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Effetti Storici del Marxismo
La Rivoluzione Russa
Per tutto l'Ottocento la Russia fu la roccaforte del conservatorismo politico e sociale. Gli zar esercitavano un potere autocratico, senza il controllo di alcun parlamento. L'Impero russo era vastissimo e comprendeva decine di popoli, ma era strettamente arretrato.
La servitù della gleba venne abolita solo nel 1861 dallo zar Alessandro II. La rivoluzione industriale decollò alla fine dell'Ottocento, ma grazie all'intervento dello Stato e di investitori stranieri. L'industrializzazione dunque rimase un fenomeno di superficie: a essa non corrispose l'affermazione della borghesia. Forti tensioni sociali scuotevano soprattutto la campagna. Anche l'abolizione della servitù della gleba, infatti, non migliorò le condizioni dei contadini e favorì soprattutto i kulaki, i medi proprietari terrieri.
Tra gli oppositori al regime zarista maturarono diverse posizioni:
Gli occidentalisti proponevano l'Europa come modello di sviluppo;
Gli slavofili (che nel XX secolo assunsero il nome di socialrivoluzionari) rifiutavano il capitalismo e l'industrializzazione. Erano detti anche populisti perché idealizzavano il popolo contadino. Il loro obiettivo era la rivoluzione, tra i mezzi di lotta non era escluso il terrorismo;
I marxisti miravano a una rivoluzione borghese, democratico - liberale, come base per una successiva rivoluzione socialista. Nel 1898 fondarono il Partito Operaio Socialdemocratico Russo (POSDR) che nel 1903 si divise in due correnti: bolscevichi (rivoluzionari, guidati da Lenin) e menscevichi (riformisti, guidati da Martov).
Nel gennaio 1905 la sanguinosa repressione di una protesta scatenò scioperi e rivolte in tutta la Russia. Nacque un movimento liberale che chiedeva una costituzione e lo zar, intimorito, concesse un parlamento, la Duma, che però non ebbe mai un potere effettivo.
In ottobre nacque a San Pietroburgo il primo soviet, un consiglio dei lavoratori che aspirava ad assumere ruoli di governo. Lo guidava Trockij.
Il 23 febbraio 1917 gli operai di Pietrogrado insorsero in massa. Iniziava la rivoluzione di febbraio che si estese fino a coinvolgere anche Mosca. Perciò lo zar Nicola II, il 2 marzo 1917, fu costretto ad abdicare. Finì così la monarchia zarista e nacque la repubblica.
Dopo la rivoluzione di febbraio si formarono due centri di potere:
Un governo provvisorio, presieduto da L'vov, un principe aristocratico aperto alle riforme e sostenuto dai borghesi;
Il soviet di Pietrogrado, cioè il consiglio dei deputati operai e dei soldati, formato da rappresentanti eletti nelle fabbriche e nell'esercito, dominato dai social rivoluzionari (populisti) e dai menscevichi.
Questo dualismo di poteri indebolì la repubblica russa.
Il 4 aprile 1917, Lenin, di ritorno dalla Svizzera dove era stato confinato in esilio, presentò ai Bolscevichi un documento in cui riassumeva in dieci punti - le cosiddette Tesi di aprile - le sue idee sui compiti immediati del partito.
Le tesi affermavano tre idee fondamentali:
Tutto il potere ai Soviet: abbattere con forza il governo provvisorio e consegnare il potere ai soviet;
La pace: far uscire la Russia dalla guerra;
La terra ai contadini: confiscare le terre e metterle a disposizione dei soviet locali.
Nel giugno 1917 si svolse a Pietrogrado il I Congresso panrusso dei soviet (cioè l'assemblea dei delegati dei soviet di tutte le provincie della Russia).
Sul fronte austro-tedesco, il governo scatenò una forte offensiva che però fallì rapidamente. Il 18 giugno le truppe vennero mandate all'assalto senza che l'azione fosse stata preparata adeguatamente e i soldati rifiutarono di combattere.
Nel mese di luglio, a Pietrogrado gli operai e i soldati scesero in piazza per impedire la partenza per il fronte di alcuni reparti. I disordini vennero sedati dall'intervento di truppe fedeli al governo.
A settembre, il generale Kornilov, comandante in capo dell'esercito, marciò su Pietrogrado con le truppe e tentò di abbattere il governo repubblicano.
