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Il Secondo dopoguerra - Bilancio della guerra, La situazione della Germania, Organizzazione delle Nazioni Unite (O.N.U.), Zone d'influenza e guerra fredda, Principali eventi del dopoguerra




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Il Secondo dopoguerra





Bilancio della guerra



La «Grande guerra» era costata quasi nove milioni di morti; la seconda guerra mondiale costò complessi­vamente circa quaranta milioni di morti.

Di questi, più di quattro milioni furono gli Ebrei sterminati in Germania e nei paesi europei occupati dai nazisti; più di quattro milioni i militanti politici e sin­dacali trucidati da Hitler e dai suoi seguaci come nemici del «Nuovo Ordine».

Anche più chiaramente della «Grande guerra», la se­conda guerra mondiale fu guerra totale:

in primo luo­go, perché comportò il pieno coinvolgimento delle popolazioni civi­li, massacrate dai bombardamenti aerei, costrette ad abbandonare le loro case dai rapidi spostamenti dei fronti, deportate in massa in Germania a lavorare per il Terzo Reich, esposte al rischio dei ra­strellamenti e delle rappresaglie naziste, impegnate direttamente o indirettamente nella guerra partigiana;

in secondo luogo, perché es­sa fu veramente lotta per la vita e per la morte fra concezioni morali e politiche opposte e inconciliabili.


Nella «Grande guerra» l'ideolo­gia 'democratica' degli Alleati era stata un semplice paravento dei loro interessi; nella seconda guerra mondiale l'ideologia umanitaria della «Carta Atlantica» ebbe anch'essa un valore prevalentemente propagandistico, ma la resistenza dei popoli contro il «Nuovo Or­dine» hitleriano fu vera e autentica lotta in difesa dell'umanità e della civiltà contro la follia del nazismo.

L'assetto del mondo subì una radicale trasformazione: la Ger­mania e il Giappone cessarono per alcuni anni di appartenere al ri­stretto numero delle grandi potenze; la Francia, l'Inghilterra e l'Eu­ropa in generale subirono una clamorosa perdita di potenza e di prestigio; il loro indebolimento favorì in Africa e in Asia un vasto processo di decolonizzazione; la Cina, non più esposta all'aggressio­ne nipponica, poté condurre a termine una rivoluzione destinata a spostare gli equilibri mondiali; gli Stati Uniti d'America e l'Unione Sovietica, infine, uscirono dalla guerra come potenze egemoni del­l'intero pianeta.



Come risulta dalle seguenti cifre approssimative, la guerra non colpì in egual misura tutti i paesi bellige­ranti: l'Unione Sovietica perdette quasi 20 milioni di persone (delle quali più di 6 milioni fra i civili); la Polonia 6 milioni (cioè quasi un quarto della sua popolazione); la Germania milioni; il Giappone 2 milioni; la Iugoslavia milione e 700 000; la Francia 800 000; l'Impe­ro britannico, compresi i dominion, l'Italia e la Romania ciascuna; gli Stati Uniti la Cina (che però salgono a quasi milioni se si considerano le vittime delle aggres­sioni nipponiche a partire dal

Altrettanto mostruosi furono i danni materiali: molte città della Germania e di gran parte d'Europa vennero semidistrutte o rase al suolo; le industrie e i tra­sporti subirono danni gravissimi: basti pensare che la sola Unione Sovietica perdette nella guerra circa il 40% del potenziale industria­le conseguito con i durissimi sacrifici dei primi piani quinquennali.


Nella desolazione generale, il primato statunitense, già affermatosi al termine della «Grande guerra», di­venta schiacciante.

La guerra non ha toccato il terri­torio degli Stati Uniti; le loro fabbriche sono intatte e anzi si sono rinnovate adottando le tecnologie più progredite; la disoccupazione è stata completamente riassorbita perché le necessità militari hanno costretto le fabbriche a lavorare a pieno regime, anzi, benché anco­ra nel dieci milioni dì uomini siano sotto le armi, il recluta­mento di manodopera anziana, giovanile e femminile ha permesso di aumentare la forza-lavoro di circa nove milioni dì unità; la produ­zione industriale complessiva è più che raddoppiata rispetto agli an­ni precedenti la guerra. Nell'immediato dopoguerra gli USA estrag­gono annualmente metà del carbone e due terzi del petrolio mondia­li; producono circa la metà dell'energia elettrica e dell'acciaio; han­no enormi riserve d'oro e di valuta pregiata (che nel ammonte­ranno al delle riserve mondiali, Unione Sovietica esclusa); di­spongono di una flotta mercantile tre volte più grande di quella in­glese, di un'aviazione civile molto superiore a quella di tutti gli altri paesi riuniti, di armi tecnicamente avanzatissime, e conservano il monopolio della bomba atomica fino al (quando anche l'URSS conclude con successo la messa a punto del micidiale ordigno).

