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La devianza tra i devianti




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LA DEVIANZA TRA I DEVIANTI








1. Introduzione


Da quanto detto finora, dopo aver analizzato la comunità carceraria attraverso esempi di pratica quotidiana, si può sicuramente dire che anche in carcere «la devianza è ogni atto o comportamento (anche se solo verbale) di una persona o di un gruppo che viola le norme di una collettività e che di conseguenza va incontro a qualche forma di sanzione» . La devianza non è l'atto o il comportamento in sé, ma deriva dalle risposte e dai significati dati a questi atti dalla collettività o dalla maggioranza di essa.

Da queste considerazioni si può dedurre che tutte le teorie che valgono per la società civile, valgono anche per la comunità carceraria. Essa riflette esattamente la società civile insieme a tutte le caratteristiche individuali. Per cui ci sono i buoni come i cattivi, gli onesti come i disonesti, gli studenti come gli operai o i nullafacenti, i vigliacchi e gli infami, i belli come i brutti, e così via. Con una sola differenza: sono tutti considerati devianti dalla società civile e dalle Istituzioni, e tutti, o quasi, hanno trasgredito le norme del codice penale. Usando l'espressione di Becker, si può dire che a tutti è stata applicata con successo l'etichetta di outsider .

Se tutti gli appartenenti alla comunità carceraria sono dei devianti possiamo concludere che "la devianza in carcere è la "normalità". Dunque il detenuto, considerato nell'ambito del suo micro-sistema, e solo dal punto di vista del gruppo di cui fa parte, è un "normale". Nella comunità così "normalizzata" le tecniche nel controllo e nella prevenzione dei comportamenti non conformi, sono diverse da quelle giuridiche, cioè quelle imperniate sul diritto penale.

Tenendo presente il concetto appena esposto, esiste la devianza tra i "normali"? La risposta è sicuramente positiva, dato che l'esistenza di norme, siano esse formali o informali, produce la devianza. Inoltre la concezione relativistica della devianza vale anche nel contesto carcerario; così possiamo dire che «si può parlare di comportamento deviante solo concependo il comportamento sociale come comportamento regolato da norme fondate su determinate idee di valore» . Il fatto stesso che la devianza in carcere è la "normalità" indica che i valori di riferimento sono diversi rispetto alla società civile; ma la devianza dipende anche dall'ambiente carcerario e dal luogo: per esempio, le "regole della tavola", di cui si è parlato sopra, sono valide in un carcere con celle composte di molte persone, ma non valgono in un carcere che prevede celle a due persone; ci sono, però, atti e comportamenti che sono considerati devianti in tutte le comunità carcerarie (anche nella società civile, anche se per motivi diversi): atti di omosessualità o transessualità, pedofilia, sfruttamento della prostituzione, stupro, infamità, pentitismo, malati patologici (affetti da AIDS, malati mentali, ecc.).

La devianza dipende anche da chi commette l'atto, dal suo ruolo nella comunità, dal suo carattere. Gli atti devianti commessi dalle èlites è difficile scoprirli «giacchè li si perpetra all'interno di circoli chiusi di persone unite da reciproche complicità, da lealtà verso l'organizzazione ed esprit de corps, gente che di norma sa prendere misure efficaci per individuare, mettere a tacere o eliminare potenziali spie» . Inoltre la vigilanza della popolazione detenuta su certe personalità è molto discontinua e sporadica, se non inesistente.

Da questo punto di vista si può dire che anche in carcere molto spesso si fa ricorso a "tecniche di neutralizzazione" che permettono di «neutralizzare il controllo sociale informale, o meglio la disapprovazione e i rischi di stigmatizzazione, attraverso l'adozione di alcune strategie, che possiamo chiamare di negazione, utilizzate per occultare i propri reati e conservare prestigio e rispettabilità sociale» . La tecnica più usata è la negazione di un atto o un comportamento: è usata da tutti quelli che commettono un atto riprovevole verso la comunità, ma generalmente, sono i detenuti più vicini al potere ad utilizzarla (nella società civile la negazione è una tecnica di neutralizzazione usata per lo più dai colletti bianchi).

O.V. Guidoni, seguendo la classificazione di Cohen, evidenzia tre tipi di negazione o di diniego , che possono essere ricordate anche in riferimento alla comunità carceraria:

  • Negazione letterale. L'accusato afferma di non avere bisogno di giustificarsi, scusarsi o riconoscere il suo errore in quanto l'atto è una pura invenzione ("non è vero niente, non sono stato io").
  • Negazione interpretativa. Questo tipo di negazione mira ad assegnare all'episodio incriminato un significato diverso, o costruirlo in maniera da non risultare un episodio da stigmatizzare ("ciò che è accaduto non è ciò che sembra").
  • Negazione implicita. È una strategia che tende a «minimizzare, giustificare, scusare le implicazioni morali e psicologiche di ciò che è avvenuto. Le due forme principali di negazione implicita sono le scuse e le giustificazioni»[7].

Le giustificazioni sono molto importanti perché le più ricorrenti all'interno della comunità carceraria, come anche nella società "libera", e sono: diffusione della responsabilità o cinismo [.], diniego dell'offesa [.], negazione della vittima [.], la condanna di chi ti condanna [.], richiamo a lealtà superiori [.][8].