Il governo presieduto da Kerenskij, riuscì a reprimere il tentativo di colpo di Stato con l'appoggio degli operai, dei contadini e dei bolscevichi.
La disfatta militare, la disoccupazione e la miseria dilaganti, l'appoggio crescente delle masse popolari spingevano sempre più i bolscevichi alla decisione di rovesciare il governo provvisorio.
A questo scopo venne creata anche una forza militare, la Guardia Rossa. Uno dei principali organizzatori della rivoluzione fu Trockij[11].
Il 24 ottobre 1917 le guardie rosse, senza spargimento di sangue, occuparono punti strategici di Pietrogrado. La sera del 25 ottobre i rivoluzionari conquistarono il Palazzo d'Inverno, che era la sede del governo di Kerenskij. L'attacco al palazzo divenne un episodio simbolo della rivoluzione, come lo era stata la presa della Bastiglia nel 1789, ma fu un avvenimento quasi incruento. La notte del 25 ottobre fu dichiarato aperto il II Congresso panrusso dei soviet. I bolscevichi avevano conquistato il potere a Pietrogrado, mentre a Mosca la resistenza delle truppe fedeli alla Repubblica durò alcuni giorni.
Lenin sciolse l'Assemblea Costituente e dichiarò la "dittatura del proletariato" (gennaio 1918).
A marzo la Russia uscì dalla prima guerra mondiale (pace di Brest-Litovsk) accettando gravi perdite territoriali. Per protesta i social rivoluzionari abbandonarono il governo, che rimase in mano ai bolscevichi.
Nel 1918 la repubblica dei soviet dovette affrontare una duplice minaccia:
L'intervento armato della protezione dell'Intesa, che voleva eliminare il governo rivoluzionario;
La guerra civile contro le "armate bianche" controrivoluzionarie, vinta dalle "armate rosse" nell'estate 1920.
Le condizioni dell'economia russa nel 1918 divennero disastrose per i seguenti motivi:
Le guerre
Il rifiuto dei contadini di rifornire le città con i loro prodotti e il fallimento del "controllo operaio della fabbrica";
L'incapacità di riscuotere le tasse, rimediata con l'emissione di moneta, che provocò l'inflazione.
Si attuò così il comunismo di guerra: una politica economica autoritaria e repressiva che accentrò il controllo dell'economia nelle mani dello Stato ma provocò l'opposizione contadina. Le numerose rivolte furono represse nel sangue.
Nel 1921 fu inaugurata la NEP, la Nuova Politica Economica voluta da Lenin, che prevedeva:
La possibilità per i contadini di vendere le eccedenze del raccolto;
La legalizzazione del commercio spicciolo;
La proprietà statale solo delle grandi fabbriche, creando un sistema di produzione misto (statale e privato).
Grazie alla NEP, fin dal 1926 la produzione agricola e industriale tornò ai livelli del 1914.
Parallelamente fu proibito il "frazionismo", cioè l'esistenza di correnti interne al partito, il cui carattere autoritario si accentuava. La dittatura del proletariato era divenuta quella di partito, poi quella dei dirigenti di partito e di Lenin in particolare.
L'URSS di Stalin
Nel 1922 Lenin si ammalò e si pose il problema della successione. Due personalità dominavano il partito, Stalin e Trockij. Essi si contrapponevano su:
La gestione del partito: Trockij intendeva ripristinare la democrazia interna;
Il giudizio sulla NEP: Stalin appoggiava Bucharin, favorevole a una parziale libertà di commercio, Trockij voleva statalizzare completamente l'economia;
Le prospettive della rivoluzione: Trockij sosteneva la rivoluzione permanente, da diffondere in Occidente, Stalin il socialismo in un solo paese, l'URSS.
Trockij venne costretto all'esilio.
La politica di Stalin si può riassumere nei seguenti punti:
Industrializzazione forzata: venne lanciato un piano quinquennale per l'industria, che favoriva l'industria pesante.
Mobilitazione ideologica: l'industrializzazione prevedeva uno sforzo produttivo enorme e investimenti ingenti. Il regime organizzò un'abile operazione di propaganda per motivare e mobilitare gli operai. In pochi anni l'URSS si trasformò in una potenza industriale.
Collettivizzazione forzata: l'agricoltura venne piegata alle necessità dell'industria. Le terre furono confiscate ai kulaki e i contadini trasferiti forzatamente nelle fattorie collettive.
