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Le origini della società e dello Stato




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Le origini della società e dello Stato




Patrick Pharo: la civilizzazione prima della legge


Secondo Patrick Pharo, come si è già in parte visto fino da ora, la civilizzazione di un (gruppo umano (?)) (il legame civile?) viene prima della legge. (riprendere la teoria degli atti civili prima si forma il legame tra più persone e poi questo rapporto viene "normato"


2. "Il Nomos della terra". Carl Schmitt e il diritto prima dello stato. Per Carl Schmitt viene prima il diritto e poi su questo si fonda lo stato. Per alcuni aspetti questa posizione può sembrare antitetica a quella di Pharo ma non lo è totalmente (bisogna vedere se il "legame civile" viene messo prima del diritto oppure se si può identificare in qualche modo con l'origine dello stato (questo è da vedere bene))

Carl Scmitt è stato un giurista che ha esercitato le sue influenze anche nel canpo delle scienze sociali. E' stato un personaggio molto contestato anche a causa della sua particolare storia personale che lo ha visto aderire al Nazismo e passare indenne dagli anni convulsi della seconda guerra mondiale.

Tra i pensatori sostenitori del regime nazista, instaurato nel 1933, uno dei più importanti fu Carl Schmitt (1888-1985), teorico della politica e del diritto. Nato da famiglia cattolica in Renania, compiuti gli studi di legge, insegnò dopo la guerra nelle università di Greifswald e Bonn e nel 1928 ottenne la cattedra di Diritto nella scuola di specializzazione in amministrazione commerciale di Berlino, dove strinse amicizia con Jünger; nel 1933 si iscrisse al Partito nazionalsocialista, fu nominato consigliere di Stato prussiano e ottenne la cattedra di Diritto pubblico a Berlino. Dopo il massacro delle SA del 1934, egli si tenne un po' in disparte dal regime, in quanto il gruppo che faceva capo a Rosemberg non approvava il primato da lui accordato allo Stato rispetto al popolo e al partito. Egli difese, però, le leggi che nel 1935 sopprimevano i diritti civili degli ebrei e accentuò il suo antisemitismo, così come in seguito giustificherà e glorificherà la guerra e le vittorie di Hitler. Nel 1945 fu arrestato dagli alleati, venne internato in un campo e nel 1947 fu indiziato per crimini di guerra nel processo di Norimberga, dove si difese sostenendo che i suoi scritti erano soltanto analisi teoriche. Una volta rilasciato, si ritirò a vita privata a Plettemberg, sua città natale, dove trascorse i suoi ultimi anni di vita. In uno dei suoi primi scritti, Il valore dello Stato e il significato dell'individuo (1914), Schmitt muove una critica alla civiltà moderna, priva di anima e ossessionata dalla ricerca della sicurezza e del benessere materiale; egli non condivide, però, la concezione dell'austriaco Othmar Spann (1878-1950) di uno Stato organico, articolato in corporazioni esprimenti la strutturazione gerarchica della società in ceti. L'esperienza dell'emanazione di leggi marziali durante la guerra fa maturare in lui l'idea che non sono scopi morali, ma i pericoli concreti a determinare l'azione dello Stato. In tutto il corso della sua opera, Schmitt si mantiene fedele al principio dell'obbedienza dovuta all'autorità legalmente costituita: il concetto centrale del suo pensiero è sempre quello di Stato, concepito come entità politica sovrana, con la quale si identifica il popolo. E' per questo che lo studio dello Stato non può essere affrontato in termini meramente formali, come pretendeva, ad esempio, Kelsen; bisogna, invece, partire dalle situazioni concrete, tenendo conto dei mutamenti politici e sociali; in questo senso Schmitt è favorevole all'utilizzazione di indagini sociologiche e di scienza politica nell'ambito della riflessione giuridica. Il problema essenziale consiste nel garantire la sicurezza dello Stato e la perseverazione dell'ordine costituzionale esistente: è per questo che il pensiero politico si Schmitt è conservatore e non rivoluzionario. Il momento fondamentale affiora nel caso in cui l'ordine e l'esistenza dello Stato sono messi in pericolo. Gli interrogativi diventano allora: entro quali limiti è lecito sospendere la legge costituzionale per fra fronte a tale pericolo e chi ha il potere di decidere questa sospensione? Ad essi, Schmitt, prova a rispondere attraverso vari scritti, in particolare con La dittatura (1921) e Teologia politica (1922). L'esperienza sovietica mostra che l'instaurazione di una dittatura può modificare l'ordine esistente e, quindi, essere rivoluzionaria; Schmitt distingue, invece, fra misure temporanee e leggi permanenti e considera lecita una dittatura soltanto in quanto misura temporanea ed eccezionale, volta a ristabilire l'ordine e la sicurezza e, quindi, a difendere la costituzione in vigore. Se, infatti, queste misure transitorie si trasformano in leggi, si dissolve lo Stato di diritto esistente. Ma chi decide che ci si trova in una condizione di eccezione, nella quale lo Stato è in pericolo e servono misure per contrastarlo? Le norme non possono decidere quando esiste questa situazione né sono in grado di affrontarla, prevedendo in anticipo le misure da prendere di fronte a condizioni eccezionali e cangevoli; al massimo, la costituzione può indicare chi assume in questi casi l'autorità legale, cioè chi è sovrano e può dichiarare lo stato di eccezione e istituire la dittatura per risolvere la crisi. La conclusione a cui perviene l'analisi di Schmitt è, quindi, la tesi che la sovranità risiede in chi possiede l'autorità e il potere di decidere lo stato di eccezione . Il sistema politico non può fondersi soltanto su una norma giuridica fondamentale o su procedure tecniche di governo; è necessaria , invece, un'autorità che decida e garantisca la legalità. Queste decisioni non possono scaturire dalla discussione pubblica nel consesso parlamentare: la debolezza e l'instabilità dei governi, espressi da regime parlamentare nella repubblica di Weimar, appaiono a Schmitt una conferma della sua diagnosi. Senza un'autorità sovrana in grado di decidere che cos'è giusto in un caso particolare, esiste soltanto una lotta di gruppi, che combattono ognuno in nome della giustizia e dell'ordine. Questi appelli, come quelli ai diritti naturali alla ragione, sono soltanto mezzi con i quali questi gruppi giustificano la propria posizione e diffamano gli avversari. Fermamente convinto dell'inefficacia di fattori morali nella politica, Schmitt inclina sempre più verso una forma di realismo politico, ispirato anche al pensiero di Hobbes. Sullo sfondo c'è una concezione pessimistica della natura umana : la politica non sarebbe necessaria tra uomini buoni. Ogni teoria politica presuppone, secondo Schmitt, che l'uomo sia un essere pericoloso e che caratteristica fondamentale della politica sia l'inimicizia. In uno scritto del 1927, intitolato Il concetto politico , egli scorge nella distinzione amico-nemico la distinzione specifica: il politico rappresenta l'antagonismo più estremo. Il nemico non è colui con il quale si è in concorrenza sul piano economico o verso il quale si prova avversione e odio personale: nemico è solo quello pubblico, cosicchè la distinzione amico-nemico indica solo ' l'estremo grado di intensità di un'associazione o dissociazione '. Nemico politico è l'altro, lo straniero, con il quale possono insorgere conflitti, ma questo non vuol dire che la sfera del politico coincida con la guerra: questa può essere una conseguenza dell'inimicizia, ma non ne è né lo scopo né il contenuto, tanto è vero che in determinati casi può essere più 'politico' evitarla. Lo Stato è l'entità politica decisiva, perché solo ad esso appartiene lo jus belli : solo esso può determinare il nemico, promuovere la guerra e richiedere ai suoi membri il sacrificio estremo. In quanto tale, lo Stato è superiore a ogni altra entità politica o sociale, cosicchè classi o gruppi sociali antagonistici, partiti e associazioni possono esistere finchè non mettono in pericolo l'ordine legale e politico stabilito. La funzione primaria dello Stato, dunque, non si esprime nel fare la guerra o nel controllare la vita privata dei cittadini, ma nello stabilire l'ordine e la sicurezza: in casi estremi, esso può decidere qual è il nemico interno, cioè dichiarare tale il gruppo che minaccia l'esistenza dello Stato stesso. Quando il contrasto interno amico-nemico si trasforma in un conflitto armato fra gruppi, allora lo Stato non è più l'entità politica decisiva e ne segue la guerra civile, nella quale ogni gruppo fa valere una propria distinzione amico-nemico. Un mondo da cui fosse esclusa la possibilità della guerra esterna o della guerra civile, sarebbe privo della distinzione amico-nemico e, quindi, della dimensione del 'politico'. Sulla base di questi presupposti, Schmitt affronta in vari scritti, come ad esempio la Dottrina della costituzione (1928), Il custode della costituzione (1931) e Legalità e legittimità (1932), il problema della costituzione . La costituzione è più di un insieme di leggi, in quanto determina la forma specifica dell'ordinamento politico, che può essere monarchico o democratico o comunista: nessuna costituzione, infatti, può essere neutrale rispetto ai principi e ai valori che essa rappresenta e che possono essere la democrazie o la proprietà privata o la libertà religiosa e così via. La costituzione dunque, non deriva da una normatività legale, ma dalla decisione politica di quelli che detengono il potere garantito costituzionalmente. La costituzione è inviolabile : neppure una maggioranza legale ha l'autorità per trasformarla in un nuovo tipo di ordinamento politico. Bisogna dunque che esista una forza neutrale al di sopra della molteplicità degli interessi antagonistici, la quale rappresenti la totalità del popolo tedesco e sia custode e garante della costituzione: essa deve essere un'autorità politica, che Schmitt identifica con il presidente della repubblica, nominato direttamente dal popolo e, perciò, indipendente da deboli maggioranze parlamentari e dotato del potere di sciogliere il parlamento e di indire nuove elezioni. Una costituzione non deve mai offrire i mezzi legali per la propria distruzione, cosicchè il concetto di uguale possibilità per i partiti politici di acquisire legalmente il potere ha senso soltanto se quei partiti accettano la legittimità della costituzione. Altrimenti un partito anticostituzionale, una volta conquistato legalmente il potere attraverso libere elezioni, potrebbe usare la sua autorità legale per abbattere la costituzione. Se si vuole evitare questo, è necessario che al presidente spetti decidere quali gruppi o partiti politici non devono usufruire del principio dell'uguale possibilità di acquistare legalmente il potere; in tal modo, egli è il vero garante della costituzione. In opposizione a Kelsen, col quale fu in aperta polemica, Schmitt è convinto che la teoria del diritto come "norma" non sia una teoria davvero originaria, giacché il normativismo implica già l'esistenza di norme poste in essere da un'autorità, la quale secondo Schmitt impone le norme facendo valere la propria volontà sotto forma di decisione (di qui il termine "decisionismo", così caro a Schmitt). Per Schmitt, il punto di forza del decisionismo risiede nell'essere il momento di congiuntura tra l'elemento giuridico e quello politico, tra la volontà che pone ordine al caos e la ragione giuridica che conferisce una forma a tale ordine. Quest'ultimo è il prodotto di un'energia che mette ordine e che poi si cristallizza in una forma. L'esempio classico del decisionismo che Schmitt adduce è quello di Thomas Hobbes, autore nel quale il passaggio dal caos all'ordine è lampante, e vi è una teorizzazione della sovranità, di quella nozione centrale nella dottrina moderna dello Stato da Jean Bodin in avanti. La nozione di sovranità è cardinale per il decisionismo, giacché nulla più di essa mette in luce il carattere originario del decisionismo, l'idea che la legge scaturisca dalla decisione. Nel suo già citato scritto intitolato Teologia politica, Schmitt dà una definizione di sovranità destinata a godere di grande fortuna: "sovrano è chi decide sullo stato di eccezione". In quest'ottica, la sovranità non è soltanto la summa potestas che si esercita in condizioni normali, ma è un potere originario, è il momento nel quale si rivela la vera origine del potere. Nello stato d'eccezione, vale a dire nel conflitto (in caso di minaccia dall'esterno o in caso di guerra civile all'interno dello Stato), quando cioè si prospetta la minaccia di sopravvivenza per il collettivo, diventa possibile identificare chi è il sovrano, colui il quale decide sullo stato di eccezione. Il sovrano è colui il quale identifica i soggetti che connotano tale stato di eccezione e prende posizione a favore dell'uno e contro l'altro: in altri termini, egli sceglie chi è amico e chi è nemico. Infatti, come abbiamo visto, a partire dal saggio su Il concetto del politico Schmitt è convinto che l'essenza del politico - in netta polemica col positivismo giuridico, per il quale il politico è definito in base al concetto di Stato, poi a sua volta definito in base al concetto di politico, in un circolo vizioso perverso - stia nella possibilità di distinguere tra chi è amico e chi è nemico. Lo Stato organizza gli amici e li attrezza in maniera adeguata per affrontare la minaccia proveniente dai nemici: ben si capisce, allora, come sovrano sia chi decide su chi è amico e chi è nemico. Tutte le decisioni politiche avvengono in questa maniera: la decisione come tipo originario fonda sempre un ordine a partire da una minaccia che ha una valenza intrinsecamente politica. La decisione del sovrano avviene sempre in uno stato di eccezione: e Schmitt rileva come il normativismo alla Kelsen funzioni soltanto là dove c'è già una normalità dei rapporti e il conflitto è stato risolto; infatti, non è la norma a creare la normalità, ma, piuttosto, è la normalità a rendere possibile l'attuarsi della norma. La normalità è prodotta dalla decisione sovrana, che instaura l'ordine: e, a sua volta, la decisione presuppone un'organizzazione concreta di potere, un'istituzione. Per Schmitt, la costituzione non è un mero insieme di leggi costituzionali, che necessitano di un ordine sovrano per diventare attive. Anche sul piano dell'arena internazionale, regnano le decisioni, le quali sono decisioni di guerra, giacché si decide sempre su chi è amico e chi è nemico. Il nemico in questione, spiega Schmitt, non è mai il "nemico personale" (inimicus), ma sempre il "nemico pubblico" (hostis): mentre il primo, secondo l'insegnamento dei Vangeli, dev'essere amato, il secondo deve essere combattuto. Schmitt chiarisce a più riprese come il sovrano non sia altro che una secolarizzazione del Dio cristiano: infatti, come Dio crea il mondo ex nihilo sulla base della sua volontà (e non della ragione), così il sovrano crea dal nulla l'ordine giuridico, prendendo una decisione che scaturisce dalla volontà e non dalla ragione. È in questo senso che Schmitt parla, in Teologia politica, del "Dio onnipotente che è divenuto l'onnipotente legislatore". Come diceva Hobbes, il primo decisionista della storia, "auctoritas, non veritas, facit legem". Nel 1933 il Partito nazionalsocialista giunse al potere e la vecchia costituzione fu eliminata; Schmitt accettò il nuovo regime come legittimo e celebrò la figura di Hitler in quanto Führer, capo e guida della nazione, responsabile di tutte le decisioni. Le sue indagini si concentrarono allora soprattutto su questioni di diritto e di politica internazionale. In opposizione alle pretese universalistiche delle democrazie occidentali e del bolscevismo, egli riprese da Hitler la nozione di spazio vitale, che consentiva di giustificare l'espansionismo militaristico della Germania. A questi temi di diritto internazionale dedicò, in particolare, l'opera Terra e mare (1942) e, nel dopoguerra, Il nomos della terra internazionale dello Jus publicum europaeum (1950). Nell'età moderna il diritto pubblico europeo, agli occhi di Schmitt, è ormai sulla via del tramonto, in quanto ha perso il suo centro di riferimento, costituito dalla terra in opposizione al mare. L'Inghilterra, conquistando le terre del nuovo mondo, si è affermata come potenza marittima e imperiale: essa è il Leviatano, che si oppone alla potenza terrestre (Behemoth) rappresentata dagli Stati continentali, fondati sull'identità collettiva della nazione e sulla difesa della patria e dell'integrità territoriale. Nell'affermazione di questo impero marittimo mondiale si nasconde, secondo Schmitt, il germe della rovina, perché conduce alla trasformazione del diritto fra gli Stati in diritto privato internazionale, cioè in diritto commerciale, e introduce una forma di moralismo universalistico, politicamente pericoloso, perché fa appello al concetto discriminatorio di guerra giusta. Questo vuol dire che sta giungendo alla fine, secondo Schmitt, l'epoca della statualità e, con il concetto di Stato, si dissolvono le distinzioni fra diritto pubblico e diritto privato e fra diritto statale e interstatale. Ma con il venir meno del freno della statualità, cadono le barriere frapposte dalla hobbesiana guerra di tutti contro tutti. La guerra moderna, dice Schmitt, in Teoria del partigiano (1963), è una guerra partigiana, cioè ha la sua radice nelle ideologie e non trova più limiti nello Stato, anzi si radica all'interno dello Stato e della società. Il partigiano, infatti, non difende la terra da un'occupazione, ma conduce una lotta in nome di una propria verità ideologica in tal modo, egli sostituisce al nemico pubblico un nuovo nemico privato e regredisce, pertanto, alla barbarie. Questa crisi della politicità è in rapporto, secondo Schmitt, con il predominio dell'economia e della tecnica nel mondo contemporaneo, dove lo Stato si trova ridotto ad assolvere una semplice funzione puramente burocratica e organizzativa, al servizio del dominio economico sull'uomo. In tal modo anche il pensiero di Schmitt si conclude con una critica alla modernità, in sintonia con pensatori ai quali si sentiva vicino, come, ad esempio, Jünger e Heidegger.