La "devianza per eccellenza" è quel comportamento o atto ritenuto riprovevole da tutte le comunità carcerarie. I devianti di questa categoria (omosessuali, pedofili, stupratori, ecc.), esclusi i pentiti e qualche volta gli infami, non hanno alcun rapporto con il resto della popolazione detenuta, in quanto sono considerati detenuti a rischio di incolumità personali e in quanto tali sono destinati dall'Amministrazione in reparti speciali fin dal loro ingresso in istituto. Non essendoci rapporti con il resto della comunità carceraria non sono importanti ai fini del nostro lavoro. I cosiddetti pentiti e gli infami appartengono alla stessa categoria di devianti ma è necessario soffermarci nei prossimi paragrafi su di loro in quanto sono o sono stati parte integrante della comunità carceraria, anzi spesso appartengono a quella classe "potente" altamente carcerizzata.



2 L'influenza delle norme sul detenuto


Prima di inoltrare il discorso sulla "devianza tra i devianti" è necessario comprendere quali sono le norme che maggiormente indirizzano le scelte dei detenuti, tenendo presente che ci sono diversi ordinamenti normativi che intervengono, in modo più o meno influente, sulla vita comunitaria.


Norme comunitarie norme istituzionali

DET

norme sociali esterne                norme sociali esterne

giuridiche non giuridiche



Lo schema sopra evidenzia che oltre alle norme comunitarie, di cui ampliamente si è parlato sopra, esistono altre regole a cui il detenuto è costretto a rivolgersi o, semplicemente, ne tiene conto nel corso della carcerazione, a seconda della situazione: le norme istituzionali, corrispondenti nel nostro caso al regolamento penitenziario, le norme sociali esterne giuridiche, ossia le leggi, e le norme sociali esterne di tipo non giuridico, cioè quelle norme di convivenza civile che egli ha interiorizzato in passato, molte delle quali fanno parte anche delle norme comunitarie.

Tenendo presente la tipologia dei detenuti, esaminata nel precedente capitolo, si può affermare sia che non tutti gli individui interiorizzano una norma comunitaria piuttosto che una giuridica o di altro tipo, sia che non tutti usano le medesime norme per gli stessi fini. Ma tutti usano questa o quella norma in base alla convenienza o alla situazione. È ovvio, che le norme comunitarie, per esempio, saranno interiorizzate meglio dai "boss mafiosi" e dagli "affiliati" rispetto alle altre tipologie di detenuti. Questi detenuti probabilmente hanno, o hanno maturato, una morale comune contrapposta a quella "civile", dalla quale nascono tutte le regole sociali, sia esse giuridiche o non giuridiche, ordinamento penitenziario compreso. La loro morale nasce in un ambiente delinquenziale, anzi il carcere serve da camera di riflessione e di inculcamento, per poi essere diffusa nella società civile. È stato detto che il loro grado di "prigionizzazione" è molto alto, per cui è facile immaginare che loro sentano come proprie le sole norme comunitarie. Le cose stanno diversamente se prendiamo in considerazione gli altri detenuti: "delinquenti abituali", "detenuti non etichettabili" e "devianti per eccellenza".

La categoria dei "delinquenti abituali" è molto ampia e comprende in sé detenuti di diversa estrazione sociale e la maggior parte di essi hanno alle loro spalle reati soprattutto contro il patrimonio (furti, rapine, scippi), ma anche reati legati allo spaccio di sostanze stupefacenti. Spesso, si è detto, diventano "affiliati" ed in tal caso le sole norme alle quali si ritengono legati sono quelle "comunitarie", mentre non riconoscono le altre, soprattutto quelle che riguardano il regolamento penitenziario interno, anche se sono costretti ad osservarlo. In caso contrario, il comportamento dei "non affiliati" è situazionale, nel senso che, nel caso in cui le norme che regolano un certo comportamento sono in contrasto tra di loro, seguono razionalmente quelle più favorevoli. Probabilmente si sentono più vicini alle norme "comunitarie", solo per convenienza, opportunisticamente, ma agiscono individualmente, non accettano "decisori" o "mediatori", siano essi istituzionali o amicali per risolvere le loro controversie. Vivono il carcere in modo anarchico, ed è questo uno dei motivi per cui sono persone maggiormente sanzionate sia dalla comunità che dall'Istituzione.

È sui detenuti "non etichettabili" che questa sorta di pluralismo normativo agisce in maniera devastante, soprattutto all'inizio della "carriera". Provengono spesso da una cultura non deviante, inseriti molto bene nella società, legati a valori molto diversi, direi opposti rispetto al resto dei detenuti, e, almeno fino al giorno del reato, hanno probabilmente sempre rispettato anche le regole sociali giuridiche. In altre parole, tutte le regole civili sono bene interiorizzate in loro e non conoscono quelle "comunitarie", che sentono oppressive per la libertà d'azione individuale da un lato, e costrittive dall'altro, in quanto la loro violazione determina sempre una sanzione e non lasciano alternative di comportamento. Non riconoscendo i valori dai quali discendono tali norme, non vengono accettate come regole proprie ma, almeno finchè non sono in contrasto con altre norme, vengono seguite per pura convenienza o per paura di incorrere in qualche particolare forma di sanzione.

