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Dall'emigrazione italiana in America a 'Chiedi alla polvere'
Il nostro paese è meta da pochi anni di un forte flusso migratorio, il quale causa non pochi problemi, veri o presunti tali, come possiamo quotidianamente constatare dagli articoli dei quotidiani, ma anche nella realtà di tutti i giorni. Si sta diffondendo un' ideologia razzista che sembrava estranea all'Italia, ma che si è rivelata molto in fretta al primo incontro con gli immigrati.
L'intolleranza culturale è diffusa, l'integrazione è rara e difficile, più spesso sostituita dall'omologazione, che fa perdere anche a noi possibili opportunità di arricchimento.
Mi sembra importante a questo proposito ricordare quello che la maggior parte di noi non considera.
I numeri dell'emigrazione italiana
L'emigrazione degli italiani è stata descritta come il più grande esodo migratorio della storia moderna.
Il fenomeno era iniziato in sordina nel 1820, subito dopo le guerre napoleoniche e la restaurazione. Nel 1830 in America si contavano appena 439 italiani e continuò il modesto esodo su queste insignificanti cifre fino alla costituzione del Regno d'Italia, e in particolare dal 1880 quando dal nord (Friuli, Veneto e Piemonte) e in minor misura dal sud, il numero di italiani che partivano raggiunse circa 100.000 unità l'anno .
Poi andò crescendo in proporzioni impressionanti in tutta Italia, e toccò il massimo nell'anno 1913 quando in 12 mesi emigrarono 872.598 individui. E' questo l'anno in cui gli Stati Uniti diventano il principale paese di accoglimento. (Nel periodo 1906-1910 furono complessivamente 3.256.000, e nel periodo 1911-1915 ne partirono altri 2.743.000).
Emigrazione italiana per regione 1876-1900, 1901-1915[1]
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Lombardia |
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Friuli V.G. |
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Totale espatri |
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Lo scoppio della guerra europea, nel 1914, interruppe il movimento migratorio, ma al termine del conflitto con la crisi della produzione bellica, la corrente migratoria riprese il suo moto, tanto che nel 1920 emigrarono 614.611 italiani, e dal 1921 al 1930 il totale fu di 2.577.000. (In dieci anni l'Italia perse una popolazione superiore a quella dell'intero Lazio - 2.385.000 ab.).
Nel 1927 gli Italiani all'estero erano già 9.163.367, così divisi: 7.674.583 in America; 1.267.841 in Europa; 188.702 in Africa; 27.567 in Australia e Oceania; 9.674 in Asia. Il numero maggiore si registra negli Stati Uniti d'America con la cifra di 3.706.000 di italiani. Nella sola città di New York vivevano 1.070.355 nostri connazionali.
Il motivo della scelta delle Americhe come meta privilegiata dei nostri emigranti sta nel fatto che gli Stati Uniti erano nel pieno dell'avvio del loro sviluppo capitalistico; le navi portavano merci in Europa e ritornavano cariche di emigranti. I costi delle navi per l'America erano perciò spesso inferiori a quelli dei treni per il Nord Europa.
Dal 1931 le cose mutarono aspetto: sia perché gli Stati Uniti limitarono il numero degli stranieri ammessi, sia perché il Governo Fascista frenò e disciplinò il movimento migratorio.
Dopo la seconda guerra mondiale, dal 1946 fino al 1971, l'emigrazione è nuovamente ripresa con ritmo assai intenso con 1.128.000 di emigranti nel periodo 1946-1950; 1.366.000 nel periodo 1951-1955; 1.739.000 nel periodo 1956-1960; 1.556.000 nel periodo 1961-1965; e di 1.076.000 dal 1966 al 1970. Si calcola che in 25 anni siano emigrati ben 5.737.000 italiani.
Le cause dell'emigrazione
Le motivazioni di questo fenomeno nel corso degli anni sono state di vario genere. Dalle condizioni arretrate delle campagne italiane, alla crisi agraria che portò alla proletarizzazione di una grande massa di persone, all'aggravarsi delle imposte. Inoltre alcuni fatti determinarono le condizioni favorenti l'esodo, per esempio il terremoto del 1908 e in maggior misura le guerre.
Sono state messe in evidenza anche le caratteristiche peculiari dello sviluppo del capitalismo italiano, che, a differenza di altri paesi, fu connotato al suo esordio da una bassissima utilizzazione della forza lavoro disponibile. La ragione di ciò sembra stare nel fatto che il capitalismo in Italia conservò al suo interno elementi ereditati da forme economiche precedenti (latifondo, rendita fondiaria urbana e rurale, parassitismo amministrativo) e lo sviluppo industriale, privilegiò l'esportazione in paesi più ricchi dei beni di consumo prodotti, mantenendo limitato il mercato interno e l'occupazione calibrata ad esso. L'emigrazione all'estero della forza lavoro eccedente è stata interpretata come un modo per controllare le tensioni sociali.