3. "Il capro espiatorio". René Girard e il sacrificio originario alla base della società.

(mettere violenza e sacro?). I segni della vittima (la violenza è strumentale al sacro, ma questa non è una teoria della violenza.


Girard ritiene che 1'azione sacrificale sia necessariamente 'misteriosa', sottoposta cioè ad un misconoscimento: i fedeli non conoscono e nemmeno devono conoscere il ruolo che nei sacrifici è svolto dalla violenza. Si rivela perciò necessario, come primo passo, 'ritrovare i rapporti conflittuali che il sacrificio e la sua teologia dissimulano'(cit). Girard propone un'interpretazione del sacrificio come 'violenza di ricambio': cita gli antropologi Lienhardt e Turner che, a seguito di ricerce sul campo, riconoscono nel sacrificio 'una vera e propria operazione di transfert collettivo che si effettua a spese della vittima e che investe le tensioni interne'(cit). Per delineare tale rapporto sacrificio/violenza lo studioso francese introduce il fondamentale concetto di vittima sostitutiva: poiché per spiegare il sacrificio sia le osservazioni fatte sul campo sia la riflessione teorica inducono a rifarsi all'ipotesi 3della sostituzione sacrificale che ha lo scopo di 'ingannare la violenza'(cit), Girard si chiede se 'il sacrificio rituale non sia fondato su una sostituzione' per allontanare la violenza 'da certi esseri che si cerca di proteggere'' (cit). Alcuni sistemi rituali sostituiscono gli esseri umani minacciati dalla violenza con animali, altri sistemi li sostituiscono invece con altri esseri umani giacché 'in fondo non c'è nessuna differenza essenziale tra sacrificio umano e sacrificio animale''(cit). Per avvalorare la tesi della sostituzione uomo-animale Girard cita come esempio la religione dei Nuer e dei Dinka; per quella della sostituzione uomo-uomo cita invece la Grecia del V secolo e riporta la Medea di Euripide. Una volta poste le vittime umane e quelle animali sullo stesso piano chiaramente vanno poi ricercati i criteri in base ai quali si effettua la scelta di una qualsiasi vittima. Emerge che tutte le vittime 'devono somigliare a coloro che esse sostituiscono'' (cit) e vanno scelte in base ai criteri di 'piena appartenenza alla società' e di 'vendetta'. A questo secondo principio Girard dedica ampio spazio e giunge a definire il sacrificio come 'una violenza senza rischio di vendetta'', in quanto dalla documentazione analizzata ricava che si usano sempre persone o animali 'non vendicabili'.

La vendetta costituisce una minaccia insopprimibile, è 'un processo infinito, interminabile'. Girard classifica in tre categorie tutti i mezzi messi in atto dagli uomini per proteggersi da una vendetta interminabile: i mezzi preventivi, gli impedimenti alla vendetta, il sistema giudiziario. Tutti codesti procedimenti, che permettono agli uomini di moderare la loro violenza, presentano delle analogie: in quanto nessuno di loro è estraneo alla violenza si può riconoscere 'l'identità positiva della vendetta, del sacrificio e della penalità giudiziaria'' (cit). Finché non si crea un organismo che possa sostituirsi alla parte lesa e riservarsi la vendetta sussiste però 'il pericolo di una escalation interminabile'. Nei popoli primitivi, per i quali non esiste un sistema giudiziario, è il sacrificio ad aiutare a tenere a bada la vendetta: il sacrificio è perciò, nella lotta contro la violenza, uno strumento di prevenzione che 'polarizza le tendenze aggressive su vittime reali o ideali, animate o inanimate, mai suscettibili comunque di essere vendicate'(cit). In queste società l'accento cade sulla prevenzione poiché i mali che la violenza rischia di scatenare sono molto grandi e i rimedi aleatori: e la sfera del preventivo è anzitutto quella religiosa. Il religioso mira sempre a placare la violenza e ad impedirle di scatenarsi; e poiché la prevenzione religiosa spesso può assumere un carattere violento, Girard conclude che violenza e sacro sono inseparabili (n). Ma il sacrificio come prevenzione della violenza decade là ove si istituisce un sistema giudiziario anche se, chiaramente, può venir praticato ancora a lungo ma allo stato di forma pressoché vuota. Girard sottolinea che generalmente noi incontriamo il sacrificio a questo stadio e di conseguenza riteniano che le istituzioni religiose non abbiano alcuna funzione reale: 'poiché minimizziamo il pericolo della vendetta noi non sappiamo a che cosa possa servire il sacrificio''(cit), non riusciamo cioè a conoscerne la funzione. Solo quando l'intervento di un'autorità giudiziaria diventa costrittivo gli uomini si liberano dal tremendo dovere della vendetta, anche se nel sistema penale in realtà non vi è alcun principio di giustizia che differisca da quello di vendetta. Il sistema giudiziario riesce a razionalizzare, a suddividere, a limitare, a manipolare la vendetta, senza pericolo: non esita mai a colpire in pieno la violenza perché su di essa possiede un monopolio assoluto. Ma poi, nel suo sviluppo, l'intervento giudiziario perde il carattere di 'terribile urgenza' e se il suo significato rimane lo stesso può però offuscarsi e persino scomparire del tutto: in realtà il sistema funziona meglio se si perde coscienza della sua funzione. Poiché esigiamo un rapporto diretto tra la colpevolezza e la punizione noi crediamo di cogliere una verità che sfugge ai primitivi, mentre siamo invece noi a non comprendere la minaccia, molto reale nel mondo primitivo, della escalation della vendetta (n). Una società primitiva, che è esposta ad un tale aumento progressivo della vendetta, si vede costretta ad adottare nei confronti di questa violenza certi atteggiamenti per noi incomprensibili: e di qui il grande valore del sacrificio. Il rituale ha pertanto la funzione di purificare la violenza, cioè di ingannarla e di dissiparla su vittime che non rischiano di essere vendicate (n). Sul piano della violenza troviamo l'identità del male e del rimedio: ma gli uomini non riescono a comprendere tale dualità, hanno bisogno di distinguere la buona violenza da quella cattiva, vogliono ripetere senza tregua la prima per eliminare la seconda. Pertanto per essere efficace la violenza sacrificale deve assomigliare il più possibile alla violenza non sacrificale.

