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Dalla Restaurazione alle rivoluzioni degli anni Venti




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Dalla Restaurazione alle rivoluzioni degli anni Venti


Equilibrio, stabilità e legittimità.

Dopo la definitiva sconfitta di Napoleone l'intento principale delle potenze vincitrici fu quelle di ricostituire il vecchio assetto prerivoluzionario. In primo luogo si cerò di ripristinare l'equilibrio territoriale tra le potenze, un equilibrio costruito con grande cura dalla diplomazia settecentesca e fondato sulla sostanziale equivalenza tra cinque grandi Stati: Inghilterra, Francia, Austria, Prussia e Russia. Si trattava quindi di restituire alla Prussica e all'Austria quanto era stato loro tolto senza però annientare la Francia, che comunque andava tenuta a bada, perché troppo gravemente aveva minacciato il resto d'Europa. Si pensò allora di circondarla con una cintura di Stati cuscinetto, una sorta di solido cordone di sicurezza in grado di scoraggiare sue eventuali spinte espansionistiche.

Il sistema che i restauratori intendevano imporre ai popoli europei, oltre a essere antiquato e inattuale, era uscito irrimediabilmente distrutto dalla Rivoluzione. Essi si trovavano ora di fronte a un'Europa profondamente cambiata: le masse popolari avevano partecipato allo scontro militare e, in una certa misura, anche al confronto politico; si era diffusa la stampa periodica; le identità e le coscienze nazionali avevano assunto un peso sempre maggiore; la finanza e l'industria si erano enormemente sviluppate. Accanto all'autorità dello Stato erano inoltre cresciuti il dinamismo economico e le rivendicazioni della società civile, cioè la sua autonomia, che non poteva più essere ignorata o schiacciata dal potere politico.

Si poneva infine un problema di legittimità generale, di riaffermazione dei principi della legge travolti dalla Rivoluzione francese e dallo strapotere napoleonico. In pratica si voleva che in ognuno dei Paesi sconvolti dalla tempesta rivoluzionaria e imperiale tornassero gli antichi governanti. Ma anche su questo punto il puro e semplice ripristino della legalità del passato era praticamente impossibile, perché attraverso la Rivoluzione si era affermata la volontà popolare, espressione di un principio di legalità moralmente, politicamente e culturalmente molto superiore a quello della legittimità dinastica.


Il Congresso di Vienna e la Santa Alleanza.

I lavori del Congresso di Vienna, iniziati nel novembre 1814, terminarono prima della sconfitta napoleonica a Waterloo. E' opportuno sottolineare una particolarità importante del Congresso: il Paese sconfitto e responsabile dello scardinamento dell'equilibrio settecentesco, cioè la Francia, fu riammesso con quasi assoluta naturalezza fra le potenze che decidevano dell'assetto europeo. L'ambasciatore francese era quello stesso Talleyrand che per anni aveva servito Napoleone come ministro degli Esteri.

Nonostante le intenzioni il principio di legittimità non fu sempre rispettato dai diplomatici e dai ministri riuniti a Vienna e venne anzi ripresa la logica spartitoria che aveva contrassegnato la politica territoriale settecentesca. Malgrado i tentativi diplomatici francesi, la Polonia non fu ripristinata: lo zar Alessandro I (1801-1825), assunto il titolo di re di Polonia, si vide anche riconoscere la Finlandia ottenendo un ulteriore rafforzamento della Russia.

Per parte su ala Prussica, a cui non venne restituita la sua porzione di Polonia, ottenne un'area della Germania occidentale sulle rive del Reno, attuando così un'espansione verso occidente che pose le premesse per un rinnovato e violento antagonismo con la Francia. Il Sacro romano impero, la cui fine era stata segnata dalla rinuncia di Francesco II d'Asburgo alla Corona imperiale nel 1806, non venne ricostituito. Lo sostituì la Confederazione germanica, cui aderivano una quarantina di Stati e il cui presidente era l'imperatore d'Austria. Vienna non fu più quindi la sede di una sovranità imperiale tedesca, ma la capitale dell'Impero d'Austria, una grande potenza multinazionale danubiana.

