamente - la pena dare tanta importanza alla retorica incendiaria di Teheran e che fare affari con gli iraniani, benché compito pieno di insidie, era sempre possibile; con la vittoria del Labour e, soprattutto, con l'ingresso nel mondo unipolare, tante certezze del passato erano crollate ma, paradossalmente, la conclusione che sembrava da sempre la più logica, cioè quella di dare alle parole di Teheran il peso che avrebbero dovuto avere, appariva, adesso, una scelta illogica, intempestiva ed eccessivamente brusca . Di colpo in Israele ci si era come convinti che, anche quando gli iraniani avevano cercato la gentile intercessione di Israele nei confronti degli Stati Uniti, il vero obiettivo erano sempre stati questi ultimi, e non l'amicizia di Tel Aviv: insomma, Israele era sempre stato sfruttato dall'Iran come un mezzo di pressione sugli statunitensi, senza nessun interesse a instaurare rapporti amichevoli e fare affari La consapevolezza che ogni apertura, ogni accenno di moderazione da parte iraniana celavano secondi fini, era adesso molto chiara nelle menti del Labour e si manifestò nettamente con il nuovo governo Rabin. Un tale cambiamento di posizione da parte di Israele attirò, ovviamente, lo scetticismo sia di Washington che delle leadership degli Stati arabi, per i quali, inoltre, i grandiosi disegni di Peres di integrazione economica della regione mediorientale erano più temuti che amati e costituivano solo tentativi di dominazione economica da parte dello Stato ebraico
In ogni caso, nonostante le iniziali incertezze, gli sforzi israeliani di capovolgere il quadro e convincere gli Stati Uniti a dargli corda portarono presto i loro frutti: «solo pochi mesi dopo l'inizio del primo mandato dell'amministrazione Clinton - e solo otto mesi dopo che il governo Peres-Rabin aveva intrapreso la campagna finalizzata a isolare l'Iran - Washington adottò la politica del Dual Containment . A Washington si decise che, in virtù della nuova posizione di forza a livello mondiale garantita dall'uscita di scena dell'Unione sovietica e, a livello mediorientale, dalla schiacciante vittoria sull'Iraq di Saddam ottenuta con un'amplissima alleanza di Stati arabi, non era più necessario fare come in passato, ovvero mettere Iraq e Iran l'uno contro l'altro per ottenere un equilibrio più o meno stabile nella regione. Gli Stati Uniti, presenti nel golfo Persico con navi e aerei, sarebbero stati adesso in grado di controbilanciare entrambi i Paesi, presi singolarmente, da soli, in virtù - appunto - dello schiacciante e ormai incontrastato predominio politico-militare statunitense. Tale nuova politica mediorientale suscitò notevoli perplessità, soprattutto perché sembrava disegnata per risultare appetibile all'alleato israeliano, cioè «per rassicurare Israele che gli Stati Uniti avrebbero tenuto in scacco l'Iran mentre Gerusalemme si incamminava nel rischioso processo di pace . Eppure, da parte iraniana, nei primi mesi del 1993 si era ancora restii a intraprendere delle contromisure effettive nei confronti di questo fuoco di sbarramento proveniente da Tel Aviv e, sempre di più, anche da Washington: l'avvenimento che cambiò la posta in gioco fu il disvelamento delle trattative segrete (svoltesi a partire dal gennaio 1993 nella capitale norvegese tra Israele e l'OLP e la susseguente firma degli accordi di Oslo (sulla base della formula "land for peace") tra il primo ministro israeliano Rabin e il leader dell'OLP Arafat alla Casa Bianca . La reazione iraniana si concretizzò in un ricorso assai più frequente alla tradizionale retorica incendiaria, con sempre più ripetuti appelli che incitavano alla distruzione di Israele. L'Iran, infatti, cominciava a temere molto l'accentuarsi del suo isolamento nella regione mediorientale, ora che Israele e l'OLP avevano tracciato un percorso di pace comune che avrebbe potuto coinvolgere anche gli altri Stati arabi: per questo, per la prima volta, non ci si affidò alla sola retorica, ma si andò fino in fondo riprendendo a sostenere con decisione Hezbollah e vari altri gruppi fondamentalisti islamici, in particolar modo palestinesi, con lo scopo di destabilizzare le opinioni pubbliche arabe e rendere la pace con Israele un fatto politicamente troppo caro per i governi dei vicini Stati arabi. Già nel corso del 1994 infatti gli attacchi terroristici, spesso suicidi, si moltiplicarono , colpendo le città israeliane e non solo: il 18 luglio l'attacco bomba alla sede di Buenos Aires dell'Amia, un'associazione israelo argentina, che arrivava due anni dopo l'esplosione che aveva devastato, nel marzo 1992, l'ambasciata israeliana sempre a Buenos Aires e provocato 29 morti e 242 feriti , inaugurò simbolicamente la nuova stagione dei rapporti tra Israele e l'Iran, con quest'ultimo per la prima volta accusato di aver aiutato concretamente i terroristi nella realizzazione dell'attentato
L'Iran non era più un nemico distante e potenziale. Per il tramite di Hezbollah, l'Iran era uno Stato confinante. E attraverso i gruppi palestinesi, l'Iran era, adesso, dentro Israele o, almeno, dentro i territori occupati israeliani. L'idea di fare la pace con i vicini arabi per fronteggiare la periferia persiana era fallita, perché la periferia era penetrata nella cerchia del vicinato
Se i rapporti con Hezbollah erano e restavano i più eclatanti, la rete iraniana di legami e collaborazioni si estendeva a tutto il mondo:
in Egitto, tramite il dipartimento 15 della Vevak (l'agenzia di servizi segreti che aveva sostituito la Savak), si intrattenevano rapporti con i gruppi del Jihad islamico e al-Jamaa al- Islamiyya e, sempre sotto la protezione e il finanziamento iraniani, si addestrava colui che sarebbe diventato il numero uno di al-Qaida, Ayman al-Zawahiri
in Palestina si coltivavano legami con Hamas e il Jihad islamico locale
in Turchia agiva una branca di Hezbollah, la cui funzione era quella di eliminare i dissidenti iraniani che avevano trovato rifugio in quel Paese;
un po' dappertutto in Europa, ma specialmente in Germania, si registrava la presenza di operativi legati a Hezbollah;
in Estremo Oriente, in Thailandia per la precisione, Hezbollah per poco non arrivò a far saltare in aria l'ambasciata israeliana a Bangkok;
«in Africa, l'Iran e Hezbollah erano presenti all'interno delle numerose comunità libanesi residenti in alcuni Paesi , come Costa d'Avorio, Sud Africa e Zaire
Nonostante il pesante tributo in termini di morti per attentati terroristici su suolo israeliano, di matrice più o meno indirettamente iraniana, l'azione di denigrazione e isolamento di Teheran portata avanti dallo Stato ebraico a governo laburista stava già portando buoni frutti in chiave politico- diplomatica, inducendo l'amministrazione Clinton ad assumere praticamente gli stessi toni degli israeliani nei confronti di Teheran. A partire dall'ottobre 1994, grazie alle continue campagne di stampa e all'azione di lobbying dell'Aipac, Washington cominciò a fare eco alle dichiarazioni provenienti da Tel Aviv . Quello che, sorprendentemente, ancora non era mutato era, invece, il volume di affari tra gli Stati Uniti e l'Iran, che, anzi, andava addirittura aumentando e non sentiva crisi: nonostante la politica del Dual Containment, gli scambi tra i due Paesi, nel 1994, avevano raggiunto i 5 miliardi di dollari, «facendo degli Stati Uniti uno dei più grandi partners commerciali dell'Iran
Tra gli sforzi fatti da Rafsanjani per riallacciare l'Iran al commercio internazionale, vi era anche la riapertura dell'industria petrolifera e, in particolare, la concessione di nuovi accordi per lo sfruttamento di petrolio alle compagnie straniere, usati come ramo d'olivo" per dimostrare la buona volontà iraniana. In un periodo ancora di transizione, in cui l'amministrazione Clinton, pur sempre più pedissequamente aderente ai toni israeliani, conservava al suo interno un certo scetticismo riguardo al tagliare completamente i ponti con l'Iran e quindi poteva ancora fare marcia indietro, il tanto cercato riavvicinamento tra Iran e Stati Uniti sarebbe potuto arrivare proprio grazie a uno di questi accordi petroliferi: era il 6 marzo 1995 quando l'Iran annunciò l'intesa (approvata direttamente dall'ayatollah Khamenei) con l'americana Conoco, arrivata dopo diversi mesi di trattative segrete. L'allarme rosso per Israele era scattato: una tale intesa commerciale era assolutamente da evitare. Il fuoco di fila, indirizzato a scongiurare il beneplacito della Casa Bianca all'intesa, portò ancora una volta i suoi frutti poiché sotto la pressione del Congresso, dell'Aipac e di Israele, il presidente Clinton stracciò rapidamente l'accordo con due executive orders" che in pratica proibirono ogni commercio con l'Iran . Grazie a tale controversa decisione che ha rappresentato una sorta di turning point nelle relazioni bilaterali tra Teheran e Washington, andarono così in fumo, con due semplici firme presidenziali, miliardi di dollari di scambi commerciali tra Stati Uniti e Iran
Un anno dopo, nell'agosto del 1996, alle due ordinanze si sarebbe aggiunta anche una legge del Congresso, conosciuta sotto il nome di Iran Libya Sanctions Act (ILSA), che avrebbe ancora oltrepassato, in quanto a durezza, gli ordini esecutivi di Clinton, poiché non solo indirizzato alle compagnie americane ma anche a quelle straniere che commerciassero con l'Iran (e la Libia) per volumi superiori a 40 milioni di dollari
Il chiaro atteggiamento di chiusura da parte di Washington spinse ancor più l'Iran verso il finanziamento e il sostegno diretto al terrorismo di matrice islamica, in special modo palestinese.
