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Ascesa del Nazismo




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Ascesa del Nazismo





La Germania nell'immediato dopoguerra



Al termine della prima guerra mondiale, crollatol'impero degli Hohenzollern, la Ger­mania si trasformò in una repubblica. Nel periodo di gestazione dei nuovi ordinamenti, il paese fu agitato dalle lotte fra una minoran­za comunista, che si batteva per la fondazione di una repubblica sovietica simile a quella russa, e una netta maggioranza anticomu­nista, guidata dai socialdemocratici e decisa a creare istituzioni li­beral-democratiche.

Con l'appoggio dell'esercito, la socialdemocrazia, cui la grande maggioranza del proletariato tedesco rimase fedele, riusci a stron­care i tentativi rivoluzionari di ispirazione sovietica. A Berlino, du­rante la settimana di sangue (10-17 gennaio 1919), una sollevazio­ne «spartachista» [1] fu drasticamente repressa e gli stessi leader del movimento, Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, vennero trucidati insieme con molti altri insorti.

In Baviera, dove Monaco nell'aprile del 1919 si era proclamata capitale di una Repubblica dei Consigli, la repressione fu rapidamente attuata ai primi di maggio dai reparti militari inviati dal governo centrale.

Nel frattempo era stata eletta a suffragio universale un'Assemblea costituente (19 gennaio 1919) che proclamò la nuova costituzione nell'agosto, dopo aver svolto i suoi lavori nella città di Weimar: di qui deriva appunto la designazione abituale di «Repubblica di Weimar». La Germania veniva organiz­zata come una Repubblica federale, costituita da 17 Stati regionali (Länder). Il governo centrale, presieduto da un cancelliere, doveva rispondere del proprio operato di fronte al Parlamento (Reichstag), cui competeva il potere legislativo. Il presidente della Repubblica veniva eletto ogni sette anni direttamente dal popolo ed esercitava un'autorità molto ampia come capo supremo dell'esercito e del po­tere esecutivo. Il primo presidente della Repubblica, che fu il so­cialdemocratico Friedrich Ebert, venne però eletto dalla stessa As­semblea costituente.


Negli anni del dopoguerra, comunque, la sorte della Germania fu determinata non tanto dai partiti e da­gli ordinamenti giuridici interni, quanto dal comportamento degli Alleati, che avevano condotto la cosiddetta 'guerra democratica' soprattutto per stroncare il capitalismo industriale tedesco, rivela­tosi un concorrente troppo ingombrante, e che, ottenuta la vittoria, si dimostrarono ben decisi a impedirne la ripresa.

Basti pensare che la Commissione incaricata di stabilire l'ammontare delle ripa­razioni previste dal Diktat di Versailles concluse i suoi lavori nell'a­prile del 1921 presentando un conto di 132 miliardi di marchi oro, sufficiente - se fosse stato effettivamente pagato per intero - a distruggere l'economia tedesca per molti decenni.

Nel calcolo degli Alleati, la Germania doveva bensi esser mante­nuta nel, campo occidentale, come baluardo contro la rivoluzione mondiale del proletariato che era nel programma del Komintern, ma doveva nello stesso tempo esser sottoposta a rigoroso controllo, soprattutto perché, malgrado i danni della guerra e le ingenti perdi­te territoriali, essa dava segni precoci e indubitabili di forti capa­cità di ripresa.

L'industria pesante tedesca era pertanto riuscita in un solo lustro a restituire al paese un'in­frastruttura di trasporti che era la migliore del mondo per efficien­za e per economicità. E questi risultati straordinari erano dovuti non solo alle risorse naturali del paese, ma anche e soprattutto al­l'alto livello della cultura industriale dei tecnici, dei manager, delle maestranze e dei capitalisti.

Fra i grandi capitalisti un posto di primo piano era occupato da Hugo Stinnes, magnate del carbone e dell'acciaio e leader del «partito dell'industria pesante», deciso a salvaguardare l'indipendenza economica e politica della Germania, senza la quale il suo stesso potere personale, fondato su un impero industriale di proporzioni gigantesche, sarebbe stato distrutto. Mentre i proprietari dell'industria leggera gravitavano verso l'Occi­dente, Stinnes e i suoi seguaci erano fautori di una stretta amici­zia con la Russia sovietica, non certo perché nutrissero simpatie per il comunismo (da loro considerato come uno spettro destinato a scomparire nel termine di pochi anni), ma perché si rendevano perfettamente conto - sulla base dell'esperienza dell'anteguerra - che essi, contribuendo allo sviluppo delle immense risorse virtuali della Russia, avrebbero concluso ottimi affari e ridato alla Germa­nia la potenza economica di un tempo.

