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Il Cinquecento rappresenta un momento cruciale per la storia del nostro paese; la prima metà del secolo si presenta ricca di avvenimenti decisivi per la storia dell'Italia che risulterà poi, nei cinquant'anni successivi, profondamente mutata tanto politicamente che economicamente; da un punto di vista culturale la stessa civiltà Rinascimentale, raggiunto il punto di massimo splendore nei primi decenni del secolo, si avvia subito dopo al declino.
Morto nel 1492 Lorenzo il Magnifico, vero elemento equilibratore della politica italiana, riaffiorano le insanabili discordie tra i Signori della penisola; così, chiamato da Ludovico il Moro, Signore di Milano, può scendere indisturbato in Italia Carlo VIII, re di Francia, per riappropriarsi del Napoletano. La costituzione di una lega, formata da diversi Stati regionali e dallo stesso Papa, lo costringe alla ritirata, minacciando di isolarlo nel Meridione; in realtà la spedizione di Carlo VIII, pur fallita, dimostra l'estrema debolezza e l'impreparazione militare dei principati regionali e la conseguente facilità di conquista dell'intera penisola, che diviene così preda delle mire espansionistiche di Francia e Spagna, nonché delle ingerenze dell'Impero. Negli anni successivi, infatti, Luigi XII, successore di Carlo VIII, vuole dare stabilità all'effimera conquista del suo predecessore e unisce così una pretesa sul Napoletano a quella sul Milanese, che ottiene alleandosi con Venezia; egli si accorda inoltre con Ferdinando II di Spagna per la conquista del regno di Napoli. Idue giungono alle armi per la spartizione del bottino e la Spagna, vittoriosa, ottiene il Meridione.
Pertanto all'inizio del Cinquecento gli unici stati che godono di una relativa autonomia politica sono Venezia e lo Stato Pontificio. Papa Giulio II della Rovere tenta di esercitare una sorte di primato politico e culturale tra gli Stati italiani; questo Pontefice, che serve la Chiesa più come Stato e istituzione mondana che come comunità di fedeli, è, di fatto, l'unico ad opporsi alla dominazione straniera. Dopo aver promosso una lega contro Venezia nel 1508 (lega dei Cambrai), temendo che all'eccessivo indebolimento della Repubblica Veneta potesse per contro corrispondere un ulteriore rafforzamento dell'espansione francese, rovescia le alleanze contro la Francia (Lega Santa) e scaccia così i "barbari" dal Milanese, seppur solo temporaneamente (1512).
Ma già Francesco I (nuovo re di Francia dal 1515) riesce facilmente a capovolgere le sorti, giungendo in seguito a stipulare un accordo con il re di Spagna Carlo I (futuro imperatore Carlo V) ; il trattato di Noyon, del 1516, conferma così la dominazione francese sul Milanese e quella spagnola sul Napoletano. Tal equilibrio è ben lungi dall'essere stabile: per una serie di circostanze Carlo I si trova ad ereditare vasti territori ("L'Impero sul quale non tramonta mai il sole") e diviene successivamente imperatore con il nome di Carlo V. Ricco ormai dell'oro proveniente dall'America, tenta vanamente di riaffermare il mito dell'impero universale, mito ormai anacronistico. Di conseguenza l'antagonismo tra Francia e Spagna finisce per accrescersi: il nostro paese viene nuovamente conteso tra Francesco I e Carlo V, mentre i nostri principi assistono impotenti, non essendo in grado di seguire una condotta indipendente; sono episodi emblematici in tal senso il "sacco di Roma" dei Lanzichenecchi imperiali (1527) e la fine della Repubblica di Firenze (1530), sorta nuovamente proprio in occasione del sacco di Roma. Le ostilità franco-spagnole si protraggono fino al 1557, anno della sconfitta francese a San Quintino; si giunge così alla pace di Cateau-Cambresis (1559), stipulata da Enrico II e Filippo II (successori rispettivamente di Francesco I, morto nel 1547, e Carlo V, che aveva abdicato nel '56). Tale pace sancisce l'inizio della dominazione spagnola in Italia.