Il tentativo di guastare irrimediabilmente rapporti israelo palestinesi era motivato, per l'Iran, dalle minacce contenute in un eventuale accordo tra le due parti, accordo su cui si stava, appunto, lavorando da tempo partendo dalla piattaforma di Oslo, una dichiarazione di principi sull'autogoverno palestinese a Gaza e in Cisgiordania. Infatti, la distensione tra Israele e gli Stati arabi che avesse fatto seguito a un accordo definitivo tra Israele e OLP, non era una vaga minaccia percepita solamente dal regime degli ayatollah, ma una realtà. La Giordania di re Hussein aveva siglato con Israele uno storico trattato di pace il 26 ottobre 199 91 e, presto o tardi, questo avrebbe potuto riguardare molto probabilmente anche la Siria , acerrimo nemico di Israele ma soprattutto canale che consentiva all'Iran un accesso al Libano e quindi cinghia di trasmissione necessaria per alimentare la collaborazione con Hezbollah. Il venir meno dell'alleato siriano avrebbe potuto costituire una catastrofe per i disegni regionali iraniani e comportare un'ulteriore marginalizzazione di Teheran
Il 1995 fu segnato da ulteriori ondate di attacchi di matrice islamica in Israele, che, ovviamente, erano indirizzati a minare le fondamenta del processo di pace israelo palestinese Ciò tuttavia non impedì che si arrivasse, il 28 settembre 1995, alla firma degli accordi cosiddetti Oslo II, che concedevano ai palestinesi l'autogoverno su numerose città della Cisgiordania
Il terrorismo arrivò a colpire il cuore dello Stato di Israele quando, il 4 novembre del 1995, il primo ministro Yitzhak Rabin fu colpito a morte, non da un palestinese, bensì da un israeliano estremista di destra, Yigal Amir, contrario al processo di pace con i palestinesi : in quell'occasione la reazione iraniana fu di giubilo, sia tramite le dichiarazioni ufficiali che con le campagne di stampa, in quanto con Rabin veniva meno il principale fautore della pace con l'OLP, autentico spauracchio per Teheran. Un'ondata terroristica particolarmente grave seguì a stretto giro di posta nei primi mesi del
, quando, «tra il 25 febbraio e il 4 marzo, quattro grandi attacchi colpirono le città di Tel Aviv, Gerusalemme e Ashkelon, uccidendo 59 civili israeliani . Il partito laburista ne uscì indebolito e, alle elezioni del 29 maggio 1996, venne punito dagli elettori che, benché con un ristretto margine, diedero la maggioranza dei seggi al Likud di Netanyahu . Peres, in seguito, accusò direttamente l'Iran di aver fatto in modo, attraverso gli attentati terroristici, di manipolare l'andamento delle elezioni, sabotare il suo partito in virtù della politica di sostegno ai negoziati con l'OLP e aiutare a vincere il Likud, notoriamente scettico nei confronti del processo di pace
Che la mano dell'Iran ci fosse stata o meno, con Netanyahu si assisté, come da previsioni, a un cambio di rotta nei confronti non solo dell'OLP ma anche dell'Iran. Il nuovo primo ministro israeliano varò una linea politica moderata nei confronti di Teheran, volta alla riduzione delle notevoli tensioni create dalla durezza dei passati governi laburisti di Rabin e Peres. Tale aggiustamento di rotta, suggerito da una relazione del capo del Mossad dell'epoca, Uzi Arad, prevedeva il ritorno a una visione in cui era ancora l'Iraq e non l'Iran a rappresentare la minaccia più grande e concreta per Israele.
Più nello specifico Netanyahu era indotto a moderare i toni con l'Iran per una serie di ragioni. Conscio di come gli attentati terroristici (probabilmente) sponsorizzati da Teheran avessero influenzato l'esito delle recenti elezioni che lo avevano portato al potere, il leader del Likud era altrettanto consapevole di come una continuazione degli stessi avrebbe minato la salute e la longevità del suo governo, quindi la sua permanenza come primo ministro: abbassare la tensione significava evitare inutili e dannose provocazioni suscettibili di provocare reazioni molto costose, in termini di vite uname ma anche politici.
In secondo luogo, Netanyahu non si fidava degli interlocutori dell'OLP in generale e di Arafat in particolare e apparteneva a una tradizione politica che aveva sempre avversato e considerato improponibile una pace con gli arabi: in questo senso veniva riesumata nella sua validità la strategia delle alleanze periferiche, quindi la previsione di alleanze con gli Stati non arabi della regione mediorientale, Iran e Turchia in primis.
In terzo luogo, Netanyahu, che voleva indurre l'opinione pubblica israeliana ad avversare il processo di pace con l'OLP e la formula della "terra per pace" per passare a "pace con sicurezza , non poteva raggiungere il suo obiettivo senza riabilitare" l'Iran e screditare, al suo posto, la leadership dell'OLP: «come l'idea di una minaccia iraniana era servita a Peres e Rabin a convincere l'opinione pubblica israeliana a sostenere la riconciliazione con gli arabi, così quella stessa idea minava gli sforzi di Netanyahu di convincere gli israeliani a opporsi alla riconciliazione» . Infine, il primo ministro di Israele temeva che un eventuale futuro riavvicinamento tra gli Stati Uniti e l'Iran potesse trovare impreparati gli israeliani e avvenire in un momento di relazioni ai minimi storici tra i due Paesi mediorientali
L'Iran, per parte sua, guardava con malcelata soddisfazione alla situazione politica israeliana e all'evoluzione o, meglio, all'involuzione del processo di pace con i palestinesi e aveva anch'esso abbassato i toni e cercato in più occasioni un dialogo con la dirigenza dello Stato ebraico: ancora una volta, però, il vero obiettivo restava un riavvicinamento con Washington e non con Tel Aviv , che ne costituiva il mezzo.