Fautore dell'amicizia con la Russia era anche il «partito militare», guidato dietro le quinte dal co­mandante in capo dell'esercito (Reichswehr), generale Hans von Seeckt, spietato ed efficientissimo nella repressione dei tentativi ri­voluzionari comunisti all'interno, ma giustamente convinto che so­lo l'alleanza con la Russia avrebbe permesso alla Germania di elu­dere le clausole iugulatorie del trattato di Versailles: la Germania, infatti, cui il Diktat aveva imposto il disarmo unilaterale, avrebbe potuto impiantare o riattivare fabbriche d'armi in Russia, sia a van­taggio proprio, sia a vantaggio dei virtuali alleati Sovietici. Considerazioni altrettanto realistiche spingevano i dirigenti russi ad allearsi con la Germania, che del resto, unica fra le potenze occidentali, si era rifiutata di partecipare al blocco antisovietico nel periodo della guerra civile.

La Germania nutriva un forte risentimento contro gli altri paesi capitalistici, e su questa divisione si doveva far leva. Aveva quella potenza e quella cultura industriale che mancavano alla Russia. Possedeva una col­laudatissima esperienza d'armi e di eserciti, della quale l'Armata Rossa si sarebbe grandemente giovata. D'altra parte la Russia ave­va tutto l'interesse a uscire dall'isolamento nel quale le potenze occidentali tendevano a mantenerla.

Date queste premesse, un accordo commerciale fra la Russia e la Germania venne stipulato già nel maggio del 1921 e contribui ad incrementare notevolmente gli scambi fra i due paesi, benché la Russia, bisognosa di importazioni di ogni genere, potesse per il mo­mento esportare solo legname greggio, pelli e limitati quantitativi di lino.

I rapporti germano-sovietici si fecero assai più stretti con la firma del Trattato di Rapallo (16 apri­le 1922), col quale Russi e Tedeschi si impegnarono a riprendere le normali relazioni diplomatiche, a rinunciare alle rispettive rivendi­cazioni finanziarie rimaste pendenti dopo la guerra e, soprattutto, a intensificare le relazioni economiche «in uno spirito di buona vo­lontà».

Il Trattato ebbe rapida ed effettiva attuazione. Sorse­ro numerose società commerciali miste, tedesco­sovietiche, che permisero di superare le difficoltà di scambio deri­vanti dalle differenze economico-giuridiche dei due regimi.

Forte impulso ebbe naturalmente anche la produzione bellica, dato che entrambi i paesi aspiravano a supera­re l'enorme inferiorità che li separava dalle altre grandi potenze mondiali: grazie all'apporto di tecnici, maestranze e materiale germanico, fabbriche di aerei, di proiettili e di carri armati sor­sero rispettivamente presso Mosca, negli Urali e a Kazan.

La situazione era certo ancora ben lon­tana da quella d'anteguerra, ma senza dubbio s'era aperto di fronte ai due paesi un promettente spiraglio, e questo si sarebbe rapidamen­te dilatato man mano che le risorse virtuali della Russia fossero sta­te messe a frutto.




Le possibilità di ripresa fondate sugli accordi russo­germanici furono bruscamente bloccate nel gennaio del 1923, quando la Francia e il Belgio, per rifarsi delle «mancanze della Germania nei versamenti in natura, costatate dalla commis­sione per le riparazioni», occuparono il bacino della Ruhr, che da solo forniva alla Germania i 4/5 del fabbisogno di carbone e acciaio ed era pertanto il cuore della sua industria pesante.


Quest'aggres­sione portò la Germania alla rovina.

II governo tedesco rispose all'invasione procla­mando la resistenza passiva, e i lavoratori della Ruhr, sostenuti nel loro sciopero ad oltranza dalle finanze pubbli­che germaniche, rifiutarono ogni collaborazione con i Francesi, che di fatto non ricavarono alcun vantaggio dall'aggressione.

D'al­tra parte, le spese sostenute per finanziare la resistenza passiva co­strinsero la Germania.a stampare immense quantità di moneta, e l'inflazione raggiunse livelli vertiginosi: in pochi mesi il marco, già svalutatissimo, si svalutò ulteriormente di 26 milioni di volte, tanto che alla fine del 1923 un dollaro si scambiava con 4200 miliardi di marchi.

A questo punto fu naturalmente necessario ritirare la vecchia moneta dalla circolazione e sostituirla con un nuovo mar­co che, come vedremo, avrà tutt'altro destino.