Il panorama europeo nella prima metà del secolo è però caratterizzato da un altro importante evento: la Riforma protestante, che coinvolge una notevole parte del nostro continente, dividendo il mondo cattolico in due parti e dando poi origine ad una lunga serie di guerre sanguinose che travaglieranno in seguito l'Europa.
La rivolta parte da Lutero che, in segno di protesta alla vendita delle indulgenze[1] nel 1517, pubblica 95 tesi, o affermazioni, su varie questioni religiose. Lutero protesta contro la corruzione del clero, né intende limitarsi a tanto, ma finisce per attaccare l'intera Chiesa come istituto, mettendone in discussione i dogmi. Parallelamente in Svizzera Zwingli, e successivamente Calvino, diffondono analoghe idee religiose, mentre in Inghilterra Enrico VIII, mosso da interessi politici e personali più che religiosi, dà origine a quello che è definito "Scisma Anglicano": l'unita religiosa dell'Europa sembra ormai irreparabilmente compromessa.
La Chiesa di Roma si trova così in condizione di attuare profonde riforme, già necessarie da tempo ma ora ancora più urgenti: la Riforma Cattolica, intesa non solo come risposta a quella protestante, ma anche come risoluzione dei contrasti interni, è designata con il nome di Controriforma .
Mentre nascono nuovi ordini religiosi come quelli dei Gesuiti (o "Compagnia di Gesù", fondata da Sant'Ignazio di Loyola e approvata dal Papa Paolo III nel 1540) che tanta parte avranno nell'arginare la diffusione del protestantesimo, Paolo III Farnese convoca nel 1545 il Concilio di Trento.
Ma la prevalenza al Concilio delle tesi degli intransigenti (difensori della ortodossia e decisi a stroncare ogni eresia) contro quelle degli evangelici (sostenitori della necessità di rinnovare profondamente la vita religiosa, tentando di recuperare gli eretici), soprattutto per l'appoggio di Papa Paolo VI Carafa, fa sì che la frattura tra cattolici e protestanti divenga insanabile.
Il Concilio di Trento, sospeso tra il 1552 ed il '62, si conclude nel 1563; le decisioni vengono raccolte nelle "Professione di Fede Tridentina", che diviene il documento base della Chiesa Cattolica: ribadisce i dogmi e attua una rigorosa riforma disciplinare.
In seguito agli eventi su considerati la seconda metà del secolo acquista una fisionomia profondamente diversa: mentre i popoli europei sono turbati da una serie di guerre e contrasti a sfondo religioso si assiste all'inevitabile declino della civiltà Rinascimentale in un Italia ormai radicalmente mutata in seguito alla perdita della libertà politica e della recessione economica, dovuta tra l'altro all'avanzata turca nel Mediterraneo (avanzata apparentemente arrestata solo nel 1571 con la vittoria della Santa Lega a Lepanto, che quantomeno mette in discussione il mito dell'imbattibilità turca).
La stessa azione riformatrice della chiesa finisce per interessare ogni campo dell'attività umana: all'attenuarsi dello slancio creativo infatti segue una graduale affermazione del principio d'autorità, o autoritarismo, determinato in campo politico dalla dominazione spagnola, in campo religioso dall'assolutistica professione di fede del concilio Tridentino e in campo letterario dall'osservanza della precettistica aristotelica; l'istituzione inoltre del tribunale del santo Uffizio (1542), che sovrintende all'Inquisizione, e la pubblicazione dell'indice dei libri proibiti (1559) limitano la libertà di pensiero e d'espressione, contribuendo così all'affermazione di un diverso orientamento culturale nel periodo storico degli ultimi decenni del Cinquecento, è designato comunemente come "Età della Controriforma"; tale periodo assomma in sé le caratteristiche di tutte le epoche di transizione, l'incapacità cioè di rinnegare decisamente il passato e la conseguente impossibilità di aderire pienamente alle istanze ideologiche della nuova era, pur avvertendone ed anticipandone diversi aspetti.
