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Il regime fascista in Italia




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Il regime fascista in Italia

Il fascismo mirò principalmente ad aumentare i margini d'azione, e quindi di profitto, all'iniziativa privata. Vennero inoltre alleggerite le tasse sulle imprese, vennero privatizzati alcuni monopoli di stato, come quello sulle assicurazioni sulla vita e sul servizio telefonico, i cui costi diminuirono sostanzialmente. Si limitò la spesa pubblica, in parte però con i licenziamenti dei ferrovieri.                 La politica liberista in economia portò buoni successi, con un aumento della produzione agricola e industriale. Il bilancio statale tornò in pareggio già nel 1925. La maggioranza degli italiani, soprattutto nei ceti medio-alti ma anche quel mondo agricolo vicino al Partito Popolare, trovò un modus vivendi con la nuova situazione, vedendo forse in Mussolini un baluardo contro il materialismo e il socialismo e soprattutto contro il disordine economico successivo alla guerra '15-18. Tale situazione venne favorita dal riavvicinamento con la Chiesa Cattolica, che culminò nel Concordato dell'11 febbraio 1929, con cui si chiudeva l'annosa questione dei rapporti tra Stato e Chiesa e che restituiva al cattolicesimo il ruolo di religione di Stato. Con i patti lateranensi firmati il 29 febbraio 1929 ci fu un accordo tra stato italiano e chiesa: la Santa Sede riconobbe lo stato italiano, che a sua volta riconosceva la sovranità della chiesa sullo stato della città del Vaticano. I patti lateranensi consentirono un riavvicinamento della popolazione italiana alla politica (in Italia la popolazione era per il 99 per cento cattolica). Nel settore previdenziale, la Cassa nazionale per le assicurazioni sociali (CNAS), istituita nel 1919, venne trasformata nel 1933 nell' ente di diritto Istituto nazionale fascista per la previdenza sociale (INFPS, attuale INPS) e arrivò ad impiegare 6.000 dipendenti nel 1937.' Vennero inoltre disciplinati istituti di diritto del lavoro quali malattia, maternità ed infortuni. Nel 1939 l' età pensionabile venne abbassata a 55 anni per le donne e 60 anni per gli uomini, venendo anche introdotta le reversibilità della pensione. La politica economica del fascismo fu essenzialmente basata sull'autarchia: la nazione doveva diventare autosufficiente, essenzialmente per poter mantenere la propria indipendenza economica anche nei momenti di crisi. La linea dell' autarchia economica divenne più decisa quando la società delle Nazioni come conseguenza della guerra d'Etiopia applicò le sanzioni economiche, vietando il commercio con l'Italia. Il governo fascista spinse, allora, alla produzione dei prodotti autarchici, tra la Lanital ed il formaggio italico. Per raggiungere l'autosufficienza alimentare venne iniziata la battaglia del grano, che prevedeva l'aumento della superficie coltivata e l'utilizzo di tecniche più avanzate. La 'battaglia' portò ad un aumento del 50 per cento della produzione cerealicola e le importazioni si ridussero di un terzo. Ciò comportò però una riduzione della produzione di colture ortofrutticole. In soli tre anni vennero concluse le operazioni di bonifica dell'Agro Pontino, che videro al lavoro migliaia di uomini, soprattutto poveri contadini del centro-nord. Vennero costruite nella nuova fertile pianura 3000 fattorie, da destinarsi, in buona parte, ai contadini che lavorarono alla bonifica. Altre imponenti bonifiche si ebbero nella valle del Po, sulla murgia barese e in Maremma. Il regime fascista ottenne notevoli risultati nel campo dei lavori pubblici e delle politiche sociali, che giovarono al regime stesso altissimi consensi: importanti furono gli anni della bonifica delle paludi pontine, della battaglia del grano(1925) e dell'appoderamento delle vaste aree del latifondo paludoso-malarico a favore delle famiglie degli strati più indigenti tra gli ex combattenti del primo conflitto mondiale. Strategiche per ottenere diffusi consensi furono poi le iniziative quali le colonie estive per combattere il gozzo (allora malattia endemica). La politica delle bonifiche e delle fondazioni delle 'città nuove', opera del Razionalismo italiano, rurali o coloniali come Latina (allora Littoria), Sabaudia o Portolago, oltre al consenso popolare, donarono un'ampia visibilità internazionale al regime. Il governo Mussolini attuò poi una radicale riforma scolastica portata avanti dal ministro Giovanni Gentile nel 1923: essa prevedeva un'istruzione classica e un esame ad ogni conclusione di ciclo di studi, mettendo in questo modo sullo