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Bodo il contadino
Un fondo agricolo nel IX secolo
La storia è normalmente intesa come lo studio degli avvenimenti politici e costituzionali dei secoli passati, quindi riguarda solamente personaggi famosi e di una certa importanza. In questo libro invece si parlerá della storia economica, cioè della vita oscura e le attivitá della massa popolare sulle quali si basano tutte le societá. Questa nuova concezione di storia fu per la prima volta concepita da Thomas Carlyle che disse di non badare solo agli uomini famosi ma anche agli uomini comuni e meno importanti in modo che anche loro abbiano il loro riconoscimento.
Questa prima storia riguarda un contadino su cui le informazioni sono state attinte da un libro catastale dell'abbazia di St-Germain-des-Prés sul quale è segnato ogni piccolo fondo (fisc), la sua rendita, il suo possessore e la sua famiglia e tutto quello che dovevano pagare come tributo.
La terra dell'abbazia era divisa in fiscs della grandezza adatta ad un fattore. Questi fiscs erano divisi in terre signorili, amministrate dai monaci, e tributarie possedute dai coloni e a loro volta divise in mansi o piccole fattorie. Il manso signorile era costituito da una casa in pietra, degli edifici cintati dove vivevano le serve, altre case sparse per i servi, botteghe, una cucina, un essicatoio, e altri edifici agricoli. In questo manso c'era una grande estensione di terra che veniva lavorata dai servi e dai coloni.
A fianco al masso sinorile vi erano quelli dipendenti che appartenevano a uomini liberi: esso era simile al manso principale ma molto piú povero. In cambio di questi possedimenti i coloni dovevano peró coltivare il manso signorile per tre giorni alla settimana.
Il fattore aveva il compito di sorvegliare il loro operato e poteva richiedere il lavoro dei campi, arare una certa quantitá di terra dominiale all'anno, e la corvée, cioè un supplemento di lavoro alla settimana; esse corrispondono al lavoro settimanale e supplementare del Basso Medioevo. Gli altri giorni della settimana i coloni erano liberi di coltivare il loro appezzamento.
Tributi ed esazioni
Al posto delle moderne tasse, Carlo Magno esigeva dalle abbazie dei tributi e i monaci le pretendevano dai coloni: questi potevano pagare in moneta o in natura. Vi erano poi i pagamenti per i favori particolari ricevuti che consistevano magari in carichi di legna, damigiane di vino o capi di bestiame. Inoltre i coloni dovevano versare un tributo annuale in natura o, se il colono era un artigiano, poteva pagare mediante il prodotto della sua abilitá.
Mediante Bodo l'autrice descrive la tipica vita del contadino medioevale: nella prima giornata Bodo è impegnato, come altri coloni, a lavorare la terra del manso signorile; per compiere il suo dovere si serve di un bue e si fa aiutare dal piú grande dei suoi tre figli a pungolarlo.
Sua moglie, Ermentrude, si reca alla casa grande per versare il tributo; a fianco l'edificio, nel laboratorio degli uomini molti artigiani lavorano faticosamente: le loro prestazioni erano molto richieste dai signori. Ma questo non interessa alla donna che trova l'amministratore, gli consegna il tributo e si reca nel quartiere delle donne per pettegolare: le donne della casa vivevano separate, in uno spazio delimitato da una siepe in modo che nessuno, senza permesso, potesse entrarvi, in cui c'erano degli edifici ed un laboratorio dove le serve filavano e tessevano. Questo sistema era voluto da Carlo Magno.
Dopo aver parlato un pó, Ermentrude torna a casa dove lavora alla vigna, prepara da mangiare ai figli e cuce abiti di lana per la famiglia. Bodo ritorna solo all'ora di cena e subito dopo i due si coricano.I pensieri del contadino non dovevano essere spesso molto allegri: doveva svegliarsi presto e lavorare dell'abate anche col gelo e, poiché il suo lavoro era particolarmente faticoso desiderava essere un'altra persona per non condurre quella vita.