Il Cinquecento è tradizionalmente definito il "secolo d'oro" della letteratura italiana e rappresenta, nei suoi primi decenni, il momento culminante del Rinascimento. Il profondo rinnovamento del pensiero e dell'arte che aveva preso avvio nei secoli precedenti, accentuandosi durante l'età umanistica, ora giunge a piena maturità: si assiste ad una maggiore aderenza alla realtà della vita, alla riscoperta della natura, ad una riaffermazione della superiorità e autonomia dello spirito e all'ampliamento della cultura e del gusto artistico.
Nella prima metà del secolo infatti, mentre l'Italia si avvia al declino politico ed economico, continua una fioritura della civiltà che ha il suo sigillo caratteristico nella raffinatezza del costume e delle manifestazioni artistiche e letterarie: attorno a grandi personalità come Machiavelli, Ariosto, Raffaello, o Michelangelo, compare una pleiade innumerevole di scrittori e artisti; le principali corti del momento, Roma, Ferrara, Urbino, Mantova, informano col loro esempio il gusto e il vivere civile d'Europa.
Ora letterati, artisti e pensatori, pur considerandosi ancora gli eredi dei classici, comprendono l'evoluzione dell'attività umana, tanto sul piano intellettuale che sociale; essi proclamano così a più riprese la necessità di accostare alla "lezione" dei greci e romani l' "esperienza" delle cose moderne; tale atteggiamento corrisponde all'esigenza di conoscere meglio l'universo e valutare obbiettivamente gli eventi umani: di qui il maggior interesse per la storia e l'approfondimento della speculazione politica; di qui il rinnovato amore per la scienza e il moltiplicarsi delle scoperte geografiche.
L'uomo del Cinquecento, collocatosi al centro della realtà, adegua alla sua misura i valori della vita civile e tutti i campi dell'umana esperienza, componendo armoniosamente il suo ordine interno con quello esterno della natura.
Tale equilibrio spirituale informa tutto il secolo; l'anelito a sentire il Divino presente e quasi tangibile nei valori terrestri, fa sì che si tenda ad idoleggiare platonicamente nella bellezza sensibile l'immagine di quella divina. La stessa tendenza ad imprimere alla realtà il sigillo della razionalità umana si manifesta in un'arte che rappresenta una natura idealizzata, colta nei suoi aspetti più belli e liberata da ogni elemento istintivo, disordinato, selvaggio o volgare; la natura pure tende così all'armonia, nelle linee e nei colori, così come quei giardini all'italiana che ornano le ville rinascimentali.
In letteratura l'ideale di armonia e equilibrio si riflette anche nella forma, costruita armoniosamente e modellata in latino su Virgilio e Cicerone e in volgare sul Petrarca e sul Boccaccio.
Continua in ogni genere letterario l'affermazione del volgare: è ambizione degli scrittori del periodo creare in lingua italiana una letteratura degna di quelle antiche; tutto il mondo culturale, acquista ora un carattere unitario, particolarmente il mondo letterario tanto che in tale ambito per la prima volta si può parlare di una letteratura italiana. Se in passato infatti "letterato" era sinonimo di "toscano", ora molte sono le provincie da cui traggono i natali personaggi illustri come Ariosto, Bembo, Castiglione, Trissino.
A tale unità contribuiscono vari fattori: la diffusione della stampa, che raggiunge in Italia uno sviluppo considerevole (si pensi che nella sola Venezia si contano all'inizio del secolo ben duecento stampatori); la soluzione del problema linguistico, per cui all'uso del latino, limitato a cerchie ristrette di dotti, si sostituisce l'uso di un volgare "soprarregionale", che permette agli scrittori di essere compresi da un capo all'altro della penisola (vedi paragrafo successivo); in ultimo l'aumento del numero di persone che si accostano alla cultura, sia in qualità di pubblico che in qualità di autori (vi sono interessati tutti i ceti sociali, persino gli avventurieri o le cortigiane).