Queste vicende gettarono i Tedeschi nella più nera disperazione, e le correnti sciovinistiche ne appro­fittarono per intensificare la campagna antidemocratica e per ad­ditare al pubblico disprezzo i «criminali di novembre», cioè coloro che, firmando l'armistizio nel novembre 1918, avevano consegnato la Germania al saccheggio dei vincitori. In realtà i governi del do­poguerra scontavano disastri provocati dalla vecchia classe diri­gente, e l'armistizio era stato firmato in condizioni di assoluta ne­cessità, ma questi slogan demagogico-reazionari avevano facile pre­sa sulle popolazioni esasperate.


Fra i movimenti sciovinisti cominciarono allora a  farsi strada i nazionalsocialisti di Adolf Hitler, di ispirazione simile a quella del fascismo italiano, dal quale peraltro si distinguevano per l'ideologia razzista antisemita, professata fin dalle origini, che blandiva i peggiori istinti del piccolo-borghese te­desco, tanto più disposto ad accogliere il «verbo» nazista quanto maggiori diventavano le sue sofferenze.

L'inflazione vanificava in un lampo i risparmi accumulati in anni di lavoro tenace, la disoc­cupazione e la miseria incombevano, le virtù tradizionali del picco­lo-borghese (previdenza, costumatezza, rispetto dei propri obblighi sociali) erano svalutate e vilipese: in questa tragica situazione, la piccola borghesia, incapace di cogliere le vere cause della propria rovina, la imputava agli Ebrei, e trovava nell'antisemitismo nazista uno sfogo al groviglio dei risentimenti accumulati.

Di fronte all'impossibilità di sostenere ulteriormente represse le spese della resistenza nella Ruhr, il governo tede­sco ne proclamò la completa cessazione il 26 settembre 1923, pro­vocando le più roventi proteste dei nazionalisti, mentre anche il Partito Comunista Tedesco, sostenuto dal Komintern, riprendeva il progetto di un'iniziativa rivoluzionaria, giudicando che la situazio­ne fosse favorevole. In realtà, i tentativi insurrezionali comunisti ad Amburgo e in Sassonia furono rapidamente stroncati, o addirit­tura prevenuti, dal Reichswehr (fine ottobre 1923), e sorte analoga incontrò una ribellione nazista tentata pochi giorni dopo a Monaco di Baviera (8-9 novembre), che costò a Hitler oltre un anno di pri­gione.

La rovinosa inflazione del marco, l'instabilità. politi­ca, la questione delle riparazioni, giunta a un punto morto con la fallimentare occupazione franco-belga della Ruhr, consentirono ora agli Stati Uniti di intervenire col loro peso deter­minante nei problemi dell'Europa centrale, cui essi erano d'altra parte direttamente interessati, perché la Francia dichiarava di non poter pagare i propri debiti di guerra, se i Tedeschi non avessero a loro volta pagate le riparazioni.

In questa prospettiva il finanziere statunitense Charles G. Dawes mise a punto un piano di ricostru­zione dell'economia tedesca, o meglio «una manovra finanziaria con cui l'America mise la Germania in condizione di pagare i debi­ti verso gli Alleati, affinché questi saldassero i propri con l'Ameri­ca» (Rohan Butler).


Il piano Dawes ebbe effettiva attuazione a partire 1 dall'agosto 1924. Secondo quanto esso prevedeva, i Francesi sgombrarono la Ruhr; la Banca Centrale Tedesca (Reichs­bank) fu sottoposta alla sorveglianza degli Alleati e affidata alla di­rezione dell'economista tedesco Hjalmar Schacht, severo custode della stabilità del nuovo marco, da conservare ad ogni costo (ossia a costo di una feroce stretta creditizia che moltiplicò il numero dei fallimenti industriali); un prestito di 800 milioni di marchi oro ven­ne offerto dagli Stati Uniti come base di partenza del nuovo corso economico, e negli anni successivi affluirono dall'Inghilterra e dal­l'America anche numerosissimi prestiti privati a breve termine e ad alto saggio di interesse.

Le riparazioni - stabiliva il piano - sa­rebbero state pagate dalla Germania a rate annuali crescenti, e la progettata ripresa economica avrebbe permesso ai Tedeschi di sal­dare il debito.

La ripresa doveva però essere orientata in modo tale da facilitare il pagamento delle riparazioni. P

ertanto essa non doveva fondarsi sul rilancio dell'industria pesante ad alto contenuto tecnologico e ad alta intensità di capitale, quanto piutto­sto sull'industria leggera e sul «razionale» sfruttamento degli im­pianti (intendendosi per «razionale» il massimo di utilizzazione unito al minimo possibile di spese per il rinnovamento).

Naturalmente, perché il piano andasse a buon fine, occorreva che le leve della produzione fossero nelle mani di poche persone, concordi con la linea che lo ispirava; e per ottenere questo risultato - distrutta dall'occupazione della Ruhr e dalla stretta creditizia la potenza del vecchio «partito dell'industria pesante» - si facilitava  la formazione di nuovi enormi trust, destinati nel volgere di pochi anni a diventare i maggiori finanziatori del nazismo hitleriano.