Nonostante le sue convinzioni di partenza avessero lasciato pensare il contrario, anche Netanyahu, dopo pochi mesi di governo, si convinse presto dell'inutilità di un'apertura nei confronti dell'Iran e, col tempo, si accrebbe progressivamente il suo scetticismo, alimentato dall'impenetrabilità del clero islamico al potere. La semplice moderazione dei toni non era infatti una contropartita sufficiente per Tel Aviv, che vedeva con particolare preoccupazione lo sviluppo, lento ma incessante, della minaccia missilistica e nucleare iraniana , poiché lontana dai confini israeliani e quindi non suscettibile di una rappresaglia nello stile di Osirak . Di conseguenza, già nei primi mesi del
1997, Netanyahu iniziò a usare nei confronti dell'Iran lo stesso linguaggio e la stessa retorica dei suoi predecessori. Nel frattempo, però, la guida politica in Iran era cambiata e la nuova presidenza Khatami , con la sua carica innovatrice di riformismo moderato e i suoi toni pacati, aveva suscitato un'ondata di approvazioni in tutti i Paesi arabi e aveva cominciato a gettare le basi per un rapporto più costruttivo con l'Europa ma, soprattutto, con gli Stati Uniti: le posizioni di Khatami erano fatte per piacere a Washington, essendo egli esplicitamente contrario al terrorismo e dicendosi sinceramente pentito e rammaricato per la vicenda della presa dell'ambasciata americana e degli ostaggi nel 1979. In breve tempo l'amministrazione Clinton, nonostante le dure leggi anti iraniane che erano state approvate solo uno o due anni prima, si era persuasa della possibilità di recuperare i rapporti perduti con Teheran Israele, invece, risultava ormai poco recettivo nei confronti del dialogo delle civiltà 09 proposto da Khatami e si trovò presto di fronte a un dilemma strategico: infatti, l'abbandono dei tentativi di creare un'alleanza tra Tel Aviv e Teheran e, allo stesso tempo, l'abbandono delle trattative di pace con l'OLP mettevano Israele nella sgradevole posizione in cui sia i Paesi vicini che la periferia (che, in virtù delle continue innovazioni in ambito tecnologico e militare diventava sempre meno "periferica") erano mutati in nemici o, comunque, in possibili minacce. Si fece quindi strada una nuova interpretazione della moribonda strategia delle alleanze periferiche a rinverdirne i fasti, che vedeva la necessità di bilanciare le minacce araba e iraniana instaurando nuove alleanze con Stati oltre la periferia, una nuova periferia più lontana: mentre la Turchia, Stato geograficamente assai vicino, restava comunque un buon partner, in special modo dopo la firma dell'accordo del 23 febbraio 1996 che coronava anni di sforzi e corteggiamenti israeliani, un candidato che rispecchiava particolarmente bene le esigenze di questo rinnovato pensiero strategico sarebbe potuta essere l'India, con cui i rapporti stavano pure sviluppandosi in tal senso
Ciò che, al di là delle polemiche pubbliche incentrate principalmente sui programmi missilistici e nucleari, spaventava maggiormente la leadership israeliana nell'immediato era la longa manus di Teheran sulla questione israelo palestinese, attraverso Hezbollah. Un Iran più forte, capace di alzare la testa sul piano internazionale, significava un Hezbollah più spavaldo e agguerrito e, al tempo stesso, una minore capacità di ritorsione da parte di Israele, vista l'accresciuta deterrenza iraniana 1. L'Iran forniva ad Hezbollah armi e missili grazie ai quali Israele diventava un bersaglio alla portata e, con il tramite del "partito di Dio", aveva approfittato della presenza israeliana nel sud del Libano per portare avanti la sua guerra per procura contro Tel Aviv, a bassa intensità ma pressoché senza soste. L'altra minaccia costante e percepita in maniera trasversale a tutti i colori politici in Israele era poi, come già anticipato, quella di un accordo tra Stati Uniti e Iran che avvenisse all'insaputa (e quindi ai danni) di Tel Aviv. In relazione a quest'ultima ipotesi le strategie possibili erano sostanzialmente due: o tornare a convincere gli americani della immutata pericolosità dell'Iran e, quindi, della necessità di mantenere l'emarginazione totale dalla scena politica internazionale attraverso l'ostracismo diplomatico e gli embarghi economici (strategia di Rabin e Peres) oppure cercare un dialogo diretto con gli iraniani per patrocinare un riavvicinamento Teheran Washington che tenesse, però, conto degli interessi israeliani in gioco. In questo caso, vista anche la propensione della Casa Bianca a cercare il dialogo con il moderato Khatami, ostracizzare un Iran che tendeva la mano all'occidente era molto difficile, ma anche la soluzione opposta e che pareva la più praticabile, ovvero la ricerca di un dialogo o almeno di un inserimento in ipotetici, futuri dialoghi tra Washington e Teheran si rivelò un compito trascurato dal governo laburista dell'ex generale dell'esercito Ehud Barak , subentrante a quello di Netanyahu e molto più interessato al ritiro delle truppe israeliane dal Libano (finalizzata a evitare l'intromissione iraniana nelle trattative con l'OLP) e alla risoluzione definitiva della correlata questione israelo-palestinese. Una strategia del genere, di maggiore indifferenza verso l'Iran come quella assunta da Barak, portò a una situazione in cui Teheran poté, s , cantar vittoria per il successo riportato da Hezbollah nella sua lotta contro l'invasore sionista in ritirata dal Libano ma, allo stesso tempo, si ritrovò con un'arma importante in meno nei confronti di Israele. I frutti positivi per Tel Aviv di tale ritiro si videro sia durante il vertice di Camp David del luglio 2000 tra Barak e Arafat, sia durante la seconda Intifada. In entrambi i casi la retorica iraniana fu assai meno incisiva e provocatoria che in passato, rivelandosi un'arma spuntata contro uno Stato ebraico che, con il ritiro dal Libano, si era messo con le carte in regola per ricercare la pace con i palestinesi
La contestata vittoria di George W. Bush su Al Gore nel frattempo ravvivò nuovamente le preoccupazioni di Israele riguardo al pericolo di un accordo tra Stati Uniti e Iran. A Teheran (con una mancanza di lungimiranza notevole) si era preferito Bush figlio rispetto al candidato democratico, perché si pensava che il primo avrebbe continuato la politica di Bush padre, con una particolare attenzione all'industria petrolifera e, quindi, ai possibili, fruttuosi scambi commerciali con un Paese ricco di petrolio come l'Iran. Per di più, il nuovo vicepresidente Dick Cheney, in qualità di amministratore delegato di Halliburton società del settore dell'energia), aveva a suo tempo aspramente criticato la scelta di Clinton di azzerare gli scambi con l'Iran nel 1996 tramite l'ILSA (Iran and Libya Sanctions Act): proprio a proposito, nell'agosto del 2001 sarebbe arrivata la scadenza della legge in questione e quindi, in caso di mancato rinnovo, sarebbero potuti riprendere i rapporti commerciali tra Washington e Teheran. In Iran si nutriva, quindi, una certa fiducia nei confronti della nuova amministrazione americana a guida Bush figlio. Tuttavia, l'AIPAC ancora una volta giocò d'anticipo approfittando dei ritardi nella formazione della nuova amministrazione Bush a causa del riconteggio delle schede elettorali in Florida e, di conseguenza, dall'assenza di un'efficace azione di controllo dell'esecutivo sul Congresso, e si garantì la maggioranza al Congresso per il rinnovo dell'ILSA
I fatti dell' 1 settembre 2001 cambiarono completamente il corso della storia, stravolgendo aspettative e politiche predefinite. Il dirottamento di quattro aerei di linea e gli attacchi terroristici al World Trade Center e al Pentagono di quel giorno segnarono un fondamentale spartiacque nelle relazioni internazionali degli Stati Uniti: «l'America scoprì che la vera minaccia islamica non risiedeva nell'Iran sciita - come Israele aveva insistito fin dal 1991 - ma nelle frange estremiste del mondo sunnita . Seguirono la formazione di un'ampia coalizione internazionale capitanata da Washington e la messa in atto dell'operazione "Enduring Freedom" contro il regime dei talebani in Afghanistan, che aveva dato asilo al presunto ideatore degli attacchi, lo sceicco saudita Osama bin Laden, e ai suoi sodali di al-Qaida.
In questo nuovo contesto, l'aiuto dell'Iran, Paese confinante con l'Afghanistan, avrebbe potuto rivelarsi molto prezioso. Non a caso, fin dagli anni '90, quando l'Afghanistan era stato sconvolto da una sanguinosa guerra civile che aveva, poi, visto imporsi i talebani, dei fondamentalisti sunniti di scuola wahabita , l'Iran, insieme a Russia e India, aveva sostenuto l'Alleanza del Nord del leggendario Massoud, che da anni lottava per rovesciare il regime di Kabul. L'Alleanza del Nord, dopo l' 1 settembre, era diventato l'alleato degli Stati Uniti in Afghanistan, nel quadro dell'operazione Enduring Freedom". Per questo, poter godere dell'aiuto della rete di rapporti e delle conoscenze che l'Iran aveva maturato diventata un fattore determinante. Tale, almeno, era la posizione del Dipartimento di Stato che aveva a capo una cosiddetta "colomba", Colin Powell: per l'ex generale, la collaborazione tra gli Stati Uniti e l'Iran avrebbe potuto svilupparsi a patto che Teheran tagliasse i rapporti con i gruppi fondamentalisti palestinesi.
Come sempre, gli israeliani vedevano con sospetto queste pur timide aperture del Dipartimento di Stato, nel timore di restare esclusi da eventuali dialoghi e trattative tra Stati Uniti e Iran e di risultare la parte perdente di questo triangolo. A Tel Aviv, apparentemente, avevano ragione ad essere preoccupati: funzionari del Dipartimento di Stato americano e del Ministero degli Esteri iraniano cominciarono a incontrarsi regolarmente a Ginevra per discutere i termini della sistemazione politica dell'Afghanistan liberato dai talebani. In più, l'aiuto concesso dagli iraniani era stato sostanziale: venne aperto lo spazio aereo iraniano ai mezzi americani, venne assicurato l'aiuto nell'eventuale ricerca di piloti americani abbattuti, si concesse l'uso dei porti iraniani per canalizzare il flusso di aiuti destinati alla ricostruzione in Afghanistan , si garantì la funzione di collegamento tra Washington e l'Alleanza del Nord e l'impegno a utilizzare le informazioni di intelligence americane per dare la caccia ai terroristi di al Qaida. Colin Powell e il Dipartimento di Stato erano quindi ben disposti ad estendere la collaborazione e il dialogo con l'Iran, rivelatosi così fruttuoso sull'Afghanistan, anche ad altri campi sensibili, come la questione del nucleare. Ecco il perché dell'avvio dei colloqui di Ginevra; Dick Cheney e Donald Rumsfeld, i cosiddetti falchi" neo- conservatori dell'amministrazione Bush, avevano, però, una visione opposta.
La conferenza di Bonn del dicembre 2001 sull'Afghanistan era risultata in un successo per l'Iran nel suo sforzo di apparire un partner decisivo per gli Stati Uniti. Proprio grazie al fondamentale aiuto e alla capacità di mediazione iraniana, i lavori della conferenza si conclusero con un accordo su una costituzione provvisoria e sulla composizione del futuro governo afghano.