.La crisi sacrificale in GirardIl sacrificio esige perciò che vi sia un'apparenza di continuità tra la vittima realmente immolata e gli altri esseri umani a cui tale vittima viene sostituita. Talvolta si assiste però al rovesciamento catastrofico del sacrificio: ad esempio, il vero tema della Follia di Eracle di Euripide - dove Eracle in un momento di follia mentre offre un sacrificio uccide la sua prima moglie Megara ed i figli - è il fallimento di un sacrificio, è la violenza sacrificale che prende una brutta piega. Il sacrificio attira la violenza sulla vittima e poi la lascia spandersi tutt'attorno: il sacrificio allora non è più atto a svolgere il proprio compito, ma ingrossa il torrente della violenza impura senza riuscire nemmeno più a canalizzarla. Anche nelle Trachinie di Sofocle, nell'episodio della tunica di Nesso inviata alla giovane Iole da Deianira per riconquistare l'amore del marito Eracle, la violenza si scatena contro quegli stessi esseri che il sacrificio avrebbe dovuto proteggere. In entrambe le opere un'impurità particolare è legata al guerriero che rientra nella città, ebbro ancora delle carneficine alle quali ha da poco partecipato: i1 guerriero che torna a casa rischia di portare la violenza di cui è impregnato all'interno della comunità.  Non sono le differenze, ma è la loro perdita a provocare una rivalità e una lotta incontrollabili tra gli uomini di una stessa società. La crisi sacrificale, ossia la perdita del sacrificio, si definisce come crisi delle differenze, cioè dell'ordine culturale (che non è che un sistema organizzato di differenze) nel suo insieme. Una volta perduta tale differenza si perde pure quella fra violenza impura e violenza purificatrice e allora non esiste più purificazione possibile e la violenza impura, che è contagiosa, si diffonde nella comunità. Anche la tragedia, che si radica in una crisi del rituale e di tutte le differenze, parla quindi della distruzione dell'ordine culturale. Essa può aiutarci nella comprensione di tale crisi e di tutti i problemi, da essa inseparabili, della religione primitiva che ha sempre l'unico scopo di impedire il ritorno della violenza reciproca: la tragedia fornisce dunque una via di accesso privilegiata ai grandi problemi dell'etnologia religiosa (n). Contrariamente a quanto accade nel pensiero moderno, per il pensiero primitivo l'assimilazione della violenza alla non-differenziazione è un fatto immediatamente evidente. Girard analizza uno dei fenomeni religiosi più spettacolari sul piano dell'etnologia religiosa: il fatto che in numerose società primitive i gemelli ispirano uno straordinario terrore30. Ma non c'è da stupirsi che i gemelli facciano paura, poiché essi sembrano annunciare la violenza indifferenziata, cioè il pericolo maggiore per qualunque società primitiva. Anche gli esempi mitologici, letterari, storici, sono quasi tutti esempi di conflitto: la presenza di fratelli nemici in certi miti greci e nelle tragedie ci suggerisce una presenza costante della crisi sacrificale riportata con unico stesso meccanismo simbolico(N). Girard, che considera i miti come delle riletture a ritroso fatte a partire dall'ordine culturale nato dalla crisi, ritiene che nei miti le tracce della crisi sacrificale siano però più difficilmente decifrabili che nella tragedia. In essa, spiegazione sempre parziale dei motivi mitici, il poeta fa invece rinascere la reciprocità violenta: tutto diventa antagonismo nel tentativo di riequilibrare ciò che il mito rende squilibrato. La tragedia, diffondendo e moltiplicando la violenza all'infinito, riconduce tutti i rapporti umani all'unità di uno stesso antagonismo tragico, tendendo così a dissolvere i temi del mito nella loro violenza originaria: la tragedia è strettamente legata alla violenza, è 'figlia della crisi sacrificale'(N).

La vittima espiatoria per Girard Alla violenza va riconosciuto un carattere mimetico di intensità tale che la violenza non potrebbe morire da sé una volta innestata nella comunità. Gli uomini tendono a convincersi che uno solo di loro è responsabile di tutta la mimesis violenta, che in lui si trova la macchia che li contamina tutti: distruggendo la vittima espiatoria gli uomini crederanno allora possibile sbarazzarsi del loro male ed effettivamente se ne libereranno poiché tra loro non ci sarà più la violenza fascinatrice. Girard ritiene che noi moderni concediamo invece solo un'importanza minima al meccanismo della vittima espiatoria, poiché essa dissimula agli uomini la verità della loro violenza38; egli sente la violenza come qualcosa di 'comunicabile'. Per guarire la città bisogna identificare ed allontanare l'essere impuro la cui presenza contamina tutta la città: è cioé necessario che tutti si mettano d'accordo sull'identità di un unico colpevole e sono il parricidio e l'incesto a procurare alla comunità ciò di cui essa ha bisogno per cancellare la crisi sacrificale.

La funzione del sacrificio descritta da Girard richiede 'il fondamento della vittima espiatoria, ossia dell'unanimità violenta; nel sacrificio rituale la vittima realmente immolata svia la violenza dai suoi oggetti naturali che si trovano all'interno della comunità. Ma a chi è sostituita questa vittima?' (n). La vittima rituale non è mai sostituita né a un membro della comunità né alla comunità intera, ma viene sempre sostituita alla vittima espiatoria. Poiché tale vittima viene sostituita a tutti i membri della comunità, la sostituzione sacrificale svolge proprio il ruolo che già le è stato attribuito: tramite la vittima espiatoria protegge tutti i membri della comunità dalle loro rispettive violenze. La violenza originaria è unica e spontanea, mentre i sacrifici rituali sono invece molteplici e ripetuti. I1 sacrificio rituale è pertanto fondato su una duplice sostituzione: la prima, che non si scorge mai, è la sostituzione di tutti i membri della comunità a uno solo e poggia sul meccanismo della vittima espiatoria; la seconda, la sola propriamente rituale, si sovrappone alla prima e sostituisce alla vittima originaria una vittima appartenente a una categoria sacrificale. Va messo in evidenza che la vittima espiatoria è interna alla comunità mentre la vittima rituale è esterna. Riconosciamo infine il carattere fondamentalmente mimetico del sacrificio rispetto alla violenza fondatrice(n): la violenza, per conservare la sua efficacia, deve affascinare e perciò nel rito la violenza reale persiste ancora, anche se esso è essenzialmente orientato verso l'ordine e la pace. Persino i riti più violenti mirano realmente a scacciare la violenza, in quanto se i riti sono violenti si tratta sempre di mettere in atto una violenza minore a baluardo di una violenza peggiore; i riti cercano sempre di riallacciarsi alla pace più grande che la comunità conosca, quella che dopo l'uccisione risulta dall'unanimità attorno alla vittima. Il rito è possibile perché gli uomini fanno sempre una differenza entro la violenza: il rito elegge una certa forma di violenza come 'buona' e necessaria all'unità della comunità, contrapposta ad un'altra violenza che rimane 'cattiva' perché resta assimilata alla cattiva reciprocità.La ripetizione rituale per Girard. Analizzando il fenomeno religioso Girard si imbatte continuamente in due fondamentali componenti, il mito e il rito, delle quali è importante riuscire a conoscere il rapporto che le lega. Due sono le tesi che gli studiosi contrappongono: una riconduce il rituale al mito, l'altra riconduce il mito al rituale. L'ipotesi storico-genetica secondo cui 'il mito dipende dal rito' o, più ampiamente, i miti sono intimamente associati ai rituali, ove si tende chiaramente a privilegiare il rito nei confronti del mito, è stata abbozzata da Robertson Smith (cit) ed ottiene poi ampi consensi quando viene accettata dal Frazer e assunta come presupposto fondamentale del Ramo d'oro (cit). A favore di questa teoria si schierano poi classicisti, storici delle religioni del vicino Oriente e antropologi(n). A proposito di questo rapporto mito-rito Girard riporta la tesi di Hubert e Mauss che 'riconduce al rituale non solo i miti e gli dèi ma, in Grecia, anche la tragedia e le altre forme culturali'(cit). I1 sacrificio appare quindi a Hubert e Mauss (cit) come l'origine di tutto il religioso, per cui i due antropologi non ritengono necessario interessarsi né dell'origine né della funzione del sacrificio. Si dedicano invece alla descrizione sistematica dei sacrifici dalla quale emerge che la somiglianza dei riti nelle diverse culture che praticano il sacrificio è stupefacente e che le variazioni da cultura a cultura non sono mai sufficienti per compromettere la specificità del fenomeno. Girard critica quella che definisce come 'posizione rinunciataria' dei contemporanei che accettano la tendenza prefigurata da Hubert e Mauss di descrivere il sacrificio al di fuori di ogni cultura particolare, come se si trattasse di una specie di tecnica(n) e non si preoccupano più né di riferire il rituale al mito né il mito al rituale. Girard rimpiange la curiosità dei predecessori perché 'non basta dichiarare formalmente inesistenti certi problemi con una benedizione puramente 'simbolica', per insediarsi, senza incontrare opposizioni, nella scienza. La scienza non è una soluzione di ripiego rispetto alle ambizioni della filosofia, una saggia rassegnazione. E' un'altra maniera di soddisfare quelle ambizioni''(n). Si rallegra invece del fatto che di tanto in tanto si levi però una voce, cita ad esempio quella di Jensen, a ricordare la stranezza di un'istituzione quale il sacrificio, dal momento che 'ci saranno volute esperienze particolarmente sconvolgenti per portare l'uomo a introdurre nella sua vita atti tanto crudeli. Quali ne furono i motivi? Il pensiero mitico ritorna sempre a ciò che è accaduto la prima volta, all'atto creatore, ritenendo a giusto titolo che è quello a fornire su un dato fatto la testimonianza più viva'' (cit).