Quest'ultima conseguenza, per la verità, non era af­fatto nei propositi del piano e si manifestò soprattut­to quando la crisi del 1929 costrinse i finanzieri an­glo-americani a ritirare i loro prestiti e sottrasse pertanto la Germa­nia al loro controllo


Il «miracolo economico» tedesco degli anni del piano Dawes (1924-1929) crollò allora come un castello di carta, appunto perché, a nostro avviso, la vantata «ricostruzione» dell'economia germanica era stata in realtà fin dall'inizio più si­mile a uno sfruttamento semicoloniale della Germania che a una reale espansione delle sue capacità produttive.







L'avvento del nazismo



All'artificiosa ripresa economica tedesca determinata dal piano Dawes corrispose una stabilizzazione politica della Repubblica an­che più artificiosa ed evanescente.

Nell'aprile del 1925, morto il presidente Friedrich Ebert, fu eletto a succedergli il generale Hindenburg, tipico e autorevole rappre­sentante del più genuino militarismo prussiano.

Nel succedersi dei governi, sempre più dominati da partiti di destra, rimase costantemente agli esteri, dal 1924 fino alla morte (ottobre del 1929), Gustav Stresemann, de­ciso sostenitore del piano Dawes e della reinserzione pacifica della Germania nel contesto delle potenze occidentali. In questa prospet­tiva egli promosse, d'intesa col ministro degli esteri francese Aristi­de Briand, gli accordi di Locarno (1 dicembre 1925), che impegna­vano Germania, Francia e Belgio a mantenere lo status quo sul Re­no, confermavano la smilitarizzazione della Renania e prevedeva­no l'ingresso della Germania nella Società delle Nazioni, effettiva­mente attuato nel settembre del 1926. L'Inghilterra e l'Italia facevano da garanti del rispetto di tali impegni.

L'attività diplomatica della Germania sembrava dun­que rivolta alla pace, ma nello stesso tempo all'inter­no del paese si rafforzavano le organizzazioni pa­ramilitari di estrema destra, come lo Stalhelm (Elmo d'acciaio) o come le S.A. (Sturm-Abteilung =Sezioni d'assalto) naziste.

La magi­stratura, severa nel punire le violazioni della legge commesse dai comunisti, tendeva ad assolvere o a punire con pene irrisorie le violenze dei nazionalisti. L'esercito, ridotto di numero ma perfetta­mente efficiente, si considerava come uno stato nello stato, sgan­ciato dalle istituzioni, delle quali avrebbe potuto decidere la rovina anche semplicemente rifiutandosi di intervenire in loro difesa.

Hindenburg, anziché svolgere la funzione di mediatore e di mode­ratore che gli competeva, favoreggiava apertamente gli schiera­menti di destra.

La Repubblica di Weimar, insomma, sostenuta sin­ceramente dai soli socialdemocratici (peraltro incapaci di risolver­ne i problemi sociali ed economici fondamentali, e logorati dal vio­lento contrasto con i comunisti), veniva a ragione definita, secondo un'espressione corrente, «una repubblica senza repubblicani».

A1 rapido deterioramento della democrazia in Germania corrisponde d'altra parte la diffusione di regimi parafascisti in Spagna (1923), in Portogallo, in Polonia e in Lituania (1926) e in Iugoslavia (1929).


Con la crisi del 1929 e col conseguente crollo dell'e­conomia tedesca si creano alla fine le condizioni perché il nazismo, già largamente affermatosi, si imponga come forza dominante.


Fra il 1930 e il 1932 la produzione industriale ger­manica, non più sostenuta dai crediti stranieri, diminuisce del 50% circa; la disoccupazione si estende a più di sei milioni di lavoratori; i salari calano del 10% e più, mentre i prezzi al consumo salgono di circa il 60%, sicché i salari reali risultano quasi dimezzati.

La Germania, che il piano Dawes pretendeva d'averricostruita, è ancora una volta ridotta alla dispera­zione, e la sfiducia nelle istituzioni e nei partiti tradizionali si in­sinua non solo nella piccola borghesia, ma anche tra le file del proletariato.

I nazisti, appoggiati e finanziati dai grandi trust, han­no quindi buon gioco nel presentarsi demagogicamente all'opinio­ne pubblica come gli unici autentici rappresentanti del popolo te­desco.

Esperti nelle moderne tecniche di mobilitazione e di mano­vra delle masse e spesso dominatori delle piazze, grazie alle loro bande paramilitari, essi subentrano progressivamente ai vecchi partiti della conservazione e nello stesso tempo fanno breccia an­che presso l'elettorato popolare.