In particolare era stato proprio grazie all'opera di pressione messa in atto dall'Iran che il leader della vittoriosa Alleanza del Nord (Northern Alliance), Burhanuddin Rabbani, aveva deciso di fare un passo indietro e rinunciare alle ambizioni presidenziali per lasciare spazio al candidato preferito dagli Stati Uniti, Hamid Karzai218. Sulla scia del successo di Bonn ci sarebbe stato il modo e lo spazio per allargare il dialogo ed estendere il clima di confronto costruttivo anche agli altri temi "caldi" e di contrasto tra Stati Uniti e Iran: nella nuova amministrazione americana, tuttavia, pesava troppo l'influenza degli elementi neo-con rispetto al Dipartimento di Stato e al Consigliere della sicurezza nazionale (Condoleeza Rice). I tentativi neo-con di sabotare il disgelo con l'Iran andarono poco alla volta a buon fine. Ne risultò che tutti i ripetuti sforzi iraniani di offrire un aiuto che riguardasse, certamente, la ricostruzione dell'Afghanistan, ma che andasse anche oltre, in previsione anche di una futura alleanza, non vennero valutati nella giusta ottica e furono, anzi, respinti da Washington219. Tutto questo fece il gioco di Israele, che aveva sofferto per i segnali di disgelo tra Stati Uniti e Iran, per il netto miglioramento dell'immagine pubblica internazionale di quest'ultimo e per la visione del Medio Oriente esternata da Colin Powell, la quale prevedeva una Gerusalemme capitale di due Stati, Israele e lo Stato palestinese220. In particolare, l'avvenimento che fece prevalere definitivamente l'influenza neo-con di Cheney e Rumsfeld su quella del Dipartimento di Stato fu la vicenda della nave Karine A. Quest'ultima era una nave carica di 50 tonnellate di armi e munizioni proveniente dall'Iran, capitanata da un membro della Marina palestinese e diretta probabilmente in Palestina che venne fermata dagli israeliani mentre navigava in acque internazionali nel Mar Rosso, il 2 gennaio 2002221. Vera o falsa che fosse la storia della nave, a partire da questo caso fu montata da Israele l'ennesima campagna diffamatoria nei confronti dell'Iran, accusato di continuare ad appoggiare i gruppi fondamentalisti palestinesi. Il presidente iraniano Khatami negò categoricamente la provenienza iraniana della nave e molti restarono scettici sulla veridicità di tale ritrovamento222, ma tutto questo non riuscì a scalfire la nuova granitica convinzione che era maturata in seno all'amministrazione Bush che l'Iran fosse davvero quello Stato "canaglia" come gli israeliani da anni ammonivano che fosse. Sta di fatto che, nel suo discorso sullo stato dell'Unione del gennaio 2002, George W. Bush si scagliò non solo contro Iraq e Corea del Nord, ma incluse anche l'Iran in questo cosiddetto "asse del male" che minacciava il mondo intero. Tale discorso segnò uno spartiacque nella politica estera statunitense, con l'abbandono del fondamentale principio strategico di scuola realista del "divide et impera"223. Le reazioni all'interno del governo iraniano furono, ovviamente, di grande sorpresa e delusione per una mossa politica così subitanea; le conseguenze immediate furono il crollo delle illusioni dei moderati alla Khatami di poter riavviare un vero dialogo con gli Stati Uniti e la perdita di credibilità interna del presidente iraniano, anche a causa del grave affronto di vedere l'Iran paragonato all'Iraq, acerrimo nemico di Teheran 224. Subito dopo il discorso di Bush sull'asse del male cominciarono ad emergere i piani americani su un attacco all'Iraq.
Nonostante quello che si può credere in proposito, il fermo sostegno israeliano all'invasione dell'Iraq venne solo dopo che a Tel Aviv si ebbe la ragionevole certezza e rassicurazione che Washington faceva sul serio e non era disposta a cambiare i propri programmi e la propria politica di antagonismo nei confronti dell'Iran: d'altronde, fino a quando avevano creduto di poter incidere sul policy making americano, gli israeliani avevano cercato di convincere gli statunitensi ad attaccare piuttosto l'Iran e lasciar perdere Saddam. Le ragioni per le quali Israele non vedeva di buon occhio l'invasione dell'Iraq consistevano nel fatto che, in questo modo, gli Stati Uniti avrebbero distolto energie preziose dalla lotta al vero nemico dello Stato ebraico, ovvero l'Iran. Inoltre, una nuova (questa volta presumibilmente risolutiva) azione militare contro Baghdad avrebbe ulteriormente rafforzato proprio la vicina Teheran, togliendo di mezzo definitivamente Saddam Hussein, nemico storico dell'Iran225. Più nello specifico, le preoccupazioni israeliane, che erano alla base della voluta esagerazione della minaccia iraniana e dello stato di avanzamento del suo programma nucleare (oltre a rappresentare la ragione per esercitare pressioni sulle amministrazioni americane da Clinton in poi) erano legate al fatto che un Iran potenzialmente nucleare e finalmente libero dall'ingombrante vicino iracheno, avrebbe potuto negativamente influenzare, se non contrastato per tempo, il processo di pace con i palestinesi (sia attraverso il legame con Hezbollah e Hamas, sia esercitando direttamente una nuova, maggiore influenza), potendo persino portare, secondo gli scenari più pessimistici, a un forzato abbandono israeliano dei territori occupati. Tuttavia il governo Sharon, succeduto a Barak, seppe far gioco anche di una prospettiva inizialmente considerata non ottimale: in fondo, secondo gli analisti di Tel Aviv, un Iraq sconfitto, invaso e addomesticato dagli Stati Uniti avrebbe pure fatto al caso di Israele, in quanto Siria e Iran sarebbero conseguentemente rimasti isolati nella regione nella loro (a volte più apparente che reale) posizione di intransigenza verso Israele. Si venne quindi a patti con la posizione americana ma si cercò da allora in avanti di convincere gli Stati Uniti del fatto che, dopo l'Iraq, sarebbe stato necessario attaccare anche l'Iran226.
Dal punto di vista iraniano era meglio un Iraq con Saddam ancora in sella, ma molto debole dopo la sconfitta nella Seconda guerra del Golfo e a causa di un decennio di sanzioni economiche, piuttosto che un Iraq con un governo fantoccio filo-occidentale e un esercito sostenuto e rinvigorito dalle armi occidentali. L'Iran in particolare temeva che, con la guerra all'Iraq, gli Stati Uniti volessero completare l'opera di accerchiamento che vedeva, a sud, le monarchie del Golfo le quali, dai tempi dell'operazione "Desert Storm", avevano delegato la propria sicurezza agli americani; a nord, le repubbliche centro-asiatiche, che registravano la presenza di basi e truppe statunitensi; infine, a est, l'Afghanistan occupato dalle truppe ISAF. Per queste ragioni, gli iraniani, pur scottati dalla lezione inflitta dal discorso di Bush sull'asse del male, tentarono di volgere a loro favore l'ormai sicura invasione americana dell'Iraq fornendo ciò che agli Stati Uniti mancava e di cui avevano un grande bisogno, ovvero una profonda e verificata conoscenza del nemico, della complessa composizione etnico-religiosa dell'Iraq, diviso tra curdi, sunniti e sciiti.
Grazie anche alla immutata buona disposizione del Dipartimento di Stato americano, vennero avviati i tentativi di riesumare il canale costituito dai colloqui di Ginevra, tentativi ovviamente contrastati con tutti i mezzi possibili dai neo-con americani, dalla lobby AIPAC e dallo Stato di Israele. A spingere gli iraniani a riesumare i colloqui di Ginevra e collaborare con i "malfidati" americani era anche la riflessione sui possibili effetti negativi di un fallimento americano in Iraq: un Saddam che avesse resistito alla spallata delle truppe a stelle e strisce, avrebbe di colpo guadagnato in sicurezza dei propri mezzi e, quindi, sarebbe diventato una minaccia più seria e credibile di prima; un'invasione riuscita ma con una ricostruzione fallita avrebbe acceso la miccia della polveriera curda, i cui capi avrebbero reclamato l'indipendenza e trascinato con sé anche le rispettive comunità presenti in Turchia e Iran, scatenando il caos nella regione227. Insomma, la guerra ebbe inizio e riservò, in un primo tempo, piacevoli conferme per gli americani seminando, invece, dubbi e timori in Iran. Quando le truppe statunitensi ebbero messo piede a Baghdad, dopo appena tre settimane dall'inizio delle operazioni militari, la sorpresa fu generale: gli Stati Uniti avevano dimostrato uno strapotere militare impressionante. L'Iran adesso era e si sentiva effettivamente accerchiato e a Teheran si capì che era arrivato il momento di concepire una proposta inedita e risolutiva per un accordo onnicomprensivo da presentare a Washington, per sciogliere tutti i nodi che rendevano difficoltoso il rapporto tra i due Paesi e, così facendo, alleviare il senso di vulnerabilità percepito nella capitale iraniana. Il testo della proposta, approvato direttamente dalla guida suprema ayatollah Khamenei (e di cui erano a conoscenza in pochissimi, tra i quali il presidente Khatami, il ministro degli Esteri, l'ambasciatore iraniano all'Onu e l'ambasciatore iraniano a Parigi), venne trasmessa agli Stati Uniti attraverso l'ambasciatore svizzero a Teheran - ovvero attraverso il canale usuale che, dai tempi della presa dell'ambasciata americana a Teheran, permetteva agli statunitensi di curare gli interessi del proprio Paese in Iran.