Allontanandosi dalla 'rinuncia' di Mauss e avvicinandosi a Jensen nel ritenere importante stabilire ciò che è accaduto la prima volta, Girard approfitta per specificare ulteriormente la sua tesi fondamentale. Innanzitutto crede che a questo punto sia obbligatorio chiedersi se 'la prima volta non sia realmente accaduto qualcosa di decisivo. Bisogna ricominciare a porre le domande tradizionali in un quadro rinnovato dal rigore metodologico dei nostri tempi'' (cit). Se esiste un'origine reale che i miti non smettono di rammentare e che i rituali non smettono di commemorare, deve trattarsi di un evento che ha fatto sugli uomini un'impressione che, sebbene sia cancellabile dal momento che essi finiscono per dimenticarla, è tuttavia molto forte. La molteplicità delle 'commemorazioni rituali che consistono in una condanna a morte fa pensare che l'evento originario sia di norma un'uccisione''(cit). Un pò ovunque si ritrovano tracce della tesi che fa del rituale l'imitazione e la ripetizione di una violenza unanime e in realtà basta porla in evidenza per chiarire nelle forme rituali e mitiche certe analogie che passano spesso inosservate: spicca ad esempio che in uno straordinario numero di sacrifici deve essere soddisfatta l'esigenza di partecipazione collettiva, perlomeno sotto forma simbolica. La soluzione proposta da Girard è, ancora una volta, rintracciabile nella crisi sacrificale e nel meccanismo della vittima espiatoria. E' a questo punto che si presenta nuovamente allo studioso francese l'occasione di delineare ancora piu chiaramente la sua posizione funzionalista: benché il religioso sia l'unica istituzione sociale di cui la scienza non sia mai riuscita ad individuare l'autentica funzione, egli identifica la funzione del religioso nel perpetuare o nel rinnovare gli effetti del meccanisno della vittima espiatoria, ossia nel mantenere la violenza fuori dalla comunità. Girard pensa che la violenza contro la vittima espiatoria potrebbe essere fondatrice nel senso che, ponendo fine al circolo vizioso della violenza, avvia un altro circolo vizioso, quello del sacrificio rituale, che potrebbe essere proprio quello dell'intera cultura. Tutti i miti d'origine che si rifanno all'uccisione di una creatura mitica affermano, anche se non apertamente, che la violenza fondatrice costituisce realmente l'origine di tutto ciò che gli uomini tendono maggiormente a preservare: è una violenza dunque ad essere indicata come la fondatrice dell'ordine culturale. L'individuazione del meccanismo della vittima espiatoria permette di comprendere che i sacrificatori mirano allo scopo di riprodurre il più esattamente possibile il modello di una crisi anteriore che si è risolta grazie al meccanismo della vittima espiatoria. Tutti i pericoli che minacciano la comunità vengono assimilati alla crisi sacrificale, il pericolo più terribile che possa affrontare una società. 'Il rito è la ripetizione di un primo linciaggio spontaneo che ha riportato l'ordine nella comunità perchè ha ricreato contro la vittima espiatoria e attorno ad essa l'unità perduta nella violenza reciproca' (cit).

Dunque Girard individua uno speciale rapporto fra rito e mito, un rapporto in funzione del quale l'azione rituale è interpretata come ripetizione, rinnovamento, ricostituzione di un modello prototipico. L'atto sacrificale diventa ripetizione rituale di sacrificio: in tal senso il rituale sacrificale di tipo ripetitivo potrebbe rientrare nei riti di rifondazione di beni ed istituti culturali, nella misura in cui il sacrificio costituisce un istituto che conserva e garantisce una struttura culturale. E' invece del tutto assente l'aspetto del ricordo, della commemorazione, della memoria: è costante l'oblio dei meccanismi costitutivi del sacro, nascosti dalla testualità mitica e dai comportamenti sacralizzati. I testi mitico-religiosi, i racconti delle gesta eroiche dei fondatori, i riti studiati dall'etnologia, sono l'ambito in cui la verità nascosta del meccanismo fondatore è presente ma non del tutto chiara, poiché viene occultata dalla necessità stessa del suo funzionamento. Il polarizzarsi della violenza collettiva su una vittima espiatoria68 dà vita ad un sistema di rappresentazione articolato in miti e riti con strategie che saranno poi prolungate anche nel lavoro e nella scienza. 'La 'rottura epistemologica' ci permette di non riconoscere nel rito il nostro educatore di sempre, il primo e fondamentale modo d'esplorazione e di trasformazione del reale' (cit). Se il meccanismo della vittima vuole avere successo deve dissimularsi: la verità del capro espiatorio (la sua innocenza) è sovversiva in quanto presenta l'inerme e dilacerato corpo della vittima come mezzo per attuare la riconciliazione del gruppo sociale.

L'eredità di E. Durkheim in Girard

Nell'approccio al fenomeno religioso Girard è debitore della tradizione dell'indirizzo sociologico francese che difficilmente può venir separato da E. Durkheim, orientato ad una 'spiegazione' del religioso entro il quadro sociale. Ecco in breve i punti di contatto e di distacco.

La fondazione positivistica delle scienze sociali operata da Durkheim ha influenzato profondamente una delle più importanti tradizioni della sociologia contemporanea. Il presupposto principale da cui Durkheim parte consiste nella convinzione che, ontologicamente, i fatti sociali sono 'cose' e quindi simili ai fatti naturali, per cui il mondo sociale presenta un'oggettività che può venir indagata col metodo scientifico. Postulando tale 'oggettività' Durkheim è convinto che si possono scoprire gli effettivi processi della società e che, in tale compito, lo scienziato sociale deve dascrivere i fatti sociali e le loro reciproche relazioni come se gli fossero estranei, ossia eliminando tutto ciò che possa inerire alla propria soggettività. Pertanto l'attività scientifica che ha per oggetto la società si presenta come indipendente dalla società stessa e tale indipendenza è il presupposto fondamentale per individuare le leggi della società. Questa è anche la posizione di Girard che con la sua 'nuova' teoria sul religioso ritiene di essere in grado di proporre una 'spiegazione' oggettiva e può pertanto essere accostata ad un tentativo complesso di critica della ideologia 'religiosa' nello studio dei fenomeni religiosi.

Un altro aspetto dell'eredità durkheimiana in Girard. Durkheim ha affermato che la sociologia è una scienza dello stesso tipo delle altre, il cui fine ultimo è la scoperta di relazioni generali fra i fenomeni: questa capacità di non dissociare il lavoro pratico da quello teorico, di mettere l'osservazione al servizio della spiegazione, è il frutto più prezioso dell' 'origine filosofica' della sociologia francese. Kroeber aveva attribuito all'origine filosofica della sociologia francese la sua ripugnanza alla ricerca sul terreno e le aveva rimproverato di basarsi su concetti falsamente generali, come quello di 'dono' o di 'sacrificio', in realtà attinti dal senso comune. Quando Kroeber paragona Mauss che utilizza concetti come 'dono' o 'sacrificio' ad un fisico che si accontenti di nozioni della vita quotidiana come 'piatto' o 'rotondo', intende porre in discussione la legittimità stessa delle scienze unane a compiere generalizzazioni che non siano storicamente limitate. Se non ci si potesse svincolare dal particolarismo della storia culturale per formulare ipotesi su questioni generali, se non si potesse leggere anche in un solo caso, benché ben scelto e significativo, una risposta capace di assumere valore universale, allora la grande ambizione di un'analisi delle società alla ricerca di elementi nascosti e fondamentali che sono costitutivi dei fenomeni verrebbe a cadere. La sociologia di Durkheim indica una via verso una scienza che aspiri a leggi universali, tra il vuoto genericismo della filosofia sociale ed il rinunciatario particolarismo della storia culturale. Sembra che Girard tenti di conciliare l'aspirazione di Durkheim alla sociologia come scienza con la prudenza critica rivolta contro tutte le generalizzazioni non documentabili: solo le conoscenze accumulate dagli etnografi possono offrire una solida base documentaria su cui verificare ogni possibile ipotesi e realizzare la costituzione di una scienza sociale che in Durkheim si era rivelata come un fecondo auspicio. In Girard emergono molte spie dell'intenso dialogo promosso fra sociologia e antropologia culturale: si trova ad esempio confermato piu volte l'interesse per l'organizzazione sociale e per i sistemi di parentela (cit). Questi pochi esempi bastano per mostrare la ricchezza delle problematiche che confluiscono nella formazione del pensiero di Girard e per sottolineare la tendenza a fondere un'attenzione al particolare con ipotesi esplicative di carattere generale, che mostrano quanto grande sia il debito di Girard verso la sociologia francese, soprattutto verso la maggiore disponibilità di quest'ultima per il momento della teoria in quanto tale.

Il ruolo riconosciuto alla sociologia di Durkheim non impedisce a Girard di prendere però le distanze dal sociologo francese soprattutto su due punti fondamentali: in primo luogo, tiene distinte la ricerca delle origini da quella delle funzioni, il punto di vista storico da quello logico; in secondo luogo, non contrappone l'individuo alla società, l'approccio psicologico a quello sociologico.

Quanto alla distinzione origine/funzione, essa non è affatto assente in Durkheim (n), ma è vista alla luce di un rapporto di complementarità tra i due concetti, dato che l'individuazione delle funzioni mira solo a ribadire quanto già messo in luce dall'analisi genetica. Se è vero che solo nella struttura interna di una società si trovano le cause degli altri fatti sociali è anche vero che gli elementi di tale struttura ed i loro rapporti si rivelano unicamente ad un'analisi genetica che ne ricostruisca il processo di formazione, che si basa sull'evoluzione sociale che in Durkheim non è però né rettilinea né mossa dalla tendenza ad uno scopo, ma è invece retta da cause meccaniche. Per quanto riguarda il fenomeno religioso nella teoria sociologica di Durkheim non interessa scoprirne l'origine storica, ma piuttosto 'le cause sempre presenti da cui dipendono le forme essenziali del pensiero e della prassi religiosa' (cit): l'intento del sociologo francese è di individuare la causa in assoluto astraendo da ogni contingenza storica e pertanto egli preferisce decidere del valore e del significato della religione in quanto tale piuttosto che della sua origine storica. Invece Girard, benchè ne veda un legame, tiene separate l'origine e la funzione del sacrificio: riguardo alla prima ritiene sia necessario rifarsi a 'quanto è accaduto la prima volta' (cit). Riguardo la seconda Girard individua una funzione reale del sacrificio che si propone a livello dell'intera collettività in quanto 'è l'intera comunità che il sacrificio protegge dalla sua stessa violenza'(cit): peculiare del sacrificio è pertanto la funzione di 'placare le violenze intestine, d'impedire lo scoppio dei conflitti' (cit). I1 sacrificio, comportamento definito in un insieme collettivo, ha pertanto preso in Girard consistenza sociale e culturale: gli attribuisce una natura riducibile alla vita sociale e utile al suo progresso in base ad una documentazione etnografica. Dunque, riguardo al rapporto origine/funzione, la separazione tra punto di vista logico e punto di vista storico, non reperibile in Durkheim, denuncia l'influenza su Girard di molteplici fonti quali gli antropologi Malinowski e Radcliffe-Brown.