Tutto questo senza dimenticare il sempre più profondo divario che si andava realizzando tra nord e sud. Infatti vediamo che le quote di emigrazione per regione, a partire dal periodo del protezionismo, vedono un incremento continuo delle aree meridionali del paese, mentre al nord si assiste ad una sempre maggiore urbanizzazione verso la pianura padana a scapito delle aree montuose e della bassa montagna[3].
Sembra quasi una contraddizione, ma il fenomeno migratorio italiano, nella sua rilevanza, è stato anche un aspetto favorente l'industrializzazione italiana, quasi una sorta di "arma segreta".
Infatti: "i risparmi inviati in patria da migliaia e migliaia di italiani costretti a cercarsi altrove un pezzo di pane, contribuirono in maniera tutt'altro che marginale all'equilibrio dei conti con l'estero"[4]: nel periodo tra il 1901 e il 1913, le rimesse degli emigranti in Argentina e negli Stati Uniti registrarono un gettito attivo di 12.291 milioni contro un deficit commerciale di 10.230 milioni.
Inoltre gli italiani all'estero costituivano un buon filo conduttore per il commercio di esportazione oltremare e spesso pagavano anche le imposte fondiarie in patria, dimostrando un notevole attaccamento alle proprie radici[5].
Le tappe dell'emigrazione
Imbarcarsi su una nave in quel periodo era proprio come fare un salto nel buio. La povera gente che si allontanava dalle proprie case, infatti, non aveva assolutamente idea di quale fosse il proprio destino. La maggior parte usava i propri ultimi risparmi per il biglietto navale e non aveva che vaghe informazioni di ciò che avrebbe trovato in America.
In Italia la prima legge sull'emigrazione fu emanata nel 1901, prima di questa data, e in parte anche dopo, gli emigranti erano preda degli "accaparratori". Questi speculatori facevano un'intensa propaganda con magnifiche promesse di viaggio, alloggio e lavoro per fornire manodopera a imprenditori transoceanici, dietro un compenso di "un tanto a testa" . Spesso erano invitati a firmare i "contratti in bianco" che mettevano la loro persona e il loro lavoro nelle mani di un padrone qualunque.
A questo proposito è interessante vedere la relazione "L'immigrazione italiana negli Stati Uniti dell'America del Nord dal 1820 al 1910" di G. Di Palma di Castiglione pubblicata nel Bollettino dell'emigrazione del 1913, dove si rileva che:
"più dei quattro quinti dei nostri immigranti negli Stati Uniti sono caratterizzati quali meridionali, (.) le autorità americane comprendono in questa in questa categoria tutti gli italiani che non sono nati nei compartimenti del Piemonte, della Lombardia e del Veneto.
gli analfabeti al di sopra dei quattordici anni, solo nel 1909 superano il 50% del totale
Il maggior numero di emigranti si indirizza verso gli stati di New York e della Pennsilvania, poi anche verso l'Illinois, l'Ohio, il Michigan e il Missouri progressivamente più bisognosi di manodopera." [7]
Erano inizialmente artigiani e muratori, poi soprattutto contadini che andavano a costituire manodopera non specializzata nelle fattorie, nelle miniere e nelle industrie americane, e si dovevano adattare ad un lavoro che non era il loro d'origine.
Ma i disagi iniziavano prima. Nelle città portuali lo Stato italiano allestiva delle Case degli Emigranti, dove alloggiare le persone in attesa dell'imbarco, dove si fornivano pasti e si cercava di curare le malattie leggere per permettere la partenza, ma il quadro che risulta dalle relazioni dell'epoca è di grande squallore .
La legge del 1901 già citata si preoccupava di stabilire le norme per il viaggio sui piroscafi: ogni emigrante deve disporre di mc. 2,75 di spazio sottocoperta e di mq. 0,45 in coperta, ma anche se a noi sembra già una situazione difficile, la realtà era poi un'altra perché: "il primo difetto della nostra legge è che ammette a bordo una massa troppo grande di persone (.). Quando i piroscafi sono al completo si assiste al doloroso spettacolo dei passeggeri che da mane a sera si serrano uno sull'altro e si urtano a vicenda, privati della facoltà di muoversi senza recar disturbo agli altri (.)Anche sottocoperta i passeggeri hanno poco spazio a loro disposizione e molti medici di marina rilevano un difetto di ventilazione. Una forte percentuale di emigranti va incontro a morte improvvisa a bordo per sincope cardiaca.