Gli iraniani chiedevano uno scambio tra i terroristi dell'MKO presenti in Iraq e quelli di al-Qaida detenuti in Iran, la fine della retorica basata sul cosiddetto "asse del male", la fine delle sanzioni economiche, il riconoscimento degli interessi iraniani in Iraq, del diritto iraniano di produrre energia nucleare e degli interessi legati alla sicurezza nella regione del golfo Persico. In cambio l'Iran si diceva pronto a smilitarizzare Hezbollah per trasformarlo in un mero partito politico, garantire non solo pieno accesso ai siti e alle installazioni del programma nucleare iraniano agli ispettori dell'AIEA ma addirittura firmare il protocollo addizionale del Trattato di Non Proliferazione228, si prometteva cooperazione nella lotta ad al-Qaida e per la pacificazione dell'Iraq, nonché l'accettazione dell'Arab Peace Initiative (o Beirut Declaration229) del marzo 2002230. Nonostante la presenza di rilevanti (e inaudite) concessioni da parte iraniana, e forse proprio per questo, i neo-con a Washington, spalleggiati dai falchi del governo Sharon, rigettarono la proposta al mittente; pochi giorni prima del programmato incontro a Ginevra tra i rappresentati di Iran e Stati Uniti, arrivò da Washington la conferma che il canale di dialogo di Ginevra poteva considerarsi chiuso231. La reazione americana, come era prevedibile, fu l'ennesima batosta nei confronti di chi, a Teheran, avrebbe voluto appianare le divergenze tra i due Paesi e la dimostrazione che, nei confronti di Washington, non portava nessun frutto l'agire da una posizione di debolezza. Tutto questo portò alla perdita di peso e credibilità per le posizioni moderate all'interno della macchina governativa e amministrativa iraniana232:
«con i soldati statunitensi tutti attorno alle fragili frontiere iraniane e con un'Amministrazione repubblicana che aveva deciso di rilanciare la politica del "cambio di regime" a Teheran, conservatori e ultraradicali hanno avuto la possibilità di attaccare i riformisti e tutti coloro i quali volevano una politica di dialogo con Washington come nemici della rivoluzione islamica o come semplici sciocchi, incapaci di vedere le minacce israeliane e statunitensi»233
Non è quindi sorprendente che, come risultato di questa chiusura, l'ultraradicale ex sindaco di Teheran Mahmoud Ahmadinejad sia risultato vincitore delle elezioni politiche iraniane del 17 giugno 2005. Ahmadinejad, legato a doppio filo «agli apparati di sicurezza del Paese [vertici dei pasdaran e dell'esercito] e alle fazioni radicali dei circoli clericali sciiti» 234 i quali «si ricollegano idealmente ai primi anni della rivoluzione khomeynista»235, ha segnato una netta discontinuità nella politica estera iraniana e una lunga pausa rispetto al tradizionale pragmatismo che aveva fatto da fil rouge sotto le presidenze sia di Rafsanjani che di Khatami, dal 1989 al 2005 236. Il ritorno al governo dell'Iran dei falchi, fautori della linea dura contro l'occidente, sponsorizzato e favorito dalla guida suprema, l'ayatollah Khamenei, ha fatto sì che il neo-presidente Ahmadinejad impostasse fin da subito una linea di politica estera assai diversa rispetto al moderato Khatami, suo predecessore, e di grande opposizione soprattutto nei confronti di Stati Uniti e Israele, quest'ultimo definito «l'estrema ingiustizia»237 e un' «irrealtà storica»238.
«Con l'avvento di Ahmadinejad, l'atteggiamento iraniano è tornato a farsi straordinariamente radicale e antagonista [caratterizzandosi per la] ripresa dei temi tipici del primo periodo rivoluzionario, con l'antagonismo verso gli Stati Uniti, la lotta al neoimperialismo e in particolare gli attacchi verbali a Israele. Particolarmente oltraggiosi e vergognosi sono stati considerati i suoi commenti sulla Shoah, che Ahmadinejad ha messo più volte in dubbio anche durante i suoi discorsi in sedi internazionali, parlando di "mito dell'olocausto"»239
La politica estera iraniana dal 2005 fino al 2013 si è quindi caratterizzata per uno spiccato populismo internazionale, manifestatotosi attraverso la ricerca di dialogo e alleanza con i Paesi cosiddetti "canaglia", emarginati rispetto alla dominante visione del mondo di stampo statunitense (questo il caso della Corea del Nord) e/o Paesi del cosiddetto sud del mondo (per esempio il Venezuela240), «che hanno vissuto un senso profondo di ingiustizia, come la dominazione coloniale o lo sfruttamento economico»241; una politica estera dettata e mossa da una «miscela incandescente di ideologia islamica, spiccato nazionalismo e un atteggiamento di profondo sospetto nei confronti dell'occidente»242. Dopo l'ascesa al potere dell'ex sindaco di Teheran iniziò una sorta di annus horribilis per Israele. Con la vittoria di Hamas (quella che Israele considerava e considera una organizzazione terroristica) nelle elezioni legislative a Gaza nel gennaio del 2006,
«improvvisamente si crearono due governi palestinesi, con l'Iran dalla parte di quello, dei due, [ovvero Hamas] che aveva reputazione di onestà ed efficienza»243. Dall'Iran giunsero subito profferte di aiuto, in primis finanziario244 e da quel momento in poi si susseguirono frequenti gli incontri al vertice tra Ahmadinejad e la leadership di Hamas245 e della Jihad islamica. Il 12 luglio
2006 Hezbollah lanciò un attacco diversivo colpendo con alcuni razzi una zona non lontano dal confine con il Libano, senza causare morti. Nel frattempo, alcuni miliziani del "partito di Dio" attaccarono una postazione militare israeliana sempre sul confine israelo-libanese provocando la morte di tre soldati nemici, ferendone due e catturandone altri due: quest'ultimo era l'ultimo dei numerosi tentativi dei miliziani sciiti di catturare degli ostaggi israeliani in modo da guadagnare potere negoziale e poter arrivare alla liberazione dei propri compagni in mani israeliane. Gerusalemme, invece, considerando la presa degli ostaggi un vero e proprio atto di guerra, lanciò immediatamente un attacco su larga scala pensato per smantellare l'arsenale militare del partito di Dio e convincere con la forza la popolazione civile sciita ad abbandonare il suo sostegno per l'organizzazione paramilitare. Obiettivi non meno importanti erano quello di assicurarsi la liberazione dei prigionieri in mano nemica, interrompere il lancio di razzi su bersagli civili israeliani e, con un intervento di tale scala, costringere il governo centrale di Beirut a presidiare il sud del proprio territorio. In Israele si pensava anche a tornare ad occupare una sottile striscia di territorio in Libano a nord del confine, in modo da smantellare le installazioni difensive poste da Hezbollah nei sei anni dal ritiro dell'IDF e impedire nuove costruzioni246. A questo fine, le azioni di guerra iniziarono con intensi bombardamenti aerei e navali, appoggiati solo limitatamente dalle forze terrestri. In realtà, la schiacciante superiorità in termini di tecnologica e potenza degli armamenti dell'IDF non riuscì ad ottenere l'obiettivo prefissato e Israele si ritrovò quindi costretto a impiegare le proprie forze armate in maniera più intensiva, finite presto invischiate in combattimenti casa per casa molto sanguinosi, a causa dell'aspra resistenza dei miliziani sciiti supportata dalla popolazione locale; inoltre, fatto questo ancor più grave e destabilizzante per Gerusalemme, Hezbollah riuscì a portare a termine regolari lanci di razzi in territorio israeliano durante tutte le oltre quattro settimane del conflitto (con un ritmo di anche 200 razzi al giorno)247, raggiungendo l'obiettivo prefissatosi di terrorizzare la popolazione civile israeliana e metterne in stallo il ben organizzato esercito. Come inevitabile conseguenza, constatata l'impossibilità di smantellare rapidamente come prefissato l'arsenale che Hezbollah aveva cominciato ad accumulare dal momento in cui Barak aveva fatto ritirare l'esercito dal Libano, e dietro la crescente pressione della comunità internazionale, non più disposta a stare a guardare per via del numero di vittime civili in continua crescita, Israele decise di porre fine al conflitto dopo 34 giorni dall'inizio delle ostilità248. Hezbollah ne usciva indebolito, ma non vinto in quanto nessuno dei suoi leaders era rimasto ucciso e soprattutto vedeva aumentare il sostegno della comunità musulmana mondiale: addirittura, il suo segretario generale, Hassan Nasrallah, salutava con soddisfazione la "vittoria divina" delle sue forze contro lo Stato ebraico249. Israele invece vedeva scalfita la propria immagine di invincibilità, in quanto una forza paramilitare era riuscita a tenere in scacco l'esercito meglio addestrato ed equipaggiato del Medio Oriente. Gli obiettivi prefissati prima dell'attacco erano stati solo parzialmente raggiunti in quanto gli ostaggi nelle mani di Hezbollah non erano stati rilasciati. Nell'opinione pubblica israeliana, memore delle vittorie del passato e abituata a non contemplare nemmeno l'eventualità di una sconfitta o di una non-vittoria (come in questo caso), il risultato dell'intervento suscitava delusione e rabbia per come le operazioni erano state condotte250. Inoltre, su Israele pesavano le centinaia di morti tra la popolazione civile libanese, i danni materiali ingentissimi causati alle infrastrutture di un Paese che stava appena cominciando a risollevarsi dopo decenni di guerra civile e le accuse di violazione di numerose norme internazionali umanitarie che regolano i conflitti armati251. Una dimostrazione è rappresentata dall'atto disonorevole di aver rilasciato, nelle ultime 72 ore del conflitto prima del cessate il fuoco dell'ONU, un elevatissimo numero di cluster bombs su territorio libanese252. Tra gli aspetti positivi per Israele di questa "vittoria di Pirro" vi furono però il fatto di aver comunque indebolito il suo nemico impoverendone l'arsenale e diminuendone la libertà di movimento nel sud del Libano, in virtù dello stanziamento di circa 10.000 soldati occidentali sotto l'egida dell'Onu. Hezbollah inoltre dovette cominciare a confrontarsi con i danni materiali imposti alla propria popolazione sciita, e quindi a rivedere i calcoli sul rapporto tra costi e benefici legati al fatto di trascinare Israele in un conflitto aperto 253.