Più complesso è il problema relativo al rapporto individuo/società, perché implica una discussione sulla natura dei fatti sociali. Ad esempio, Durkheim spiega la proibizione dell'incesto interpretando quella che in certe popolazioni, ma non in tutte, può essere stata l'origine di tale proibizione come la funzione universale e permanente in virtù della quale essa si perpetua. Inoltre, stabilendo una contrapposizione tra il carattere non intenzionale dei processi collettivi di evoluzione sociale e la intenzionalità dell'agire individuale, non tiene conto del fatto che non tutti i processi psichici sono anche coscienti e che proprio a livello inconscio gli psicoanalisti e i linguisti hanno reperito dei sistemi che sono da un lato collettivi e retti da leggi come quelli che i sociologi pretendono di ritrovare nei fatti sociali e dall'altro orientati ad uno scopo come quelli che gli psicologi ricostruiscono nelle personalità degli individui. Se nel pensiero durkheimiano la soluzione data non è univoca, rimane però costante la tesi che la sociologia si occupa di quella classe di fatti che risultano dall'associazione degli individui: concessi alla psicologia i fatti riconducibili agli individui in quanto individui, restano sempre dei modi di essere che sono irriducibili agli individui in quanto singoli, ma sono risultanti esclusivamente dal fatto che essi sono associati e costituiscono un'unità di nuovo genere. Sia nella sociologia religiosa sia nella sociologia della conoscenza, la spiegazione sociologica riconduce sempre i fatti umani al modo di essere dei raggruppamenti di individui. Non stupisce dunque che Durkheim abbia progressivamente accentuato l'importanza del concetto di 'coscienza collettiva' ed abbia spostato il suo interesse verso le società primitive ricche di una maggiore effervescenza di sentimenti collettivi. Per Durkheim maturo la società non è tanto una associazione di individui quanto di coscienze individuali da cui risulta una sorta di ipercoscienza, mentre lo stesso ambiente sociale viene inteso come fatto essenzialmente di idee, valori, abitudini e tendenze comuni. L'accento passa dalla morfologia alla fisiologia sociale, dalla struttura sociale alle rappresentazioni collettive: la sociologia è sempre più una sorta di psicologia collettiva. Nel suo pensiero passando da La divisione del lavoro sociale a Le forme elementari della vita religiosa la soluzione varia: si accentuano tendenze che portano la sociologia religiosa a diventare, e non a caso, il principale campo d'indagine perché, se la società è essenzialmente una comunanza di sentimenti, pensieri e valori, si può comprendere come in dio, secondo la nota ipotesi delle Forme, gli uomini non adorino che la società stessa e come la religione sia il germe di tutte le istituzioni sociali. Questa tesi costituisce l'asse portante delle Forme e rappresenta l'implicito punto di raccordo dei suoi due grandi temi: da un lato l'identificazione della società con dio (sociologia religiosa) e dall'altro lato con il concetto di totalità, base di tutte le categorie logiche (sociologia della conoscenza). I due temi solo apparentemente corrono paralleli lungo tutta l'opera: in realtà il tema specifico dell'opera, l'analisi del totemismo australiano, ne costituisce già un punto d'incontro, perché il totem, prima forma del 'sacro', è simultaneamente il nome e l'emblema del clan. Questo duplice ruolo del totem da un lato indica che se uno stesso simbolo può significare contemporaneamente dio e la società elementare (il clan), allora dio e la società sono la stessa cosa; dall'altro indica che l'origine della società, della religione, della conoscenza e del linguaggio costituisce un processo unico e perciò il primo dio è anche il primo simbolo ed il primo concetto (n). In questa prospettiva il sacrificio viene interpretato come il momento in cui l'aggregazione del gruppo e la polarizzazione psicologica che ne deriva agiscono in modo tale che ogni individuo si sente pervaso dalla forza collettiva che di solito percepisce come esterna, da cui deriva lo stato di effevescenza collettiva che si determina; Girard accenna a questo parlando dell'antagonismo 'contagioso' di tutti contro tutti entro la tragedia greca86. Dunque, riguardo al rapporto individuo/società il discorso si rivela complesso: Girard da un lato avverte l'esigenza, in parte stimolata da Mauss e dall'antropologia americana, di un più stretto rapporto tra sociologia e psicologia; dall'altro lato però la direzione nella quale cerca soluzione al suo problema è ancora fortemente debitrice del concetto durkheimiano di società intesa come sistema di valori. La problematica di Girard resta dunque durkheimiana sia perché intende proporre una teoria originale sulla genesi della religione sia perché intende l'antropologia come una scienza sia perché suo oggetto restano forme collettive di rappresentazione e di condotta. La continuità con Durkheim è però interrotta su alcuni punti decisivi: un accordo non del tutto precisato da Girard ma comunque importante fra antropologia e psicologia; il delinearsi, sia pure ancora allo stato embrionale, della tematica natura/cultura. Ampio spazio è dedicato al processo di ominizzazione: il meccanismo vittimario è per Girard un processo di ominizzazione che permette la crescita della comunità umana, è lo spazio del fragile discrimine tra animalità e umanità.

Mimetismo e rivelazione in Girard

Girard in primo luogo definisce la natura umana come mimetica poiché le azioni delle persone sono intraprese esclusivamente in quanto viste fare da un modello. L'uomo è l'individuo desiderante per eccellenza, ogni suo movimento si basa sull'essere secondo l'altro, sull'omologarsi ai costumi, alle mode, ai pensieri e alle azioni di chi gli sta accanto. Si può constatare come la differenza principale tra persona ed animale, non consista essenzialmente nell'intelligenza, ma nella natura dei movimenti: si parla quindi di mero appetito che guida la bestia e di desiderio che definisce l'uomo. Il concetto di desiderio è totalmente diverso da quello di appetito: si vuole qualcosa perché la vuole anche l'altro, è il principio mimetico che muove l'individuo nella sua socialità. L'animale invece agisce secondo appetiti dettati dall'istinto, l'uomo invece osserva e successivamente imita. Ad esempio il fatto che in un certo periodo storico si sia preferito un determinato tipo di vestiario e in un altro uno del tutto opposto non significa che i gusti delle persone si siano modificati in quanto l'essenza di un dato abito non piace più qualche anno dopo, ma perché la tendenza generale della maggioranza è propensa verso un altro modello di abito in quel preciso momento. Le cose che noi vogliamo avere non le desideriamo in sé, ma perché sono possedute dal singolo modello a cui ci omologhiamo. Si parla poi di rapporto triangolare per intendere quella situazione che vede un individuo desiderare di possedere un oggetto che un altro dispone. C'è quindi uno stretto rapporto tra persona desiderante-oggetto desiderato-modello imitato tale da provocare inevitabilmente uno scontro nel momento in cui l'oggetto non sia divisibile e usufruibile da entrambi. Girard parla infatti di modello-ostacolo quando esso impedisce ad un terzo il godimento di una cosa o di una persona unica.

Dopo aver brevemente delineato il presupposto su cui è costruito il pensiero dell'antropologo francese, presupposto che sarà adottato anche da Eric Gans come si vedrà successivamente, è ora necessario introdurre il tema che interessa primariamente la mia 'ricerca': il meccanismo vittimario o del capro espiatorio. Intendo infatti sostenere la vicinanza del pensiero girardiano alle posizioni di molti filosofi del diritto ed in modo particolare a quelle che sanciscono la centralità della persona, l'inviolabilità dei diritti umani, la necessità di un sistema giuridico garantista, del giusto processo e dell'abolizione di ogni aspetto processuale che rappresenti una 'giustizia' sommaria ed arbitraria. Girard afferma che il sacro, la religione ed i miti nascono in seguito al processo vittimario che si concretizza in specifiche situazioni in cui si trova la comunità sociale. E queste determinate situazioni non sono altro che momenti di grave crisi intestina che mina la solidità del gruppo umano e la sua stessa sopravvivenza. Ad esempio una grave carestia o una pestilenza. Sono periodi che sconvolgono la tranquilla esistenza delle persone che, incapaci di farvi fronte, necessitano di un escamotage grazie al quale ricomporre la crisi riconciliando gli animi. Qui entra in gioco la trascendenza che si manifesta all'interno del meccanismo vittimario che ora delineerò. Girard propone questa teoria antropologica analizzando i comportamenti umani durante una crisi collettiva. Conclude che in ogni occasione simile ci si trova di fronte ad una precisa tipologia di risoluzione del problema che funziona così: le singole rivalità tra gli uomini degenerano velocemente dando vita ad un desiderio unanime e indifferenziato di vendetta. Il propagarsi del sentimento di vendetta è definito come contagio mimetico che si spande a macchia d'olio all'interno della comunità colpendo qualsiasi cittadino anche il meno coinvolto. Successivamente viene a costituirsi una folla contagiata pronta a scegliere una singola vittima contro cui polarizzare tutto l'odio generatosi. E' interessante soffermarsi su questa folla: ci troviamo di fronte ad una massa di uomini che, esasperati dalla crisi interna, si uniscono in preda a frenesia mimetica in quanto l'essere secondo l'altro fa in modo che da un gruppo ristretto e circoscritto di 'contestatori' si passi alla formazione di una collettività pronta a lasciarsi andare ad un episodio di violenza. Una volta individuata la vittima essa viene sacrificata, linciata dalla comunità in preda a mimetismo violento e degenerato ed in seguito a questo atto finale si verificherà la ricomposizione della situazione conflittuale. E' ora necessario approfondire il sistema vittimario considerando i motivi che portano alla scelta dello specifico capro espiatorio e il motivo per cui la folla non si sottragga dal compiere un atto barbaro contro un proprio simile. Innanzitutto Girard, analizzando sia singoli miti e soprattutto molteplici eventi storici, è giunto alla conclusione che la folla in preda a frenesia mimetica sceglie le proprie vittime non in base ad un criterio di colpevolezza provata, ma a seconda di caratteristiche fisico-biologiche. Quindi non si ricorre ad un normale procedimento incriminante tipico dei processi democratici, ma ci si scaglia contro un individuo che, da una prima analisi esteriore, è la causa potenziale della crisi che ha investito la comunità. Basti ricordare le accuse agli ebrei di aver contaminato le città diffondendo la peste: già in partenza i Giudei sono visti in modo tutt'altro che positivo dalla maggiorparte delle varie congregazioni civili e sarà sufficiente una testimonianza anche falsa o lacunosa per far scatenare la vendetta della folla. Un altro esempio è dato dalla persecuzione dei minorati, o degli stessi ebrei da parte dei nazisti: persone inermi ma accusate di corrompere la purezza della razza ariana cavallo di battaglia delle teorie nazionalsocialiste. Come si vedrà più avanti il meccanismo vittimario, seppur implicito, è magistralmente descritto da Manzoni sia nei Promessi Sposi sia nella Storia della colonna infame in merito alle condanne dei presunti untori. Tuttavia non è sufficiente un mero difetto fisico per scatenare la violenza della massa accecata dal mimetismo. Infatti, considerando ad esempio lo specifico episodio degli untori si può notare come solo dopo le testimonianze, poco importa se fallaci ed assurde, i singoli accusati vengono 'processati' e condannati: è necessaria la parvenza, anche minima, di colpevolezza per dare vita alla scintilla che porta all'immolazione. Nella parte dedicata a Manzoni sarà esposto più dettagliatamente questo meccanismo mettendo in risalto la potenza del contagio mimetico: dalla testimonianza di due sole donne si arriverà a raccogliere un vero e proprio dossier di accuse rilasciate da svariati cittadini, questo è spiegabile perché ciascuno, imitando il modello iniziale, in una situazione di crisi quale la pestilenza, fa di tutto per ricordare anche un episodio minimale tale da incriminare il presunto untore; saranno formulate accuse anche perché il sospettato è stato visto camminare in modo strano. E' evidente come in momenti di crisi intestina il rapporto triangolare non provochi la rivalità tra persona desiderante e modello invidiato perché tutti si riconoscono danneggiati allo stesso modo e in cerca di giustizia allo stesso modo: tutti sono in quest'occasione amici di tutti anche se nella quotidianità spesso non è così. Il contagio mimetico comporta questo tipo di aggregazione apparentemente spontanea. La folla una volta scelta la propria vittima è unita e sicura che il sacrificio di essa sia giusto e soprattutto utile alla ricomposizione della crisi. Questo perché, una volta contagiati, gli uomini sono letteralmente accecati e perciò incapaci di rendersi conto del male che stanno andando a fare, dell'estrema ingiustizia ed infondatezza della violenza contro il capro espiatorio. Ma il motivo principale è che il meccanismo vittimario ha sempre funzionato da quando vi si è ricorsi: la situazione conflittuale è sempre stata ricomposta, seppur momentaneamente, consentendo la conciliazione delle genti. Viene spontaneo chiedersi come mai il meccanismo vittimario riesca a riportare la pace tra gli uomini attraverso un omicidio o un'espulsione dalla comunità. Bisogna analizzare il modo in cui viene sacrificata la vittima e la successione degli eventi dopo l'esecuzione dell'atto. Si rende però necessario, in questo momento, specificare come se da un lato la prima fase del processo vittimario fin qui esaminata sia uguale per qualsiasi singolo episodio di tale natura, dall'altro è differente invece la fase conclusiva a seconda se si prende in considerazione un episodio mitologico o un episodio avvenuto in età cristiana dove per età cristiana s'intende tutta la storia dell'umanità che inizia con la Rivelazione, con il messaggio di Cristo e dei Vangeli. Di questo tratterò a breve. Girard afferma che il denominatore comune dei vari miti consiste in due transfert: il primo, detto anche transfert di aggressività, consiste nella lapidazione o l'espulsione della vittima da cui deriva un beneficio concreto per l'intera comunità (la ricomposizione della crisi e la seguente pace, seppur temporanea), mentre il secondo, detto transfert di divinizzazione, pone fine al processo e consiste nella venerazione della vittima immolata da parte della comunità riappacificata, venerazione giustificata dal potere conciliatorio del capro espiatorio. 'Le divinizzazioni mitiche si spiegano perfettamente per opera del ciclo mimetico, e si basano sulla capacità che hanno le vittime di polarizzare la violenza. (.) Se il transfert che demonizza la vittima è potentissimo, la riconciliazione che ne consegue è così improvvisa e perfetta da apparire miracolosa e da suscitare un secondo transfert che si sovrappone al primo, il transfert di divinizzazione della vittima'/n). Il problema che nasce ora è molto rilevante: infatti, come ho sopra sottolineato, quasi sempre le tregue conseguite con il meccanismo vittimario sono temporanee, di breve durata. Ne consegue quindi un nuovo ricorso al capro espiatorio e così via in una serie di violenze ininterrotte. Secondo Girard è a causa di questo risvolto temibile che si rende necessario un intervento dall'esterno di qualcuno capace di svelare il processo vittimario rendendo i membri delle folle consci del male che vanno a fare e dell'inutilità di simili episodi di violenza arbitraria. Tuttavia per svelare ciò si deve essere immuni al contagio mimetico che colpisce gli uomini in modo da osservarne il funzionamento per poi descriverlo e rendere dotte le persone 'accecate'. E' chiaro come una persona con tale capacità debba essere meta-umana poiché uno degli aspetti consustanziali all'individuo è quello di essere preda del mimetismo, si prospetta perciò un intervento della trascendenza. E questa persona è Gesù, la seconda persona della Trinità che è uomo e allo stesso tempo fatto della stessa sostanza del Padre. Si può già adesso intuire il ruolo primario e fondamentale dei Vangeli e della Bibbia all'interno della storia dell'umanità. Tuttavia è ancora prematuro trattare in modo dettagliato ed approfondito del ruolo di Cristo nel pensiero girardiano in quanto è preferibile proporre un paio di esempi concreti di meccanismo vittimario estraneo alla Rivelazione cristiana per poi meglio comprendere l'innovazione e le caratteristiche di questo evento memorabile che ha segnato la storia del mondo.

