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Il riformismo moderato di Giolitti
tra luci e ombre
Il periodo tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del secolo successivo fu senza dubbio un'età turbolenta per l'Europa tutta e per il mondo occidentale. Lo sviluppo inarrestabile dell'industria, il mutamento sociale costantemente in atto, il cammino verso una progressiva democraticizzazione degli Stati e dei governi, produceva e acuiva sempre più tutte le contraddizioni e le ripercussioni che questa sfrenata corsa al progresso aveva sul pubblico. Si era fatto ormai evidente che una politica reazionaria ed improntata agli schemi del passato non sarebbe più stata in grado di frenare i tumulti che si annidavano sotto il tessuto sociale, ancora latenti per la maggior parte, ma che a lungo andare sarebbero esplosi in contestazioni. Se non si voleva cambiare radicalmente la struttura sociale, economica e politica degli Stati, rischiando che la classe dirigente fosse spazzata via dall'impeto dei fermenti popolari, occorrevano almeno una serie di riforme che servissero ad alleggerire la carica esplosiva dello scontento, ma che d'altra parte, contribuissero a mantenere ben saldo lo status quo della classe egemone. Se ne accorse in Italia Giovanni Giolitti, il quale, salito al potere per la prima volta nel 1892, fino al suo ultimo governo nel primo dopoguerra, attuò una politica di riforme, volte a migliorare moderatamente la situazione sociale e soprattutto a garantire la stabilità del Governo.
Non un ministro progressista, dunque, ma nemmeno un conservatore mascherato da democratico, come lo ha definito alcuna critica successiva (G. Salvemini). Giolitti nel complesso, seppe ben interpretare i bisogni più urgenti del suo tempo e, con i suoi provvedimenti, tamponare le crepe laddove la diga stava per cedere. Esempio lampante ne è la politica di collaborazione instaurata in quegli anni tra il Governo e i sindacati. Ormai da anni il movimento operaio, partito nell'Europa centrale ed approdato, anche se con qualche ritardo, nella Penisola, si consolidava sempre più, soprattutto nelle zone del Settentrione. Naturalmente, se al Nord il proletariato andava acquistando una coscienza di classe ed il Partito Socialista accoglieva sempre più iscrizioni, le condizioni del Sud Italia, oppresso da quell'enorme divario che non si riuscì a sanare allora e di cui il Meridione si trascina ancora oggi gli strascichi, restavano un caso a parte. Gli ideali e i progetti politici dei poveri del Sud rimanevano molto confusi: lo si era visto, durante il governo Crispi, con le rivolte dei Fasci siciliani, spietatamente represse, ai quali i socialisti avevano tolto il sostegno perché "rivolte della fame e non di partito" e delle quali ispiratori erano paradossalmente Vittorio Emanuele, Marx, la Madonna. Giolitti si rende conto che continuare ad affrontare il problema con la violenza di Crispi significa solo rimandarlo, anzi intensificarlo. Egli stesso, in un discorso agli elettori, sostiene che non bisogna "confondere la forza del governo con la violenza" con la quale esso reprime i moti, poiché questa "non è forza, ma debolezza della peggior specie". La funzione del Governo è quella di prevenire le sommosse, curando le cause del malcontento, modificando la legislazione e i metodi di governo. La repressione, anzi, riceve l'effetto contrario di spingere verso quei frangenti l'interesse delle classi più numerose e il sentimento degli intellettuali (non a caso avevano in quegli anni aderito al Partito Socialista personalità quali Edmondo De Amicis e Giovanni Pascoli). Così scrive lo storiografo D. Mack Smith: "Giolitti ebbe il merito di capire che le forze organizzate erano meno pericolose di quelle disorganizzate" e che, aprendosi ai sindacati, avrebbe potuto utilizzarli come tramite tra il Governo e il proletariato, istaurando un dialogo produttivo su entrambi i fronti.
Politicamente in direzione opposta, ma sempre con lo scopo di pacificare in qualche modo le tensioni interne del paese e di accaparrarsi il maggior numero di consensi, fu la pacificazione con la Chiesa di Roma. Giolitti comprese che in un Paese come l'Italia nel quale non solo il sentimento religioso era fortemente radicato a tutti i livelli sociali, ma anche dove la Chiesa Cattolica come istituzione aveva un'influenza enorme sulle masse, l'anticlericalismo era un sentiero che non avrebbe procurato al Governo altro che dissensi. Approfittando del fatto che le ideologie politiche atee di estrema sinistra suscitavano dubbi tra le masse, che pur ne apprezzavano il progetto di riforma socio-economica, occorreva offrire al pubblico un'alternativa moderata, nella quale la politica liberale del Governo si conciliasse con le tradizioni religiose, pur non permettendo alla fede di influenzare drasticamente gli affari pubblici. Da ciò nacque la pratica di governo delle "due parallele" (G. De Rosa), una politica di autonomia tra i due ambiti, che condusse all'attenuazione del Non Expedit da parte di Papa Pio X.