Chiaramente la letteratura in lingua latina continua ad essere coltivata, però è ormai priva di vitalità poetica; negli esercizi letterari compiuti in lingua latina affiorano le tendenze deteriori dell'umanesimo, quali l'amore per la parola ornata come valore estetico autonomo e l'esaltazione del latino come gloria nazionale degli italiani.
Nel Cinquecento si assiste così ad una sistemazione e codificazione dell'attività normativa e creativa dell'Umanesimo; oltre all'aspetto universalistico (per cui un'opera d'arte avrebbe valore al di là dei confini di spazio e tempo) la letteratura presenta due tendenze: quella di trasfigurare[3] il reale, proiettandolo in un mondo di astratta perfezione, che rifletta il modello ideale di vita raffinata delle corti, e quella riconducibile a quanto il Machiavelli definisce "verità effettuale", che mette in luce le debolezze e le colpe umane in campo sociale e politico.
Entrambe le tendenze affondano le loro radici nella frustrazione scaturita dall'impossibilità di costruire sulla terra un'ideale di felicità e perfezione umana (limite questo particolarmente sentito dagli umanisti): taluni sono spinti a costruirsi nell'arte un mondo favoloso e idillico in cui trovare rifugio (come peraltro nel Quattrocento); altri invece sono indotti dalla coscienza di tale limite ad elaborare una scienza e una tecnica del successo mondano, cercando così di piegare alla propria volontà di dominio e di assoggettare all'azione umana le forze della natura e della storia (tale spirito realistico nasce anche come conseguenza diretta della riscoperta della natura).
Alla prima tendenza non è estranea qualche derivazione provenzale, stilnovista, petrarchesca, nonché qualche collegamento con le Stanze del Poliziano o con l' Arcadia del Sannazaro e con la letteratura cavalleresca; vi appartengono il Furioso dell'Ariosto, il Cortegiano del Castiglione, il Baldus del Folengo e il dramma pastorale, oltre alla Liberata del Tasso. La seconda tendenza, che aveva già fatto una prima esperienza con l'Alberti, trova espressione nel pensiero politico del Machiavelli, nelle opere storiche del Guicciardini e nel teatro in generale.
Mentre però la tendenza fantastica e idillica, dopo un periodo di grande splendore nella prima metà del secolo inizia il suo declino verso la fine del Cinquecento, quella realistica conoscerà un lieve e momentaneo offuscamento nel periodo controriformistico, supererà il Seicento per poi risorgere più vitale e feconda in Età illuministica.
Nel corso del secolo torna a fiorire la letteratura volgare riproponendo così il problema della lingua; gli esempi di Dante, Petrarca e Boccaccio avevano consolidato l'uso del fiorentino come lingua letteraria (adottato anche dal Sannazzaro , napoletano, nell' Arcadia).
Tramontato ora il predominio durato per tutto il Quattrocento degli scrittori fiorentini, sorge in ogni cultore delle lettere il dilemma se ci si debba rifare ad una lingua aristocratica "cortigiana", come quella auspicata da Dante (e tale lingua non poteva essere che il fiorentino per ovvie ragioni storiche), o ad una lingua consacrata dalla tradizione scritta dai grandi trecentisti toscani.
Pochi sono i fautori della prima tesi: per loro la lingua non deve essere limitata al volgare fiorentino perché, come sostiene il Castiglione, "la consuetudine del parlare dell'altre città nobili d'Italia non poteva essere del tutto sprezzata"; il Trissino sostiene a sua volta che la lingua italiana deve accogliere gli elementi comuni di tutte le parlate provinciali della penisola, ma liberati delle loro particolarità lessicali, grammaticali e fonetiche. Egli espone le sue idee nel Castellano (dialogo contrapposto alle Prose del Bembo).
Contro costoro insorgono però i toscani (il Gelli, il Varchi, il Machiavelli), non senza una punta di orgoglio municipale; essi però concepiscono la loro lingua esclusivamente come manifestazione viva e spontanea e non vorrebbero irrigidirla nell'imitazione dei trecentisti, ma serbarla aperta a vocaboli e modi di dire nuovi.