stesso piano scuole pubbliche e private. L'analfabetismo ebbe un calo generalizzato, soprattutto l'analfabetismo femminile. La riforma tuttavia non fu mai completata nel senso voluto dal filosofo, ma subì diversi aggiustamenti successivi. Fra gli scopi fondamentali - in senso fascista - della riforma vi era l'elevazione della scuola dell'obbligo ai 14 anni (per la lotta all'analfabetismo); la preminenza assoluta degli insegnamenti classici, i soli che permettevano l'accesso all'università, una regola che tuttavia subì successivamente modifiche (lo scopo era selezionare un' elite intellettuale per la guida del paese); la realizzazione di una solida istruzione tecnica per tutti coloro i quali invece non avessero avuto le doti per accedere ai gradi superiori d'istruzione (allo scopo di gerarchizzare la società, ma anche di preparare meglio i futuri lavoratori). Nel complesso si trattò di una riforma all'insegna del tradizionalismo, della gerarchia e della più rigida meritocrazia. Nel 1939 seguì la riforma Bottai. Accusando la vecchia riforma Gentile di 'intellettualismo', Bottai si prefissò di allargare la base d'accesso agli atenei, e propose l'unificazione delle scuole medie (unico provvedimento di questa riforma ad essere sopravvissuto alla catastrofe bellica). La seconda guerra mondiale impedì la completa applicazione della riforma Bottai, che rimase in gran parte sulla carta. In politica estera il fascismo seguì, fino alla nomina agli Esteri di Galeazzo Ciano, esclusivamente le direttive mussoliniane, improntate al pragmatismo ed al cinismo, dopodiché si trovò a dover agire - sia per la direzione di Ciano degli Esteri, sia per i minori margini di manovra dati dalla situazione internazionale - in maniera sempre meno autonoma e sempre più ideologica. Dopo l'incidente di Corfù del 1923, Mussolini non si discostò per un lungo periodo dall'obiettivo del mantenimento dello status quo in Europa, seguendo una politica prudente e scevra da avventure militari, nonostante la retorica nazionalista e militarista fossero tra i caratteri distintivi del regime. L'Italia mantenne buone relazioni con Francia e Inghilterra, collaborò al ritorno della Germania nel sistema delle potenze europee pur nei limiti del Trattato di Versailles (1919), tentando altresì di estendere la sua influenza verso i Paesi sorti dallo sfacelo dell'Impero austro-ungarico (Austria e Ungheria) e nei Balcani (Albania, Grecia) in funzione anti-jugoslava. L'Italia fu il secondo Paese al mondo, dopo la Gran Bretagna, a stabilire nel 1924 relazioni diplomatiche con l'Unione Sovietica. Scopo dichiarato della politica estera fascista, fin dai primissimi atti e discorsi politici di Mussolini, era quello di assicurare 'ad un popolo di quaranta milioni di individui' un posto di primo piano sulla scena mondiale. Nel lungo periodo questo significava acquistare all'Italia territori coloniali dove 'esportare' la propria eccedenza demografica attraverso la valorizzazione delle colonie esistenti e poi - nel 1935 - con la conquista dell'impero d'Abissinia. Contemporaneamente, la politica a breve periodo previde - fin quando possibile - la revisione dei trattati sottoscritti dall'Italia fra il 1918 e il 1922 che 'mutilavano' la vittoria nella grande guerra e che portarono l'Italia ad acquisire Fiume nel 1924 e a garantire Zara nonostante la rinunzia al resto della Dalmazia. Spartiacque della politica estera fascista fu essenzialmente la prima crisi austriaca del 1934, con il tentativo di Hitler di annettere l'Austria dopo aver fatto assassinare il cancelliere austriaco Engelbert Dollfuss (amico personale di Mussolini). In quel frangente l'Italia schierò le proprie divisioni al Brennero, minacciando un'azione militare in difesa dell'alleato austriaco, se la Germania avesse varcato le frontiere. Di fronte a questa crisi - tuttavia - le potenze europee rimasero a guardare, ingenerando in Mussolini la penosa sensazione che in caso di guerra fra Italia e Germania, la sua nazione sarebbe stata lasciata sola. Alle dichiarazioni generiche della conferenza di Stresa dell'aprile 1935, con la quale le tre potenze dell'Intesa dichiaravano che non avrebbero consentito ulteriori violazioni revisioniste da parte della Germania, seguirono infatti accomodamenti anglo-tedeschi (come l'accordo navale del giugno dello stesso anno) che fecero comprendere a Mussolini quanto debole poteva diventare la posizione italiana in caso di guerra europea contro la Germania. Il passo successivo fu dettato dunque dalla convinzione di Mussolini di dover dotare l'Italia di un potente impero coloniale al più presto, come 