Bodo amava cantare per rallegrare suo figlio e se stesso ed era molto superstizioso: anche se il regno franco adottava la religione cristiana, tutti i contadini erano legati alle antiche superstizioni e credenze proprie del paganesimo come scongiuri, riti propiziatori e incantesimi. Su queste piccoli peccati superstiziosi la chiesa non vedeva nulla di male, anzi insegnava al popolo a supplicare il Signore o Maria al termini degli scongiuri con formule cristiane; ma quando Bodo adorava alberi curvi, chiedeva incantesimi a stregoni o bevevano pozioni e il prete confessore lo veniva a sapere era punito anche se non severamente.
La Venezia del 1268 era assolutamente superba: un porto commerciale situato in posizione ottimale, a cavallo tra Oriente ed Occidente, snodo dei traffici marini e terrestri. Carichi preziosi (avorio, perle, tappeti, spezie) vi giungevano dal lontano Egitto o dalla Persia e poi ripartivano verso Francia, Inghilterra, le Fiandre. Da qui tornavano con altri carichi di metalli, pelli, vini, lane.
I veneziani dovettero mantenere la loro indipendenza sfidando Costantinopoli ad Oriente e il Sacro Romano Impero ed il Papa ad Occidente, proteggendo le loro isole con la conquista della terraferma che le circondava. Combatterono contro saraceni, slavi e pirati arrivando addirittura a conquistare Costantinopoli, la sua maggior rivale. A quel tempo fu istituita la simbolica dello sposalizio del mare.
Ma fu al tempo delle Crociate che Venezia vide realizzarsi i suoi sogni: fu soprattutto lei a rifornire le galere, le navi i soldati. In cambio ottenne una sede commerciale in ogni cittá conquistata e, durante la quarta crociata riuscí addirittura a conquistare Zara e Costantinopoli. I quattro cavalli dorati furono portati in San Marco.
Il Doge governava sui quattro mari (Adriatico, Egeo, Marmara e Nero)collocando gli empori e le navi ovunque.
Nel 1268, dunque, Venezia era al culmine della sua potenza, orgogliosa, splendida, sempre indaffarata a controllare le merci sempre piú preziose che giungevano e ad ascoltare i racconti di uomini di tutte le nazioni.
La cronaca di Martino da Canale
Nel 1268 Martino, impiegato alle dogane, cominció a scrivere la cronaca di Venezia in modo che tutti potessero sapere come la sua cittá fosse diventata cosí grande e nobile, i suoi dogi e i suoi capitani, le sue vittorie, i suoi abili mercanti e marinai, le sue bellissime dame.
Martino descrisse la sfilata grandiosa per l'elezione di Lorenzo Tiefolo a Doge di Venezia nell'anno 1268: prima venne tutta la flotta con le ciurme acclamanti, poi le corporazioni dei mestieri ognuna esibendo i propri ornamenti. Ogni corporazione era accompagnata dalla sua banda che augurava al Doge "lunga vita". La sfilata duró un'intera settimana!
Magnificenza della cittá di Kinsai
Ma Venezia era davvero la cittá piú bella e piú potente? Nella lontana Asia sorgeva la cittá di Kisai, capitale degli Imperatori Sung, signori della Cina meridionale.
Kisai, che sorgeva sull'acqua, era molto estesa ed era suddivisa in dodici quartieri, ognuno con la sua porta di accesso.
Ogni quartiere era piú grande di Venzia: vi era una lunga, grandiosa e vivace strada principale e, parallelamente, un largo canale. Dodici mila erano i ponti, alcuni dei quali tanto alti da far passare grandi imbarcazioni. La cittá era piena di ricchi mercanti e belle donne ingioiellate.
Ad un lato della cittá si trovava un lago cosparso di isolotti boscosi che era meta di gite su chiatte addobbate riccamente. Dal lago si aveva una vista splendida dell'intera cittá coi suoi palazzi, templi, giardini, canali pieni di battelli ed il fantastico palazzo imperiale.
Innumerevoli giunche risalivano il fiume fino alla cittá trasportando pepe, spezie, aloe, sandalo, noce moscata, ebano ed altre ricchezze; insieme a muschio, seta, profumi partivano verso l'India. I mercanti indiani le caricavano sulle loro navi, le rivendevano agli Arabi che a loro volta le avrebbero portate a Venezia.
Tutti concordavano nel dire che Kinsai era la cittá piú bella e potente.Inoltre, a soli tre giorni di cammino, sorgeva Sugui, talmente grande e ricca che aveva sotto di se'oltre sedici cittá. I Cinesi davanti alla ricchezza e bellezza di queste due cittá solevano dire che neppure in paradiso potesse esservi qualcosa di simile.