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Il letto dell'emigrante è composto di quattro aste verticali che sono collegate tra loro da una specie di grata orizzontale di ferro (.), la cuccetta è completata da un materasso sottile che a volte viene cambiato tra un viaggio e l'altro, più spesso no. Le cuccette sono messe su due ordini sovrapposti l'uno sull'altro e nei dormitori non v'è un cantuccio libero in cui gli emigranti possano soffermare o mettersi a sedere. Una vita simile, specialmente quando il numero degli imbarcati oscilla tra i 1500 e 2000 è degna piuttosto di bruti che di uomini."[9]
Durante questi viaggi, come si può capire, ci si ammalava spesso di malattie infettive, soprattutto tubercolosi, morbillo e gastroenterite, a causa della quale moriva un'alta percentuale di bambini imbarcati.
I bambini: una strage Nella foto di Jacoob Riis del 1895,
una mamma italiana a New York. |
All'arrivo nel porto di New York, gli emigranti sostavano a Ellis Island, << A New York gli emigranti, attraccata la nave al molo, non potevano sbarcare. Venivano condotti a Ellis Island per subire l'esame medico e rispondere alle domande degli ispettori americani. Nelle camere di attesa di Ellis Island aspettavano pazientemente il loro turno e venivano sottoposti sia a una doccia sia alla visita sanitaria, la quale dava particolare rilievo all'ispezione degli occhi per l'eventualità che fossero affetti da tracoma infettivo. Se risultati sani, venivano trasportati alla Battery, nei locali del Barge Office. Solo allora erano liberi, ma dovevano fare attenzione ai sedicenti agenti di alberghi e di locande, ai facchini che si offrivano di trasportare i loro bagagli, alle guide, ai cambiavalute, a coloro che qualificandosi "paesani" e avvocati promettevano di far uscire un eventuale parente da Ellis Island. (.) Sensali, falsi impresari e speculatori d'ogni genere erano stabilmente in agguato. Alla loro protezione, non sempre efficacemente, provvedevano alcune istituzioni, tra le quali la "Società San Raffaele". Particolarmente arduo era proteggerli dall'ingorda speculazione dei cosiddetti bosses e di quei banchieri (banchisti) che offrivano contratti di lavoro con una commissione che spesso superava i cinque dollari, una cifra per quei tempi. >>[10]
Spesso, soprattutto in seguito alle restrizioni legislative imposte dagli Stati Uniti, venivano respinti o non sapevano dove andare. A questo proposito erano sorte già alla fine dell'ottocento Società di Mutuo Soccorso e il governo italiano stipulò con quello americano l'apertura di un commissariato federale per l'emigrazione.
D'altra parte, però, oltre alle difficoltà causate dall'alto numero di emigranti in arrivo, il lavoro di queste società era ostacolato dalla diffidenza stessa degli emigranti, abituati da sempre a essere sfruttati e sfiduciati nei confronti dello stato e di ogni istituzione.
La vita dell'emigrante
Quando gli italiani arrivavano a trovare lavoro, si trattava di impieghi duri e disagevoli: sterramenti stradali o ferroviari, lavori accessori nelle costruzioni edilizie, manovalanza nelle fabbriche e nelle miniere o per i più intraprendenti commercio al minuto. Inoltre erano preda degli sfruttatori del lavoro minorile.
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Ragazzini condannati alla tisi |
Tutti
al lavoro, fin da piccoli |
Bene o male, iniziava il difficile percorso verso l'integrazione.
Inizialmente gli emigranti tendevano a mantenere tenacemente i loro usi e costumi e trascorrevano la loro vita come in un ghetto, aumentando così la difficoltà ad adattarsi anche alla lingua. Questo contribuì in parte al sorgere di un pregiudizio razziale contro l'immigrazione italiana e meridionale in particolar modo.
-'abbiamo all'incirca in questa città trentamila italiani, quasi tutti provenienti dalle vecchie province napoletane, dove, fino a poco tempo fa, il brigantaggio era l'industria nazionale. Non è strano che questi briganti portino con se un attaccamento per le loro attività originarie' era scritto sul 'New York Times' il 1° gennaio 1894; la violenza veniva indicata quindi come un prodotto di importazione, connaturato alla cultura e alla tradizione degli immigrati Italiani. Ancora sul New York Times del 14-5-1909 si leggeva: 'L'Italia è prima in Europa con i suoi crimini violenti.[] Il criminale italiano è una persona tesa, eccitabile, è di temperamento agitato quando è sobrio e ubriaco furioso dopo un paio di bicchieri. Quando è ubriaco arriva lo stiletto. [] Di regola, i criminali italiani non sono ladri o rapinatori - sono accoltellatori e assassini'.