Per il contributo decisivo dato alla lotta contro il nazismo e per la loro forza economica e militare, essi sono la massima potenza mon­diale ed esercitano un'indiscutibile egemonia su tutti i paesi liberali e capitalisti, dei quali condizionano pesantemente le scelte.



Di fronte agli Stati Uniti si erge l'Unione Sovietica, che gode di un immenso prestigio per aver saputo sconfiggere per prima i poderosi eserciti del Terzo Reich pagando il più alto prezzo di vite umane. La «patria del sociali­smo» esercita una grande influenza sia sul proletariato di paesi indu­striali come Francia e Italia (dove i partiti comunisti sono molto forti e partecipano ai rispettivi governi), sia sui comunisti cinesi che stan­no per portare a termine la loro vittoriosa rivoluzione, sia sui popoli che combattono per liberarsi dal colonialismo dei paesi capitalisti.

Nell'avanzata verso Berlino l'Armata Rossa ha liberato dalla do­minazione nazista i paesi dell'Europa orientale, ma li ha nello stesso tempo ridotti alla condizione di «satelliti» della Russia: l'URSS controlla pertanto un'area molto ampia e non è più isolata e assediata come ai tempi del «socialismo in un solo paese» .

Le condizioni di vita del popolo russo sono però mol­to dure, perché esso deve riparare gli enormi danni della guerra e dell'occupazione nazista. Perciò nel marzo del 1946 viene varato il quarto piano quinquennale, che consegue pieno suc­cesso, ma ancora una volta sacrifica i consumi a favore degli inve­stimenti produttivi e punta sullo sviluppo dell'industria pesante, a scapito dell'industria leggera che produce le merci direttamente de­stinate a soddisfare i bisogni quotidiani della gente.

La disciplina e i sacrifici necessari per l'attuazione del piano quin­quennale vengono quindi imposti da Stalin con i metodi già usati negli anni Trenta. Lo «stalinismo», insomma, che du­rante la guerra si era alquanto attenuato perché il consenso popola­re spontaneo alla lotta contro i nazisti invasori l'aveva reso super­fluo, riprende pieno vigore, e ancora una volta milioni di cittadini, sospettati di ostilità al regime, vengono deportati nei campi di lavo­ro o incarcerati, in base a processi arbitrari o a semplici provvedi­menti di polizia.




La situazione della Germania


Al termine della guerra, la Germania e il Giappone, costretti alla resa senza condizioni, furono occupati militarmente dai vincitori e per alcuni anni perdettero addirittura l'indipendenza.

In seguito pe­rò, come ora diremo, recuperarono l'indipendenza e anzi ripresero un posto di notevole importanza fra le grandi potenze.

Dopo essersi arresa, la Germania fu divisa in quattro zone d'occupazione, controllate rispettivamente da Americani, Inglesi, Francesi e Russi.

In un primo tempo le quattro potenze vincitrici avevano progettato di impedire per sempre il ri­sorgere di una Germania forte ed unita e di appropriarsi delle più importanti industrie tedesche per rifarsi almeno in parte dei danni subìti durante la guerra e per togliere di mezzo una pericolosa con­corrente; ma, man mano che i rapporti fra i tre Alleati occidentali e la Russia si guastavano, gli Stati Uniti decidevano di favorire una rapida ripresa della Germania da loro controllata, per utilizzarla come barriera contro l'Unione Sovietica. Pertanto nell'aprile del 1949 le tre zone occupate dagli Anglo-franco-americani furono unificate e costituirono la Repubblica Federale Tedesca, con capitale a Bonn.

Per reagire a questa iniziativa unilaterale dei loro ex alleati, i So­vietici nell'ottobre del 1949 fecero nascere nella Germania orientale da loro occupata la Repubblica Democratica Tedesca, che rimase ovviamente legata e subordinata all'Unione Sovietica. Per popola­zione, superficie e capacità produttive, la Germania orientale era assai meno importante della Germania occidentale, ma ha comunque di­mostrato nel dopoguerra una notevolissima capacità dì ripresa, tan­to che, fino alla caduta del muro di Berlino, fra i paesi del blocco socialista, URSS compresa, essa go­deva del più alto reddito medio pro capite.