Girard in più d'un libro presenta come chiaro paradigma di capro espiatorio l'episodio della lapidazione di Efeso narrato da Flavio Filostrato nel suo testo 'Vita di Apollonio di Tiana'. In questo libro sono raccolte le descrizioni dei momenti più significativi della vita di questo guru del II sec. d.C. che fu successivamente citato addirittura dai gruppi pagani come esempio inconfutabile della superiorità della loro religione rispetto al Cristianesimo. Innanzitutto la lapidazione di Efeso è posta in essere in un periodo in cui la città è assalita da una tremenda pestilenza tale da mietere moltissime vittime trai cittadini. Ecco il presupposto fondamentale: una grave crisi interna irrisolvibile attraverso normali procedure che mette in pericolo la sussistenza della stessa comunità. Leggiamo poi queste righe tratte dall'opera di Filostrato: ' -Fatevi coraggio, perché oggi stesso metterò fine a questo flagello- (la pestilenza). E con tali parole condusse (Apollonio) l'intera popolazione al teatro, dove si trovava l'immagine del dio protettore. Lì egli vide quello che sembrava un vecchio mendicante, il quale astutamente ammiccava gli occhi come se fosse cieco, e portava una borsa che conteneva una crosta di pane; era vestito di stracci e il suo viso era imbrattato di sudiciume. Apollonio dispose gli Efesi attorno a sé, e disse: -Raccogliete più pietre possibili e scagliatele contro questo nemico degli dei-. Gli Efesi si domandarono che cosa volesse dire, ed erano sbigottiti dall'idea di uccidere uno straniero così palesemente miserabile, che li pregava e supplicava di avere pietà di lui. Ma Apollonio insistette e incitò gli Efesi a scagliarsi contro di lui e a non lasciarlo andare. Non appena alcuni di loro cominciarono a colpirlo con le pietre, il mendicante che prima sembrava cieco gettò loro uno sguardo improvviso, mostrando che i suoi occhi erano pieni di fuoco. Gli Efesi riconobbero allora che si trattava di un demone e lo lapidarono sino a formare sopra di lui un grande cumulo di pietre. Dopo qualche momento Apollonio ordinò loro di rimuovere le pietre e di rendersi conto di quale animale selvaggio avevano ucciso. Quando dunque ebbero riportato alla luce colui che pensavano di aver lapidato, trovarono che era scomparso, e che al suo posto c'era un cane simile nell'aspetto a un molosso, ma delle dimensioni di un enorme leone. Esso stava lì sotto i loro occhi, spappolato dalle loro pietre, e vomitando schiuma come fanno i cani rabbiosi. A causa di questo la statua del dio protettore, Eracle, venne posta proprio nel punto dove il demone era stato ammazzato'. Ho messo in evidenza graficamente alcune parole significative dalle quali si possono comprendere i meccanismi classici del sistema vittimario. Questo brano rappresenta chiaramente come in seguito ad una situazione di grave crisi intestina (pestilenza) la folla in preda al panico si fa plagiare da un individuo, Apollonio, al quale sono attribuiti strani poteri magici. Tuttavia l'elemento fondamentale è che Apollonio, conoscendo molto bene il funzionamento del sistema del capro espiatorio, si pone nei confronti della città in modo emblematico: convince la gente che uccidendo un singolo individuo i problemi sarebbero scomparsi. Infatti una volta scelta la vittima riesce facilmente a far vedere alla folla oramai contagiata dal mimetismo (si comporta come vuole il guru) quello che egli stesso vuole che sia osservato, ossia che non si tratta di un uomo ma di un demone che in quanto tale è responsabile della pestilenza e dell'odio verso la comunità. Non a caso il capro espiatorio scelto è un mendicante straniero, vestito di stracci, sporco e apparentemente cieco. Rappresenta quella tipologia di persona che sta agli antipodi della comunità sociale, è il classico emarginato mal visto in genere da tutti. Proprio per questo gli Efesi possono convincersi della colpevolezza del pover'uomo, se fosse stato invece una persona di spicco non sarebbe probabilmente scattata alcuna scintilla tale da innescare l'atto violento. A riprova di ciò in un primo momento i cittadini non capiscono perché debbano ammazzare barbaramente, senza prove, il mendicante, rimangono sbigottiti ed increduli e sembra che Apollonio non riesca nel suo intento. Ora si presenta un altro problema: perché la folla unanime si scaglia improvvisamente contro la vittima lapidandola? Perché dopo le pressanti parole di Apollonio che tendono a distogliere l'attenzione dall'atto violento in sé parlando del mendicante come nemico degli dei qualcuno scaglia la prima pietra, qualcuno maggiormente contagiato e non di meno plagiato compie il gesto fondatore auspicato dal fomentatore? Successivamente tutti gli altri imitando il modello appena creatosi diventano talmente sicuri della colpevolezza dell'individuo che scorgono nei suoi occhi il fuoco, un segno demoniaco che accresce ancor più i sospetti: ora non resta che completare la lapidazione. Il brano si conclude con la ricomposizione del conflitto, con la conciliazione della folla ed un sentimento di giustizia che è stata fatta. Non bisogna sottovalutare la presenza nel testo della figura di Eracle: come visto sopra il meccanismo vittimario dei miti prevede un transfert di divinizzazione che permette, attraverso il riconoscimento della trascendenza della vittima, di nascondere e di far passare in secondo piano il transfert violento e barbaro cosicché la folla non comprenda il male commesso così da permettere un'ulteriore ricorso al capro espiatorio quando sarà richiesto. Tuttavia il 'miracolo' di Apollonio non rientra nella tipologia dei miti classici, come ad esempio il Dionisismo, ma presenta delle differenza essenziali che lo rendono un mito incompleto e di conseguenza incapace di nascondere pienamente la violenza commessa dalla massa. Infatti dopo la lapidazione gli Efesi non sembrano riconoscere al mendicante ucciso, anzi all'animale che sembra aver preso il suo posto, alcuna forza divina. Ed è proprio per questo che viene subito posizionata la statua di Eracle sul posto. Non ci si trova di fronte ad un meccanismo completo e spontaneo, ma ad un abbozzo di mito che proprio per questa deficienza permette di rendere ancor più chiara e comprensibile a noi la barbaria e l'aggressività esperita contro il capro espiatorio.

Adesso è necessario parlare brevemente del Dionisismo per comprendere quale sia l'essenza di un mito 'originale', le differenze con la lapidazione di Efeso e soprattutto la necessità dell'intervento salvifico dei Vangeli.

Girard, prima di parlare dei Baccanali, premette che per afferrare pienamente tale fenomeno bisogna esporre il significato antropologico delle feste. Le persone, nelle feste più generali, si riuniscono accomunate da caratteristiche comuni quali l'appartenenza ad un gruppo di amici, ad una società precisa ecc. e all'interno del 'convivio' le differenze tra i vari partecipanti vengono a mancare in quanto tutti sono uguali e partecipi della festa. Notiamo quindi uno stato di comunione di idee, azioni e quant'altro si vuole. La caratteristica più importante del ritrovarsi insieme consiste nella trasgressione: i limiti imposti dalla vita quotidiana in cui ognuno occupa un ruolo per così dire istituzionale passano ora in secondo piano permettendo il realizzarsi di azioni fuori dal normale che infrangono regole, divieti o anatemi imposti ad esempio dalla morale o dal ruolo ricoperto. La festa rappresenta il gioco della violenza attraverso la trasgressione: 'In quasi tutte le società vi sono feste che conservano a lungo un carattere rituale. L'osservatore moderno vi ravvisa soprattutto la trasgressione dei divieti. (.) La trasgressione va iscritta nel quadro più vasto di un generale annullamento delle differenze: le gerarchie familiari e sociale sono temporaneamente soppresse o invertite. I figli non obbediscono più ai genitori, i domestici ai padroni, i vassalli ai signori. (.) L'annullamento delle differenze, come ci si può aspettare, è spesso associato alla violenza e al conflitto. (.) Imperversano i disordini e la contestazione'(n). Tale analisi antropologica è valida anche per i Baccanali identificati da Girard come feste i cui elementi sociali sono stati sopra elencati. Le baccanti costituiscono un gruppo di persone unite dalla comunione con Dioniso raggiungibile attraverso il rituale descritto magistralmente da Euripide nella sua celebre tragedia. Ecco perché la festa mantiene sempre il proprio carattere rituale anche se in vari gradi di importanza ed evidenza. Nel caso specifico il tema dell'opera euripidea consiste nel rito bacchico, nello sparagmoV del capro espiatorio. Il carattere festivo dei Baccanali è evidente in quanto i vecchi si confondono con i giovani, le donne con gli uomini tradizionalmente superiori, ma esclusi da questo rito, i belli con i brutti. Questo è permesso dalla potenza unificatrice del dio: attraverso un potente contagio mimetico posto in essere dalla 'sue fedeli' baccanti asiatiche che imperversando a Tebe ne introducono il culto. Dioniso è conscio di quello che va a fare, egli vuole contagiare le tebane per farsi riconoscere dio a tutti gli effetti da Penteo, re della città, il quale si ostina a non volerlo venerare. Si crea di conseguenza un rapporto conflittuale iniziale tra Penteo e Dioniso, rapporto che avrà il proprio epilogo tragico con l'immolazione del re da parte delle baccanti accecate dall'estasi dionisiaca che altro non è che il contagio mimetico come descritto da Filostrato nella Vita di Apollonio. Come gli Efesi accecati vedono nel mendicante un demone, così le Menadi tebane, anch'esse accecate, scambiano Penteo con un animale (in questo caso un leone), animale che costituisce il capro espiatorio di ogni rituale dionisiaco. Tra Bromio (sinonimo di Bacco) ed il re di Tebe intercorre una rivalità tipica dei doppi: l'uno odia l'altro, ma ne è necessariamente attratto per il raggiungimento del proprio scopo. In questo caso la superiorità del dio, trascendente, è rivelata in quanto egli, immune al contagio mimetico e fondatore di esso, attende il passo falso di Penteo, umano e aperto al contagio, che ad un certo punto non resiste dal restare escluso dal rituale segreto e misterioso che si svolge alla porte della città. Ecco che le Menadi vedono in lui, uomo, il capro espiatorio perfetto: quella persona pericolosa per l'unità del gruppo. Il baccanale sul Citerone quindi degenera, com'è potenzialmente possibile in una normale festa, nella violenza: Penteo viene smembrato consentendo alle Menadi di venire in comunione con il proprio dio e terminare il rituale. Ecco il doppio transfert automatico ed inconscio che qualifica come mito il Dionisismo: all'immolazione del capro espiatorio (transfert dell'aggressività) segue il riconoscimento della trascendenza della vittima che consente la comunione con Dioniso attraverso il corpo smembrato (transfert di divinizzazione spontaneo). Il dio ha raggiunto il proprio scopo: farsi vendetta. Un primo raffronto tra i due esempi concreti qui riportati riguarda la vittima; il medicante di Efeso appare a tutti innocente, mentre Penteo è in qualche modo doppiamente colpevole, da un lato di non venerare una divinità, dall'altro di aver infranto le regole del baccanale travestendosi da donna per parteciparvi: la violenza conclusiva appare giustificata. Le baccanti, ad eccezione di Agave, al risveglio dall'estasi dionisiaca non si rendono conto del male fatto in quanto la comunione con Dioniso ha nascosto tale meccanismo. Si può notare come fino a questo momento i miti per raggiungere la pace sociale scacciano la violenza con altra violenza. Non è presente né un processo alla vittima, né la possibilità per essa di difendersi: se questo fosse consentito allora il mito non sarebbe concluso, il disordine sociale imperverserebbe ancora. Ma non può essere possibile nemmeno una società votatasi alla violenza totale.