I Paesi Bassi austriaci vennero annessi all'Olanda, che le potenze intesero rafforzare in funzione antifrancese. La corona di Spagna tornò a Ferdinando VII di Borbone, mentre la Repubblica di Venezia fu consegnata insieme alla Lombardia all'Austria, che aasunse dunque un ruolo preponderante nella penisola italiana. I polacchi, i belgi e i lombardo-veneti divennero quindi le maggiori vittime della diplomazia europea: con i loro nazionalismi feriti essi rappresentarono le principali spine nel fianco dell'equilibrio creato dalla Restaurazione.

Nel settembre 1815, Austria, Russia e Prussica, per ribadire e rinsaldare l'ordine ratificato dal Congresso, firmarono un patto, la Santa Alleanza, che oltre a riunire le tre Corone custodi dell'assolutismo monarchico, le impegnava a sostenere "i precetti della giustizia, della carità cristiana e della pace". Al patto aderirono progressivamente tutti i paesi europei tranne l'Inghilterra, che non poteva riconoscersi nei toni mistici e nelle formulazioni ideologiche e assolutistiche del trattato. Senza l'Inghilterra, tuttavia, il sistema di "polizia internazionale" auspicato da Austria, Prussica e Russia nasceva monco. Esse aderirono perciò a una seconda intesa allargata, sancita nel novembre 1815, più politica e pragmatica, di cui l'Inghilterra era il perno e che si chiamò Quadruplice Alleanza.

Al fine di prevenire lo spettro della rivoluzione, la Santa Alleanza introduceva un'altra novità nella diplomazia europea: i Paesi alleati erano autorizzati a intervenire militarmente per mantenere l'ordine ovunque fosse richiesto, interferendo liberamente negli affari interni di ogni altro paese. Cambiava così il significato ideale e politico dell'intervento straniero. Avveniva infatti un ripudio non solo della laicità dello Stato, ma anche della sua sovranità nei rapporti internazionali e si ritornava a un clima intollerante, da guerre di religione, verso ogni forma di critica e di opposizione, che il Settecento, già molto prima della Rivoluzione, sembrava avere definitivamente abbandonato.


L'Italia dopo il Congresso di Vienna.

Fra i popoli che soffrirono di più per la sistemazione diplomatica decisa al Congresso di Vienna vi fu quello italiano. Nel Settecento l'Italia aveva dato qualche segno di ripresa, sperimentando un riformismo politico attivo e un risveglio culturale vigoroso. Con la Restaurazione questo processo di trasformazione, delegittimato e spesso additato come responsabile delle tragedie che l'Italia aveva sofferto, subì una drammatica battuta d'arresto. L'Italia fu dunque ricacciata indietro, relegata a un ruolo di mera sudditanza politica.

Nel corso del Settecento la dinastia dei Savoia, a capo del Regno di Sardegna, aveva cercato di costruire la propria egemonia attraverso una modernizzazione amministrativa e istituzionale, che era del resto diretta dall'alto e per nulla aperta alle trasformazioni sociali.

Data la sua posizione geografica il Piemonte aveva subito per primo i colpi dell'invasione napoleonica. Al suo ritorno dall'esilio cagliaritano, Vittorio Emanuele I (1802-1821) si presentava quindi come il campione della legittimità ripristinata. Al Regno sabaudo, che fu rafforzato in funzione antifrancese, vennero restituite tutte le antiche province, comprese Nizza e la Savoia, oltre al territorio della Repubblica di Genova, che cessò di esistere. Neppure la Repubblica di Venezia fu più ricostituita, contro ogni principio di legittimità. Anche Milano, ex capitale della Repubblica cisalpina e poi del Regno napoleonico d'Italia, nonché punto di riferimento politico, culturale, economico del rinnovamento di tutto il Paese, divenne, come l'intero Lombardo-Veneto, una provincia asburgica e fu privata di ogni autonomia politica.