Grazie agli aiuti americani, ma soprattutto grazie al­ la sua elevata cultura industriale (che il nazismo non era riuscito a distruggere), la Repubblica Federale Tedesca ri­costituì con straordinaria rapidità la propria potenza economica, riaffermandosi, sia pure a notevole distanza dalle due superpotenze, come uno dei più forti paesi industriali del mondo.

Dal 1949 al essa fu costantemente governata dal cancelliere Conrad Adenauer, leader della Democrazia Cristiana tedesca, che condusse una politica interna decisamente anticomunista (nel il partito comunista fu sciolto e messo fuori legge) e una politica estera accesamente antisovietica.

In tempi più recenti i successi elettorali del Partito socialdemocratico imposero la formazione di governi dal leader socialdemocratico Willy Brandt, che fu cancelliere dal 1969 al

Questi mantenne il divieto di ri­costituzione del partito comunista, ma pose su basi completamente diverse i rapporti della Germania federale con i paesi comunisti dell'Europa orientale e con l'Unione Sovietica, e firmò con la Russia un accordo che prevedeva l'esclusione dell'uso della forza nelle reciproche relazioni.


La politica di distensione nei confronti del blocco comunista fu continuata dal successore di Willy Brandt, il socialdemocratico Hel­mut Schmidt, cancelliere dal al e dal successore dello Schmidt, il democristiano Helmut Kohl.

È certo, comunque, che negli anni più recenti la Germania occi­dentale, pur conservandosi fedele all'Alleanza Atlantica, ha conqui­stato una maggiore libertà di movimento anche nei confronti degli Stati Uniti, grazie alla recuperata potenza economica e alla diminui­ta tensione col blocco comunista.







Organizzazione delle Nazioni Unite (O.N.U.)



Come al termine della «Grande guerra» si era costi­tuita la Società delle Nazioni, così dopo la fine della seconda guerra mondiale le grandi potenze promossero la nascita dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), il cui statuto fu ap­provato da cinquanta paesi in una conferenza internazionale riuni­tasi a San Francisco nel giugno del 1945.

Secondo tale statuto, tuttora vigente, l'ONU deve fondarsi sulla piena «uguaglianza di diritti delle nazioni grandi e piccole», deve promuovere la collaborazione internazionale e «il progresso econo­mico e sociale di tutti i popoli», deve soprattutto preservare la pace e punire con adeguate misure collettive chiunque si renda colpevole di aggressioni.


I principali organi direttivi dell'ONU sono l'Assem­blea generale e il Consiglio di sicurezza:

l'Assemblea generale comprende i rappresentanti di tutti i paesi aderenti e prende le sue decisioni a maggioranza semplice (o a mag­gioranza di due terzi nei casi più importanti);

il Consiglio di sicurez­za è composto di quindici membri, cioè di cinque membri di diritto, rappresentanti dei Cinque Grandi[1], e di altri dieci membri, eletti ogni due anni dall'Assemblea generale. I cinque membri di diritto possono porre il veto a qualsiasi decisione del Consiglio di sicu­rezza, che pertanto non può deliberare nulla se le grandi potenze non sono tutte d'accordo.


Malgrado questa clamorosa violazione del principio d'uguaglian­za fra i grandi e i piccoli stati, l'ONU, cui attualmente aderiscono quasi tutti i paesi del mondo, ha finora dimostrato di essere uno strumento utile, se non a conservare la pace, turbata da continue guerre locali, almeno ad attenuare i contrasti internazionali e ad evitare la catastrofe irrimediabile di una guerra atomica fra gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica.





Zone d'influenza e guerra fredda




Durante il corso della guerra, USA, URSS e Gran Bretagna avevano solennemente dichiarato che dopo la vittoria i trattati di pace si sarebbero ispirati al principio dell'autodecisione dei popoli.

In realtà le questioni fonda­mentali furono invece decise nelle conferenze anglo-russo-america­ne di Teheran (fine novembre 1943), di Yalta (4-11 febbraio 1945) e di Potsdam (17 luglio-2 agosto 1945): e i popoli non furono neppure consultati.

Il risultato di queste conferenze fu la divisione dell'Europa in due zone d'influenza, dominate rispettivamente dagli Stati Uniti e dall'Unione Sovietica, mentre l'Inghilterra, che formalmente continua­va ad apparire come una potenza di primo piano, si schierava dalla parte dell'America, ma in una posizione del tutto subordinata.