Negli anni Trenta vi fu l'eliminazione di ogni possibile opposizione a Stalin. Le purghe colpirono politici, esercito e intellettuali. Il paese progredì economicamente e l'alfabetizzazione crebbe, ma fu cancellata la libertà. Chi si opponeva veniva eliminato o deportato nei gulag. L'URSS prendeva quindi i tratti del totalitarismo: lo Stato esercitava il controllo della società e della vita dei cittadini.
Documento: Stalin, l'uomo d'acciaio
Il vero nome di Stalin era Iosif Vissarionovic Dzugasvili; Stalin, cioè "l'uomo d'acciaio" fu lo pseudonimo con cui egli stesso incominciò a firmarsi sin dal 1912. Si diede questo nome di battaglia per sottolineare la sua grande forza di volontà, una caratteristica che i suoi stessi compagni di partito gli riconoscevano.
La madre lavorava come domestica in casa di ricchi signori, tra cui il mercante Egnatasvili, che secondo alcuni biografi sarebbe il vero padre di Stalin. In ogni caso, colui che viene tramandato come suo padre era un ciabattino, poco abile nel lavoro, gran bevitore che amava usare con lui le maniere forti. Chi lo difendeva era invece la madre, che ebbe il merito di farlo studiare.
L'aspetto fisico del giovane Stalin non era particolarmente attraente: alto soltanto un metro e sessanta, aveva la faccia butterata dalla varicella e un braccio atrofizzato a causa di un incidente (venne investito da un carro). Per contro, aveva un fisico forte e una bella voce. Ma la bassa statura fu per lui sempre motivo di disagio, tanto che quando assisteva alle parate sulla piazza Rossa era solito far collocare una pedana di legno per potervi salire sopra così distinguersi, anche in altezza dagli altri gerarchi.
Il giovane Stalin fu mandato a studiare teologia. Ben presto abbandonò gli studi religiosi per dedicarsi alle teorie di Marx e Lenin. Stalin leggeva pubblicazioni clandestine e partecipava a riunioni segrete di organizzazioni politiche antizariste: fu forse per questo che venne espulso dalla scuola nel 1899. Aderì poi al partito bolscevico e si distinse per le sue capacità organizzative. Anche lui, come Lenin, subì le persecuzioni della polizia zarista: fu arrestato sette volte e cinque volte scappò dalle prigioni imperiali. Costretto all'esilio, tornò in patria nel marzo 1917. Insieme a Kamenev diresse il quotidiano del partito bolscevico "Pravda", riuscendo ad assumere posizioni sempre più importanti grazie alla sua fermezza e alla sua personalità.
Stalin, che non era un grande oratore, era considerato mediocre da Trockij e incapace a gestire il potere da Lenin.
Eppure divenne la guida indiscussa dell'URSS. Anche per mezzo della sua crudeltà senza limiti: le due più memorabili frasi di Stalin recitano: "La morte risolve tutti i problemi. Nessun uomo, nessun problema" e, consigliando ai giudici istruttori il modo migliore per ottenere una determinata confessione, "Picchiate, picchiate e picchiate ancora". E non fu tenero nemmeno con la propria famiglia.
Secondo lo storico Fischer, quattro erano le regole che Stalin applicava per avere successo:
a) Ogni metodo è giustificabile se aiuta a raggiungere il risultato desiderato
b) Gli uomini devono essere messi da parte quando non servono più
c) Le alleanze sono fatte per essere rotte
d) Le idee non hanno consistenza, se non sono legate al carro del potere.
Stalin ebbe una memoria straordinaria e una notevole capacità di lavoro. Per lui non esistevano giorni di riposo: anche la domenica affrontava con i suoi collaboratori i problemi del paese e del partito. L'unica differenza era che la domenica le discussioni non avvenivano al Cremlino ma a casa del dittatore, davanti a una tavola imbandita. C'era però una passione che Stalin coltivava nel poco tempo libero: quella per il cinema e il teatro. Si era fatto allestire al Cremlino una piccola sala di proiezione e vedeva uno o due film la settimana, spesso anche di notte. Egli riteneva però che il cinema dovesse avere solo una funzione educativa. Quanto al teatro, la passione gli era stata trasmessa dalla moglie.