Sul piano economico poi, l'Italia vide in quegli anni una fioritura economica unica in Europa. Che fosse tutto merito delle riforme giolittiane è tuttavia discutibile. Certo, lo stimolo dei nuovi settori, la creazione delle cosiddette "banche miste", le misure protezionistiche, lo sviluppo della rete ferroviaria ebbero un impatto notevole sull'economia nazionale: il reddito pro capite continuò a salire (nelle regioni del Nord, beninteso) e la produzione arrivò ad aumentare addirittura del 300%. Ed anche inserendo nel quadro economico ombre quali l'aumento vertiginoso degli scioperi e il fatto che, grazie alle commesse statali, lo Stato assorbisse gran parte della produzione, resta il fatto che la situazione finanziaria subisse un evidente riscatto. Bisogna tuttavia ridimensionare il merito dei governi Giolitti su questo piccolo "miracolo economico", inserendolo nel contesto della generale fioritura dell'economia mondiale e al conseguente afflusso di capitali stranieri.
Per quanto riguarda la sfera pubblica, come si è già detto Giolitti, pur mettendo in atto una serie di riforme sociali volte a migliorare le condizioni della popolazione, non fu mai un radicale (ed è questa la critica che gli fu mossa più di frequente). D'altra parte, come scrive Togliatti "è assurdo pretendere che Giolitti, uomo politico uscito dalla vecchia classe dirigente borghese e conservatrice, fosse l'araldo del rinnovamento della società italiana". Resta il fatto che la politica giolittiana produce dei miglioramenti nella condizione degli Italiani: per quanto riguarda il lavoro, aumenta la tutela verso donne e bambini, scende il numero degli incidenti sul lavoro e si istituiscono pensioni per gli infortunati; la qualità della vita sale, si sviluppano i servizi pubblici, la rete acquifera e fognaria; la sanità pubblica viene maggiormente finanziata, diminuisce la mortalità infantile e vengono quasi debellate malattie epidemiche quali il tifo e il colera; infine, grazie anche alla riforma scolastica Daneo-Credaro che pone a carico dello Stato l'istruzione elementare, l'analfabetismo scende sotto il 50% e si diffonde l'uso corretto della lingua italiana. Infine non bisogna dimenticare la questione del voto: le elezioni del 1913 sono le prime a suffragio universale maschile.
D'altronde sarebbe inutile e antistorico vantare i successi del governo Giolitti senza metterne in luce gli evidenti limiti sia in politica interna che estera. Nel primo caso, il fallimento della politica di compromesso del Presidente fu chiaro nell'affrontare la Questione Meridionale. Giolitti pur adoperandosi con provvedimenti straordinari per sanare la piaga economica del Sud Italia, non riuscì mai nel suo intento ed, anzi, il divario con il Nord si andò sempre accentuando. Le leggi speciali varate in quegli anni, infatti, non sono che gocce nel mare e non danno una vera spinta all'economia del Meridione. Il flusso migratorio verso le regioni del Nord si intensifica, mentre sono milioni gli Italiani che in questo periodo cercheranno fortuna in America o negli stati industrializzati dell'Europa centrale.
Per quanto riguarda la politica estera e il tentativo di Giolitti di schierarsi lungo la linea imperialista degli altri Stati europei, la ripresa della politica coloniale dà pochi e molto costosi risultati. Sono svariate le ragioni per le quali l'Italia si volge nuovamente all'Africa: certo si sta intensificando in questi anni quel sentimento nazionalista che sarà successivamente elemento basilare per l'avvento del Fascismo e gran parte dell'opinione pubblica è favorevole all'impresa. Ma soprattutto Giolitti vede nella ripresa coloniale una fonte di profitto economico, che incentiverebbe il mondo dell'industria e delle banche. La guerra in Libia, tuttavia, si prolunga più del dovuto. Le perdite umane e di capitali nel conflitto contro l'Impero Ottomano provocano contro il Presidente un coro di proteste. Anche se alla fine l'Italia ne uscirà vincitrice con la Pace di Losanna, la maggioranza è ormai divisa e compromessa e l'era giolittiana si avvia ormai verso il tramonto.
Infine, non si può non menzionare la questione etica, sollevata da G. Salvemini nel suo saggio Il ministro della malavita e altri scritti sull'Italia giolittiana. Sulla linea della vasta campagna di stampa critica nei confronti di Giolitti, sviluppatasi negli anni antecedenti alla Prima Guerra Mondiale, Salvemini sottolinea che i metodi che il Presidente usò per accaparrarsi i consensi degli avversari politici non furono sempre nobili.
Per concludere il quadro complessivo della politica giolittiana, ci pare opportuno rifarci al giudizio che ne diede Palmiro Togliatti: Giovanni Giolitti fu un uomo del suo tempo, erede della classe borghese e interessato a mantenere intatta la struttura sociale italiana, contro i movimenti popolari che ne mettevano a repentaglio la stabilità. Suo grande merito fu però quello di saper comprendere i "contrasti del suo tempo" e muoversi verso una pacificazione delle forze contrastanti che scuotevano il Paese, con una serie di riforme moderate che, se non sanarono in profondità le gravi questioni dell'Italia d'inizio Secolo, quanto meno frenarono il malcontento ed innalzarono il tenore di vita degli Italiani.
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