In opposizione a questi "fiorentinisti" si schiera Pietro Bembo, sostenitore della tradizione scritta dei grandi trecentisti; fatto comprensibile questo se si tiene presente che egli è veneziano, e non potrebbe quindi intendere in maniera diversa il volgare fiorentino.
Bembo non è un grande poeta e tanto meno un grande scrittore, tuttavia eserciterà una influenza senza pari sulla letteratura italiana, per aver apportato alla rivincita del volgare sul latino un carattere di classicità, consacrando così la nobiltà dell'idioma italiano.
Nativo di Venezia, come già visto, e di formazione umanistica, studia a Messina e a Padova, frequenta la corte di Urbino e viene chiamato alla curia pontificia da Leone X, ottenendo in seguito dalla Repubblica Veneta l'incarico di storiografo ufficiale e da Paolo III la nomina a Cardinale.
Nel 1525 pubblica le Prose della volgar lingua, tre dialoghi nel primo dei quali si discorre dell'origine del volgare dal latino, che si sarebbe modificato a contatto della lingua germanica degli invasori, e si dimostra inoltre la superiorità del fiorentino su tutti gli altri volgari italici, grazie all'eccellenza da esso raggiunta per merito di Petrarca e di Boccaccio, ritenuti tanto grandi da oscurare la fama dei poeti provenzali.
Nel secondo libro si dettano poi regole di stile, anch'esse desunte da Petrarca e Boccaccio (quasi esclusivamente dal Canzoniere e dal Decameron); nel terzo infine si procede alla formulazione delle regole di una grammatica italiana che abbia carattere normativo per ogni scrittore in volgare e sia come il canone della lingua italiana. Se si eccettuano le Regole della volgar lingua di Gianfrancesco Fortunio, uscite nel 1516, le Prose di Bembo possono considerarsi la prima grammatica italiana.
In tale opera il Bembo sostanzialmente si rende conto dell'impossibilità di arrestare il cammino del volgare e tenta di conciliarlo con il latino; a questo viene così attribuita la preminenza stilistica mentre all'altro spetterebbe la preminenza linguistica, il che equivale al connubio "parola volgare - stile classico".
Per far ciò si rende necessario stabilire un periodo "aureo"[4] della letteratura volgare, che egli identifica con il Trecento: modelli sarebbero stati Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa. L'esaltazione dell'antico fiorentino scritto e la condanna del fiorentino moderno, quello dell'uso corrente, presenta però il pericolo di una cristallizzazione linguistica entro schemi Trecenteschi, assecondando inoltre la tendenza, già notata negli scrittori volgari del Quattrocento, ad usare una lingua diversa da quella parlata, come se l'italiano letterario divenisse ora una lingua morta da apprendersi sui classici del "buon secolo", come il latino sugli scrittori e poeti del periodo "aureo". S'instaura così per circa tre secoli l'imitazione di Petrarca e Boccaccio; Dante appare invece a Bembo, come a molti contemporanei, troppo realistico e violento, talora plebeo, non tale quindi da essere preso a modello di lingua e di stile (i fiorentinisti non approveranno però tale esclusione).
Nonostante comunque i limiti delle Prose esse, dominate dal culto della bellezza, della grazia, dell'armonia, si rivelano come la sistemazione teorica più esplicita del gusto poetico del Cinquecento.
In un'altra celebre opera, gli Asolani, Bembo teorizza l'amore platonico che tanta diffusione ha in tale periodo negli ambienti aristocratici: si tratta di una serie di dialoghi che l'autore immagina tenuti nella villa di Asolo alla corte di Caterina Corner, già regina di Cipro, che si ritira in tale villa dopo aver ceduto l'isola alla Repubblica Veneta. Tre gentiluomini e tre gentildonne discutono intorno alla natura dell'amore per tre giorni: nella prima giornata si sostiene che l'amore è principio di ogni turbamento e ogni pena; per contro nella seconda si asserisce che esso è fonte di gioia; nella terza, infine si tenta di conciliare le due tesi opposte, dichiarando che il male proviene solo dall'amore sensuale e il bene dalla contemplazione della bellezza spirituale dell'anima.