Nelle elezioni per il Reichstag del settembre 1930 i nazisti otten­gono 6 400 000 voti e 107 seggi, contro il milierne di voti e i 12 seggi conseguiti nel 1928: essi sono ormai secondi solo alla socialdemo­crazia, che, pur conservando la maggioranza relativa con 8 580 000 voti e 143 seggi, subisce una netta flessione.

Nell'aprile del 1932 si svolgono le nuove elezioni presidenziali, e i candidati più importanti sono Hindenburg e Hitler, cioè due di­versi esponenti delle stesse tendenze reazionarie e nazionalistiche. Ciò nondimeno la situazione della Repubblica è cosi disperata che i socialdemocratici accettano l'improponibile alternativa e, rinun­ciando a presentare un loro candidato, concentrano i voti su Hin­denburg, che viene eletto con 19 milioni di voti, contro i 13 milioni riportati da Hitler.

La moderazione e la rinuncia dei socialdemocratici non servono però a salvare le istituzioni: infatti - dopo che nelle elezioni parlamentari del luglio 1932 i nazisti hanno ottenuto più di 13 milioni di voti e 230 seggi, conseguendo nel Rei­chstag la maggioranza relativa - Hindenburg, il 30 gennaio del 1933, chiama Hitler a presiedere un governo di coalizione con al­tre forze della destra nazionalistica (i cui esponenti verranno peral­tro allontanati dal potere nel corso dello stesso 1933).

Quindi, perché lo stesso Reichstag abbia una composizione an­che più corrispondente ai nuovi rapporti di forza stabilitisi coll'a­scesa di Hitler al potere, Hindenburg lo scioglie anticipatamente e indice nuove elezioni per il 5 marzo 1933.

I metodi usati dai nazisti durante la campagna elet­torale furono tali da far impallidire le violenze fasci­ste del 1924: la polizia, ulteriormente nazificata con l'immissione di nuove leve reclutate fra le bande di Hitler, fu largamente usata per reprimere l'opposizione, e il 27 febbraio fu inscenato a Berlino l'incendio del palazzo del Reichstag per farne ricadere la respon­sabilità sui comunisti, subito imprigionati a migliaia mentre un'ondata di violenze si abbatteva su tutti gli avversari del nazi­smo. In queste condizioni, fu titolo di onore per il popolo tedesco il fatto che i nazisti non riuscirono a conquistare più di 17 milioni di  voti, mentre ancora i socialdemocratici ne ottennero 7 milioni, i co­munisti 5, il Centro cattolico quasi 4 e mezzo.

I nazisti comunque, coll'appoggio dei nazionalisti, avevano ormai al Reichstag la maggioranza assoluta e, in ogni caso, erano ben decisi a conservare il potere con qualsia­si mezzo.

Sciolti o costretti ad autosciogliersi gli altri partiti, tolti di mezzo i sindacati, il 14 luglio del 1933 il governo, che già si era fatto attribuire dal Reichstag i pieni poteri, emise una legge che ri­conosceva diritto di esistenza al solo «Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori».

L'erezione del nazismo a regime fu perfezionata con la morte di Hindenburg (2 agosto del 1934), che consenti a Hitler di farsi pro­clamare anche capo dello Stato. Il discepolo ideale di Mussolini, più rapido e brutale del maestro, s'impose pertanto in brevissimo tempo come indiscusso Führer (duce) del Reich tedesco.


Del resto, nonostante la sostanziale affinità col fasci­smo italiano, il nazismo tedesco - enormemente più pericoloso perché affermatosi in un paese dotato di grandi ri­sorse produttive e demografiche - presenta alcuni caratteri speci­fici che non devono essere sottovalutati:

l'alone di pseudo-mistici­smo che circonda il Führer è qualche cosa di ben più tragico dell'e­saltazione ufficiale italiana del «duce»;

il totalitarismo fascista scal­fisce ma non distrugge i valori della tradizione cristiana, mentre il nazismo propugna un neo-paganesimo, fondato sul mito del san­gue e della razza, per il quale il Tedesco, considerato come un es­sere biologicamente superiore, dovrà subordinare a sé, ridurre in schiavitù o sterminare tutte le altre razze «inferiori»;

il fascismo non rifiuta completamente la tradizione umanistica, anzi la esalta, per quanto solo verbalmente e retoricamente, mentre il nazismo delira di una nuova scienza e di una nuova cultura tedesca, che dovrebbe ripu­diare ogni valore di ragione e contrapporsi alla tradizione «liberale e giudaica».