I Tartari e la loro fama in Occidente.
Alla sfilata descritta dal Canale assisteva anche un giovane, intelligente e curioso di nome Marco Polo> Ció che lo interessava maggiormente erano i racconti sui paesi lontani ed i Tartari.
I Tartari governavano vasti territtori dalla Cina al Caucaso, dal Fiume Giallo al Danubio. Gli Occidentali ebbero dapprima paura di questo popolo, poi cominciarono a pensare di allearsi con lui contro un piú antico nemico: l 'Islam cher era stato, appunto, indebolito dai Tartari. Nacque cosí la leggenda del re-sacerdote Gianni, che regnava in un posto sconosciuto dell Asia e tra i khan tartari ed i sovrani occidentali inizió uno scambio di ambasciate e relazioni, frati francescani partirono verso la Tartaria, inviati dal Papa, ritornando poi con racconti sulla grandezza di quella terra.
Nel 1268 si conosceva molto sull'Asia , ma molto poco sulla Cina
Il viaggio di Niccoló e Matteo Polo
Il padre e lo zio di Marco erano partiti alcuni anni prima per la Tartaria per iniziare lá il loro commercio di gioielli.
Marco aspettava con ansia il loro ritorno, cecando informazioni tra i marinai che giungevano a Venazia. Solo nel 1269 i due fratelli riuscirono a tornare a casa, con incredibili storie da raccontare.Raccontarono dei viaggi, delle guerre, degli accampamenti tartari e della cittá di Bukhara, dove rimaseo per tre anni finché arrivó un ambasciatore del Kublai Khan, capo dei capi, che li invitó a recarsi a cospetto del grande Signore.
Viaggiarono cosí per un anno attraverso lÁsia per giungere infine dal Kubla Khan, felice di vedere per la prima volta uomini occidentali e di poter avere da loro informazioni sui re e sul Papa..
L'imperatore Tartarodecise di rimandare i due veneziani nel loro Paese affinché chiedessero al Papa di inviare loro cento uomini di scienza e un po di olio santo.Diede ai due fratelli uno speciale lasciapassare per facilitare il loro viaggio che, tuttavia, risultó piuttosto lungo e faticoso. Arrivati vicino a Roma seppero che il Papa era morto e che il successore non era ancora stato eletto: decisero quindi di tornare a Venezia, dalla loro famiglia.
Marco ascoltava i meravigliosi racconti del padre e dello zio. Passarono cosí due anni ed il Papa non veniva eletto. Si misero in cammino verso l'Oriente portando con loro anche Marco, due frati farncescani, teologi e letterati, e alcune lettere per il Kahn. Tuttavia i due frati, poco abituati alle difficoltá del viaggio, li abbandonarono e tornarono indietro.
Il racconto di questo viaggio è stato fatto da Marco nel suo libro. Attraversarono la Turchia, la Persia, giunsero al Golfo Persico ma non si fidarono delle navi arabe e continuarono per vie di terra. Raggiunsero il Badakhshan, paese ricco di pietre preziose e di boschi montani dove i tre si fermarono per un anno a causa di una malattia di Marco. Ripresero poi il viaggio giungendo al Pomir, esplorando terre che per molti anni non saranno piú visitate da occidentali. Attraversarono con grande difficoltá il deserto di Gobi, descritto cosí vividamente da Marco, raggiunsero la Cina e le steppe Mongole dove furono salutati dagli emissari del Khan venuti loro incontro. Il viaggio duró in tutto tre anni e mezzo.
Il soggiorno di Marco presso il gran kahn
Al loro arrivo, i Polo furono accolti con molta cortesia dal gran Khan a cui fu presentato Marco: Kublai decise di affidargli numerose missioni in quanto il veneziano aveva la qualitá di osservare e riferire al kahn tutte le abitudini e le usanze del popolo cinese. Qusto era molto gradito all'imperatore che amava molto sentire le sue storie e Marco diventó governatore di una provincia e viaggió attraverso tutto il regno fino a visitare terre che rimasero sconosciute all'occidente fino al 1860 e che lui descrisse dettagliatamente nel suo libro. Egli descrisse lo Shansi, il Tibet, la Birmania, Karakorum, la Concincina, l'India meridionale, Kinsai e inoltre parló dei sistemi che tenevano unita la Cina e del suo imperatore che non era un semplice barbaro ma un vero sovrano cinese.