Il conflitto tra le norme comunitarie e le norme penitenziarie o istituzionali avviene soprattutto in situazioni in cui si trovano in contrasto il «principio dell'omertà», secondo cui nessun detenuto deve "infamare" un altro detenuto, punto fermo nella comunità carceraria, e la pressione alla denuncia del fatto avvenuto o del suo responsabile in caso di avvenimenti passibili di sanzioni previste dal regolamento penitenziario, esercitata dalle autorità, molto spesso manifestamente, attraverso la promessa di benefici o, in caso di mancata delazione, di sanzioni punitive. È difficile affermare con assoluta certezza quali siano le norme che prevalgono in questi casi. Certamente dipende dal grado di "prigionizzazione" del detenuto in questione, ma anche dalla durezza delle sanzioni che scaturiscono da entrambi i regolamenti normativi e dai benefici. Se il beneficio "amministrativo" è concreto, nel senso che si riflette materialmente sulla carcerazione, magari avviando il detenuto sulla strada dei benefici premiali previsti dalla normativa penitenziaria (permessi-premio, liberazione anticipata, affidamento in prova ecc.), allora egli è più stimolato a denunciare un proprio compagno, magari sottobanco per evitare finchè possibile l'etichetta di deviante da parte della comunità carceraria; in caso contrario, la minaccia della sanzione "comunitaria" è molto più efficace. Non bisogna dimenticare che un detenuto può trovarsi a scegliere un comportamento da attuare nel momento in cui già, per esempio, usufruisce di permessi premio. La minaccia di perdere tale beneficio può fungere da stimolo alla denuncia.

Anche sui "devianti per eccellenza" le norme esercitano la stessa pressione, con la differenza che molti di loro nutrono un certo rancore per la comunità carceraria, soprattutto se ritengono di essere stati giudicati male. Per cui è molto facile che essi siano più propensi a disconoscere le regole comunitarie e ad accettare quelle istituzionali.

In conclusione può dirsi che, quasi sempre, seguire un comportamento dettato da una norma piuttosto cha da un'altra dipende dal tipo di sanzione che i vari "ordinamenti" minacciano e dal tipo di beneficio che promettono, per cui è una scelta razionale attuata esclusivamente per convenienza personale. Le norme, di qualsiasi tipo esse siano, hanno valore e influenza soltanto finchè convengono al detenuto in questione; in caso contrario, vengono infrante sistematicamente, magari attuando strategie di nascondimento.




3 La devianza come scelta razionale


Il pentitismo è un fenomeno che ha preso piede soprattutto dopo la legge n. 82 del marzo 1991, la quale contiene misure per la protezione di coloro che collaborano con la giustizia, i cosiddetti pentiti. La recrudescenza di gravi fenomeni di criminalità organizzata ha portato il legislatore a introdurre, da un lato disposizioni repressive più severe ampliando l'ambito dell'applicazione delle misure di prevenzione, dall'altro, ha derogato alla ordinaria disciplina del codice di procedura penale. «La tendenza a formalizzare un doppio binario [.] ha investito anche la disciplina penitenziaria, che l'art. 4 bis ord.penit. (introdotto dall'art. 1 d.l. n. 152/91 convertito in l. n. 203/91) differenzia per la criminalità organizzata ed eversiva»[9]. In seguito, l'art. 16 nonies l. n. 82/91, aggiunto dalla l. n. 45/2001 ha sancito che i collaboratori di giustizia potevano essere ammessi alle misure alternative alla detenzione in deroga alle regole ordinarie. Questa legge, intesa a combattere con strumenti nuovi la criminalità organizzata, ha contribuito a creare una particolare tipologia di deviante all'interno della comunità carceraria: il pentito.

Quella di essere "pentito" è sicuramente una scelta razionale, poiché, come l'homo oeconomicus, calcola costi e benefici, decide cioè se passare tutta la vita in carcere o denunciare i propri compagni ed avere la possibilità di rifarsi una nuova vita, lontano dall'ambiente in cui è cresciuto. Dal momento in cui decide di "saltare il secchio" (altro termine gergale che sta per "passare dall'altra parte della barricata"), cioè di collaborare con la giustizia, il pentito è considerato dalla comunità un infame e come tale, rientrando nella tipologia dei "devianti per eccellenza", viene trasferito in sezioni speciali, naturalmente per evitare conseguenze molto gravi per la sua incolumità. Probabilmente senza la previsione di determinati benefici ( anche se ci possono essere persone veramente pentite, in senso spirituale o religioso, delle loro azioni), il pentito non avrebbe mai scelto la strada della devianza.

Prendendo in prestito il modello "mertoniano", possiamo considerare la libertà (intesa come spazio libero) come l'unica meta a cui tutti i detenuti tendono; l'unico mezzo per raggiungerla è tenere regolare condotta, ossia manifestare «costante senso di responsabilità e correttezza nel comportamento personale, nelle attività organizzate negli istituti e nelle eventuali attività lavorative o culturali» (art. 30 ter, co. 8, l. 26 luglio 1975, n. 354). È da tenere presente che, per il diritto, "manifestare costante senso di responsabilità e correttezza nel comportamento personale" implica anche il non essere omertosi, per cui è in contrasto con un principio comunitario fondamentale. Quindi per la comunità carceraria la stessa espressione indica esattamente il contrario: essere omertosi.

La tipologia dei modi di adattamento individuale, a differenza di quella di Merton riportata sopra, sono ridotti a due: la conformità e l'innovazione. La presenza dell'unica meta fa sì che non ci siano nella comunità carceraria i ritualisti, i rinunciatari e i ribelli. La conformità comprende «gli individui che si conformano tanto al criterio del successo quanto [al mezzo legittimo atto] a conseguirlo. [.] L'innovazione è l'adattamento che rifiuta i mezzi legittimi per il conseguimento del successo e si rivolge a mezzi devianti» , in particolare alla delazione. Il pentito è deviante perché rifiuta, appunto, i mezzi legittimi ed usa la denuncia penale dei suoi vecchi amici per realizzare il suo obiettivo. Ma la scelta dell'innovazione piuttosto che della conformità non è data dall'anomia o dalla mancanza di norme, ma dalla scelta razionale dell'individuo, che valuta più efficace la delazione per raggiungere il suo scopo.