Alla prosa sono inframmezzate alcune canzoni d'ispirazione petrarchesca; Bembo infatti con tale opera e con la precedente darà un notevole impulso al "petrarchismo" cinquecentesco; con gli Asolani egli si ricollega inoltre alla trattativa amorosa del secolo che riprende il concetto ispiratore della lirica precedente (l'amore è al centro della vita spirituale dell'uomo e mezzo di perfezionamento del suo animo e costume: poesia provenzale, stilnovistica, petrarchesca) e le tesi misticheggianti del Ficino; il platonismo cinquecentesco mira ad elaborare la teoria di un amore che sappia innalzarsi dalla bellezza corporea a quella spirituale (come dice il Bembo che sia "desiderio di bellezza d'animo parimente e di corpo"). Da tale posizione emerge l'equilibrio spirituale che è al centro di tutta l'attività culturale del Rinascimento, che negli Asolani si tinge di mondanità vista la società destinataria dell'opera e che sancisce la fortuna di questa e di opere consimili.
Intorno alla metà del Cinquecento la civiltà rinascimentale si avvia al declino; si avvertono nell'ambito della cultura e del gusto rinascimentale nuovi orientamenti che si delineano in maniera via via più precisa per tutta la seconda metà del secolo.
Vari fattori, in diversa misura, concorrono a tale mutamento: l'aggravarsi delle condizioni economiche in Italia, i problemi suscitati dalla Riforma protestante e il conseguente desiderio di una riforma dei costumi della chiesa cattolica e inoltre, sebbene in minima parte, l'influsso del gusto spagnolo.
Ad un più attento esame si comprende tuttavia come tali fattori risultino tutti, in fondo, riconducibili ad esigenze interne alla stessa cultura rinascimentale; a riprova basti considerare che, nel tardo Cinquecento, anche negli altri paesi in cui tale cultura si era diffusa nella prima metà del secolo, si riscontra un analogo clima culturale, sia pure in condizioni e con risultati diversi.
Non va comunque sottovalutata l'azione riformatrice della Chiesa che esercita un forte influsso in ogni campo.
Il Concilio di Trento, infatti, riafferma il dogma cattolico, attuando una severa condanna contro ogni manifestazione di pensiero che si potesse considerare eretica; contro l'eccessiva mondanità del clero, per disciplinarne la formazione culturale e spirituale, sono istituiti dei Seminari; contro la libertà di costume la Chiesa opera attivamente al fine di eliminare tutto ciò che possa contravvenire ai principi della morale, per riportare i fedeli ad una religiosità più intensa e genuina, tutto il popolo deve essere rimesso al riparo da influenze luterane, deve quindi essere sorvegliato ed educato nella sua purezza dottrinale e nella sua integrità morale.
Così, mentre si attenua lo slancio creativo, si afferma l'autoritarismo che se in campo religioso è determinato dalla professione di Fede tridentina, in campo letterario si estrinseca nell'osservanza della precettistica di Aristotele e in campo politico viene a coincidere con la dominazione spagnola che, data la natura per lo più retorica dei concetti di libertà ed indipendenza, non esercita un influsso profondo nella cultura, ma esclusivamente nel costume, originando quel fenomeno definito "Spagnolismo", ossia quel gusto improntato sulla fastosità ed esteriorità, che poi si protrarrà nel Seicento.
Per contro l'influsso della Controriforma a livello culturale, come si diceva, è molto forte, tanto per il controllo esercitato direttamente sul pensiero (si ricordi il Sant'Uffizio e l'Indice dei libri proibiti) quant'anche per il richiamo ad una più severa concezione etica della vita: il conformismo ideologico che ne consegue, accettato peraltro non senza conflitti interiori, confluisce in una moralità spesso solo ostentata e si contrappone alla liberta spirituale dell'età precedente, mortificandola in una rinnovata presa di coscienza dei limiti della natura umana.