L'intervento militare israeliano in Libano arrivò inaspettato da parte di Hezbollah e ancor più inatteso dal punto di vista iraniano: il casus belli, ovvero la cattura di due soldati israeliani accompagnata dall'uccisione di altri tre, più che un tentativo di indurre Gerusalemme a aprire le ostilità, non era da attribuirsi alla volontà iraniana di creare un secondo fronte ai danni di Israele per indebolirlo o lanciare a sua volta un attacco, quanto una delle numerose provocazioni lungo il confine tra Libano e Israele e finalizzata a un "mero" scambio di prigionieri (fatto testimoniato dalla rapida richiesta, da parte del segretario di Hezbollah, Hassan Nasrallah, di un cessate il fuoco). Israele, per diversi anni, con i governi di Barak prima e Sharon poi, aveva continuato a monitorare attentamente la situazione nel sud del Libano, con l'accumularsi di rapporti dei servizi segreti a testimoniare la costante assistenza da parte iraniana alla milizia sciita, l'accumulo di armi e munizioni e la messa in sicurezza, attraverso la costruzione di installazioni difensive, del confine con Israele. Il neo-eletto governo di Gerusalemme, composto ai più alti gradi gerarchici da personalità con scarsa esperienza in ambito militare (primo ministro Ehud Olmert, ministro degli esteri Tzipi Livni, ministro della difesa Amir Peretz), e quindi meno attendista, si trovò a gestire una situazione piuttosto problematica: da un lato Hezbollah e i continui tentativi, soprattutto nell'ultimo anno, di catturare soldati israeliani, poi culminati nel successo del 12 luglio; dall'altra Hamas con la cattura di un soldato dell'IDF il 25 giugno. Fu l'attacco su due fronti a spingere definitivamente la leadership di Gerusalemme a lanciare un attacco su larga scala con intensi bombardamenti mirati (almeno nelle dichiarazioni). La guerra in Libano si interruppe dopo che l'Onu aveva votato due risoluzioni (numero 1559 e 1701) e dato il via alla missione multinazionale Unifil (United Nations Interim Forces in Lebanon), incaricata di monitorare il cessate il fuoco e assicurare la pace e la ricostruzione nel sud del Paese dei cedri254.
Nonostante il fermo richiamo al disarmo di tutti i gruppi armati libanesi (a cominciare da Hezbollah) e il chiaro divieto stabilito dalla risoluzione 1701255 di vendere armi a qualunque organizzazione libanese diversa dal legittimo governo in carica, anche dopo il 2006 l'Iran ha continuato ad armare e sostenere le milizie sciite di Hezbollah (nonché Hamas a Gaza), come testimoniano, per esempio, le ripetute intercettazioni da parte della marina militare israeliana di cargo pieni di armi e rifornimenti diretti o a Gaza o in Libano256 e gli attacchi aerei mirati in territorio straniero, come quello avvenuto in Sudan nell'ottobre del 2012 e diretto a distruggere unafabbrica sotto il (presunto) diretto contro l'Iran e che sarebbe stata indirizzata alla produzione di armi e munizioni diretti ad Hamas257, oppure quello, ancora più recente (novembre 2013), che ha colpito un carico di missili di fabbricazione russa in territorio siriano e diretto ad Hezbollah258.
Gli anni delle presidenze di Mahmoud Ahmadinejad, oltre che con il populismo internazionale e il sostegno ai gruppi islamici libanesi e palestinesi, possono essere associati con il dibattito sul nucleare, in parallelo con il rilancio degli sforzi e della retorica bellicosa legata allo sviluppo di tale progetto assunta da Ahmadinejad: sebbene la questione sia divenuta centrale nei rapporti tra Teheran e l'occidente già durante il secondo mandato di Khatami, con il radicale ex sindaco di Teheran il dossier nucleare ha pressoché monopolizzato l'attenzione internazionale.
L'Iran e il nucleare
La storia del rapporto tra l'Iran e la bomba atomica e della strenua, continua ricerca della sua realizzazione risale al 1956, anno in cui il governo iraniano instaurò i primi colloqui in ambito nucleare con gli Stati Uniti d'America, i quali culminarono nel 1957 nella firma della prima intesa tra i due Paesi sull'uso pacifico dell'energia nucleare, il cosiddetto "Atoms-for-Peace Agreement with Iran"259, che garantiva nel tempo scambio di conoscenze, assistenza e fornitura di equipaggiamenti e materiali nucleari per fini di ricerca. A seguito di tale accordo, nel 1959, per ordine dello Shah, venne istituito un centro di ricerca nucleare presso l'università di Teheran; pochi anni dopo, gli Stati Uniti vendettero all'Iran per la cifra di un milione di dollari un piccolo reattore a fini di ricerca scientifica prodotto dall'americana American Machine and Foundry Company, che venne installato proprio nei locali dell'università di Teheran e divenne pienamente operativo nel
1967, alimentato da uranio altamente arricchito fornito dalla General Dynamics.
Dopo il 1973 e il moltiplicarsi del prezzo del greggio, lo Shah si ritrovò con gli ingenti proventi del petrolio da spendere e decise di destinare notevoli investimenti proprio al nascente settore nucleare per puntare alla diversificazione energetica. Da un lato quindi si procedette ordinando la costruzione di venti centrali nucleari da 300 megawatt ciascuna260, dall'altro si investirono ingenti somme di denaro nella formazione di scienziati e tecnici nucleari, inviando all'estero, in special modo negli Stati Uniti, centinaia di giovani promettenti; parallelamente l'Organizzazione dell'energia atomica iraniana passò da un modesto budget di 31 milioni nel 1975 alla stupefacente cifra di ben tre miliardi di dollari nel 1977, due soli anni dopo. Queste spese folli indussero già l'amministrazione Ford a porsi seri interrogativi sulle finalità del programma di ricerca nucleare iraniano, arrivando persino a porre il divieto alle imprese americane di fornire materiale e tecnologie nucleari a Teheran: la contromossa dello Shah fu quella di cercare semplicemente altri fornitori, presto individuati nella Francia e nella Repubblica Federale Tedesca. Fu così che l'Organizzazione dell'energia atomica iraniana siglò un accordo con la compagnia tedesca Kraftwerk Union (una joint venture di Siemens AG e AEG Telefunken) del valore di 4,3 miliardi di dollari dell'epoca per la costruzione di due reattori: nell'agosto del 1975 cominciarono i lavori vicino alla città di Bushehr, con l'ultimazione dei reattori prevista per il 1981. «Nello stesso periodo il Consorzio europeo nucleare Eurodif ricevette dall'Iran centinaia di milioni di dollari come garanzia per la fornitura di combustibile nucleare e l'Iran acquisì inoltre il 10% delle sue quote» 261. Con la compagnia francese Framatome si era raggiunto un ulteriore accordo per la costruzione di una centrale a Darkhooven, vicino ad Ahwaz, con la promessa di ultimarne altre otto nel caso in cui gli Stati Uniti non avessero tolto il bando imposto alle imprese americane del settore di commerciare con l'Iran. Nel 1978 lo stallo con Washington sembrava in procinto di sbloccarsi, in quanto lo Shah aveva infine rinunciato a costruire un impianto di lavorazione e trattamento del plutonio e accettato un monitoraggio più incisivo sulle sue attività nucleari, nonché promesso l'invio negli Stati Uniti del materiale fissile consumato. Per parte sua, il presidente americano Carter aveva dato il proprio consenso a sollevare il bando sulla vendita all'Iran di reattori nucleari262. Appena dopo lo scoppio della rivoluzione islamica, nel 1979, quando i due reattori di Bushehr non erano ancora completati (essendo il primo ultimato all'85% e il secondo appena a metà), l'ayatollah Khomeyni emise una fatwa che statuiva la non-islamicità dell'arma atomica263. L'Iran smise di pagare e la Kraftwerk Union, a sua volta, interruppe la costruzione delle centrali. Lo stop impresso da Khomeyni ebbe notevoli conseguenze, tanto che, fino alla sua morte, l'Iran abbandonò completamente qualsiasi sforzo nucleare. Addirittura la centrale di Bushehr, ferma a uno stadio costruttivo ancora incompleto, venne distrutta durante il conflitto con l'Iraq, in ritorsione al fallito attacco iraniano del settembre 1980 contro la centrale nucleare irachena di Osirak264. Dall'inizio della rivoluzione in poi, ufficialmente l'Iran interruppe qualsiasi sforzo relativo al suo progetto di ricerca nucleare e fu solo nel 2006 che in Iran si ammise la revisione di tale linea politica, tramite un'aperta decisione del clero sciita di Qom che decretò che nessuna legge religiosa vietava l'uso del nucleare. In realtà, anche prima della morte di Khomeyni, avvenuta nel 1989, il blocco all'attività di ricerca nel settore nucleare era stato sollevato, su iniziativa dell'allora presidente Khamenei e autorizzazione della stessa guida suprema Khomeyni. L'Iran quindi, già nella seconda metà degli anni '80 e per tutti gli anni '90, ricominciò a ricercare in tutto il mondo degli scienziati nucleari disponibili che potessero dare una mano alla ripresa del progetto, a cominciare da coloro che erano espatriati al momento dello scoppio della rivoluzione: l'acquisto di personale altamente specializzato e a buon mercato si allargò presto, ovviamente, ai Paesi dell'Unione sovietica in completa disgregazione e all'Iraq di Saddam, soprattutto dopo il 1991. Nel 1991 l'Iran si rivolse alla Cina per la fornitura di due reattori da 300