Innovatore è anche il semplice delatore, il confidente (oppure infame, indegno, guardia), che riferisce alle autorità penitenziarie fatti che possono verificarsi all'interno dell'istituto. Spesso non si conosce ed è questo uno dei motivi per cui sopra si è parlato di un sentimento di sospetto che serpeggia tra la comunità. Quando si riesce ad individuare, va incontro a sanzioni come la conserva e l'esilio nelle sezioni particolari.

La scelta razionale riguarda anche il "pivello" che non riesce a sopportare le angherie e gli scherzi degli esperti, il quale decide di spostarsi di sezione, andando a convivere con altri devianti. Basta solo questo perché sia considerato tale dalla comunità.

Tornando agli innovatori, si può dire che sono coloro i quali, usando un gergo carcerario, non «vogliono farsi la galera» e quindi affetti da carcerite acuta (espressione gergale che sarà discussa nel prossimo paragrafo).

I devianti "razionali", come quelli "per eccellenza", una volta considerati tali, non fanno più parte della comunità "normale", ma ci sono altri devianti che, al contrario, ne sono parte integrante. Nei prossimi paragrafi saranno prese in considerazione alcune tipologie che fanno riferimento soprattutto al concetto di etichettamento.



4 Devianza come effetto o conseguenza della "carcerite": etichettamento


La carcerite non è un termine medico, una malattia, ma è semplicemente un atteggiamento psicologico "temporaneo" (per questo si differenzia dalla prigionizzazione) di rifiuto dell'ambiente circostante, dovuto a varie cause: la lontananza degli affetti, contrasti con i compagni di cella, stress psicologico, problemi familiari, ecc. Essa si rivela in vari modi, che non tutti portano alla delazione, tanto che in quel caso possiamo definirla carcerite acuta. Solitamente la carcerite porta a momenti di autoisolamento temporaneo che può durare anche giorni, soprattutto se si perde la fiducia in sé stessi. Può essere anche positiva (da un punto di vista oggettivo), nel senso che porta l'individuo a porsi domande sul suo passato. Spesso la carcerite dà la consapevolezza all'individuo di comprendere gli errori commessi e lo aiuta a pensare positivo per il suo futuro. In caso contrario, nella sua forma più esasperata e insopportabile, può portare alla delazione, proprio perché non si sopporta, in un modo o nell'altro, la carcerazione.

Tutti i detenuti, indistintamente, hanno in sé la carcerite (infatti nessuno è contento di stare in carcere); la sua esplosione in bene o in male dipende dal carattere dell'individuo, dal contesto situazionale in cui viene a trovarsi (e quindi dalla fortuna, o sfortuna, di trovarsi con determinati compagni piuttosto che altri) e dal grado di prigionizzazione. Si può concludere che un alto grado di carcerite corrisponde ad un basso grado di prigionizzazione, anche se ci sono dei casi particolari che analizzeremo più avanti. Comunque, in tutti i casi è il "principio" che conduce alla devianza, cioè provoca comportamenti che la comunità etichetta come devianti.

Abbiamo visto sopra casi estremi in cui la carcerite porta alla delazione, fino a scegliere la strada del pentitismo per raggiungere in modo più efficace l'obiettivo della libertà. Ora analizzeremo altri casi. "Farsi la galera" non vuol dire soltanto accettare le conseguenze delle proprie azioni ("ho fatto un reato, quindi devo pagare"), ma è inteso anche come accettazione delle regole della comunità, in altri termini, significa conformarsi alla maggioranza.

Lemert ha distinto la devianza primaria dalla devianza secondaria. «Per devianza primaria s'intende l'allontanamento più o meno temporaneo, più o meno importante agli occhi di chi lo attua, da valori o norme sociali [.], attraverso un comportamento che ha "implicazioni soltanto marginali per la struttura psichica dell'individuo; essa non dà luogo ad una riorganizzazione simbolica a livello degli atteggiamenti nei riguardi del sé e dei ruoli sociali". La devianza secondaria «consiste, invece, nel comportamento deviante o nei ruoli sociali basati su di esso, che diviene mezzo di difesa, di attacco o di adattamento nei confronti dei problemi, manifesti o non manifesti, creati dalla reazione della società alla deviazione primaria» .

La distinzione di Lemert è interessante ai nostri occhi perché ci permette di distinguere una carcerite debole da una carcerite forte o acuta. La prima è un atteggiamento di tutti, nel senso che ognuno ha dei momenti di sconforto durante la carcerazione in cui tende ad isolarsi dalla comunità per stare un po' con sé stesso. In determinati momenti è molto importante la ricerca della solitudine, elogiata anche da John Stuart Mill. Egli scriveva: «Non è bene per l'uomo essere sempre costretto a subire la presenza dei suoi simili. [.] La solitudine, nel senso di stare soli, è essenziale alla profondità della meditazione e del carattere» . Spesso in tale stato si è portati a scrivere in continuazione, magari alla famiglia o soltanto semplici frasi su un pezzo di carta che egli stesso definisce poesie; o ascoltare musica in continuazione per "evadere dalla realtà"; spesso il detenuto cammina a passo molto veloce rispetto agli altri come se volesse sottolineare il suo stato d'animo. Se tali atteggiamenti rimangono isolati nel tempo o succedono saltuariamente non costituiscono né un problema di adattamento per il soggetto che li attua, né provoca sentimenti di sospetto negli altri detenuti.