I Siciliani erano inseriti nel censimento del 1911 come 'non white', non bianchi, di pelle scura e comunque le statistiche censivano separatamente gli Italiani del Nord e quelli del Meridione come appartenenti a due razze diverse: una 'celtica' e l'altra 'mediterranea".
Negli Stati Uniti d'America, diminuito il bisogno di manodopera a basso costo furono votate alcune fondamentali leggi volte a frenare l'immigrazione. Dal giugno 1920 al giugno 1921 furono registrati negli Stati Uniti più di 800.000 nuovi immigrati, provenienti per due terzi dall'Europa meridionale e orientale: il Congresso votò d'urgenza una legge approvata per alzata di mano.
Il Quota Act del 19 maggio 1921 limitava il numero degli stranieri ammesso annualmente, e per nazionalità, al 3 per cento del numero dei rispettivi connazionali stabilitisi negli Stati Uniti nel 191O. Questa legge venne applicata fino al 1 luglio 1924, quando entrò in vigore il National Origins Act, approvato nel maggio 1924, che riduceva le quote di ciascuna nazionalità al 2 per cento dei rispettivi connazionali residenti negli Stati Uniti nel 1890. Con la prima quota che limitò l'emigrazione europea vennero ammessi 42.000 italiani , nel 1924 il numero scese a 5645.
Le leggi sull'immigrazione gli anni venti posero fine all'immigrazione italiana negli Stati Uniti, stabilendo delle quote per ogni nazionalità, discriminarono di fatto tra le popolazioni del nord Europa e quelle dell'Europa Sud Orientale, codificando il pregiudizio antimeridionale[11].
Interessante a questo proposito, e amara, è la galleria di vignette presa dai giornali americani tra la fine dell'ottocento e gli inizi del 900
Re Umberto e la scimmietta
Il presidente del consiglio Rudini chiede la carità suonando l'organetto, l'ambasciatore a New York Fava fa la parte della
scimmietta, Re Umberto vende noccioline mentre l'americano Blaine (il segretario di stato) gli fa cadere tutta la mercanzia: ecco la visione dell'Italia che protestava contro il linciaggio di New Orleans.
<< Altri italiani in arrivo! Come diavolo pensano di trovar da vivere?
- Bè', lo sai che non vivono come noi.
Infatti, un paio d'anni dopo>>
(Puck, 24 ottobre 1906, Culver Pictures)
<<Tomaso: - Peppo Skinnolino sta facendo un
sacco di bigliettoni.
Tobasco: - Con la scimmia e l'organetto o chiuso in casa, zitto zitto, quatto
quatto?>>
(Fudge, 27 agosto 1904)
<<La discarica senza legge>>:
l'invasione giornaliera dei nuovi immigrati direttamente dai bassifondi
d'Europa
(Fudge, 6 giugno 1903)
Anche nei nomignoli che venivano affibbiati agli emigranti italiani si trova tutto il disprezzo e la xenofobia dell'epoca[12]:
BAT pipistrello (diffuso in certe zone degli Stati Uniti alla fine dell'Ottocento e ripreso dal giornale "Harper's Weekly" per spiegare come molti americani vedessero gli italiani <mezzi bianchi e mezzi negri>
BLACK DAGO dago negro (Louisiana e stati confinanti, fine Ottocento, per sottolineare come più ancora degli altri dagoes, vedi definizione, gli italiani fossero simili ai negri)
CHIANTI ubriacone (Usa, con un riferimento al vino toscano che per gli americani rappresentava tutti i vini rossi italiani, chiamati dago red)
DAGO è forse il più diffuso e insultante dei nomignoli ostili nei paesi anglosassoni, vale per tutti i latini ma soprattutto gli italiani e l'etimologia è varia. C'è chi dice venga da they go, (finalmente se ne vanno). Chi da until the day goes (fin che il giorno se ne va), nel senso di «lavoratore a giornata». Chi da diego, uno dei nomi più comuni tra spagnoli e messicani. Ma i più pensano che venga da dagger: coltello, accoltellatore, in linea con uno degli stereotipi più diffusi sull'italiano «popolo dello stiletto»[13]
MACCHERONI, MACARONI, MACARRONE mangia pasta
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Impiccati dopo lo sciopero |
WOP without passport o without papers (in America e nei paesi di lingua anglosassone significa «senza passaporto» o «senza documenti», ma la pronuncia uàp si richiama a «guappo».