Stalin amava soprattutto gli spettacoli del Bolscioj, il teatro di Mosca riservato agli spettacoli d'opera e di balletto. Proprio la sera prima della morte (avvenuta per emorragia cerebrale il 5 marzo 1953) si recò a teatro per una rappresentazione del Lago dei Cigni: era forse la ventesima o la trentesima volta che assisteva a questo balletto.
Prima della rivoluzione d'ottobre egli era stato spesso in difficoltà nei dibattiti culturali, subendo anche cocenti umiliazioni. Per non far più da comparsa, cercò di approfondire in fretta le sue conoscenze politiche e teoriche. Malgrado avesse già un enorme carico di lavoro, si impegnò molto ad innalzare il proprio livello intellettuale [.]
Cercò di approfondire la sua preparazione in campo filosofico e si fece impartire lezioni di dialettica dal filosofo bolscevico Jan Sten, che due volte a settimana si recava dal dittatore e gli spiegava i concetti hegeliani di sostanza, alienazione, dell'uguaglianza dell'essere e del pensiero, della realtà come manifestazione dell'idea. L'astrazione infastidiva Stalin che però si sforzava e continuava ad ascoltare la voce monotona del maestro. Solo di rado lo interrompeva, dando sfogo al suo malcelato fastidio: "Ma che importanza tutto questo per la lotta di classe?", "Come si possono utilizzare nella pratica tutte queste sciocchezze?". Sten, allora, ricordava a Stalin che la filosofia di Hegel e degli altri pensatori tedeschi era una delle matrici del marxismo [.].
La spietatezza di Stalin è confermata da numerosissimi documenti. Nella sua crudeltà non faceva distinzioni. Chiunque fosse bollato come "nemico del popolo", per lui cessava immediatamente di essere un uomo. Appena riceveva dai suoi fedeli una "segnalazione" di attività sabotatrici o controrivoluzionarie, firmava subito il permesso per l'arresto. E di solito non si interessava più degli arrestati. Si conto solo un'eccezione a questa sua regola. Quando lo informarono che il fratello della prima moglie, Alexander Svanidze, era stato condannato alla fucilazione, egli esclamò: "Che chieda la grazia". Ma il condannato replicò: "Perché debbo chiedere la grazia? Non ho commesso nessun crimine". Così Svanidze fu fucilato.
Documento: La violenza di Stalin
Trockij disprezzava Stalin per la sua mancanza di educazione e cultura: lo definiva "un'emerita mediocrità". Quando Lenin, nel suo testamento politico chiese al partito di togliere a Stalin la carica di segretario generale, poiché lo giudicava troppo grossolano.
Il suo posto doveva toccare a qualcuno che fosse più tollerante, più leale, più cortese e più riguardoso verso i compagni, meno capriccioso. Secondo Lenin, Stalin aveva "già concentrato nelle sue mani un immenso potere; non sono sicuro che sappia servirsene sempre con sufficiente prudenza". Nonostante ciò Stalin ebbe la meglio su Trockij.
Prima della rivoluzione d'ottobre si era sentito spesso in condizione di inferiorità. Perciò egli si sforzò di ampliare la propria cultura. Studiò a fondo gli scritti di Lenin, naturalmente, ma anche i testi del socialismo scientifico ed ebbe sempre un vivo interesse per la storia, in particolare per le biografie degli zar e degli imperatori.
La spietatezza di Stalin è confermata da numerosissimi documenti. Una volta un suo collaboratore scrisse: "Le invio l'elenco degli arrestati da sottoporre al giudizio del Collegio militare di prima categoria". La risposta fu lapidaria: "La fucilazione a tutte le 138 persone".
Nella sua opera di eliminazione dei nemici del popolo, il dittatore non risparmiò neppure i parenti. Lo storico Nefedov, uno dei più scrupolosi biografi di Stalin, ha condotto in questo senso un'accurata ricerca, da cui si ricava, tra l'altro, che Stalin fece fucilare un cognato, che era stato anceh suo amico d'infanzia, e rinchiudere in prigione una nuova (liberata nel 1943). Di questi crimini furono responsabili anche quei collaboratori di Stalin che non si opposero mai alle sue decisioni e non fecero nulla per arginare lo strapotere del dittatore.
I personaggi più vicini a lui furono Molotov[12], Kaganovic e Vorosilov: erano del tutto simili al loro capo, tre collaboratori zelanti e spietati che grazie alla loro obbedienza si salvarono dalle purghe.