Tale presa di coscienza, per quanto legata all'influenza esercitata dalla Controriforma, come già detto scaturisce però anche da esigenze interne alla cultura rinascimentale.
Questa, infatti, era animata da un ideale di armonioso equilibrio tra senso e spirito, ma il risorgente contrasto va ora sanato assumendo una nuova posizione verso il problema della responsabilità morale e della colpa, attraverso un'esplorazione più profonda della psicologia umana, delle passioni, dei casi.
Così lo stesso impulso a dominare la natura e storia, mentre stimola a proseguire per altre vie la ricerca scientifica e il pensiero politico, suscita proprio quel senso drammatico del limite segnato dalle forze che sfuggono ala volontà umana, dal tempo alla morte.
Nuovo è certamente nella seconda metà del secolo, il modo di porre i problemi tra politica e morale; il Machiavelli è condannato come immorale ma i problemi posti da tale scrittore sono semplicemente aggirati e riproposti per altre vie; il suo pensiero viene, infatti "contrabbandato" sotto le vesti di Tacito (di qui il trionfo del "Tacitismo" in questo periodo), mentre si cerca appunto un nuovo legame tra la vita politica e la vita etica, al di là della pura "ragion di Stato".
La stessa filosofia non è immune dal nuovo clima: l'uomo non è più orgogliosamente certo di essere al centro dell'universo, né trova più conforto nella concezione della propria eccellenza e nell'affermazione della propria dignità. Mentre vede crollare il castello delle proprie credenze sotto l'azione serrata di una critica che trova le sue più originali espressioni nel Bruno prima e nel Campanella poi, il pensatore del tardo Cinquecento va alla ricerca di un nuovo sistema filosofico che possa appagarne il desiderio di progresso, ma anche l'angoscia scaturita dal mistero e dal sogno; da tale ricerca destinata al fallimento scaturisce il travaglio di tutta un'epoca.
La civiltà classica aveva rappresentato per quella rinascimentale il modello sul quale plasmarsi, in una sintesi di antico e moderno; nella seconda metà del secolo tale modello rivela però tutta la sua insufficienza storica: tipica in tal senso è la critica mossa dal Guicciardini al Machiavelli per il suo continuo allegare l'esempio dei Romani.
La tendenza in campo letterario ad esprimere la nuova sensibilità raffinata ed inquieta in forme rinascimentali, ma con un linguaggio più ricercato e immaginoso è denominata "manierismo" (e trova un corrispettivo nelle arti figurative); tale tendenza crede di ovviare alla decadenza della spontaneità creativa ed è avviata dai numerosi teorizzatori della Poetica di Aristotele (la prima traduzione del quale risale al 1536).
Tale precettista (di cui il Tasso mostra di sentire l'influsso sottoponendo all'esame di esperti la sua Gerusalemme) non si limita agli aspetti formali, ma fissa rigorosamente il compito dell'arte che può così essere sintetizzato nell'espressione tassiana: educare e dilettare adombrando il vero in "molli versi" (compromesso tra il pedagogismo medievale e l'estetismo umanistico).
Nella letteratura del periodo serpeggia una vaga sensualità che non è più frutto di una serena visione della vita (come nel Boccaccio o in Ariosto), ma scaturisce dal rinato contrasto tra la concezione materialistica e quella cristiana dell'umana esistenza; essa deriva dalla rottura dell'equilibrio rinascimentale per cui il ritorno all'ansia del peccato maschera il desiderio di cose proibite e si traduce in inquietudine e languida tristezza che solo nel Tasso assurge a poesia.
Pur dovendo riconoscere una certa stanchezza spirituale a questa epoca e a quelle successiva non si deve sottovalutare il contributo che esse hanno recato all'età moderna con apporti passibili di sviluppi successivi.
Come tutte le epoche di transizione quella della Controriforma è incapace di rinnegare il passato di cui conserva l'amore per l'arte, il culto dell'erudizione, il senso dell'umano e del contingente, mentre già presenta del futuro le nuove istanze ideologiche e la diversa interpretazione del vivere terreno.
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