Purtroppo gli italiani vengono subito dopo gli afroamericani nelle cronache di linciaggi dettati dal razzismo in America[14]:
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Troppo gentili coi neri : tutti uccisi |
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I funerali di Nic&Burt: la svolta |
La
stessa difficoltà della condizione di emigrante costò, secondo me, a Meucci il mancato riconoscimento del
brevetto del telefono. Fiorentino, immigrato negli Usa, dopo alcuni anni a
Cuba, inventò il telefono, come ha decretato la Camera americana nel 2002
dandogli ragione dopo 113 anni, allestendo nella sua casa a Staten Island
'un collegamento permanente tra il laboratorio nello scantinato e la
stanza della moglie, che soffriva di un'artrite deformante, al secondo
piano'.
Spesi tutti i risparmi, gli ha riconosciuto l'assemblea di Washington:
'Meucci non poté commercializzare l'invenzione, pur avendone fornita una
dimostrazione nel 1860 e avendola pubblicata sul giornale italiano di New
York'. La povertà e la scarsa conoscenza dell'inglese gli 'impedirono
di finanziare il processo del brevetto, costringendolo a limitarsi a una
notifica nel 1871'.
L'inventore, ha ricordato il 'Corriere della Sera' dopo il 'risarcimento morale' del 2002, 'consegnò alcuni prototipi alla Western Union, la società dei telegrafi, ma questa disse di averli persi, e gli rifiutò i soldi per rinnovare la notifica nel 1874. In questo modo, due anni dopo la Western ottenne il brevetto, attribuendo l'invenzione a Bell, che aveva lavorato sui prototipi di Meucci. Indignata, la comunità italiana fece quadrato attorno all'immigrato fiorentino, e dopo un decennio ottenne l'intervento del governo. 'Il 13 gennaio 1887', conclude la motivazione 'il brevetto di Bell venne annullato per frode e falso, annullamento poi sancito dalla Corte suprema'. Ma Meucci morì nel 1889 e il brevetto Bell, che scadeva nel 1893, non fu più contestato.
L'integrazione
Il Naturalization Act del 1906, con il quale si riconosceva la cittadinanza americana agli immigrati, si basava non solo sui requisiti di residenza e razza, ma anche sulla conoscenza dell'inglese e della storia americana. Si iniziava a discutere della capacità di americanizzarsi dei nuovi arrivati, si cominciavano ad organizzare corsi di lingua e cultura per gli immigrati[15].
E' in questo periodo che comincia a diffondersi il concetto di Melting-Pot[16], e ci si interroga se l'obiettivo debba essere quello di creare una razza americana o far convivere razze diverse legate dalla fedeltà alla nazione.
Non si deve dimenticare che città come New York, Chicago, Boston, Detroit, Pittsburgh erano popolate all'inizio del novecento per quasi il 70% da immigrati.
Se in ogni flusso migratorio si verifica uno scontro fra culture, a maggior ragione perciò era vero nel nuovo mondo, dove tante convivevano insieme e non c'era una forte tradizione locale svincolata dalle radici europee. Per questo si può dire che l'emigrazione italiana nelle Americhe rappresentò un momento importante, in positivo e in negativo, sia per il nostro paese che per la cultura, la storia e le tradizioni del Nuovo Mondo. Come ha detto, con un po' di retorica, ma con sintesi efficace il Console Generale Deborah Graze all'inaugurazione della mostra "Partono i bastimenti"sponsorizzata dalla National Italian American Foundation a Bergamo nel 2005: "Tra il 1880 e il 1920, più di 4 milioni di italiani giunsero sulle coste degli Stati Uniti e cambiarono per sempre il paese. Oggi questa eredità è visibile ovunque nell'arte, nella cucina, nel mondo scientifico, e in politica e potrei continuare. Oggi, più del 10% degli americani dichiarano di avere origine italiana" .
Nelle comunità di italiani in USA, all'epoca, la persistenza di un'identità nazionale, rafforzata anche dalla discriminazione subita, passava soprattutto, come già ho accennato attraverso la lingua. La lingua madre rappresentava un rifugio e una sicurezza, e coincideva con le strutture mentali stesse dell'emigrante.