La linea di demarcazione fra le due zone d'influenza attraversa­va la Germania che, dopo un periodo di occupazione impostole dai vincitori, finì col costituirsi in due stati


  1. la Repubblica Federale Te­desca, nella zona d'influenza statunitense,
  2. la Repubblica Democra­tica Tedesca, nella zona d'influenza sovietica.

Al termine delle ostilità i dissensi fra gli Alleati, ri­masti in ombra fin quando si trattava di battere il ne­mico comune, si manifestarono con asprezza crescente ed ebbe ini­zio la cosiddetta guerra fredda tra il blocco occidentale, liberale e ca­pitalistico, guidato dagli Stati Uniti, e il blocco orientale comunista, guidato dalla Russia.


In questo clima di tensione nacque il Patto Atlantico: un'alleanza militare, dominata dagli Stati Uniti e stipula­ta a Washington il 4 aprile 1949 da USA, Canada, Francia, Inghilter­ra, Italia, Norvegia, Danimarca, Islanda, Portogallo, Belgio, Olanda e Lussemburgo. Nel 1952 vi aderirono anche la Turchia e la Grecia, nel 1955 la Repubblica Federale Tedesca e nel 1982 la Spagna.

L'al­leanza fu resa più compatta ed efficiente mediante una speciale or­ganizzazione che, dalle iniziali della sua denominazione inglese, ha preso nome dì N.A.T.O. (North Atlantic Treaty Organization


A sua volta l' Unione Sovietica consolidò i rapporti con i paesi dell'Europa orientale (Repubblica Demo­tica Tedesca, Polonia, Cecoslovacchia Ungheria Romania e Bulgaria), istituendo nel gennaio del 1949 un Consiglio di mutua assistenza economica (C.O.M.E.C.O.N.) e stringendo con loro nel maggio del 1955 un'alleanza militare, che dalla città dove fu firmata prese il nome di Patto di Varsavia.



Più ancora che col Patto di Varsavia, l'Unione Sovie­tica si assicurò peraltro il controllo sull'Europa orientale facendo in modo che in ciascuno degli stati che la costituiscono si formassero governi comunisti di sua fiducia e intervenen­do militarmente quando la sua egemonia sembrava minacciata.

Il procedimento seguito nei paesi dell'Europa orientale fu dovunque il medesimo: subito dopo la guerra, sotto la pressione sovietica, si for­marono in ogni paese governi di coalizione, diretti dai comunisti, e si passò in un secondo tempo a regimi nei quali di fatto il monopolio del potere spettava ai comunisti, anzi, per l'esattezza, ai comunisti più 'ortodossi' e più fedeli a Mosca.

Particolarmente grave fu il col­po di stato in Cecoslovacchia (1948), dove fu allontanato dal potere il democratico Benes e dove il ministro degli esteri Masaryk (se pure non fu assassinato) denunciò col proprio suicidio l'avvenuta sopraf­fazione.

L'imperialismo sovietico fallì però completamente proprio in Iu­goslavia, dove i comunisti, guidati dal maresciallo Tito, avendo conquistato il potere per forza propria e non grazie all'appoggio dell'Armata Rossa, riuscirono a mantenere la piena indipendenza e autonomia del loro paese.

Il passaggio forzato al comunismo provocò estese sommosse nella Germania Orientale, in Polonia e so­prattutto in Ungheria, dove una vera e propria insurrezione fu stroncata nel 1956 dall'intervento dell'armata sovietica.

Anche più drammatica fu la vicenda della Cecoslovacchia, dove nel gennaio del 1968 1o stesso comitato centrale del partito comunista, guidato da Alexander Dubcek, diede l'avvio a un nuovo corso che, secondo le dichiarazioni dei promotori, mirava a fondare un'autentica democrazia socialista, vivificata dalla libertà politica e del tutto indipendente da Mosca[2]. La Russia in un primo tempo si limitò a condannare l'iniziativa, dichiarandola rivolta a restaurare in Cecoslovacchia il capitalismo; poi, dato che le condanne e le pressioni politiche risultavano insufficienti a bloccare il nuovo cor­so, provvide a liquidarlo con l'invasione armata del paese (agosto L'intervento sovietico e le conseguenti repressioni suscitaro­no però nell'opinione pubblica mondiale un'ondata di protesta, cui si associarono molti partiti comunisti dell'Occidente, a cominciare da quello italiano.