Probabilmente durante il suo soggiorno in Oriente Marco conobbe numerose personalitá illustri dell'epoca come Chao Mêng-fu, il pittore de Kahn.
Si conosce anche la vita che conducevano Niccoló e Matteo, che viaggiavano per l'impero commerciando e arricchendosi e mettendo le loro conoscenze militari al servizio del Kahn.
Dopo diciassette anni peró i Polo vollero tornare a Venezia, ma Kublai non accosentí loro la partenza, finché, per puro caso, si presentó loro l'occasione di lasciare la Cina: dovettero intraprendere un viaggio in Persia con l'autorizzazione del Gran Khan.
Nel 1929 i Polo partirono da Zaiton per il lungo viaggio che doveva condurre la principessa prescelta al Kahn persiano: durante il tragitto vennero fatte molte soste e morirono la maggior parte dell'equipaggio. Al loro arrivo trovarono che anche il principe era morto e dovettero condure la principessa al figlio ancora piccolo. Inolter durante un'altra tappa del ritorno, vennero a sapere che il Gran Khan era morto, lasciando tutto il suo regno in grande lutto. Anche i veneziani ne furono profondamente addolorati, sapendo che si chiudeva cosí un lungo e splendido periodo della loro vita.
Giunsero a Venezia nel 1295 e nessuno riuscí dapprima a riconoscere in quegli esotici viaggiatori i tre Polo. La leggenda narra che per farsi riconoscere, durante un grandioso banchetto essi si vestirono con lussuose vesti e poi, indossate le rozze tuniche tartare, le lacerarono estraendone moltissimi preziosi gioielli, in esse cuciti e nascosti.
E in realtá, i Polo avevano portato con loro gioielli in quantitá ma anche novitá come pelli di Yak, semi di indaco e doni per i dogi.
Molti giovani si recavano da Marco per ascoltare la narrazioni del suo viaggio e poiché egli sempre parlava dei milioni di capolavori, milioni di cittá, milioni di giunche e cosí via gli diedero l'idea per chiamare il suo libro "Il milione".
Nel 1298 la flotta genovese attaccó Venezia si imbarcó su una nave per difendere la sua cittá, che tuttavia fu sconfitta. Marco fu fatto prigioniero. Ben presto si sparse la voce che un capitano raccontava, nella sua cella, storie meravigliose su popoli e paesi lontanissimi. Assieme a lui, in prigione, c'era uno scrittore pisano, Rusticiano, esperto letterato che mise per iscritto in francese i racconti di Marco, concludendoli con una dedica che ne spiegava l'origine e la veridicitá.
Marco fu rimessso in libertá e tornó a Venezia, dove si sposó ed ebbe tre fglie. Visse onorato fino al 1324. La storia racconta che, al suo letto di morte, un frate gli chiese di dire la veritá sulle sue avventure e di togliere dal libro quello che vi era di inventato: a ció, sdegnato, Marco rispose: "quello che ho raccontato è solo la metá di quello che ho visto e vissuto!".
In effetti ció che risulta dai suoi racconti è, nei tempi, risultato veritiero e la grandezza di questo esploratore è stata riconosciuta.
Dopo di lui, mercanti e missionari continuarono a mantenere rapporti con l'Oriente. Giovanni di Monte Corvino partí all'etá di cinquant'anni e divenne arcivecovo di Pechino. Frate Odorico di Pordenonenavigó fino in India e raggiunse Canton e la Cina. La descrizione che ne fa è molto simile a quella di Marcp.Giovanni Manigoldi, mercante di Firenze, nel 1340 scrisse un prezioso manuale per i mercanti che si recavano in Catai. Tutti grandissimi esploratori che nulla hanno da invidiare ai colleghi del XV secolo. Presto peró un grande silenzio e isolamento cadde su quei paesi e sui tartari, che furono sopraffatti dall'Islam. L'Islam costituí una grande muraglia di separazione ed intolleranza verso tutto l'Oriente.Un secolo e mezzo piú tardi un capitano genovese lesse con grande attenzione una traduzione latina de "Il milione", sul margine prendeva appunti e si chiese in che modo potesse raggiungere qui paesi ora che gli Arabi sbarravano la strada agli occidentali. Pensó cosí di aggirare l'ostacolo e far rotta per Occidente in modo da poter raggiungere il Famoso Cipango ed il ricco Catai. Convinse cosí i sovrani di Spagna ad affidargli tre caravelle.