A questo proposito si può far riferimento a ciò che dice in un'intervista anche la filosofa Hannah Arendt, emigrata dalla Germania hitleriana verso gli USA, anche se qui si tratta di un emigrazione di tipo diverso, sia per i motivi, sia per il livello culturale di partenza: "Mi sono sempre rifiutata di perdere la lingua madre (.) c'è una differenza enorme tra la propria lingua madre e un'altra lingua. (.)In tedesco mi permetto delle cose che non oserei mai fare in inglese.(.) La lingua tedesca è la cosa essenziale che è rimasta e che ho sempre volutamente conservato.(.)La produttività che si ha nella propria lingua sparisce quando ci si dimentica di essa."[18].
Questa riflessione consapevole della Arendt, ci fa capire come il desiderio di omologazione, in altre situazioni, in una società ostile o almeno diffidente, può spingere a rimuovere la lingua madre, soprattutto negli immigrati di seconda generazione, ma ci fa intuire anche come il processo creativo sia indissolubilmente legato ad essa ed alle strutture culturali dell'educazione d'origine.
Nella letteratura americana dell'ultimo secolo c'è un autore che mi ha coinvolto parecchio con le sue storie di un ragazzo italoamericano alle prese con una realtà difficile. Questo scrittore si inserisce perfettamente in questo percorso che dai piroscafi degli emigranti porta addirittura alla americanissima Hollywood.
John Fante
Nasce nel 1909 a Denver da una famiglia di immigrati italiani. Il padre era giunto dall'Abruzzo nel 1901. Fante vive col padre, che fa il muratore, un rapporto conflittuale che si ritrova in numerosi dei suoi libri, primo tra tutti, anche in ordine di tempo, "Aspetta primavera, Bandini". La sua infanzia è segnata dalla povertà e dai contrasti tra i genitori; anche la madre era figlia di immigrati italiani, legata strettamente alla cultura d'origine e cattolicissima. Nel romanzo sopraccitato Fante racconta della madre che non si era affatto integrata, che dice, senza stupore, di non avere niente che "la imparentasse a quelle donne americane" . Il padre abbandona presto la famiglia nella miseria. John, senza terminare gli studi universitari, nel 1930 lascia Boulder e si trasferisce a Los Angeles, dove fa i più disparati lavori, sognando di scrivere. Si riiscrive all'università, senza combinare molto, ma incontrando un'insegnante di lettere che è la prima a riconoscere il suo talento. Un suo racconto viene pubblicato sulla prestigiosa rivista 'The American Mercury'. In questo periodo viene introdotto da un amico nel mondo di Hollywood, dove inizia a lavorare come sceneggiatore. E' in questo periodo che vive un rapporto tumultuoso con una ragazza messicana, che racconterà in "Chiedi alla polvere"
Nel '37 sposa Joyce Smart da cui avrà quattro figli.
Nel '38 pubblica il
suo primo romanzo 'Aspetta primavera Bandini'. Nel '55, dopo diversi romanzi
pubblicati tra cui "Chiedi alla polvere",
i racconti di "Dago red" e'Full of life' da cui sarà tratto un film che
riceverà una nomination all' Oscar per la miglior sceneggiatura, si ammala di
diabete.
Nel '57 è in Italia a lavorare come sceneggiatore per Dino De Laurentis. La manifestazione di
affetto da parte di Charles Bukowski, che nel suo romanzo "Donne" cita Fante
come "il migliore scrittore che abbia mai letto", attira l'attenzione della
casa editrice Black Sparrow che decide di ristampare "Chiedi alla polvere", con
la prefazione di Bukowski. Il libro vive una seconda giovinezza e ridà speranza
a Fante ormai sempre più in condizioni precarie: ha appena subito l'amputazione
delle due gambe e non vede più. Detterà
alla moglie il suo ultimo romanzo 'Sogni di Bunker Hill'.
Muore nel 1983 lasciando numerosi testi inediti.
I testi di Fante hanno tutti un carattere molto autobiografico. A volte l'autore, che scrive sempre in prima persona, a parte in Aspetta primavera, Bandini, si nasconde sotto il nome di Arturo Bandini, a volte sotto quello di Dominic o Henry Molise, ma il protagonista è sempre figlio di immigrati italiani, amante del baseball, aspirante scrittore, che "cerca di vivere nonostante il fatto di essere cattolico" , in perenne contrasto tra il mondo "americano" e quello familiare, che in parte sembra disprezzare, in parte ammirare. In particolare le storie dell'infanzia e dell'adolescenza mi sono sembrate interessanti, sia perché, come credo accada ai grandi narratori, pur raccontando di un'epoca lontana e di un luogo diverso, permettono di riconoscersi, sia perché viene fuori il mondo in cui tanti italiani hanno vissuto, sradicati dalle consuetudini, dalla lingua e dal paesaggio stesso. Il padre Nick, per esempio, maledice continuamente la neve del Colorado, che non gli permette di lavorare tutto l'anno, rimpiangendo l'Italia; impreca e canta in italiano, come se le emozioni forti potesse esprimerle ancora solo nella sua lingua madre. I miti di John Fante ragazzo sono quelli americanissimi del baseball, o del denaro, o di Carol Lombard, ma si innamora di un'italiana o di una messicana e quando tenta un approccio con un'americana è quasi uno stupro, quasi a dimostrare la sua volontà di integrarsi con violenza .