MegaWatt265. L'accordo fu confermato nel 1993 ma non è mai stato messo in pratica per l'opposizione statunitense. In seguito a questo passo falso l'Iran si rivolse invece con successo all'unico Paese che, in quel momento, aveva l'interesse a collaborare: la Russia di Eltsin. Già nel
1992 Federazione russa e Iran firmarono un accordo bilaterale sull'uso pacifico dell'energia nucleare266. Nel gennaio 1995 Mosca, bisognosa di soldi, siglò, sempre con l'Iran, un contratto per la fornitura di un reattore finalizzato alla produzione di energia elettrica, da costruire sempre a Bushehr, per la cifra di 800 milioni di dollari. Tale notizia allarmò fin da subito, e non poco, i servizi segreti occidentali, e soprattutto americani e israeliani, preoccupati che, da un reattore con fini civili, gli iraniani potessero ricavare i mezzi e le conoscenze necessarie per poter poi sviluppare, all'occorrenza, un ordigno atomico; uno degli argomenti che rafforzavano le paure di americani e israeliani era poi il senso della produzione di energia di origine nucleare quando l'Iran sedeva su risorse di petrolio e gas pressoché infinite e sfruttate in minima parte. Tuttavia, nonostante l'iniziale sostegno alla riesumazione delle velleità nucleari iraniane e lo scudo garantito fino ai giorni nostri contro i ripetuti tentativi statunitensi e israeliani di isolare l'Iran e mettere su una coalizione di Stati ostili a Teheran, la Russia avrebbe temporeggiato e posticipato l'ultimazione della costruzione del reattore di Bushehr, probabilmente per preservare il più possibile per sé una risorsa talmente strategica267 (tanto è vero che la centrale nucleare di Bushehr sarebbe entrata in funzione solo nell'agosto 2010)268.
«Nell'agosto del 2002, un gruppo di opposizione iraniano, il Consiglio nazionale della resistenza iraniana (legato al Mojahedin del popolo iraniano, Mojahedin-e Khalq, un partito politico militante di tendenze marxiste-islamiste che contribuì alla caduta dello Shah e che chiedeva, allora, di rovesciare la repubblia islamica), rivelò l'esistenza dell'impianto di arricchimento dell'uranio di Natanz e della centrale ad acqua pesante di Arak, entrambi fino ad allora non dichiarati»269
«Dopo aver visitato le infrastrutture recentemente disvelate nel marzo del 2003 su invito iraniano, gli ispettori dell'IAEA confermarono che l'industria nucleare iraniana era in effetti assai più avanzata di quanto si fosse pensato in precedenza. Non fu però trovata alcuna rilevanza di un'applicazione militare di tali avanzamenti tecnologici di Teheran»270
In seguito a tale scoperta e alle inevitabili tensioni internazionali che ne sono seguite, si è dato inizio a diversi round di negoziazioni271, portate avanti prima dal gruppo EU3 (Francia, Germania e Regno Unito) tra il 2003 e il 2005 e in seguito (a partire dal 2006, dopo l'avvento di Mahmoud Ahmadinejad alla presidenza dell'Iran) dal cosiddetto gruppo dei "5+1" (ovvero il «gruppo di negoziatori per la crisi composto dai 5 membri permanenti del CdS più la Germania» 272) che procedono fino ai giorni nostri.
Le negoziazioni nella formula EU3 hanno portato inizialmente dei buoni risultati, in notevole misura attribuibili alla capacità di dialogo della controparte iraniana, allora guidata dal presidente riformista Khatami (con il beneplacito di Khamenei, che intendeva evitare le sanzioni dell'ONU) e dall'allora capo-negoziatore per il dossier nucleare, nonché capo del Supremo consiglio per la sicurezza nazionale, Hassan Rouhani (adesso Presidente).
Il 21 ottobre 2003 a Teheran, Rouhani e i ministri degli esteri del gruppo EU3 raggiunsero un accordo con il quale si riaffermava il diritto iraniano allo sviluppo di energia di origine nucleare a fini civili nel quadro del trattato di non proliferazione; in cambio, l'Iran escludeva l'intenzione di dotarsi dell'arma atomica, esprimeva la propria decisione di ratificare il protocollo addizionale dell'IAEA e, al fine di rassicurare e instillare fiducia nei propri interlocutori, si impegnava ad interrompere l'arricchimento dell'uranio (di per sé, e all'interno di un certo range percentuale, permesso dal trattato di non proliferazione stesso)273. L'accordo in questione giungeva nonostante aspri dibattiti interni all'Iran, in cui si contrastavano due posizioni, la prima delle quali, quella dei radicali (che potremmo definire "strategia nordcoreana") mirava per spingersi il più avanti possibile con lo sviluppo del programma nuclare, resistendo alle pressioni esterne e specialmente ignorando i richiami e le minacce di Iaea, Stati Uniti e Israele, al fine di poter poi strappare migliori condizioni partendo da una posizione contrattualmente più forte; la seconda strategia, che chiameremo "libica", era basata su un atteggiamento conciliatorio e puntava a una serie di concessioni e a desistere dagli sforzi finalizzati a padroneggiare la tecnologia nucleare militare.
Tale buona volontà iraniana veniva conclusa e cristallizzata con l'accordo firmato a Parigi circa un anno dopo (il 15 novembre 2004), in cui nuovamente si ribadivano le intenzioni assolutamente non bellicose di Teheran relativamente al suo progetto nucleare e la decisione di continuare nell'interruzione del processo di arricchimento dell'uranio in quanto decisione non formalmente obbligata ai sensi del Trattato di non proliferazione ma come misura inziale in grado di costruire e infondere fiducia in vista dei successivi round negoziali che avrebbero dovuto stabilire i termini di un accordo duratori tra le parti274.
Purtroppo la promessa di un'intesa definitiva sia per la parte occidentale che per quella iraniana si sarebbe ben presto rivelato un fuoco fatuo.
Con l'avvicinarsi della scadenza del secondo mandato presidenziale di Khatami e grazie a un parlamento dominati dai radicali in seguito alle elezioni legislative del 2004, in un clima interno di sempre maggiore disillusione seguito alla netta politica di rifiuto del dialogo portata avanti dalla presidenza americana di Bush jr., venne approvato il 31 ottobre 2004 una legge che autorizzava il ripristino dell'arricchimento dell'uranio275. Infine, in seguito al manifestarsi delle prime difficoltà americane in Iraq e soprattutto con il cambio della linea politica dettato dal nuovo presidente, il radicale Ahmadinejad, le speranze nutrite in precedenza circa l'effettiva possibilità di un Iran dedito esclusivamente al nucleare civile hanno subito un forte ridimensionamento, con l'assunzione da parte di Teheran di toni molto aspri nei confronti dell'occidente tutto, differenza marcata, a livello di fatti, dalla ripartenza dell'arricchimento dell'uranio a partire dal gennaio 2006276. Nel febbraio 2006 venne unilateralmente sospesa dall'Iran l'applicazione del protocollo addizionale dell'IAEA277. Nell'aprile dello stesso anno il presidente Ahmadinejad rese noto che, in seguito all'arricchimento dell'uranio al 3,5%278, il suo Paese aveva fatto ingresso nel club dei Paesi nucleari279; nel marzo del
2007, nonostante le prime risoluzioni dell'Onu che ne chiedevano l'interruzione, Teheran annunciò il raggiungimento della capacità di arricchimento dell'uranio in scala industriale, in seguito all'installazione, a Natanz, di circa tremila centrifughe280. A gettare acqua sul fuoco è intervenuto nel novembre del 2007 il National Intelligence Council con la pubblicazione di un rapporto (National Intelligence Estimate) sul programma nucleare iraniano e il suo stato di avanzamento. In tale documento si sosteneva con sicurezza che l'Iran, fino all'autunno 2003 (durante la presidenza Khatami), avesse lavorato, dietro l'impulso del governo, allo sviluppo di armi nucleari. A partire dall'autunno 2003 invece sarebbe arrivato uno stop proveniente sempre da ambienti governativi. Tale pausa nella ricerca della fabbricazione dell'ordigno atomico sarebbe dovuta soprattutto alle pressioni internazionali seguite alla scoperta del centro di arricchimento dell'uranio in costruzione a Natanz e dell'impianto di produzione di acqua pesante di Arak, fino al 2002 allora tenuti segreti e nascosti agli ispettori dell'AIEA281. Per diversi anni, si sosteneva sempre nel citato NIE, non ci sarebbero stati progressi nel programma nucleare iraniano, soprattutto per quanto concerne lo sviluppo dell'ordigno atomico. Il documento conteneva anche la stima che, fino al momento della stesura dello stesso, ovvero la metà del 2007, non ci fossero stati cambiamenti rispetto a quanto affermato. Soprattutto, si sosteneva con moderata certezza che l'Iran non possedesse un arma nucleare282.