Il Nazismo di fronte all'Europa



Con l'ascesa di Hitler al potere la guerra s'accampa­va nel cuore dell'Europa. Malgrado le iniziali dichia­razioni del Führer, rivolte a tranquillizzare i governi occidentali per prendere tempo, le sue intenzioni risultavano evidenti, oltre che dai programmi del partito, dalle sue prime mosse nella politica estera: l'abbandono già nell'ottobre del 1933 di una Conferenza in­ternazionale per il disarmo, allora in corso, e l'uscita della Germa­nia dalla Società delle Nazioni.

Per giunta, il superamento della cri­si economica e il riassorbimento della disoccupazione vennero per­seguiti dal nazismo mediante un massiccio e progressivo rilancio della produzione bellica, al fine dichiarato di preparare la Germa­nia a smantellare con la forza delle armi le clausole del trattato di Versailles e a conquistarsi un adeguato «spazio vitale».


La Francia e l'Inghilterra - già cosi esose nei con­fronti della Germania democratica - si dimostra­rono invece più che remissive di fronte all'evidente aggressività nazista. Questo atteggiamento si spiega solo con la convinzione, largamente diffusa nelle classi dirigenti, che il nazismo fosse, co­munque, un solido baluardo contro il bolscevismo, se non addirittu­ra un'arma da scagliare a tempo opportuno contro la Russia sovie­tica.


D'altra parte la «condiscendenza» inglese e francese nei con­fronti del nazismo nasceva a sua volta dalla crisi interna dei due paesi, nei quali - benché le istituzioni liberal-democratiche riuscissero a resistere al dilagare del fascismo - la vita politica subi una netta involuzione.


In Inghilterra il Partito laburista - fondato nel 1905 con l'appoggio delle Trade Unions - subentrò ai liberali, come antagonista dei conservatori, a partire dalle elezio­ni parlamentari dell'ottobre 1924. Il nuovo «bipartitismo» che cosi si affermò - fondato sulla dialettica conservatori-laburisti, più adeguata alle esigenze di una moderna società industriale - non riusci però a modificare profondamente i rapporti di classe. I conservatori, forti della maggioranza conquistata nel 1924, rispo­sero alle vaste agitazioni proletarie del 1926 con una legislazione fortemente restrittiva del diritto di sciopero; ma anche quando i la­buristi, riusciti vincitori nelle elezioni del maggio 1929, ottennero la presidenza del Consiglio, perseguirono una politica di risanamento della crisi econo­mica mediante riduzione dei salari, che non si discostava sostan­zialmente da quella dei conservatori.

Dal 1935 sino all'inizio della seconda guerra mondiale la presi­denza del Consiglio tornò ai conservatori, i cui cedimenti alle ag­gressioni naziste avremo modo di esaminare più avanti.



Anche in Francia, dalla fine della guerra sino al  1936, prevalsero nettamente le forze più moderate, salvo brevi periodi durante i quali il governo passò ai radicali, di­mostratisi peraltro del tutto incapaci di operare una reale svolta po­litica. Negli anni Trenta, caratterizzati da una forte instabilità poli­tica e da un calo rilevante della produzione industriale, gruppi di estrema destra come la Croix de feu o l'Action française puntarono addirittura all'eliminazione della democrazia parlamentare e al­l'instaurazione di un regime autoritario. Un loro tentativo insurre­zionale fu peraltro stroncato energicamente dalla polizia e dall'e­sercito (febbraio 1934), e anzi provocò per reazione l'accordo delle sinistre (comunisti, socialisti e radicali) per la costituzione di un Fronte popolare: e il Fronte riportò una netta vittoria nelle elezioni dell'aprile-maggio 1936.

Conseguentemente, si formò un governo di coali­zione radical-socialista, presieduto dal leader so­cialista Léon Blum e appoggiato dall'esterno dai co­munisti, che s'impegnò in un'efficace attività riformatrice in favore dei lavoratori. Ne seguirono però massicce fughe di capitali all'e­stero e un forte calo negli investimenti, con conseguenze economi­che tali che  Blum dovette dimettersi (giugno 1937), e i successivi governi, presieduti da esponenti del partito radicale, ridimensiona­rono drasticamente le riforme da poco attuate.

Nella politica estera, del resto, neppure  Blum aveva potuto sot­trarsi alle pressioni del capitale francese e del governo inglese e, come vedremo, aveva dovuto abbandonare la vicina repubblica spagnola alla reazione falangista, concretamente appoggiata sul piano militare dal nazismo tedesco e dal fascismo italiano.






Lettura: I «25 punti» del programma nazista


Questi «25 punti» del programma nazista originario furono letti da Adolf Hitler in una riunione pubblica a Monaco il 24 febbraio 1920.