Anche la scrittura è come una sorta di rivincita, quasi come i sogni di bambino di affermarsi nel baseball. Nel finale della stessa sequenza dice alla ragazza ricca e americana - Un giorno te ne pentirai, sentirai parlare di me e te ne pentirai -.
Lo stesso razzismo di cui Fante si è sentito vittima si riversa su Camilla, la messicana ancora più discriminata di lui, come per un senso di vendetta.
Comunque gran parte delle storie di Fante hanno un epilogo di rinuncia e di sconfitta. Così l'amore per Camilla in "Chiedi alla polvere", la voglia di scappare di casa per giocare a baseball in "Un anno terribile", il ritorno al paese in "Sogni di Bunker Hill". Ma dà l'impressione di essere l'inevitabile conclusione per un povero, cattolico italoamericano.
Anche allora però la sconfitta non è che il modo per sottolineare la particolare foga con cui l'autore si convince di dover riuscire a riscattarsi. Per esempio il finale di "Un anno terribile": - .piansi per mio padre e tutti i padri, e anche per i figli, perché eravamo vivi in quell'epoca, per me stesso, perché sarei dovuto andare subito in California, e non avevo scelta, avrei dovuto farcela.[22]-
Inoltre mi ha affascinato la maniera in cui si avvicina alle cose. Lo scrivere è per lui un'ossessione, si adatta a lavorare per Hollywood, perché lo scrivere è anche modo di far denaro, ma odia quel mondo. Tutte le cose che gli accadono sono però destinate a diventare materia di scrittura e ciò, ancora una volta, le riscatta anche quando sono brutte, così per esempio in "Chiedi alla polvere", quando rischia di annegare nell'oceano dovrebbe pensare a salvarsi la pelle: -Eppure, anche in quel momento, era come stessi scrivendo, come se stessi registrando tutto sulla carta. Davanti agli occhi avevo il foglio dattiloscritto, mentre fluttuavo, sbattuto dalle onde, senza riuscire a raggiungere la costa, sicuro che non ne sarei uscito vivo-. E' un po' come se la povertà, la discriminazione, lo sradicamento diventassero uno stimolo intellettuale e creativo.
Non vorrei aver fatto credere che John Fante nei suoi romanzi, si pianga addosso o che le atmosfere siano cupe e tristi, al contrario. Anche quando racconta episodi di intensa drammaticità, sto pensando per esempio a quando nel finale di "Aspetta primavera, Bandini" il giovane Arturo va a cercare il padre nella casa dell'amante, la vedova Hildegard, preoccupato tra l'altro per la sanità mentale della mamma, anche allora Fante usa una sorta di umorismo amaro e quasi da comica cinematografica. Lì il protagonista diventa il cane Jumbo, che con la sua preda fetida scatena l'ira e fa perdere il controllo alla vedova Hildegard, che sbotta: -Contadini (.) Stranieri! Siete tutti uguali, voi e i vostri cani-. Ma è proprio questo che risveglia l'amor proprio del padre e lo spinge a tornare a casa col figlio.
In effetti un umorismo leggero è una delle caratteristiche di Fante che mi ha più appassionato. Quando ho cominciato a leggere "Chiedi alla polvere", mi sono imbattuto in questo incipit:
Una sera me ne stavo a sedere nel letto della mia stanza d'albergo, a Bunker Hill, nel cuore di Los Angeles. Era un momento importante della mia vita; dovevo prendere una decisione nei confronti dell'albergo. O pagavo o me ne andavo: così diceva il biglietto che la padrona mi aveva infilato sotto la porta. Era un bel problema, degno della massima attenzione. Lo risolsi spegnendo la luce e andandomene a letto.[23] - E mi ha colpito, perché mi è sembrato di vederci anche la scarsa capacità di prendere decisioni e la tendenza a rimandarle che a volte abbiamo noi, e Arturo Bandini è infatti un ventenne. Nel romanzo "Un anno terribile", mi è sembrato geniale invece fare del Braccio del protagonista, che sogna di diventare un lanciatore di baseball, un personaggio vero e proprio del libro, con tanto di lettera maiuscola e pensieri e emozioni.