Quando la propensione all'isolamento è una costante e diventa uno status normale per il soggetto (in questo caso si può parlare di carcerite forte), questo suo atteggiamento provoca negli altri una sorta di repulsione e vedono in ciò un campanello di allarme che potrebbe divenire un danno per la comunità. Il sospetto comincia ad insinuarsi nell'animo di tutti fino alla percezione che quel detenuto non vuole o non sa "farsi la galera". Questa etichetta gli rimarrà sopra fino al punto da essere emarginato dal gruppo. Magari questa persona non si sente un deviante, anzi non lo è dal suo punto di vista; quando comprende che gli altri lo considerano tale ha a disposizione due modi di comportamento: può intervenire direttamente sulla comunità (se il soggetto è conosciuto come persona "sana") dicendo per esempio: «Mi conoscete, quindi lasciatemi perdere, voglio farmi la galera a modo mio», oppure lasciar perdere ciò che gli altri pensano e andare avanti per la propria strada. In entrambi i casi è un deviante, anche se nel primo il detenuto fa valere la sua precedente esperienza carceraria e la usa come strategia al fine di evitare l'etichetta di deviante, anzi qualche volta si ha più timore di colui che si comporta in questo modo (vedi il fenomeno del pentitismo) che di altri.

A differenza della società civile, in carcere l'etichetta di deviante, in questi casi, non ha conseguenze sull'individuo dal punto di vista della "carriera deviante" così come è intesa da Becker . Non si identifica in alcun gruppo deviante, l'isolamento continuo ha conseguenze soltanto per la sua psiche. È deviante per gli altri ma non si sente tale. Sta cominciando in lui un processo di sprigionizzazione che lo porterà ad una autocritica feroce tanto da accettare, spesso passivamente, l'etichetta di deviante. In questo senso la carcerite è un processo inevitabile nel processo di risocializzazione.

Per concludere è necessario fare un accenno a quei detenuti che lavorano come "scopini", e non solo, presso gli uffici della matricola o del comando. Costoro sono etichettati spesso come devianti dalla comunità, solo per il fatto di lavorare a stretto contatto con le "guardie". È un tipo di lavoro che viene rifiutato da tutti e accettato soltanto dai "pivelli". Il ragionamento di base è che negli "uffici" devono lavorare persone che hanno una certa affidabilità dal punto di vista degli agenti; se i lavoranti sono affidabili per le guardie, di conseguenza non lo sono per i detenuti. Purtroppo non sempre è così ed allora si assiste che persone bisognose di lavorare rifiutano questo tipo di lavoro per non essere considerate degli "spioni". Infatti spesso sono i pivelli ad accettare il lavoro, soprattutto quando non hanno fatto ancora in tempo a capire l'ambiente carcerario.

Dalle considerazioni fatte si può trarre la conclusione che il sospetto in carcere è generatore di devianza. È importante agire subito con le persone giuste per scrollarsi di dosso l'etichetta prima che sia bene attecchita. Una mia esperienza forse è necessaria per capire bene il concetto. Quando ero nel carcere di Bari, dopo pochi mesi fui chiamato a lavorare come scrivano. Dato che tale mansione permetteva di stare a contatto quotidianamente con gli agenti di custodia in quanto si lavorava tutti nello stesso ufficio, si era sparsa la voce che io "non ero buono", cioè una sorta di confidente al servizio delle guardie. Nessuno mi diceva niente, altrimenti io avrei potuto difendermi, ma percepivo intorno a me un ambiente ostile, sembrava che la gente cercasse di evitarmi. C'era qualcosa che non andava. Mi recai presso la persona "di riferimento" e gli chiesi spiegazioni. Ad essere sinceri tremavo perché quella persona non mi ispirava fiducia e non sapevo come l'avrebbe presa, ma dovevo farlo perché sentirsi isolato in una comunità chiusa è una cosa tremenda. Quando mi avvicinai mi chiese: «Che sei venuto a fare?» «Voglio sapere perché gli altri mi evitano», gli risposi. Non me lo sarei mai aspettato, ma mi disse: «Sei hai avuto gli attributi per venire da me, credo che tu sia una persona a posto. Non è successo niente, non ti preoccupare». E mi offrì una sigaretta. Questo gesto mi fece capire che mi ero acquistato la sua fiducia e quindi di tutti gli altri. Come per incanto, intorno a me non c'era più quell'alone di sospetto. Ero diventato una persona rispettabile, soltanto perché avevo affrontato la situazione con coraggio.



5 Alcune tipologie particolari di devianza


Abbiamo visto finora la devianza come scelta razionale e la devianza come conseguenza o effetto della carcerite. Adesso cercheremo di analizzare i comportamenti di quei detenuti che, non solo entrano per la prima volta in un carcere, ma che provengono da ambienti esterni molto diversi rispetto a quelli della maggioranza della popolazione detenuta. I detenuti per reati come lo spaccio di sostanze stupefacenti, rapina, scippo, furto ed altri che rientrano nella tipologia dei reati di criminalità diffusa, anche se sono "pivelli", finiscono per la maggior parte dei casi ad integrarsi molto facilmente nella comunità, anzi molti di loro finiscono per essere "affiliati" ai gruppi e raggiungono un alto grado di prigionizzazione. Per costoro vale quanto si è detto sopra.

Altre tipologie di detenuti possono essere: i cosiddetti "colletti bianchi", ossia persone di alto status sociale che si macchiano di reati d'impresa (concussione, abuso d'ufficio, truffa, bancarotta, danneggiamento ambientale, ecc.); oppure persone che si sono macchiate di omicidio in situazioni del tutto particolari (omicidio in famiglia, passionale, ecc.), o di altri reati occasionali; inoltre ci sono detenuti innocenti, che assumono atteggiamenti diversificati.