Sette di essi (cioè i punti 4, 5, 6, 7, 8, 23, 24) si riferi­scono in tutto o in parte, direttamente o indirettamente, al problema della razza, la cui importanza oggettiva nella Germania del 1920 - anche a voler concedere che un simile problema possa mai imporsi come tale - la­sciamo giudicare al lettore.

Ma l'abilità del programma stava appunto nella sua attitudine a suscitare emozioni profonde, legate agli istinti ancestrali della difesa di gruppo e disgiunte da qualsiasi contenuto critico concreto: com'è dimostrato dall'analisi delle numerose enunciazioni che risultano ovvie o assolutamente generiche. Si veda, per esempio, la conclusione del punto 6, che stigmatizza l'attribuzio­ne di cariche «in base a considerazioni di partito, senza tener conto del carattere e delle capacità»; o l'inizio del punto 10, che dichiara «Primo dovere di ogni cittadino dello Stato quello di produrre, spiritualmente e mate­rialmente»; o il punto 18, che chiede «la lotta a fondo contro coloro che esplicano attività dannose per l'inte­resse della comunità», invocando sbrigativamente con­tro di essi la pena capitale. Come se fossero concepibili partiti che chiedano apertamente di ignorare le capacità personali nell'attribuzione delle cariche, che consiglino l'ozio collettivo, che propongano premi per i parassiti della società.

Arriviamo cosi all'allucinante punto 19, che vuole la sostituzione del diritto romano, «che serve il mondo ma­terialistico», con un non meglio definito «diritto comune germanico».

Eppure queste vacuità demagogiche, violente e peren­torie - unite a promesse più precise, se pur irrealizzabi­li, come quelle del punto 16 - erano perfettamente stu­diate per corrompere il proletariato e per far breccia nella mezza cultura, nei risentimenti, nel candido ideali­smo del piccolo-borghese tedesco.


Noi chiediamo la riunione di tutti i Tedeschi in una Grande Germania, in base al diritto di autodeci­sione dei popoli.

Noi ,chiediamo la parità di diritto del popolo tede­sco di fronte alle altre nazioni, nonché l'abolizione dei trattati di pace di Versailles e di San Germano.

Noi chiediamo terra e suolo (colonie) per nutrire il nostro popolo e per insediarvi la nostra eccedenza di popolazione.

Può essere cittadino dello Stato solo chi sia conna­zionale. Può essere connazionale solo chi sia di san­gue tedesco, senza riguardo alla sua religione. Nessun ebreo può quindi essere connazionale.

Chi non è cittadino dello Stato deve poter vivere in Germania solo in veste di ospite e deve sottostare al­la legislazione che regola il soggiorno degli stranieri.

Il diritto di influire sulla condotta e sulle leggi del­lo Stato può spettare solo al cittadino dello Stato. Per questo noi chiediamo che tutte le cariche pubbliche di qualsiasi genere, cioè del Reich, dei Lànder o dei co­muni, possano venir occupate solo da cittadini dello Stato. Noi lottiamo contro il parlamentarismo corrut­tore, contro l'attribuzione di cariche in base a conside­razioni di partito, senza tener conto del carattere e del­le capacità.

Noi chiediamo che lo Stato si impegni ad aver cu­ra in primo luogo di assicurare lavoro e possibilità di esistenza ai cittadini dello Stato. Qualora non sia pos­sibile nutrire la popolazione dello Stato, gli apparte­nenti ad altre nazionalità (cioè coloro che non sono cittadini dello Stato) dovranno venir espulsi dal Reich.

Si dovrà impedire ogni nuova immigrazione di non-tedeschi. Noi chiediamo che tutti i non-tedeschi che sono immigrati in Germania dopo il 2 agosto 1914 vengano costretti a lasciare immediatamente il Reich.

Tutti i cittadini dello Stato devono possedere eguali diritti ed eguali doveri.

Primo dovere di ogni cittadino dello Stato deve es­sere quello di produrre, spiritualmente e materialmen­te. L'attività del singolo non deve urtare contro gli in­teressi della comunità, ma deve applicarsi nel quadro della collettività e per il bene di tutti.



Per questo noi chiediamo:

Abolizione del reddito ottenuto senza lavoro e sen­za fatica. Abolizione della schiavitù dei prestiti ad in­teresse.

Considerando l'immane sacrificio di beni e di san­gue che ogni guerra chiede al popolo, l'arricchimento personale per mezzo della guerra deve venir dichiara­to delitto contro il popolo. Noi chiediamo quindi la confisca integrale di tutti i profitti di guerra.

Noi chiediamo la statizzazione di tutte le imprese associate (trusts) esistenti.

Noi chiediamo la partecipazione agli utili nelle grandi imprese.