Ed ecco il ruolo fondamentale di Cristo: egli essendo della stessa sostanza del Padre, possedendo un'essenza metafisica è immune al contagio mimetico potendo così osservare il meccanismo vittimario dall'esterno in modo tale da svelarne la violenza, la barbaria, il male e l'insensatezza. I Vangeli perciò spazzano via i miti rivelandone il meccanismo, rivelando che la vittima sacrificata ingiustamente non è colpevole, non deve essere immolata poiché la violenza non scaccia la violenza, ma la crea, contribuisce a costituire un circolo vizioso nel segno della violazione dei diritti umani. Il capro espiatorio è anch'esso una persona, è una creatura di Dio. Girard analizza, nella sua ultima opera (n), i Vangeli dal punto di vista antropologico sottolineando il primato dell'insegnamento Giudaico-Cristiano che si vota al rispetto della persona, alla tutela delle vittime innocenti e immolate ingiustamente: 'La Resurrezione di Cristo corona e porta a termine il sovvertimento e la rivelazione della mitologia, dei riti, di tutto ciò che assicura la fondazione e la perpetuazione delle culture umane. I Vangeli rivelano tutto quello di cui gli uomini hanno bisogno per comprender la loro responsabilità nelle infinite violenze della storia umana e nelle religioni menzognere che ne derivano. (.) L'elaborazione mitica si fonda su un'ignoranza, anzi su un'inconsapevolezza persecutoria che i miti non arrivano mai a identificare, dal momento che ne sono dominati'(n). Bisogna però specificare che Girard non è un autore metafisico, ma che analizzando antropologicamente i comportamenti umani, si rende conto dell'eccezionale 'scoperta' che i Vangeli e la Bibbia fanno sempre su un piano meramente antropologico.

L'autore francese identifica l'età pre cristiana (quella dei miti) con il Regno di Satana: Satana è il portatore di violenza per eccellenza, è il padre dei miti e della menzogna, è il fondatore del meccanismo vittimario in quanto lo sostiene e ne è il fondamento. Cristo si rivolge così alle genti parlando di Satana: 'Perché non comprendete il mio linguaggio? Perché non potete dare ascolto alle mie parole, voi che avete per padre il diavolo, e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin dal principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna' (Gv.8, 43-44). Non bisogna però intendere Satana dal punto di vista religioso, ma da quello meramente antropologico: egli è il portatore di scandali per eccellenza dove per scandalo s'intende il meccanismo vittimario e le sue inevitabili conseguenze tragiche. Satana è, prendendo alla lettera i testi evangelici, il Re delle Tenebre: secondo Girard le tenebre non sono altro che una metafora per indicare la condizione di accecamento della folla in preda a frenesia mimetica che non sa quello che fa! Ecco perché Cristo in punto di morte chiede perdono per i suoi aguzzini che non sanno quello che fanno: sono ancora incapaci di comprendere il male che vanno a commettere e che le folle hanno commesso in secoli di storia caratterizzata dai miti e dal processo vittimario. 'E' la famosa frase che Gesù pronuncia dopo essere stato crocefisso: -Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno- (Luca, 23, 34). Come per le altre frasi di Gesù, dobbiamo guardarci dallo svuotare queste parole dal loro senso fondamentale riducendole a una formula retorica, a un'iperbole lirica. Ancora una volta bisogna prendere Gesù alla lettera. Egli descrive l'incapacità, da parte della folla scatenata, di vedere la frenesia mimetica che la scatena. I persecutori credono di << far bene >> e sono convinti di operare per la verità e la giustizia, credono di salvare in tal modo la loro comunità'(n). Ma come riesce Gesù a svelare il meccanismo vittimario consentendo agli Apostoli di descriverlo nella sua brutalità nei Vangeli? Girard per rispondere a questa essenziale domanda analizza la persecuzione di Cristo da un punto di vista antropologico raffrontandola con il classico processo del capro espiatorio tipico della mitologia. Innanzitutto sostiene che fino al momento della Resurrezione il procedimento è quasi uguale: la comunità giudaica si sente minacciata dalle predicazioni di Cristo ed individua in lui un perfetto capro espiatorio. Pilato, comprendendo la situazione critica venutasi a creare, preferisce assecondare la folla ostile a Gesù mettendo la sua sorte in mano al popolo. In preda a frenesia mimetica il popolo, unanime, lo condanna a morte. Anche i discepoli sembrano essere inglobati nel contagio mimetico: infatti Pietro rinnega il suo Maestro non volendo contestare l'opinione comune nel rischio di essere immolato anch'egli. Tuttavia la vera unicità del messaggio cristiano sta nella Resurrezione: se il primo transfert, quello dell'aggressività è stato compiuto, quello conclusivo invece viene evitato, per la prima volta il meccanismo vittimario è sconfitto, Satana è stato sconfitto. Già il Venerdì Santo i fenomeni atmosferici descritti dai Vangeli al momento della morte di Cristo fanno sorgere una minoranza contestataria: alcuni persecutori si rendono conto del proprio errore, capiscono che hanno commesso un atto ingiustificato, riconoscono l'unicità di colui che hanno crocefisso. Ma questo non sarebbe sufficiente. Dopo tre giorni Gesù appare, Risorto, agli Apostoli, porta con sé il dono della Grazia, lo Spirito Santo, la Redenzione dell'umanità colpevole per secoli di aver messo a morte o espulso ingiustamente dei loro simili, degli uomini anch'essi figli di Dio. Attraverso i Vangeli Matteo, Marco, Luca e Giovanni fanno conoscere il messaggio di Cristo, rendono consapevoli le comunità della falsità del Regno di Satana (mitologia, processo vittimario) e del primato del Regno di Dio che è il Regno dell'Amore, del Perdono, della vita pacifica, del riconoscimento dei diritti umani, del riconoscimento dell'inviolabilità della persona in quanto creatura divina. Non ci devono essere più vittime espiatorie, mai più sacrifici inconsistenti e ininfluenti per il raggiungimento della pace sociale. Il Cristianesimo segna il trionfo della Croce e la sconfitta di Satana che 'cade come la folgore', vede infrangere il suo principato votatosi alla violenza mimetica: 'Il trionfo della Croce non è ottenuto in alcun modo con la violenza, ma al contrario è il frutto di una rinuncia così totale alla violenza che quest'ultima può scatenarsi a sazietà su Cristo, senza sospettare di rendere palese proprio con il suo comportamento ciò che le sarebbe vitale nascondere, senza sospettare che tale scatenamento le si ritorce stavolta contro, perché sarà registrato e rappresentato nella maniera più esatta nei resoconti della Passione (i Vangeli)'(n). Ed ancora: 'La sofferenza sulla Croce è il prezzo che Gesù accetta di pagare per offrire all'umanità questa rappresentazione vera dell'origine di cui resta prigioniera, e per privare a lunga scadenza il meccanismo vittimario della sua efficacia'(n). Qualora non ci fossero stati i Vangeli l'umanità sarebbe tutt'ora sottoposta ai processi che culminano con il sacrificio del capro espiatorio, con atti di pseudo-giustizia sommaria, con atti di usurpazione del potere: 'E' laddove non è rappresentata che la frenesia mimetica può esercitare un ruolo generatore per il fatto stesso che non è rappresentata. (.) Le società mitico-rituali sono prigioniere di una circolarità mimetica alla quale non possono sottrarsi proprio perché non la identificano'(n). Gesù, con i suoi comportamenti, istituisce un contro-modello cristiano che, opponendosi a quello tipico della mitologia, fa sì che chi lo segue interrompe il ciclo di violenza satanico infrangendo la barriera della folla unanime che si scaglia contro il capro espiatorio. Per la prima volta una minoranza contestataria segue Cristo e non la folla, segue il modello buono. Imitare Cristo significa imitare indirettamente Dio.

Oltre alle sostanziali differenze che ho fin qui menzionato Girard sostiene che se da un lato nei miti la narrazione vede come soggetto la folla scatenata contro una vittima colpevole, i Vangeli invece narrano le vicende di Cristo, soggetto, come vittima innocente sacrificata per il bene dell'umanità. Si potrebbe pensare che anche la Crocifissione faccia parte del meccanismo 'violenza scaccia violenza' e ciò non è sbagliato, ma se nella mitologia questo circolo è infinito, sempre necessario, con la morte di Gesù invece esso ha termine una volta per tutte: la violenza tutti contro uno non sarà più, almeno in teoria, fondamentale, Cristo ha rivelato ed introdotto il Regno dell'Amore di Dio, del rispetto per la persona umana ei suoi diritti.