I Ducati di Parma e di Modena vennero restaurati, e così la piccola Repubblica di Lucca, trasformata a sua volta in Ducato. Questi staterelli - sui quali l'Austria si assicurò un saldo controllo - servirono a indennizzare sovrani minori, variamente danneggiati dalla Rivoluzione. In Italia meridionale Napoli e la Sicilia, ormai unificate nel Regno delle Due Sicilie, furono restituite al vecchio Ferdinando IV (ora I come re delle Due Sicilie), tornato a Napoli dopo quindici anni di esilio palermitano.


Un costituzionalismo sotto tutela.

Un aspetto, che del resto era già stato anticipato dal regime napoleonico, appariva ben chiaro nel clima della Restaurazione: ogni eventuale libertà non poteva essere il frutto di una conquista popolare, ma solo una concessione da parte dei governi, estremamente limitata e rispettosa delle vecchie gerarchie sociali. Ci si poteva al massimo ispirare a un costituzionalismo aristocratico, annacquato e depurato da una qualunque memoria rivoluzionaria.

Comunque il primo Paese sul quale era spirato il vento reazionario era stato proprio la Francia, dove Napoleone aveva di fatto soppresso le libertà costituzionali. Con il ritorno dei Borbone tali libertà vennero ulteriormente ridotte. Nel giugno 1814 fu "concessa" da Luigi XVIII una Carta costituzionale che limitava il numero degli elettori da tre milioni e mezzo del periodo napoleonico a meno di novantamila, su un totale di quasi trenta milioni di francesi. Per giunta, a questa Camera dei deputati, composta su base rigidamente censitaria, la Carta attribuiva solo una parodia di potere legislativo: quello di votare le leggi presentate dal re, senza poter nemmeno proporre un emendamento.

In Inghilterra il diritto di non essere arrestati senza prove giudiziarie, il cosiddetto habeas corpus, legge dello Stato fin  dapprima della "Gloriosa rivoluzione" del 1688, fu abolito durante la guerra contro la Francia e poi nuovamente sospeso nel 1815 in difesa di un equilibrio sociale orami corrispondente soltanto agli interessi dei grandi proprietari terrieri e del governo tory che li rappresentava.

Il clima di reazione politica si accoppiava ovviamente al conservatorismo sociale. Infatti, lo sviluppo impetuoso della rivoluzione industriale in Inghilterra non si era tradotto in un miglioramento economico per le classi popolari. Al contrario, dato che si teneva alto artificialmente il prezzo del grano per avvantaggiare gli agrari, un parte consistente della popolazione si trovò ridotta alla fame. Si innescò in tal modo un meccanismo perverso: la masse di poveri si rivolgevano alla pubblica assistenza e alle parrocchie, le quali erano tenute a provvedere, ma al contempo gravavano sui contribuenti. Tale situazione indusse i datori di lavoro ad abbassare i salari per recuperare così ciò che versavano in tasse, con conseguente ulteriore estensione del fenomeno della povertà.

Perfino negli Stati Uniti le libertà costituzionali furono minacciate. Si determinò infatti una divisione fra la piccola e media proprietà agraria, animata da una avversione fortissima per ogni forma di potere centrale e da una passione quasi tribale per la propria autonomia locale, e i grandi possidenti terrieri, che, proiettati verso un mercato urbano fondato sull'esportazione, necessitavano di una forte autorità statale. Sul piano politico questa divisione si riflettè nella contrapposizione tra il Partito repubblicano, interprete delle istanze dei piccoli proprietari e dei pionieri e favorevole alle autonomia delle tredici repubbliche americane, e il Partito federalista, che intendeva invece rafforzare il vincolo tra i diversi Stati attraverso una politica centralista e moderata.


I movimenti di opposizione alla Restaurazione.

A partire da questo periodo i sostenitori dell'opinione pubblica e della superiorità morale e naturale della società civile sullo Stato iniziarono a definirsi "liberali". Ai loro occhi la Rivoluzione francese cominciò ad apparire non più come il terreno di coltura "del periodo del Terrore" o il prodotto del fanatismo giacobino, come invece pensavano bonapartisti e legittimisti borbonici, ma come il frutto, poi degenerato per colpa della guerra, di un naturale e salutare sussulto di una società in crescita, oppressa da un regime politico dispotico.