Nel settembre del 2009 arrivò una nuova sorpresa e l'ennesima reprimenda dell''IAEA. L'Iran, in seguito alle rivelazioni presentate all'Agenzia e in seguito divulgate alla stampa dai presidenti di Stati Uniti e Francia e del primo ministro inglese, ammetteva l'esistenza di un nuovo impianto di arricchimento fino ad allora sconosciuto e localizzato presso la località di Fordow283, la cui costruzione, secondo quanto poi dichiarato da Teheran, era iniziata verso la metà del 2007284. I mesi seguenti (ottobre-febbraio 2010) videro il fallimento (per via delle opposizioni interne iraniane) di un primo accordo su uno scambio tra riserve di uranio debolmente arricchito (LEU) che l'Iran avrebbe dovuto cedere in cambio del rifornimento da parte di Russia e Francia (sotto la supervisione del resto del gruppo "5+1" e dell'IAEA) di combustibile da usare nel reattore di ricerca di Teheran; nella primavera del 2010 l'intervento di Brasile e Turchia non riuscì a rianimare tale accordo, stavolta per la mancanza del sostegno da parte di Francia, Russia e Stati Uniti. Nel luglio del 2011 il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov propose una "road map" incentrata su quattro passaggi negoziali che, però, non ha trovato una reale implementazione. Nuovi incontri tra i P5+1 e l'Iran si sono tenuti nel corso del 2012, in aprile, maggio e giugno e, all'inizio del 2013, in febbraio e aprile285. Le negoziazioni, tenutesi a Ginevra nell'ottobre-novembre 2013, hanno infine portato a un accordo286 ad-interim della durata di sei mesi che segna un'importante, forse decisiva inversione di tendenza nel dossier nucleare, nata sotto i buoni auspici della nuova presidenta Rouhani (ex capo- negoziatore sotto Khatami).
L'intesa raggiunta si basa sui seguenti impegni presi da parte di Teheran:
. bloccare d'ora in avanti l'arricchimento dell'uranio entro la soglia del 5%, che consente un utilizzo del materiale radioattivo come combustibile di una centrale nucleare per la produzione di energia elettrica (es. Bushehr);
. neutralizzare la scorta di uranio arricchito al 20%, sia convertendolo in combustibile per il reattore di ricerca a fini medici di Teheran, sia riportandolo a un livello del 5%;
. arrestare la costruzione di nuove centrifughe e nuovi impianti di arricchimento;
. sospendere i lavori all'impianto ad acqua pesante di Arak;
. garantire agli ispettori dell'IAEA un accesso giornaliero ai siti nucleari iraniani, in special modo Natanz e Fordow287;
In cambio di questi significativi impegni, le potenze (i P5+1) hanno assicurato un significativo ammorbidimento delle sanzioni in essere288, a crescere nel caso in cui l'accordo venga rispettato da parte iraniana, quantificabile in circa 7 miliardi di dollari in più nelle casse iraniane nell'arco dei sei mesi289. La immediata reazione israeliana a questo ultimo accordo è stata di netta opposizione e contrarietà: il primo ministro Netanyahu ha utilizzato, in particolare, l'espressione di "storico errore" in riferimento all'intesa raggiunta a Ginevra, esprimendo preoccupazione e totale diffidenza per le reali intenzioni della dirigenza iraniana di rispettare i termini concordati290.
Per quanto riguarda l'atteggiamento dell'Onu circa il programma nucleare iraniano e, in special modo, l'arricchimento dell'uranio (che è il vero oggetto del contendere), esso si è notevolmente indurito negli ultimi anni, a partire dal 2002, quando si è venuti a conoscenza dell'entità degli avanzamenti da parte iraniana e di pari passo con il cattivo o insoddisfacente andamento dei colloqui negoziali, vista la continuazione dell'arricchimento e anche il riprodursi dei proclami e delle dichiarazioni incendiarie quasi esclusivamente da parte di Ahmadinejad durante i suoi due mandati come presidente.
Parallelamente alle varie risoluzioni pubblicate dall'IAEA, tutte attestanti il ragionevole dubbio che la finalità del progetto nucleare iraniano non fossero limitate all'uso civile (seppure incapaci di dimostrare con prove tangibili tale timore), fra il 2006 e il 2013 sono state varate in sede Onu ben otto risoluzioni291 (Risoluzione 1969 del 31 luglio 2006292, 1737 del 23 dicembre 2006293, 1747 del
24 marzo 2007294, 1803 del 3 marzo 2008295, 1835 del 27 settembre 2008296, 1929 del 9 giugno
2010297, 1984 del 9 giugno 2011298, 2049 del 7 giugno 2012299) che hanno richiesto a più riprese la sospensione del programma di arricchimento, e imposto una serie di sanzioni proporzionalmente sempre più incisive, con risultati pressoché nulli; a tali interventi dell'Onu, si sono aggiunti gli embarghi e le sanzioni unilaterali degli Stati Uniti300e, ultimamente, anche dell'Unione Europea con il bando al petrolio iraniano301. Il sistema del doppio binario (dual track), sul bastone delle sanzioni e la carota del dialogo adottato dal "gruppo dei 5+1"
Il problema di difficile soluzione legato al nucleare iraniano è legato alla doppia natura dell'uranio arricchito. Tale elemento può, infatti, essere usato come combustibile di centrali nucleari ad uso civile, e in questo caso si parla di
«uranio debolmente arricchito (detto LEU, di norma attorno al 4-5%) [.] Ma la tecnologia per produrre LEU è dual use, può essere cioè impiegata tanto a fini civili quanto a fini militari. In molti sostengono che l'impianto di centrifughe per l'arricchimento dell'uranio costruito a Natanz possa servire anche per produrre HEU, ossia uranio altamente arricchito (sopra il 90%), che rappresenta l'elemento cruciale per assemblare una bomba atomica»302
La centrale di Natanz è stata pensata per ospitare migliaia di centrifughe ad alta velocità in grado di arricchire l'uranio303. Proprio per la sua importanza strategica nel programma nucleare iraniano, tale installazione è stata il bersaglio dell'attacco informatico congiunto americano-israeliano, portato avanti fin dal 2007 (operazione "Olympic Games") attraverso il virus soprannominato Stuxnet e divenuto di dominio pubblico solo nel 2010, quando il virus è uscito dal perimetro informatico della centrale di Natanz per diffondersi in rete304. Non ci sono stime affidabili che possano quantificare i danni apportati da tale attacco, anche se alcuni esperti internazionali ritengono che Stuxnet abbia riportato indietro il programma nucleare iraniano di circa due anni305.
Tra i principali siti nucleari iraniani possono essere elencati i seguenti:
- Bushehr, centrale con reattore ad acqua leggera per la produzione di energia elettrica, completato nel 2010 dietro un accordo con la Federazione russa;
- Arak, centrale nucleare con reattore ad acqua pesante finalizzato alla produzione di plutonio306 la cui ultimazione è prevista per il 2014307;
- Isfahan, sede di un impianto di conversione che produce esafluoruro di uranio, elemento che viene usato nelle centrifughe;
- Fordow, vicino a Qom, una delle città sante dell'Islam sciita, sede di impianto di arricchimento dell'uranio, scoperto dai satelliti americani solo nel 2006 e di cui l'Iran ha rivelato l'esistenza all'AIEA solo nel 2009 e che si ritiene ospiti circa tremila centrifughe. L'impianto è costruito a circa 100 metri sotto terra, in mezzo alle montagne, quindi molto difficile da raggiungere e attaccare;
- Natanz, sede di un impianto di arricchimento dell'uranio dotato di circa cinquantamila centrifughe di cui solo un quinto funzionanti. Tale sito è stato costruito sotto terra, protetto da circa 23 metri di terra e cemento e missili terra-aria di fabbricazione russa308.
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