D. Volkogonov, Trionfo e tragedia.
Il primo ritratto russo di Stalin, Mondadori
La Cina di Mao Tse-Tung: La Repubblica Popolare Cinese
Alla fine dell'Ottocento il millenario Impero cinese era una realtà solo formale. L'imperatore non era in grado di esercitare il controllo sul territorio, né tantomeno di difendere la Cina dalle mire espansionistiche delle grandi potenze.
Nel 1911 così l'Impero crollò e l'anno successivo fu proclamata la repubblica. Artefice del cambiamento fu soprattutto Sun Zhonshan fondatore e capo del Partito Nazionale del popolo, il Guomindang. Il potere di questa repubblica rimase assai limitato. Vaste regioni del Nord erano controllate da comandanti militari. La frammentazione politica interna rendeva la Cina molto fragile di fronte alle pretese delle potenze occidentali e del Giappone. Ciò fu particolarmente evidente alla fine della prima guerra mondiale, cui la Cina partecipò dal 1917 a fianco dell'Intesa: i trattati di pace infatti, anziché restituire ai Cinesi lo Shantung, lo assegnarono al Giappone.
Di fronte a questa plateale prevaricazione il movimento nazionalista del Guomindang riprese vigore e poté presto contare sull'appoggio del Partito comunista cinese, fondato nel 1921 da un piccolo gruppo di militanti, tra cui Mao Tse-Tung. Il movimento rivoluzionario costituì a Canton, nel Sud del paese, un governo alternativo a quello di Pechino cui rimproverava i cedimenti alle pretese delle potenze occidentali e del Giappone. Il governo di Canton si proponeva l'obiettivo ambizioso di riunificare la Cina.
Nel 1925 morì Sun Zhongshan. Ma neanche questo fermò il movimento: il Guomindang passò sotto la guida del comandante Jiang Jeshi, un nazionalista moderato e ostile ai comunisti. Nel 1926 iniziò la campagna militare contro il governo di Pechino e le milizie del Nord. L'esercito del Guomindang risultò subito superiore e anche i comunisti dimostrarono di essere in grado di organizzare i lavoratori. Infatti, quando nel 1927 l'esercito si mosse verso Shangai, gli operai insorsero e cacciarono da soli le armate nordiste. Ma quando Jiang raggiunse Shangai, con un drammatico colpo di scena, fece attaccare dalle sue truppe le milizie comuniste che controllavano la città; contemporaneamente diede l'ordine di eliminare i comunisti in tutte le altre zone del paese occupate dal Guomindang. Poi continuò la campagna militare e conquistò Pechino nell'estate del 1928.
Il partito comunista venne colto di sorpresa dall'aggressione del Guomindang e subì pesantissime perdite. I comunisti sfuggiti alla repressione si riorganizzarono sotto la guida di Mao Tse-Tung. In questa fase puntavano soprattutto a conquistare consensi nelle campagne, tra i milioni di contadini poveri che vivevano nei villaggi. Nel 1931 fondarono una repubblica sovietica nelle zone montuose della Cina sudorientale, espropriarono i proprietari terrieri e costituirono un esercito popolare di contadini.
Preoccupato per la diffusione delle zone rosse, Jiang lanciò contro i comunisti le cinque "campagne di annientamento". L'ultima ebbe particolare successo e riuscì ad accerchiare l'armata comunista. Per sottrarsi a questa difficile situazione, Mao guidò i suoi 100000 uomini in una "lunga marcia" di circa 12000 km, conducendoli nello Ya'nan dove installò una nuova repubblica sovietica: solo 7000 soldati comunisti raggiunsero la regione, ma l'epica ritirata aumentò il prestigio del Partito comunista e quello personale di Mao. Negli anni successivi, la guerra civile fu interrotta dalla necessità di fronteggiare l'attacco dei Giapponesi: nel 1936 tutte le forze politiche cinesi si unirono in un fronte antinipponico. L'anno successivo esplose la guerra contro il Giappone, che confluì nel 1941 nella seconda guerra mondiale. La resa dei conti tra comunisti e Guomindang venne così rinviata al dopoguerra.
L'1 ottobre 1949, infatti, Mao proclamò a Pechino la Repubblica Popolare della Cina. Lo sconfitto Jiang Jeshi riparò nell'isola di Taiwan (Formosa).