'retrovia' e riserva demografica, industriale, agricola e di materie prime in caso di un nuovo conflitto generalizzato in Europa. Giocoforza, questo impero non poteva che essere cercato in Abissinia, uno dei pochi territori africani ancora indipendente. La guerra d'Abissinia, lungamente ritardata da Mussolini proprio per trovare con inglesi e francesi un accordo diplomatico che smembrasse l'impero di Haile Selassie senza ricorrere all'invasione, portò alla rottura dei cordiali rapporti finora intrattenuti coi vecchi alleati. L'Italia subì delle sanzioni economiche e i suoi rapporti con le nazioni democratiche si incrinarono definitivamente. Pochi mesi dopo l'Italia fascista si schierò coi franchisti nella guerra civile spagnola, inviando anche un corpo di spedizione di 20.000 uomini ed attuando un blocco navale per impedire rifornimenti di armi ai repubblicani. In tale occasione si palesarono le deficienze della macchina bellica italiana, sia dal punto di vista tecnologico che di capacità di comando strategiche e tattiche, che si sarebbero acuite paurosamente pochi anni dopo. Lungi dal rafforzare economicamente il paese, queste imprese indebolirono il consenso al regime gettando i primi semi del risentimento popolare, e in politica estera lo allontanarono da Francia e Inghilterra spingendolo ad allinearsi in maniera crescente con la Germania nazista. La deflagrazione della guerra civile spagnola iniziò a polarizzare il mondo in due campi avversi legati non da interessi geopolitici ma ideologici, togliendo all'Italia progressivamente spazio di manovra. Nel 1938 Mussolini fece promulgare da re Vittorio Emanuele III le leggi razziali antisemite, che non avevano precedenti in Italia e che furono applicate senza entusiasmo. Con la promulgazione di un insieme di provvedimenti legislativi e normativi noti come Provvedimenti per la difesa della razza, il fascismo si dichiarò esplicitamente anche antisemita e, anche se non fu realizzato alcun intento di sterminio fino al 1943 (quando l'Italia venne occupata dall'esercito nazista), gli ebrei furono allontanati dalla vita pubblica, spesso privati del lavoro ed esposti a varie forme di vessazione. Nel marzo 1939, per motivi di prestigio nei confronti della Germania, Mussolini ordinò l'occupazione dell'Albania già saldamente nella sfera d'influenza italiana La crisi interna del regime negli ultimi anni prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, il logoramento delle forze armate dopo cinque anni di continui impegni militari (Abissinia, Spagna, Albania), l'emergere deciso della Germania come prima potenza militare d'Europa e la sua alleanza con Stalin (Patto Molotov-Ribbentrop), spinsero Mussolini verso una politica doppiogiochista (alleanza dichiarata con la Germania, trattative sotterranee con la Gran Bretagna) che portò l'Italia in guerra. Nonostante le clausole del Patto d'Acciaio (assistenza automatica in caso di guerra), nel settembre 1939 Mussolini si dichiarò non belligerante, ma nel giugno 1940, contro la volontà di gran parte della corte, degli alti gradi della Regia Marina e dell'Esercito e di alcuni dei maggiori gerarchi fascisti, entrò in guerra contro Francia ed Inghilterra, fidando nella rapida vittoria tedesca. L'impreparazione dell'esercito e l'incapacità dei suoi comandanti condussero a terribili sconfitte su tutti i fronti e alla rapida perdita delle colonie dell'Africa Orientale (1941) e della Libia (1943), creando un indebolimento delle difese che apri' le porte all' invasione della Sicilia. Nella prima fase del conflitto la politica estera fascista fu sostanzialmente mossa dal tentativo di svilupparsi parallelamente (e spesso ai danni) di quella tedesca: un tentativo destinato a fallire in seguito ai numerosi rovesci militari subiti dalle forze armate italiane su quasi ogni fronte. Si segnala, in questo periodo, la durezza del contegno italiano verso la Francia, sconfitta dai tedeschi, il quale fu fra i principali motivi per i quali questa nazione non si unì decisamente all'Asse. Sempre più prigioniera della propria propaganda, la politica estera fascista fu spinta ad azioni dettate più dalle necessità ideologiche che non da quelle pragmatiche, infilando il paese in una spirale di fallimenti della quale si giovarono tanto gli alleati dell'Asse quanto i nemici. A partire dal 1943, Mussolini cercò continuamente di convincere Hitler della necessità di un accordo con l'Unione Sovietica, per concentrare le forze contro gli angloamericani, mentre, tuttavia, continuavano segretamente i contatti fra il dittatore italiano ed il premier britannico Winston