I liberali nutrivano fiducia nella società civile ma al contempo auspicavano la creazione di uno Stato limitato nei suoi poteri e scarsamente incline all'intervento in campo economico. Essi consideravano l'egoismo naturale degli uomini come l'indispensabile propulsore delle potenzialità personali e come l'elemento essenziale per la formazione del mercato. Il programma dei liberali, in conflitto aperto con il clima oppressivo della Restaurazione, si incentrava sulla creazione di istituzioni rappresentative, liberamente elette dalla società civile e tutelate dall'opinione pubblica attraverso i suoi canali principali di espressione (la stampa, l'associazione politica, lo sviluppo culturale). Essi credevano in uno Stato in cui, a un forte potere legislativo, corrispondesse un potere esecutivo debole: il primo rappresentato da un parlamento eletto da cittadini sufficientemente agiati e colti da poter esprimere liberamente le proprie scelte, il secondo da un governo rispettoso delle regole e controllato dal parlamento stesso.

La politica dei governi moderati instaurati da Napoleone e, in seguito, l'opera di restrizione delle libertà operata dal Congresso di Vienna sollecitarono in tutta Europa la costituzione di numerose strutture rivoluzionarie, società segrete che raccoglievano liberali e democratici di tendenze anche diverse. Fra queste emerse per importanza la Carboneria. Sorta probabilmente in Italia, essa forniva il supporto organizzativo ai democratici che cospiravano sia contro gli antichi regimi sia contro i francesi.

Accanto alla Carboneria agì un'altra organizzazione segreta, più importante e più antica, che aveva avuto un grande peso nell'Europa settecentesca: la massoneria. I massoni, riuniti in logge, erano nati con lo scopo di diffondere la cultura dei Lumi e una religiosità filantropica, priva dei contenuti dogmatici delle varie religioni positive. Nel Settecento la massoneria aveva partecipato all'opera di riforma istituzionale, tanto che diversi monarchi erano stati massoni; ma nel clima oppressivo della Restaurazione essa si trasformò in una società segreta e si diede a cospirare per rovesciare i governi reazionari.


Rivoluzione e repressione in Spagna.

La Spagna era stata il teatro del primo fallimento militare di Napoleone fin dal 1808, quando un'insurrezione popolare aveva tenuto in scacco migliaia di soldati francesi fino all'ottenimento di una costituzione liberale piuttosto avanzata: quella di Cadice del 1812. Due anni più tardi il re Ferdinando VII, mutato il contesto internazionale, si era rimangiato promesse e giuramenti e aveva ristabilito la monarchia assoluta. Inoltre i quadri dell'esercito, mal pagati e insoddisfatti della situazione politica, erano formati da numerosi ufficiali che avevano combattuto contro i francesi e si erano battuti per la Costituzione del 1812. All'interno di questi circoli militari, profondamente infiltrati dalle società segrete massoniche, si era affermata l'idea che la volontà collettiva di una nazione soffocata dai cattivi consiglieri del sovrano e dai politici corrotti potesse e dovesse esprimersi proprio nel corpo degli ufficiali. Questa strategia politica, che richiamava per certi versi il bonapartismo della prima ora, venne definita con una parola spagnola pronunciamento ("rivolta"). La Spagna dovette poi affrontare il problema delle rivolte scoppiate nei suoi possedimenti americani che, sempre più attratti dal modello nordamericano, si erano ribellati all'esoso dominio spagnolo. Ma a Cadice, nel gennaio del 1820, le truppe destinate alla spedizione in Sudamerica si ribellarono esigendo il ripristino della Costituzione del 1812. Gli insorti si impossessarono in poche settimane di molte città importanti. A questo punto il re non ebbe altra scelta che quella di ripristinare la Costituzione del 1812.

Ma assai presto, come già era avvenuto nella lotta contro i francesi, all'interno del movimento rivoluzionario spagnolo si aprì una spaccatura: da un lato gli exaltados ("esaltati"), decisi a portare fino in fondo la rivoluzione attraverso la costituzione di autonomie locali e la creazione di milizie cittadine; dall'altro i moderati, coinvolti dal re nel governo centrale e propensi a una revisione in senso censitario della Costituzione. Si determinò così una situazione di grave crisi: mentre i governi che si succedevano a Madrid erano contrassegnati da un crescente moderatismo politico, le province e le truppe erano sempre più sotto il controllo degli exaltados. Questo confronto fra un governo che non riusciva a controllare le sue province e un movimento incapace di incidere sulle decisioni a livello nazionale, portò nel settembre del 1821 a uno scontro armato in cui i moderati ebbero la meglio.