Considerata con ostilità dagli Stati Uniti, la Cina si alleò con l'Unione Sovietica, ma l'alleanza non durò a lungo: l'originalità dell'esperienza comunista cinese, imperniata sul mondo contadino organizzato nelle comuni popolari, renderà inevitabile la rottura.
La Questione Coreana
Alla fine della seconda guerra mondiale la Corea era stata divisa in due parti lungo la linea del 38° parallelo: la Corea del Nord, guidata da un governo Comunista, e la Corea del Sud, alleata degli Americani. Ma entrambe le Coree rivendicavano la sovranità della totalità del territorio nazionale. Dopo alcuni incidenti di frontiera, nel giugno 1950, la Corea del Nord, armata dai Sovietici, aggredì quella del Sud. Il consiglio dell'ONU, senza la presenza del delegato sovietico, condannò la Corea del Nord e autorizzò l'invio delle truppe.
Gli americani riuscirono a respingere i Nordcoreani e oltrepassarono il 38° parallelo. A questo punto, per paura del crollo del regime comunista, la Cina di Mao decise di intervenire inviando un numero cospicuo di "volontari". In poche settimane le truppe cinesi capovolsero la situazione e penetrarono nella Corea del Sud. Nel 1951 il presidente degli Stati uniti Truman, decise di avviare le trattative di pace. La guerra terminò nel 1953 con la riaffermazione del confine del 38° parallelo.
Documento: Mao e il destino della Cina
Mao Tse-Tung nasce nel 1893 nella provincia dell'Hunan da una famiglia di contadini agiati. La sua infanzia trascorre tra una madre ignorante e dolce, che ama, e un padre autoritario e avido, che detesta. La sua formazione è lunga e difficile: finirà di studiare solo a 25 anni, per insegnare a sua volta e sposare la figlia di uno dei suoi maestri. In seguito Mao conserverà dei sentimenti molto ambivalenti riguardo alla cultura. Da una parte sarà animato per tutta la vita dalla mania di leggere e di apprendere e da una smania di essere riconosciuto come un grande intellettuale, filosofo, poeta e scrittore. Dall'altra parte manifesterà sempre diffidenza verso il sapere e gelosia verso le celebrità della scena culturale e artistica.
I primi sei anni della Cina Popolare sono considerati come i migliori e i meno "maoisti". Di fatto il presidente Mao non si è ancora completamente staccato dai colleghi: non è che un "primus inter pares". Questo periodo è segnato dalla ricostruzione e dalla repressione. L'allineamento all'URSS è quasi totale. Nel 1958 Mao lancia la campagna utopistica del "grande balzo" in avanti. Le comuni popolari divengono l'unità di base amministrativa ed economica della Cina. Il fallimento dell'operazione è aggravato dalle calamità naturali e dal ritiro dell'aiuto sovietico e causa una catastrofe economica con almeno 30 milioni di morti di fame. Alla fine del 1960 la tragedia non può più essere ignorata e la popolazione è in collera. Per prudenza Mao si ritira in seconda linea, ma non si rassegna e si prepara alla riconquista. Nel 1966 lancia la "Rivoluzione culturale", un vero colpo di Stato condotto con l'aiuto delle Guardie Rosse. Il bilancio è molto pesante: tre milioni di morti e un centinaio di milioni di persone espropriate ed esiliate. Quanto ai dirigenti del partito, essi assistono impotenti ai lutti che circondano gli ultimi anni del tiranno. Mao muore il 9 settembre 1976 in un'atmosfera di grande crisi.
Le testimonianze su Mao ci mostrano un uomo orgoglioso, egoista, solitario, cinico e insensibile alle sofferenze degli altri. Con il tempo i suoi difetti si erano accentuati. L'orgoglio si era trasformato in vanità senza limiti, fino a pretendere che la sua personalità fosse oggetto di culto. Il suo egoismo ha finito per inglobare tutta la Cina e il suo destino. Dopo la morte di Mao la sua opera è stata oggetto di critiche crescenti, in Cina e all'estero. Anche se non mancano i Cinesi che ripensano con nostalgia ai tempi in cui la Cina era guidata da un vero grande uomo, la corruzione era proibita, i costumi controllati e gli stranieri erano tenuti ai confini.
Fonte: J. Domenach, Mao e il destino della Cina, in "L'Histoire", n. 235
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