Accanto all'umorismo, c'è anche una vena di poesia e delle brevi, per altro, righe di descrizione o di riflessione che mi hanno spinto a soffermarmi, per esempio, sempre in "Chiedi alla polvere":
Che serata! Una sera di festa per il mio naso, che annusava le stelle, annusava i fiori, annusava il deserto e la polvere assopita, là in cima a Bunker Hill
Oppure: - Il mondo non era che un mito, una distesa trasparente, su cui tutto sostava solo brevemente; anche noi, Bandini, Hackmuth, Camilla e Vera, eravamo qui solo di passaggio, per finire poi chissà dove. Non eravamo vivi, ci limitavamo a sfiorare la vita senza mai afferrarla.(.)[25]
E' come se in qualche momento l'autore dimenticasse il suo solito stile, coinciso, semplice, paratattico, per perdersi in un'altra dimensione, che sta dietro, nascosta, ma per qualche motivo ogni tanto esce fuori.
Ricorda a volte Hemingway, e la critica lo avvicina anche ad altri autori americani, come Foulkner, o Salinger , ma Fante non avrebbe potuto scrivere le sue storie se non fosse stato anche profondamente italiano e cattolico.
Come ha scritto Domenico Starnone nell'introduzione ai racconti di "Dago red": -Fante ha da vendere quello che Bandini cercava di cancellare (.): l'origine italiana, la mamma, il babbo, i fratellini, il vino, la masturbazione, la smania di puttaniere, il culto del culo femminile, il senso di colpa permanente indotto dal cattolicesimo, il mercanteggiare con il padreterno, il razzismo dell'italoamericano discriminato che discrimina quelli ancora più discriminati di lui. Non solo (.): lo scrivere come redenzione, la smania di riuscire a far suonare all'orecchio degli americani biondi e con gli occhi azzurri il cognome Bandini (.), il nome Arturo meglio che se fosse Arthur: per avere i loro soldi e le loro donne, per dimostrare di essere capace di grandezza pur essendo nato Dago, pur bevendo dago red.-[27]
Vorrei concludere mettendo in evidenza che dunque Fante rappresenta un perfetto esempio di melting-pot e ricordando le parole di Fante stesso nel prologo di Chiedi alla polvere: Vagavo per quelle strade e m'impregnavo di loro e della loro gente, come fossi fatto di carta assorbente[28].
I numeri dell'emigrazione italiana
Bibliografia e sitografia
Arendt Hannah |
Antologia |
Milano |
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Baricco Alessandro |
Introduzione a Chiedi alla polvere |
Torino |
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Castelnuovo Valerio |
La storia economica, in Storia d'Italia vol.4* |
Torino |
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Cresci Paolo, Guidobaldi Luigi (a cura) |
Partono i bastimenti |
Milano |
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Fante John |
Aspetta primavera, Bandini |
Torino |
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Fante John |
Un anno terribile |
Roma |
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Fante John |
Chiedi alla polvere |
Torino |
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Fante John |
Dago red |
Torino |
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Flores Marcello |
Il secolo - mondo |
Bologna |
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Isenburg Teresa |
L'emigrazione in Storia d'Italia vol.6 |
Torino |
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Istituto di storia economica e sociale dell'Università cattolica di Milano (a cura) |
L'Emigrazione |
Brescia |
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Rosoli Giuseppe |
Un secolo di emigrazione italiana 1876-1976 |
Roma |
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Starnone Domenico |
Introduzione, in Dago red |
Torino |
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Stella Gian Antonio |
L'Orda, quando gli Albanesi eravamo noi |
Milano |
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https://www.speakers-corner.it |
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https://milan.usconsulate.gov |
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Eugenio Francini Classe V A a.s. 2006-2007
Istituto di storia economica e sociale dell'Università cattolica di Milano (a cura), L'Emigrazione, pag. 17, Brescia 1979, da S. Jacini, Relazione finale sui risulatati dell'inchiesta, in Atti della giunta per l'inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, Roma 1884
ibidem, pag. 52, da F. Fossataro, Il servizio igienico e sanitario sui piroscafi da emigranti, in Bollettino dell'emigrazione, 1909
https://www.emigrati.it, Emigrazione e xenofobia
Tutte le immagini sono tratte dal sito https://www.speakers-corner.it/rizzoli/stella/immagini/fotolinciaggi.spm, nato dal libro: G. STELLA, L'Orda, quando gli Albanesi eravamo noi
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