5.1 I "colletti bianchi"e altre tipologie di detenuti


E'difficile che queste persone finiscano in carcere, ma tuttavia succede, come per esempio nel 1992 quando l'inchiesta "Mani pulite" portò a galla il caso Tangentopoli. La domanda è: «Questi detenuti si conformano alle regole del carcere? Se non lo fanno sono visti come devianti?».

La risposta è molto più complicata di quello che sembra, essenzialmente per due motivi: il primo è che quasi mai rimangono in carcere il tempo necessario per riuscire a dire se il loro atteggiamento è conforme alle regole; il secondo è che ci sono verso di loro sentimenti contrastanti da parte della popolazione detenuta. Da un lato sono guardati con riverenza e nessuno si permetterebbe di inculcare loro quelle consuetudini che sono della comunità, anche perché è facilmente comprensibile che non potranno mai essere "uno di loro"; solitamente non scendono mai all'aria perché non considerano il carcere come loro ambiente naturale, e se lo fanno si tengono lontani dai gruppi; sono immersi nelle loro lettere alla famiglia, spesso piangono rintanati in un angolo della stanza o stesi sui loro letti, consolati da qualcuno un po' più sensibile. Dall'altro lato sono visti con disprezzo. «Adesso che ti hanno preso fatti la galera!», è questo in sintesi il ragionamento di molti detenuti che non vedono differenze tra le sensibilità umane. In un certo senso sono anche giustificabili se consideriamo che per un semplice furto il detenuto comune è condannato per alcuni mesi, o addirittura anni se è recidivo, mentre queste persone se la cavano con qualche giorno di carcere. Quando ne capita uno sotto tiro sfogano la loro rabbia per una presunta ingiustizia subita.

Questo duplice atteggiamento dei detenuti fa sì che i "colletti bianchi" siano non classificabili, nel senso che sono lasciati al di fuori e non considerati parte integrante della comunità, sono visti come di passaggio. Quando uno di loro è condannato definitivamente e rimane in carcere, come per esempio Cusani o Sofri (anche se questo non può essere considerato un colletto bianco), sono percepiti addirittura come una sorta di vittime della società ed il loro atteggiamento, qualunque esso sia, è giustificato dal fatto che loro non sono "persone di galera". Essi si integrano nella comunità ma non assimilano mai le usanze, i costumi, le regole. Non sono considerati devianti ma semplicemente diversi, cioè non gente di galera. Anche da questo punto di vista la comunità carceraria riflette esattamente la società civile, infatti le risposte "ufficiali" che la comunità riserva ai colletti bianchi sono diverse da quelle riservate agli altri detenuti.

Ci sono altri detenuti che prima di entrare in carcere erano ben integrati nella società civile, con una famiglia, un lavoro, una vita sociale normale. Sono in carcere per svariati motivi: omicidio, rapina, truffa, spaccio di sostanze stupefacenti, ecc. In più sono in carcere per la prima volta. Questi soggetti hanno due sole possibilità: conformarsi o emarginarsi. Soprattutto quando la condanna diviene definitiva e sanno che dovranno passare in carcere un bel po' di tempo. Sono questi i detenuti più esposti alle conseguenze negative del rispetto delle regole, perché sono costretti ad assimilarle e ad accettarle per quello che sono, anche se non si identificano in esse. Chi riesce a conformarsi, naturalmente, non subisce le sanzioni previste. Gli altri seguono modalità di adattamento che vanno dall'isolamento personale alla negazione di tutto l'ambiente che li circonda con conseguente emarginazione. È inevitabile l'etichetta di deviante. L'ambiente ostile diventa come la "tirannide della maggioranza" di Tocqueville: «Non dice: tu penserai come me o morirai; dice: sei libero di non pensare come me; la tua vita, i tuoi beni, tutto ti resta; ma da questo giorno tu sei uno straniero tra noi. [.] Quando ti avvicinerai ai tuoi simili, essi ti fuggiranno come un essere impuro; e anche quelli che credono alla tua innocenza, ti abbandoneranno, poiché li si fuggirebbe a loro volta. Va in pace, io ti lascio la vita, ma ti lascio una vita che è peggiore della morte» .



5.2 Modalità di adattamento dei detenuti innocenti


In carcere ci sono anche degli innocenti, e non sono pochi come potrebbe sembrare. Come si adattano? Ci sono tre "modalità" differenti, una volta che la pena è divenuta irrevocabile, oltre a coloro che dopo un po' di tempo non c'è la fanno e possono ricorrere al suicidio o alla denuncia di chi ha commesso il reato che loro stanno pagando. La prima si riferisce ad una incapacità di adattamento alle regole della comunità e quindi vale per loro ciò che è stato detto per altre categorie di detenuti; la seconda si riferisce a quei detenuti innocenti, altamente prigionizzati che accettano la condanna anche se sono innocenti. Solitamente sono gli appartenenti alla criminalità comune o organizzata. È il loro mondo, quindi pagare per qualcun altro fa parte del loro mestiere. La terza categoria ha bisogno di ulteriori specificazioni, in quanto riescono ad assimilarsi, quindi non sono devianti per la comunità, ma essi stessi si considerano dei diversi, nel senso che i loro valori di riferimento sono altri, ma fanno credere il contrario. Diciamo che barano con gli altri e cercano di essere onesti con sé stessi perché è l'unico modo di evitare un alto grado di prigionizzazione. Riescono a convivere in un ambiente che odiano cercando di tenere ben saldi i rapporti con l'esterno, elemento essenziale per guardare il futuro con più ottimismo e fiducia. Naturalmente non tutti riescono ad avere un atteggiamento del genere. Dipende molto dalla cultura, dalla capacità di adattarsi a tutte le situazioni, dovuta all'esperienza di vita vissuta e, soprattutto, dalla fortuna.