Al Congresso di Verona, nell'autunno 1822, si deliberò quindi di affidare alla Francia il compito di intervenire per stroncare la rivoluzione spagnola. Il successo fu rapidamente assicurato e i rivoluzionari spagnoli vennero sconfitti.


I moti italiani del 1820-1821: Napoli, la Sicilia, il Piemonte.

A Napoli, tornata nelle mani dei Borboni, accanto al partito murattiano, nostalgico del regno bonapartista di Giocchino Murat e del suo riformismo autoritario, acquistò peso rilevante la Carboneria che, in contrasto con altre società segrete si era organizzata una propria rete clandestina. I carbonari aspiravano all'entrata in vigore della Costituzione di Cadice del 1812 e a una serie di riforme in campo amministrativo ed economico.

In parte incoraggiati dall'atteggiamento di Ferdinando I che, interessato al trono spagnolo, si era dichiarato alla Costituzione di Cadice, i militari di stanza a Nola e a Capua nel luglio del 1820 si ribellarono con l'appoggio della carboneria e sotto la guida di un generale murattiano, Guglielmo Pepe. I ribelli ottennero una promessa di costituzione dal re che affidò il governo a un gabinetto formato da esponenti moderati e murattiani, mentre Pepe veniva nominato capo delle forze armate. Pochi giorni dopo scoppiò la rivolta a Palermo. Questa era animata da un intento politico diverso rispetto a quello degli insorti napoletani e del resto della Sicilia; si configurò infatti come un progetto separatista dominato dai conservatori, accompagnato da un programma costituzionale da contrapporre al testo di Cadice.

Recatosi al Congresso indetto nel gennaio 1821 a Lubiana dalla Santa Alleanza con la promessa di sostenete la causa dei rivoluzionari, Ferdinando I attuò invece un rapido voltafaccia: egli si appellò infatti al sistema delle potenze europee affinché queste si assumessero il compito di stroncare la ribellione. Il Congresso di Lubiana lasciò mano libera all'intervento dell'Austria nel Regno delle Due Sicilie. Il debole esercito di Guglielmo Pepe fu sconfitto nel marzo 1821 e a Napoli venne restaurata la monarchia assoluta.

I moti del 1820-21 ebbero importanti riflessi anche in altri Stati italiani. A Torino, in particolare, l'erede al trono, Carlo Alberto di Savoia, si fece coinvolgere in promesse costituzionali e per tale impegno fu costretto a un paio d'anni di esilio dalla capitale.


L'indipendenza dell'America latina.

Nell'America spagnola esistevano quattro grandi unità statali: la Nuova Spagna, che comprendeva il Messico e il resto dell'America centrale; la Nuova Granada, negli attuali Venezuela e Colombia; il Perù, con annessi i territori di Bolivia e Cile; il Rio della Plata, cioè l'Argentina. Quando nel 1808 i francesi invasero la Spagna l'aristocrazia creola si schierò a parole a favore del re spodestato ma in realtà avviò quel processo di distacco dalla madrepatria che avrebbe contrassegnato l'America spagnola nei primi trent'anni dell'Ottocento. Le istituzioni locali approfittarono infatti della situazione per rendersi indipendenti da Madrid, entrando spesso in conflitto le une con le altre, poiché ciascuna era espressione di interessi diversi. Nella rivolta anticoloniale ispano-americana si fusero pertanto due diversi radicalismi, di fatto estranei: un radicalismo di matrice giacobina che costituì l'espressione intellettuale dei gruppi dominanti creoli e un radicalismo popolare, che trovava le sue origini nella protesta sociale contro lo sfruttamento indiscriminato. In generale uscirono entrambi sconfitti e la decolonizzazione fu condotta in maniera profondamente conservatrice.