Madre Eglentyne era sorridente, semplice ma nello stesso elegante. Sapeva cantare, parlava bene il francese, era ben educata. Sapeva stare a tavola mangiando e bevendo con raffinatezza. Voleva avere uno stile aristocratico cosí che fosse degna di rispetto. Il suo animo inoltre era caritatevole e pietoso, provava compassione per gli animali e gli amava tantto che nutriva i suoi cagnolini con focaccia e arrosto: non poteva sopportare che si facesse loro del male. Il velo era sistemato con grazia attorno al suo volto che aveva lineamenti regolari e delicati. Portava un elegante mantello e due preziosi rosari, uno dei quali aveva una spilla con inciso il motto: l'amore vince ogni cosa.
La famosa descrizione della monaca pellegrina verso Canterbury ha suscitato diverse interpretazioni, ma tutti sono concordi nell'apprezzare con cui perla dei vari dettagli, pur con la sua indulgente satira.
Quando gli storici cominciarono ad interessarsi anche dell'uomo della strada e alla sua vita quotidiana, sociale e religiosa, trovarono una fonte insostituibile di informazioni negli archivi vescovili: descrizioni delle sedi vescovili, delle contraddizioni matrimoniali, ereditá, scomuniche, processi per eresie e stregonerie, racconti di miracoli, spese dei vescovi ed altree notizie interessanti.
Il vescovo di Exoter descrive persino con minuziositá la regina Filippa d'Olanda all'etá di nove anni.
Nel Medioevo tutti i conventi femminili , e molti maschili, erano visitati periodicamente dal loro vescovo per controllarne il buon andamento. Dopo aver avvisato del suo arrivo, si sistemava, con i suoi segretari ed i loro registri, e si preparava per esaminare tutte le donne del convento, dalla superiore alla piú giovane ed umile cercando di farle parlar male l'una dell'altra e prestando orecchio alle lamentele. Le monache erano alquanto inclini al pettegolezzo e alle maldicenze, soprattutto verso la loro superiore che criticavano sotto ogni aspetto. Il vescovo faceva annotare tutto. Se le cose andavano abbastanza bene, radunava le suore e le lodava, altrimenti indagava ancora sui vari particolari e le rimproverava.
Tornato a palazzo, il vescovo scriveva una lista di prescrizioni per ogni convento: una copia era tenuta in archivio ed una copia veniva inviata in convento. È facile capire quanto questi archivi siano importanti: per alcuni conventi è possibile tracciarne la storia di tre secoli.
Dalle notizie in nostro possesso possiamo immaginare che Eglentyne fosse entrata molto giovane in convento. Suo padre la aveva dato una dote, senza la quale non si poteva entrare in convento. Possiamo anche stabilire Quanto offrí a questo convento piuttosto aristocratico e lussuoso: duecento sterline. Eglentyne ebbe anche un nuovo vestito un letto e qualche mobile. Si fece una festa per il giorno dei suoi voti e fu fatto un regalo al sacerdote. Durante gli anni del noviziato, imparó a cantare, leggere, parlare francese.
A volte, nei monasteri si, trovavano rinchiuse delle bambine a cui i genitori volevano sottrarre la dote.
La maggiore occupazione di Eglentyne nel convento era di pregare e glorificare Dio. Tutte le preghiere erano programmate e i tre pasti si svolgevano in funzione di esse. Nel pomeriggio le suore si dedicavano al lavoro manuale: cuciva, ricamava oppure leggeva libri riguardanti Santi e miracoli. Probabilmente Eglentyne aveva anche collaborato all'educazione di alcune scolarette che si recavano al convento per apprendere le lingue o le buone maniere. D'estate poi poteva anche avere il permesso di uscire per curare il giardino.
Durante tutto il giorno era per lo piú mantenuto il completo silenzio e, per parlare con le compagne, le monache utilizzavano il linguaggio dei segni.: erano molti e tutti prestabiliti dalla Santa Sede.