Nuove e più ampie agitazioni scossero la Polonia nell'estate del 1980. La protesta popolare nacque occa­sionalmente da un forte aumento dei prezzi, ma assunse presto un chiaro significato politico. Guidata da Lech Walesa, essa mirava a ottenere libertà di associazione e di sciopero per i lavoratori, che si organizzarono nel sindacato autonomo Solidarnosc.

La Chiesa po­lacca - che gode nel paese di un alto prestigio, accresciuto anche dal fatto che dal 1978 la cattedra dì San Pietro è occupata dal papa polacco Giovanni Paolo II - fece opera di moderazione e di media­zione fra governo e sindacati, e questi in un primo tempo consegui­rono effettivamente i loro obiettivi. Nel dicembre però, il go­verno, sottoposto a evidenti pressioni sovietiche, promulgò la legge marziale, abrogò tutte le concessioni che gli erano state strappate e procedette a una vasta opera di repressione.


Si può osservare che l'Unione Sovietica, nel momento stesso in cui ha enormemente accresciuto la propria sfera d'influenza e di controllo, ha dovuto anche affronta­re difficoltà simili a quelle già incontrate in passato dall'imperiali­smo inglese e francese, ossia ha dovuto ricorrere con fre­quenza crescente a pressioni, intimidazioni e, nel caso limite, a di­retti interventi militari.





Profondamente diversa nei metodi fu invece la stra­tegia adottata dagli Stati Uniti per assicurarsi il controllo dell'Europa occidentale: essa infatti si fon­dò principalmente sulle pressioni economiche e sulla minaccia di affamare quei paesi nei quali i comunisti ottenessero successi elettorali troppo vistosi.

Esempio tipico di questo modo di procede­re fu il Piano Marshall, promosso appunto dal segretario di stato statunitense George Marshall e attuato fra il e il

Il piano comportò la concessione ai paesi dell'Europa occidenta­le, semidistrutti dalla guerra e bisognosi di tutto, di aiuti americani per un totale di 14 miliardi di dollari. Tali aiuti comprendevano sia forniture gratuite di materiali e di attrezzature, sia prestiti di dana­ro a basso interesse (2,5% annuo) e a lunga scadenza (30-40 anni). I paesi aiutati dovevano però impegnarsi a utilizzare quanto riceve­vano per promuovere una rapida ripresa economica, che avrebbe migliorato le condizioni di vita delle popolazioni e - almeno secon­do le speranze statunitensi - avrebbe quindi tolto ai comunisti (molto forti in Francia e in Italia) la possibilità di far leva sul mal­contento della gente.

Com'era naturale, gli Americani attribuivano dunque al piano anche un significato anticomunista, che del resto fu sottolineato dallo stesso Marshall quando egli, in occasione delle elezioni italiane del dichiarò apertamente che votare per i co­munisti (contrari all'accettazione degli aiuti statunitensi) significava votare contro il piano.





Principali eventi del dopoguerra



Come visto, Stati Uniti e Unione Sovietica escono dalla seconda guerra mondiale come egemoni dell'intero pianeta, mentre l'Europa perde il tradizionale primato e vie divisa in due zone d'influenza: l'occidentale, dominata dagli USA, e l'orientale, dall'URSS.

Le due superpotenze, che pure aderiscono entrambe all'ONU, si fronteggiano in tutte le parti mondo nella cosiddetta «guerra fredda», perché ciascuna di esse mira ad allargare propria sfera d'influenza e a procurarsi nuovi alleati subalterni.

In questa prospettiva, come già spiegato,  nell'aprile del 1949 gli Americani permettono che nella Germania occidentale n Repubblica Federale Tedesca, cui nell'ottobre dello stesso anno i Russi contrappongono la Repubblica Democratica Tedesca.


Per motivi analoghi gli USA intervengono in Corea, per difendere la repubblica satellite sudcoreana, aggredita dalla repubblica filosovietica nordcoreana (1950-1953) e pongono termine all'occupazione del Giappone; anzi ne favoriscono la rinascita per farsene un solido alleato in eventuali scontri con l'URSS e con la Cina comunista.


Dal 1957 gli Americani inviano forze armate sempre più consistenti anche nel Vietnam e  tentano di difendere i governi fantoccio da loro stessi insediati nella parte meridionale paese; ma questa guerra, divenuta troppo costosa e impopolare, viene poi abbandonata nel 1973. Il Vietnam consegue così la propria unità sotto un regime comunista filosovietico (1975).