Tuttavia la storia sembrerebbe contraddire la teoria girardiana: analizzando ad esempio le persecuzioni razziali, l'Olocausto, i processi per stregoneria ed i roghi medievali si potrebbe concludere che il messaggio di Gesù è stato ininfluente e insignificante. Queste sono infatti le maggiori argomentazioni utilizzate da chi si oppone al Cristianesimo definendolo una religione che non condanna la violenza e che non presta la dovuta attenzione alle vittime sacrificali. Tuttavia l'antropologo francese specifica come queste accuse non sussistano: la rivoluzione concreta operata dai Vangeli e dalla Bibbia consiste nell'aver formato una minoranza contestataria, anche esigua come ad esempio erano ab origine gli Apostoli, capace di riconoscere i tentativi di meccanismo vittimario (consustanziali all'uomo) e di conseguenza ferma nel condannarli. Qualora non ci fossero stati gli anti nazisti il progetto di Hitler avrebbe trionfato: il mondo avrebbe visto lo sterminio degli Ebrei come un qualcosa di giusto e necessario! Lo stesso vale per i roghi medievali condannati attualmente dal Santo Padre che più d'una volta ha chiesto perdono per la morte di vittime innocenti. Ed è in questo frangente che si deve introdurre il discorso sul sistema giuridico a cui Girard dedica varie pagine nelle sue opere. Innanzitutto afferma quanto segue: 'Esaminiamo in primo luogo il piatto della bilancia che contiene i nostri successi: dall'alto Medioevo in poi, tutte le grandi istituzioni umane si evolvono nel medesimo senso, il diritto pubblico e privato, la legislazione penale, la pratica giudiziaria, lo statuto giuridico delle persone. All'inizio tutto si modifica assai lentamente, ma il ritmo si accelera sempre più nel corso del processo e, se esaminiamo le cose nel loro insieme, vediamo che l'evoluzione va sempre nella stessa direzione, l'addolcimento delle pene, la protezione crescente delle vittime potenziali. La nostra società ha abolito la schiavitù e poi l'asservimento. (.) Ogni giorno si varcano nuove soglie. (.) L'unica voce sotto la quale si può raccogliere ciò che sto qui sintetizzando alla rinfusa, e senza alcuna pretesa di completezza, è la preoccupazione verso le vittime'(n). Questa preoccupazione per le vittime innocenti è in linea con quanto il Regno di Dio prevede ossia il perdono ed il rispetto reciproco. E di conseguenza tali aspetti andranno sicuramente a costituire i molteplici sistemi giuridici tipici dello stato democratico fondato grazie all'insegnamento cristiano.

Girard sostiene che la funzione principale del sistema giuridico è quella di allontanare il grave pericolo della vendetta in quanto, basti considerare le società arcaiche, qualora sia innescato un meccanismo di giustizia privata basato sul ricambiare il torto subito tale spirale di violenza sarà potenzialmente interminabile. Si darebbe avvio così ad un blood feud, ad una concatenazione di singoli episodi di vendetta che potrebbero portare all'estinzione della comunità sociale: 'C'è un circolo della vendetta che noi non sospettiamo neppure a qual punto gravi sulle società primitive. Per noi tale circolo non esiste. Perché un simile privilegio? A questa domanda è possibile offrire una risposta categorica sul piano delle istituzioni. E' il sistema giudiziario che allontana la minaccia della vendetta. Non sopprime la vendetta: la limita effettivamente a una rappresaglia unica il cui esercizio è affidato a un'autorità suprema e specializzata nel suo campo. Le decisioni dell'autorità giudiziaria s'impongono sempre come l'ultima parola della vendetta'(n). Come si può notare per l'antropologo francese, anche all'interno delle istituzioni giuridiche, è praticata una particolare tipologia di vendetta: una vendetta pubblica, che più che vendetta è preferibilmente definibile come tutela degli interessi statali e della comunità in generale. Un sistema che non preveda alcuna pena sembra una mera utopia, infatti sarebbe plausibile solo qualora l'uomo vivesse nel rispetto dei diritti altrui, in pace e concordia, ma tale ipotesi è subito scartata perché sia sulla base delle teorie ad esempio di Hobbes, Locke o Rousseau, sia soprattutto in base al pensiero girardiano possiamo realizzare come l'uomo non sia un essere buono di natura, ma aperto ai conflitti. Poco importa che questi conflitti derivino da guerre intestine, o dalla minaccia al diritto di proprietà, o dal degenerare di rapporti mimetici triangolari. Quello che importa è ribadire che una società priva di organi giurisdizionali garanti della pace, del rispetto delle leggi e dei diritti fondamentali non può esistere senza lo spettro di conflitti bellici interpersonali. Quello ipotizzato da Girard sembra essere uno stato basato sui principi dello stato di diritto quali separazione dei poteri, sovranità impersonale della legge e rispetto della persona umana poiché solo uno stato democratico è in grado di garantire un potere indipendente e sovrano alla magistratura in modo tale da far sì che le sentenze siano definitive, accettate da tutti e di conseguenza tutrici dei diritti della comunità. La magistratura ha il monopolio della violenza, è l'unico organo titolare del potere di emettere condanne per prevenire cicli infiniti di vendette private. Le sentenze si rifanno così all'idea di giustizia assoluta, a quel principio supremo che consente, per il bene del popolo, il ricorso alla violenza, ad una violenza legale, legittima e trascendente proprio perché ispirata da un'idea assoluta.

Successivamente sono degne di nota le seguenti parole: 'Nel sistema penale non vi è alcun principio di giustizia che differisca realmente dal principio di vendetta. E' il medesimo principio ad agire nei due casi, quello della reciprocità violenta, della retribuzione. O tale principio è giusto e la giustizia è già presente nella vendetta, oppure non c'è giustizia in nessun caso. Di colui che si fa vendetta da solo, la lingua inglese asserisce: He takes the law into his own hands << prende la legge nelle sue stesse mani >>. Non c'è differenza di principio tra vendetta privata e vendetta pubblica, ma vi è un'enorme differenza sul piano sociale: la vendetta pubblica non è più vendicata; il processo è finito; il pericolo di escalation è scongiurato'[11]. Ecco l'innovazione proposta dalle società civili: impedire un circolo vizioso e potenzialmente fatale di singole vendette private intraprese dai vari gruppi familiari delegando la funzione giurisdizionale a singoli organi da tutti riconosciuti. La vendetta consiste in un ricorso al sacrificio, al polarizzare su un'unica vittima i dissidi e l'odio delle parti in conflitto. Girard riassume così i mezzi messi in atto dagli uomini per proteggersi dalla vendetta interminabile: '1. i mezzi preventivi riconducibili tutti a deviazioni sacrificali dello spirito di vendetta; 2. gli accomodamenti e gli impedimenti alla vendetta, come composizioni, duelli giudiziari, ecc, la cui azione curativa è ancora precaria; 3. il sistema giudiziario la cui efficacia curativo è senza pari' .

L'ultima considerazione la vorrei riservare a quanto l'antropologo francese afferma in merito alla pena di morte. Girard premette che il linciaggio, il cui funzionamento ho esposto in precedenza portando l'esempio della lapidazione di Efeso, rappresenta un meccanismo di giustizia collettiva pre-giuridico: infatti il transfert dell'aggressività consiste spesso nel linciaggio della vittima espiatoria che quindi è parte integrante del meccanismo vittimario. Come già visto tale meccanismo è tipico delle società arcaiche, antecedenti il messaggio cristiano, che svolgono le loro pratiche giuridiche quasi esclusivamente mediante azioni di violenza privata vendicatrice. Non rappresentano per lo più un'eccezione nemmeno i tribunali dell'antica Grecia in quanto gli elementi arcaici di essi sono troppo forti per poter consentire il paragone tra giustizia delle poleiV e sistemi giuridici moderni (basti pensare al Pritaneo, tribunale che giudicava gli imputati in contumacia sentenziando la distruzione dell'arma, o in genere alla consuetudine di far svolgere i processi all'aperto per evitare una contaminazione dell'intera comunità, oppure anche alla prassi che vedeva l'imputato di omicidio seguire il processo solo da un'imbarcazione sul mare per sottolineare la volontà di preservare la società da contaminazione). Il linciaggio, come violenza collettiva, non da spazio alla giustizia processuale sia perché essa non è prevista, sia perché l'immolazione della vittima avviene in brevissimo tempo. La pena di morte, istituzione ancora presente in molti stati moderni, è vista da Girard come nient'altro che un sacrificio non riconosciuto come tale, come una moderna forma di linciaggio reso legale e legittimo. Il potere giuridico si affida ancora alla pena di morte perché pressato dal mimetismo della massa che la richiede come strumento di giustizia, come proiezione dell'arcaico sacrificio espiatorio tanto condannato dal Cristianesimo. Sembra quasi un paradosso la sussistenza della pena capitale in stati democratici di matrice cristiana. Tuttavia, da un punto di vista euristico, si potrà facilmente constatare come l'esecuzione del condannato non provochi ulteriori dissidi e conflitti all'interno della società, ma come invece sia uno strumento di maggiore coesione e certezza che 'giustizia è stata fatta'. Questo perché conserva nel suo essere le caratteristiche principali del sacrificio rituale che come Girard ha dimostrato ha sempre riportato la pace nella comunità fin dalla fondazione del mondo.

La prospettiva di Girard per il futuro, alla luce degli attuali episodi di violenza nel mondo, si concretizza nella viva speranza che l'uomo sappia disporre intelligentemente della propria libertà: auspica un ritorno alla Bibbia, ai Vangeli, gli unici scritti realmente depositari di un insegnamento millenario ma sempre attuale, ossia il rispetto per il prossimo e la tutela di ogni vittima potenziale. L'umanità deve in questo momento come in nessun altro seguire Cristo, seguire il Regno di Dio, il Regno dell'Amore e del Perdono.

(completare e sistemare)



4 Comparazione tra diversi autori e punti di forza e di debolezza delle teorie di Pharo.



La differenze tra Pharo e Girard sono grandi, il primo si mette nel solco del (pensiero più razionalista?, positivista? Iluminista?) ha una visione più materiale, liberale e evoluzionista della storia e della società, la storia non ha un fine come un'azione sociale non ha un fine generale predefinito (riferimento a Weber), la storia (così come l'azione sociale, ed anche qui Pharo è molto weberiano) e l'azione sociale sono il risultato di più storie particolari, dell'azione di più uomini, i quali sono guidati dai motivi più diversi e disparati che alla fine generano un prodotto diverso da quello previsto (e o voluto) inizialmente e dai singoli componenti (eterogenesi dei fini? Mettere?). Il secondo, Girard, ha un'impostazione più religiosa e cristiana, la storia come l'azione, anche se non percepibile dagli uomini ha un senso, un approccio antropologico di tipo storico culturale qui è molto più evidente. Mentre per Pharo il "legame civile" ciò che fonda un gruppo od una civiltà è più positivo, in Girard assume un'importanza rilevante, il sangue, il sacrificio, il capro espiatorio e addirittura, l'omicidio rituale.

Per Schmitt invece è la norma che fonda (mettere bene), si potrebbe dire, come è già stato affermato qui, che la legge viene prima della civilizzazione, prima della creazione di uno stato (il "nomos" della terra), prima la norma poi lo stato.

Altre differenze tra i tre Girard:  violenza necessaria subita, Carl Schmitt: violenza necessaria (subita e fatta subire); Pharo legame civile e dialogo (vedere i punti in comune e le aporie di Pharo). Per Pharo non esiste un "senso", manca la componente sacra, manca il mito, è più relativista in fondo anche se lui cerca di allontanarsi da un atteggiamento eccessivo di questo tipo. (Basterà per fondare una convivenza? Una civiltà? (p.82 su correzione)










Conclusioni.


Pharo rivaluta i "lumi" e l'eredità illuminista, molto razionalmente (e molto illuministicamente) cerca di trovare ulteriori fondamenti razionali per una nuova civilizzazione, per una, come la chiama lui stesso, civilizzazione morale vuole concretizzare un progetto di una Sociologia semantica e morale, vuole reimpostare una sorta di disciplina descrittiva e normativa. (Pharo, 200x, p. 356)

(si vuole distaccare dal relativismo, lui afferma che si avrebbe torto a lasciarsi impressionare dall'evidenza relativista, si deve almeno tenere conto di ciò che nei giudizi morali divergenti  dipende da un larghissimo consenso morale. "punti di vista ultimi" di Weber.(Pharo, 2004, p.357). (citare Chesterton e Guariglia? Razionalità della religione ).










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