Decadenza della vita spirituale nei monasteri
Nei tempi d'oro del monacheismo la vita religiosa era intrapresa solamente da persone realmente vocate, ma nel tardo Medioevo era considerata una professione e le donne non sposate finivano per la maggior parte in monastero. La vita di queste donne era perció tediosa e i normali compiti religiosi venivano considerati e fatti con scandalosa irrivarenza. Sono molti e famosi i peccati che si verificavano nella vita dei religiosi ed i piú comuni erano quelli riguardanti la levataccia notturna e la dizione delle preghiere: tutti cercavano la massima velocitá per finire il piú prima possibile. Questa abitudine era talmente diffusa che, per impressionare i peccatori, fu inventato un diavoletto che aveva l'unico compito di raccogliere tutte le parole o addirittura le strofe che gli assonati preti e monache omettevano alle loro preghiere: il suo nome era Titvillus.
Anche il carattere delle monache non era immune dalla dura vita religiosa ed anche molte superiore non avevano un carattere d'oro.
Le funzioni della badessa
Eglentyne era la tipica signora aristocratica che riscuoteva successo per simpatia e maniere: le ragazze piú umili non erano neanche ammesse a questi conventi. Era talmente ben voluta che venne eletta superiora dopo dodici anni e assunse con entusiasmo i propri privilegi e obblighi anche se erano molto gravosi: Sorvegliare la disciplina, le entrate del convento e le spese. Eglentyne avrebbe dovuto consultarsi con le altre monache, ma spesso, avendo un carattere abbastanza dispotico, decideva di far di testa sua. All'arrivo del vescovo, le consorelle di Eglentyne si lamentarono di questo suo modo di fare e accusandola di varie negligenze in modo esagerato: la superiora non era disonesta e il vescovo lo capí , quindi prese solo alcuni provvedimenti formali.
Un altro problema di una qualche importanza era la visita delle signore che venivano a chiedere asilo e che portavano nel convento novitá non sempre adatte al comportamento adatto ai monasteri: queste ondate di "moda" non erano ben viste dai vescovi che non riuscirono a fermare l'afflusso di queste visitatrici perché fornivano gran parte del denaro necessario al convento. Per questo motivo era molto comune nei conventi medioevali trovare monache che non rispettavano le regole del vestire seguendo i consigli che davano loro le signore mondane che conoscevano.
La moglie del Ménagier
"Come devi amare tuo marito."
In questo capitolo si parla del libro scritto dal signor Ménagier, un cittadino di Parigi, per istruire la giovane sposa che si era scelto. Infatti la quindicenne moglie lo aveva pregato di non rimproverarla dei suoi errori davanti a ospiti o servi ma che lo facesse in privato: cosí il marito prese la decisione di riversare tutti i suoi consigli e suggerimenti in un libro da regalare alla moglie.
Il testo è diviso in tre parti: la prima tratta dei doveri morali e spirituali, dei doveri rispetto al marito e di come riconquistarne il cuore in caso di tradimento. La seconda riguarda la gestione domestica: consigli sul giardinaggio, sull'assunzione dei domestici e i compiti basilari delle mogli medioevali e un ricettario per deliziosi pietanze. La terza parte avrebbe dovuto parlare di falconeria e di divertenti giochi da fare; purtroppo questo pezzo è incompleto e rimane solo il trattato di falconeria.
La perfetta signora
Lo stile di comportamento atto ad una giovane moglie è incluso nella prima parte e rende un, idea abbastanza spartana di vita. La mattina, recandosi a messa, non doveva alzare lo sguardo troppo in alto e non doveva girarsi e osservare troppo in giro. Anche l'abbigliamento ideale è accuratamente descritto, ma il consiglio piú deciso è quello di evitare le compagnie di donne trasandate o di ceto infariore.
La perfetta moglie
Il concetto di moglie del Ménagier è riassunto in sottomissione, obbedienza e costante attenzione. Nel libro sono presenti Varie storie che fungono da esempio per la moglie: esse riferiscono di mariti infedeli e di mogli che fanno qualsiasi cosa per riconquistarli. Ma i consigli che apprezziamo di piú sono quelli riguardanti i modi per alleviare le fatiche di un marito che lavora tutto il giorno: questo passo è un eccellente esempio dello stile del Ménagier che infonde nel libro un po' della sua vita.
La perfetta padrona di casa
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