Pericolosi attriti fra le due superpotenze sorgono altresì in Medio Oriente, dove Americani sostengono energicamente la Repubblica d'Israele (nata nel 1948 in Palestina, come patria degli Ebrei sopravvissuti alle stragi naziste), mentre i Russi appoggiano Palestinesi che, col favore attivo degli stati arabi circostanti, combattono contro Israele per recuperare le proprie terre originarie.


La guerra fredda minaccia di degenerare in uno scontro frontale fra USA e URSS, quando Fidel Castro (che fra il 1958 e il 1959 ha liberato Cuba dal dittatore reazionario e filoamericano Fulgencio Batista e ha instaurato nell'isola un regime comunista) permette ai Sovietici di installare nel suo paese dei missili che minacciano da vicino il territorio statunitense.  Gli Americani reagiscono ponendo il blocco navale intorno a Cuba, e il pericolo di una nuova guerra appare vicinissimo; ma la crisi si risolve in un compromesso sostanzialmente favorevole agli USA, e in seguito i rapporti fra Russia e America sembrano anzi migliorare.


Si apre così il periodo della cosiddetta «convivenza pacifica», fondata peraltro non sull'effettiva volontà di collaborazione delle due superpotenze ma sull'«equilibrio del terrore», ossia sulla consapevolezza che un'eventuale guerra nucleare sarebbe egualmente disastrosa per entrambi i contendenti.

La coesistenza pacifica risulta però molto precaria ed è continuamente interrotta da momenti di aspra tensione, cosicché Russi e Americani sono costretti a impiegare una parte rilevante del loro enorme potenziale economico nella produzione di armamenti sempre più sofisticati e terrificanti, mentre la maggioranza della popolazione mondiale continua a vivere nella fame e miseria.

L'assurdità di un tale spreco di ricchezza viene ripetutamente denunciata dalla Chiesa di Roma, che negli ultimi decenni, grazie soprattutto all'opera di Giovanni XXIII e di Paolo VI e grazie alle decisioni del Concilio Vaticano II (1962-1965), modifica profondamente il proprio atteggiamento nei confronti dei problemi e delle esigenze della società laica contemporanea. II nuovo corso può riassumersi nelle parole del papa attuale, Giovanni Paolo II, che - pur nella intransigente difesa della tradizione - ribadisce il dovere Chiesa di accostarsi «a tutte le culture, a tutte le concezioni ideologiche, a tutti gli uomini di buona volontà, con stima, rispetto e discernimento».



















Decolonizzazione e neocolonialismo



Nei decenni che seguono la seconda guerra mondiale la Gran Bretagna, per l'impero coloniale e il primato industriale di un tempo, decade a potenza di secondo piano, alleata subalterna degli Stati Uniti.

Maggiori capacità di ripresa dimostra invece la Francia che, sotto la guida di De Gaulle (1958-1969), attua un vasto programma di aggiornamento tecnico-scientifico e conserva pertanto una potenza sufficiente per condurre una politica di autonomia anche nei confronti del gran alleato d'oltreatlantico.


Il processo di decolonizzazione procede a grandi passi: crollano gli imperi coloniali inglese, francese, olandese e belga, e nelle regioni asiatiche e africane da essi occupate nascono numerosi stati indipendenti.

Fra questi il più importante è  l'India ex britannica che, ottenuta l'indipendenza nel 1947, ha conquistato una posizione di notevole rilievo internazionale, grazie all'elevato livello culturale del sua classe dirigente e alle sue dimensioni territoriali e demografiche.

L'intenso sviluppo industriale, agricolo, tecnico e scientifico - promosso da Nehru (1947-1964) e successivamente da sua figlia Indira Gandhi (assassinata il 31 ottobre 1984) - non è però finora bastato a risolvere adeguatamente i problemi delle grandi masse popolari: miseria, fame, analfabetismo.

Questi stessi problemi affliggono del resto quasi tutti i paesi del cosiddetto Terzo Mondo (comprendente gli stati asiatici e africani di recente indipendenza), ancor oggi sfruttato dai paesi più avanzati secondo varie forme di neocolonialismo.