Noi chiediamo una completa riforma delle previ­denze per la vecchiaia.

Noi chiediamo che venga creata e conservata una sana classe media; che i grandi magazzini vengano su­bito comunizzati ed affittati a basso prezzo a piccoli commercianti; che si aiutino tutti i piccoli commer­cianti mediante le forniture allo Stato, ai Lànder e ai comuni.

Noi chiediamo una riforma fondiaria adatta ai no­stri bisogni nazionali, l'emanazione di una legge per l'espropriazione del suolo senza indennizzo per fini di pubblica Utilità 2, l'abolizione dell'interesse fondiario e il divieto di ogni speculazione sui terreni.

Noi chiediamo la lotta a fondo contro coloro che esplicano attività dannose per l'interesse della comu­nità. Coloro che commettono delitti contro il popolo, gli usurai, i profittatori ecc., devono essere condannati a morte, senza distinzione di confessione o di casta.

Noi chiediamo che il diritto romano, che serve il mondo materialistico, venga sostituito da un diritto comune germanico.

Lo Stato deve provvedere a una radicale riforma di tutto il nostro sistema di istruzione popolare, al fine di permettere ad ogni Tedesco capace ed attivo di rag­giungere un'istruzione superiore e quindi di salire a posti direttivi. I programmi di studio di tutti gli istituti scolastici devono conformarsi ai bisogni della vita pra­tica. La comprensione del concetto di Stato deve venir diffusa dalla scuola (istruzione civica) non appena in­comincia ad aprirsi l'intelligenza del fanciullo. Noi chiediamo che i figli dei genitori poveri, dotati di par­ticolare intelligenza, vengano educati a spese dello Stato, senza aver riguardo alla posizione sociale o alla professione dei genitori.

Lo Stato deve provvedere a migliorare la salute pubblica, proteggendo la madre e il fanciullo, vietando il lavoro giovanile, rafforzando la prestanza fisica me­diante l'istituzione di ginnastica e sport obbligatori, dando il massimo appoggio a tutte le associazioni che si occupano dell'educazione fisica della gioventù.

Noi chiediamo che venga abolito l'esercito di me­stiere e che venga formato un esercito di popolo.

Noi chiediamo la lotta legale contro le menzogne politiche consapevoli e contro la loro diffusione a mezzo della stampa. Per rendere possibile la creazione di una stampa tedesca, noi chiediamo:

a)      che tutti i redattori e collaboratori di giornali pubblicati in lingua tedesca debbano essere connazio­nali;

b)      che i giornali non tedeschi debbano ottenere, per essere pubblicati, un'espressa autorizzazione dello Stato; e che non possano venir stampati in lingua tede­sca;

c)      che ogni partecipazione o influenza finanziaria su giornali tedeschi da parte di non Tedeschi venga vietata legalmente, e che la violazione di questa norma venga punita con la chiusura del giornale e con l'im­mediata espulsione dal Reich delle persone non tede­sche implicate. I giornali che contrastano con l'inte­resse della comunità devono essere vietati. Noi chie­diamo la lotta legale contro organizzazioni artistiche e letterarie che esercitano un influsso disgregatore sulla nostra vita nazionale, e chiediamo la chiusura delle istituzioni che violano i principi sopra esposti.

Noi chiediamo la libertà di tutte le confessioni re­ligiose entro lo Stato, in quanto esse non minaccino la sua esistenza o non urtino contro la coscienza morale della razza germanica. Il Partito, come tale, difende la concezione di un cristianesimo positivo 3, senza legar­si confessionalmente ad una determinata fede. Esso lotta contro lo spirito ebraico-materialista entro di noi e fuori di noi, ed è convinto che un durevole risana­mento del nostro popolo può avvenire soltanto dall'in­terno, sulla base del principio: l'interesse comune de­ve prevalere sull'interesse privato.

  1. Per attuare tutto questo noi chiediamo che venga creato un forte potere centrale del Reich. Incondizio­nata autorità del Parlamento politico centrale su tutto il Reich e sui suoi uffici in genere. Creazione di came­re sindacali e professionali per l'esecuzione nei singoli Länder delle leggi generali emanate dal Reich.

I Capi del Partito promettono di lottare a fondo, se ne­cessario esponendo la propria vita, per l'attuazione di questi punti.



(in B. Pagani e S. Pozzani, La Germania nel dopoguerra (1918­1938), Milano, LS.P.L, 1938)






La "Lega di Spartaco" o Spartacusbund, organizzata da Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg è una frazione dei socialisti che si muove in direzione bolscevica, tentando di derivare, dal fallimento della vecchia classe dirigente tedesca, una rivoluzione proletaria.

È il giorno in cui la Germania aveva dichiarato guerra alla Francia.


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