Analizziamo la situazione dell'innocente. È stato condannato definitivamente, magari ad una lunga carcerazione, e non ha alcuna possibilità di far provare la sua innocenza. Tenendo presente che in carcere non ha importanza se l'innocente è tale, c'è e basta, cosa gli rimane da fare? Ha tre possibilità e tutte dipendono dal proprio carattere: la soluzione estrema, il suicidio (che non è una soluzione); l'isolamento, che è una soluzione alquanto scomoda, dato che lo porta a scontrarsi quotidianamente con tutti gli altri, con la conseguenza che si ha la sensazione dell'infinità del tempo; l'accettazione della situazione, cercando di farsi meno male possibile, adattandosi ad un ambiente ostile. Si può essere sottoposti anche ad umiliazioni personali, ma "fare ciò che dicono e non ciò che fanno" è un modo per farsi (sembra un paradosso) apprezzare; è come fare la gavetta, è essenziale fare tutti i passaggi. Con il passar del tempo si è considerati uno di loro, anche se dentro c'è un odio per tutto l'ambiente circostante. È come sdoppiarsi, avere due personalità, di cui una latente, che si tiene viva con i rapporti con la famiglia, l'altra manifesta che ti permette di fingere per poter andare avanti adottando i mezzi "comunitarizzati" per raggiungere il proprio obiettivo, che non è più quello iniziale, ossia quello di far valere la propria innocenza, ma la libertà passando attraverso i benefici istituzionali. L'essere innocenti non ha più importanza, anzi se qualcuno lo chiede non lo si dice nemmeno più. Solo in questo modo un innocente riesce a sopportare una situazione paradossale. Deve essere bravo a fingere con tutti: l'immagine che gli altri si fanno è quella che il soggetto in questione vuole, cioè quella della persona che soffre come tutti gli altri, è simile agli altri. Con il passare degli anni il divenire "vecchio di galera" basta per pretendere rispetto. La prigionizzazione ha avuto un effetto apparente anche se il suo ha subito modificazioni importanti. Insieme alla cultura personale, uno degli elementi importanti per una buona convivenza in carcere è, come ricordato sopra, la fortuna, intesa come destino. A questo proposito mi viene in mente l'esperienza di un detenuto innocente che ho conosciuto nel 1992 nel carcere di Bari. Egli era stato condannato in via definitiva per omicidio ed appena arrestato fu messo in una cella con altre 11 persone. La prima cosa che gli chiesero fu: «Chi sei? Appartieni a qualcuno?». Non sapeva neanche cosa volesse dire quel "appartieni a qualcuno". La sua destinazione di branda fu il terzo piano. Dopo qualche giorno si accorsero che era bravo a scrivere, anzi erano gli altri gli analfabeti (nel carcere di Bari la maggior parte dei detenuti lo sono, o almeno lo erano). Questa sua dote lo ha portato a scrivere lettere per le mogli degli altri, tanto che lo rispettavano soltanto perché faceva comodo a loro. Ma faceva comodo anche a lui perché capiva la vita in carcere stando a contatto con "esperti". Ha approfittato della situazione, fino a che qualcuno influente non parlò con il comandante per il lavoro di scrivano, lavoro molto ambito da tutti, ma pochi capaci di farlo nel carcere di Bari, per via dell'alto analfabetismo. Da questo primo impatto con il carcere ha dedotto che doveva comportarsi ipocritamente, nascondendo, per quanto era possibile, la sua vera natura. Ha imparato il linguaggio, i movimenti, gli atteggiamenti, i gesti, tanto che sembrava uno di loro, ma non li ha mai accettati perché il suo spirito, la sua cultura, i suoi valori di riferimento, gli hanno permesso di mantenere il suo .

Quando parlavo con questa persona veniva fuori tutto il suo odio per un mondo fatto di ipocrisie, di invidie, di gelosie, di egoismi. L'amore per la libertà e per la famiglia gli avevano dato la forza di reagire; sembrava veramente una persona del tutto prigionizzata, ma aveva mantenuto una forte lucidità mentale che riusciva a sdoppiarsi: ciò che diceva non corrispondeva a ciò che pensava. Molte volte l'ho visto consigliare agli altri il comportamento da tenere, corrispondente alle norme comunitarie; lo faceva non perché ci teneva, ma per lui era giusto così, per evitare situazioni conflittuali era opportuno rispettare le regole della comunità così come venivano imposte.

Assimilare e rimanere sé stessi è molto difficile perché c'è un conflitto tra identificazione personale e partecipazione comunitaria. Avere grandi capacità analitiche nei confronti dell'ambiente comunitario in cui si vive è come avvicinarsi al marginal man di Stonequist, allievo di Park (il primo ad analizzare l'uomo marginale nel 1920). L'uomo marginale, egli scrive, «è l'individuo che combina la conoscenza e la perspicacia di chi sta dentro con l'atteggiamento critico di chi sta fuori; è l'individuo capace di confronto con gli altri gruppi sociali e di percezione delle disuguaglianze che di fatto lo dividono da altri; è l'individuo che vive soggettivamente e oggettivamente la sua appartenenza ambigua alla società, poiché è consapevole del contrasto tra le sue aspirazioni e le sue pratiche sociali e culturali» .