Tale sfruttamento si fonda in buona parte sugli scambi ineguali, ossia sul fatto che i paesi sottosviluppati esportano nei paesi industrializzati le proprie materie prime a basso prezzo e importano dai paesi industrializzati i prodotti finiti a prezzi elevati. Conseguenza dei neocolonialismo è il pauroso squilibrio fra le regioni del mondo ad alto sviluppo industriale, capitalistiche e comunistiche, e le regioni arretrate del Terzo Mondo: uno squilibrio tale che, per fare solo un esempio, il reddito medio annuale pro capite delle popolazioni nordamericane all'inizio degli anni Settanta superava di ben ventidue volte quello delle popolazioni asiatiche e di oltre tredici e volte quello delle popolazioni africane.

Questa situazione costituisce uno dei più gravi problemi etico-politici del mondo contemporaneo, sia perché essa può essere conservata solo mediante l'uso sistematico e costosissimo della violenza (come dimostra, ad esempio, la politica razzistica e militaristica dell'Unione Sudafricana), sia perché l'instabilità del Terzo Mondo, conseguenza inevitabile della sua miseria, hanno in passato moltiplicato gli attriti fra USA e URSS, che in tale instabilità trovavano l'occasione più favorevole per immischiarsi nelle questioni dei paesi sottosviluppati, con il rischio, pertanto, con le proprie concorrenti intromissioni, di precipitare il mondo nella sciagura definitiva di nuove disastrose guerre.









La Repubblica Italiana



I governi italiani dell'immediato dopoguerra si fondano sulla solidarietà di tutti i partiti antifascisti, compreso il PCI che, seguendo le direttive di Togliatti, si dichiara disposto a collaborare con le «altre forze conseguentemente democratiche» al rinnovamento e al progresso del paese.

Il 2 giugno 1946 si svolgono le prime consultazioni popolari a suffragio veramente universale della storia d'Italia (votano anche le donne): il referendum istituzionale, che si conclude con la proclamazione della Repubblica, e le elezioni dell'Assemblea Costituente, cioè dell'assemblea che elaborerà appunto la costituzione repubblicana (entrata poi in vigore il 1° gennaio 1948).

Nel maggio 1947 De Gasperi - presidente del Consiglio dal dicembre 1945 all'agosto 1953 - estromette dal governo comunisti e socialisti e inaugura una politica di centro, appoggiata dalla DC, dai liberali, dai repubblicani e dai socialdemocratici.

Questa svolta, favorita dagli Americani dai cui aiuti l'Italia è largamente dipendente, viene convalidata da una grande vittoria democristiana nelle elezioni del primo Parlamento repubblicano (18 aprile 1948).

I governi di centro egemonizzati dalla DC si succedono ininterrottamente sino a 1962, mentre il paese attraversa un periodo di intenso sviluppo della produzione, che culmina fra il 1955 e il 1963 nel cosiddetto «miracolo economico».

La rapida ripresa dell'economia italiana è favorita dalla larga disponibilità di manodopera a basso costo, reclutata nelle zone più arretrate della penisola e trasferita dall'agricoltura all'industria: la vasta massa di lavoratori disoccupati o sottoccupati permette infatti di comprimere i salari e, conseguentemente, di battere la concorrenza internazionale in alcuni settori della produzione che non richiedono tecnologie d'avanguardia.

L'espansione produttiva, d'altra parte, consente ai lavoratori, non più minacciati dal pericolo della disoccupazione, di ottenere un sensibile aumento dei salari ed elimina pertanto una delle condizioni su cui l'espansione stessa si fondava.

Negli stessi anni del «miracolo economico» la maggioranza governativa (DC, PSDI, PLI, PRI) si fa sempre più esigua e s'affaccia la necessità di cooptare almeno il PSI nell'area governativa. Questa necessità determina nel 1962 il passaggio dai governi di centro ai governi di centro-sinistra che, in un primo tempo godono dell'appoggio esterno del PSI e in un secondo tempo possono contare sul sua diretta partecipazione.

Inaugurati con una significativa attività di riforma (nazionalizzazione delle industrie elettriche e istituzione della scuola media unica), i governi di centro-sini­stra perdono in seguito di incisività e sopravvivono stentatamente durante la quinta legislatura (1968-1972), interrotta in anticipo per il passaggio dei socialisti all'opposizione (che rende impossibile la formazione di nuove maggioranze governative stabili).

Sono per l'Italia anni molto difficili: la situazione economica si è fatta precaria, le scuole sono agitate da un tumultuoso movimento giovanile, le fabbriche vivono il quotidiano tormento della «conflittualità permanente», il paese assiste stupito e costernato alle gesta del terrorismo «nero», cui presto si saldano gesta, oggettivamente quasi identiche, del terrorismo «rosso».