Il protagonista della liberazione dell'America spagnola fu Simon Bolivar (1783-1830), un creolo di educazione europea che con grande abilità condusse la lotta per l'indipendenza del Venezuela. Attraversate le Ande Bolivar sconfisse gli spagnoli in Colombia da dove passò in Perù per incontrarsi con l'altro grande liberatore dell'America latina, José de San Martin (1778-1850), che a sua volta aveva battuto gli Spagnoli in Argentina e in Cile. Bolivar fu il primo leader a progettare il "panamericanismo": l'idea di un continente americano formato da pochi grandi Stati, riuniti in una confederazione.


La Rivoluzione nazionale greca.                         

La Grecia era da secoli sotto il dominio turco. Il popolo greco, di religione cristiano-ortodossa, aveva subito l'influenza della Rivoluzione francese ed era guidato da un'élite colta che guardava a Parigi, a Vienna e a Mosca e alle esperienze politiche e culturali dell'Europa centrale. Falliti nel 1821 i tentativi del greco Alexandros Ypsilanti di sollevare le popolazioni balcaniche contro il sultano, i patrioti greci si rivolsero alle corti europee per essere aiutati a portare a termine la lotta di liberazione. La contraddizione politica era evidente: essi si rivolgevano a quelle stesse corti che nei medesimi anni stroncavano le rivoluzioni spagnola e napoletana. Infatti nel 1821 allorchè scoppiò l'insurrezione generale, e ancora nel 1822, quando il Congresso di Epidauro proclamò l'indipendenza, i greci furono del tutto lasciati soli. Fu una guerra di liberazione lunga e sanguinosa. Soltanto nel 1827 Francia, Gran Bretagna e Russia si decisero a intervenire. La flotta turco-egiziana fu sconfitta a Navarino e l'esercito russo invase la penisola balcanica, finchè Istanbul dovette riconoscere l'indipendenza greca.


I fermenti politici e il complotto decabrista in Russia.

Lo zar Alessandro I Romanov (1801-1825) aveva abbracciato nel corso degli anni posizioni politiche diverse. Era stato un fautore del liberalismo all'inglese, per poi divenire un despota tra i più reazionari. La Russia, ulteriormente accresciuta nel suo prestigio dalla vittoria contro Napoleone, cominciava ad avviarsi verso un apprezzabile sviluppo economico, ma le sue strutture di controllo sociale e politico restavano estremamente rigide e arretrate.

Anche nei circoli più aperti all'Occidente rimaneva la convinzione che una rivoluzione sarebbe stata impensabile e che qualunque trasformazione politica avrebbe dovuto essere imposta dall'alto. Nacquero quindi due associazioni segrete di ufficiali: una a Pietroburgo, la Società del Nord, più moderata, che propugnava una costituzione all'occidentale, liberale e federalista; l'altra in Ucraina, la Società del Sud, che immaginava una svolta radicale. Quest'ultima, pur essendo favorevole al suffragio universale, sosteneva in realtà un progetto estremamente autoritario e razzista, diretto contro "l'aristocrazia del denaro più pericolosa di quella feudale". Le due diverse anime del movimento rivoluzionario russo cominciavano così a delinearsi: una occidentalista, di ispirazione liberaldemocratica e interessata soprattutto al modello costituzionale britannico; l'altra slavofila, di ispirazione essenzialmente autoritaria, che dall'Occidente era al massimo disposta ad acquisire i metodi giacobini, ma per cercare, riallacciandosi alle peculiarità culturali e spirituali della tradizione russa, una propria linea di progresso politico sociale nella dittatura.

Quando nel 1825 Alessandro I morì, senza che fosse chiaro quale tra i due figli, Costantino o Nicola, dovesse accedere al trono, le due società segrete si accordarono per un tentativo di complotto con fini insurrezionali. Questa cospirazione fu detta "decabrista", da dekabr, "dicembre" in russo, perché avvenne appunto nell'ultimo mese del 1825 in concomitanza con il giuramento che le truppe dovevano prestare al nuovo imperatore, Nicola I. Ma il movimento, represso immediatamente con la forza, fallì. Nicola I (1825-1855) continuò la politica reazionaria del padre.

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