Churchill. Il 25 luglio 1943 per iniziativa di alcuni importanti gerarchi con l'appoggio del Re,fu redatto un famoso Ordine del giorno presentato al Gran Consiglio del Fascismo col quale si chiedeva al Re di riprendere il potere. Fu disposto immediatamente l'arresto di Mussolini e si originò l'improvviso crollo del fascismo, che si dissolse tra il giubilo della popolazione italiana, stanca del regime e della estenuante guerra. Ma la caduta di Mussolini non preludeva alla conclusione delle guerra, che si protrasse per alcune settimane nella crescente ambiguità del nuovo governo Badoglio che sottoscrisse l'armistizio di Cassibile. Dopo la caduta del regime il 25 luglio 1943, il fascismo crollò in tutta Italia e non vi fu alcuna reazione negativa all'arresto di Mussolini degna di nota, né da parte del Partito (che fu messo fuori legge), né della Milizia. Il segretario del PNF Scorza, anzi, scrisse prontamente una lettera di sottomissione a Badoglio, mentre nel Paese si moltiplicavano grandi manifestazioni contro la guerra e di gioia per la caduta del regime, duramente represse per ordine di Badoglio. Il fascismo si riorganizzò solo grazie all'occupazione tedesca nel centro-nord del Paese in seguito all'armistizio di Cassibile, dopo l'8 settembre 1943. La rinascita di uno stato fascista nel centro-nord Italia ebbe carattere di discontinuità col precedente regime. La Repubblica Sociale Italiana, o Repubblica di Salò (dal nome del comune sul lago di Garda, in provincia di Brescia, che fu sede del governo), si diede una propria base ideologica con il Congresso di Verona, dove esponenti partito fascista, e in particolare quelli di estrazione ex squadristica, si riunirono per ricreare il partito messo fuori legge dopo il 26 luglio 1943. Il Congresso richiese l'istituzione di un Tribunale straordinario speciale per processare i gerarchi che il 25 luglio si erano schierati contro Mussolini; approvò un manifesto programmatico che delineò la struttura del nuovo stato; proclamò la nascita della Repubblica sociale e prevedeva la convocazione di una Assemblea Costituente, riaffermando l'alleanza con la Germania nazista. La Repubblica fu presieduta da Benito Mussolini, che ne ufficializzò la costituzione in un discorso trasmesso da radio Monaco il 18 settembre 1943 e si fondò sui principi della Carta di Verona riaffermando allo stesso tempo i principi del primo fascismo, sino alla Marcia su Roma, persi, secondo degli estensori della Carta stessa, durante il successivo ventennio del regime fascista. Tra tali principi primeggiava, per originalità, una politica economica tendente alla socializzazione delle fabbriche. Un segno di continuità col Fascismo della seconda parte del ventennio fu invece l'affermazione nei punti di Verona di una componente antisemita, sotto forma di dichiarazione di decaduta cittadinanza italiana per gli ebrei, considerati 'di nazionalità nemica per la durata della guerra. La Repubblica Sociale si dotò anche di Forze Armate, spesso male armate ed equipaggiate, composte da forti nuclei di volontari ma anche da un gran numero di reclute, il cui richiamo coi vari bandi (pena di morte per i renitenti) provocò un forte fenomeno di sottrazione alla leva che fornì non poche leve al movimento partigiano. Il dibattito interno alla dirigenza fascista repubblicana fra un esercito di soli volontari e un esercito di reclute fu uno dei principali motivi di discussione nell'ambito della gerarchia fascista repubblicana e provocò non pochi problemi al funzionamento delle Forze Armate. Le forze armate repubblicane non godettero mai della fiducia dei comandi tedeschi e di Hitler ma furono usate principalmente per contrastare il crescente movimento della Resistenza che si stava sviluppando nelle regioni d'Italia occupate dall'esercito tedesco. La maggioranza della popolazione mantenne un atteggiamento di indifferenza e freddezza o di ostilità (la 'Resistenza disarmata' nelle fabbriche con centinaia di migliaia di scioperanti e sabotaggi continui dello sforzo bellico, nelle campagne, nei campi di internamento tedeschi) verso il rinato fascismo, consentendo al contempo lo sviluppo e il sostentamento della lotta armata antifascista. Il destino della Repubblica fu intrecciato alle sorti delle forze di occupazione tedesche, infatti la RSI crollò con l'avanzata degli Alleati e con il successo della Resistenza. La morte di Mussolini, giustiziato dai partigiani il 28 aprile 1945, e la morte dei principali capi fascisti, suggellarono la fine della RSI e del lunghissimo periodo fascista in Italia.




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