Questi motivi di crisi, che perdurano negli anni della sesta legislatura (1972-1976), sembrano avviati a soluzione durante la legislatura successiva (1976-1979), quando i comunisti, dopo il notevole successo ottenuto nelle elezioni del giugno 1976, contribuiscono con la loro astensione alla formazione di un governo Andreotti, cui nel marzo del 1978 concedono il proprio appoggio diretto.

Grazie ai governi di «solidarietà nazionale» che così si formano, le istituzioni repubblicane superano indenni la pericolosissima tensione seguita al rapimento e all'assassinio di Moro (marzo-maggio 1978).

La situazione del paese resta comunque molto difficile, anche perché fra il 1973 e il 1979 i paesi produttori di petrolio, riuniti nell'OPEC, hanno decuplicato i prezzi del greggio, privando i paesi industriali della grande risorsa costituita dall'energia a buon mercato.

All'inizio del 1979 i comunisti negano il loro appoggio esterno al ministero presieduto da Andreotti e chiedono di partecipare direttamente al governo.

La DC rifiuta: diventa così impossibile formare nuove maggioranze governative, e il capo dello stato, Alessandro Pertini, è costretto a sciogliere le Camere.

Dopo le elezioni - che si svolgono il 3 giugno 1979 e che non mutano sostanzialmente i rapporti di forza fra i partiti - seguono governi minati da continue tensioni interne: governi instabili e precari che non possono affrontare con la necessaria autorevolezza i problemi sempre più complessi del paese.

Pertanto anche l'ottava legislatura viene interrotta precocemente e si deve ancora una volta ricorrere all'espediente delle elezioni anticipate.

In tali elezioni (26 giugno 1983) il PSI ottiene un limitatissimo successo e la DC subisce una netta flessione: tanto basta perché la presidenza del Consiglio passi al leader socialista Bettino Craxi, che dal luglio 1983 dirige una compagine ministeriale formata dagli stessi cinque partiti impegnati nei precedenti governi.

Il cosiddetto pentapartito costituiva ancora la maggioranza governativa alla fine del 1986.






Cinque Grandi. Così furono chia­mati gli Stati Uniti, l'Unione Sovieti­ca, l'Inghilterra, la Francia e la Cina, perché avevano vinto la guerra con­tro l'Italia, la Germania e il Giappone. La posizione della Cina all'ONU di­venne però ben presto assurda, per­ché il governo legale cinese di Jiang Jeshih, pur costretto dai comunisti di Mao a rifugiarsi nella sola isola di Formosa (36 000 chilometri quadrati), conservò il suo privilegio nel Consi­glio di sicurezza fino all'ottobre del 1971, mentre la Cina comunista di Mao, che comprendeva tutta la Cina continentale chilometri quadrati), rimase fino a tale data esclusa dall'ONU, perché non era sta­ta riconosciuta dagli Stati Uniti.

Nel giugno 1968, poco prima del­l'intervento sovietico, un gruppo di intellettuali comunisti cecoslovacchi pubblicò un manifesto, noto come Manifesto delle duemila parole, nel quale si leggeva fra l'altro: «Il partito comunista, che dopo la guerra gode­va della grande fiducia del popolo, la sostituì gradualmente con la burocrazia e ben presto non gli restò altro. Possiamo ben dirlo, perché fra noi co­munisti la delusione per i risultati è grande quanto la delusione degli altri. Una linea di direzione sbagliata tra. sformò il partito da associazione ideologica in organizzazione di forza; che offriva grandi occasioni a chiunque fosse assetato di potere, al tornaconto dei codardi e delle coscienze poco pulite. Il loro esempio influiva sul comportamento del partito, la cui struttura non permetteva agli indivi­dui onesti di far sentire la loro voce senza incorrere in conseguenze, né di contribuire alla sua trasformazione e di adeguarlo al mondo contempora­neo. Numerosi comunisti si batterono contro questo stato di cose, ma non riuscirono a cambiare niente. [] In questi ultimi tempi si nota una gran­de inquietudine per la possibilità che potenze straniere interferiscano nel nostro sviluppo. Di fronte alle super­potenze l'unica nostra possibilità è te­ner duro, senza assumere iniziative. Possiamo garantire ogni sostegno al nostro governo, eventualmente anche con le armi, se esso realizzerà il man­dato che gli affideremo; e assicurere­mo ai nostri alleati che terremo fede ai trattati di alleanza, amicizia e com­mercio».


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