6 La funzione delle sanzioni


Come nella società civile la pena ha una sua funzione, anche nella comunità carceraria le sanzioni hanno un valore funzionale. In primo luogo, considerando che la scelta di commettere un atto deviante può essere razionale (vedi fenomeno del pentitismo), ossia il soggetto valuta i costi e i benefici scegliendo la strada che più gli aggrada per raggiungere i suoi obiettivi, la sanzione può essere considerata come un deterrente al fine di dissuadere non solo chi ha commesso l'atto deviante di ripeterlo nel futuro (deterrenza specifica), ma anche di dissuadere gli altri dal compiere tale atto (deterrenza generale). Nel caso dei pentiti la sanzione non può essere considerata come deterrente specifico, in quanto una volta che il soggetto abbia posto in essere l'atto infame non è più considerato parte integrante della società, infatti viene trasferito in sezioni distaccate, e se anche dovesse pentirsi di essersi pentito, l'etichetta di deviante gli rimarrà per tutta la vita. È solo un pentito e basta, le altre sue caratteristiche verrebbero messe da parte. Le cause che lo hanno portato a fare quella scelta infelice non sono sufficienti alla comunità ad "assolverlo" dal grave reato. Si dirà: «Chi fa quella scelta è sempre stato marcio dentro, per cui non è più affidabile». La consapevolezza da parte del pentito che non esiste la riabilitazione nella comunità per l'individuo che commette un simile atto deviante, rafforza la tesi che la scelta di pentimento è una scelta razionale e consapevole delle sanzioni a cui va incontro.

La sanzione ha sicuramente un effetto di deterrenza generale, in tutti i casi di devianza comunitaria perchè costringe gli altri a prendere sul serio le minacce delle regole. Inoltre serve anche a prevenire la devianza grazie anche alla pubblicità della sanzione perpetrata, attuata attraverso il passaparola.

La sanzione ha anche la funzione di tenere coesa la comunità intorno a valori riconosciuti dalla maggioranza. Credo che sia la funzione più importante. Riprendendo la tesi di Durkheim, secondo cui « un atto urta la coscienza comune non perché è criminale, ma è criminale perché urta la coscienza comune» , si può benissimo affermare che anche la comunità carceraria ha un proprio codice morale fondamentale che considera sacro e gli atti che lo violano provocano una reazione punitiva. La sanzione non ha fini utilitari, il suo compito è quello di «consolidare la sensibilità morale censurando tutte le offese che gli vengono rivolte» .

La sanzione può essere considerata anche una "cerimonia di degradazione" che Garfinkel ha definito « ogni comunicazione tra persone in cui l'identità pubblica di un attore è trasformata in qualcosa considerato come inferiore nello schema locale dei tipi sociali» . Tale cerimonia ha inizio dal momento in cui un detenuto fa una denuncia pubblica e dice: « Chiamo tutti gli uomini a testimoni che egli non è quello che appare ma è un essere diverso e di una specie inferiore per la sua stessa essenza» .

Le cerimonie di degradazione di questo tipo hanno due funzioni sociali distinte. Dal punto di vista soggettivo producono, quando hanno successo, la distruzione del detenuto denunciato. Costui è visto dai suoi accusatori come uno che ha sempre preteso di essere ciò che non era, uno che ha nascosto sempre la sua vera "essenza". Dal punto di vista oggettivo, se la denuncia è fondata la comunità riconosce che il soggetto in questione era diverso fin dall'inizio. In questo modo il detenuto denunciato « diventa letteralmente una persona diversa e nuova agli occhi di coloro che la condannano» .

Per conseguire la distruzione del detenuto denunciato rappresentandolo come un nemico della comunità, il denunciante deve presentarsi come persona credibile molto legato ai valori morali. Il successo della sua denuncia deriva anche dalle risorse che possiede e dalla sua posizione di potere nella comunità; non solo: non è sufficiente, infatti, che si richiami ai valori fondamentali del gruppo, deve anche impedire che la denuncia appaia in qualche modo influenzata dai suoi rapporti con il denunciato, perché potrebbe sembrare come portatore di interessi di parte. Il denunciante deve identificarsi con la coscienza collettiva ed essere la sua voce.

La denuncia può rafforzare la solidarietà di gruppo ma può anche non ottenere questo risultato. Infatti esistono alcuni accorgimenti che il denunciato può prendere nello scegliere la tattica per difendersi dall'accusa. «La coscienza collettiva passa dal ruolo di attore che agisce per bocca di uno solo a quello di "sfondo di senso" a cui il denunciato può ricorrere trasformandosi a sua volta in denunciante, mettendo da parte i suoi interessi particolari, e facendo appello ai suoi interessi generali di membro della collettività» . Seguendo Matza e Sykes possiamo affermare che i supposti devianti sono in grado di mettere in opera "tecniche di neutralizzazione", attraverso le quali i loro comportamenti possono essere interpretati e presentati agli altri come moralmente leciti. Le tecniche di neutralizzazione funzionano solo se la società non è frammentata in una pluralità di sottoculture, ma è caratterizzata da una morale largamente condivisa e dominante, come lo è la comunità carceraria. «Il supposto deviante che mette in atto una di queste tecniche non si richiama a valori diversi da quelli condivisi dai [detenuti] che osservano [le regole comunitarie]. Ricorrendo ad una tecnica di neutralizzazione egli non rivendica una diversità morale: dichiara al contrario la propria adesione ai valori del senso comune, sostiene di non aver commesso un "crimine" ma di essersi comportato, tenuto conto delle specifiche circostanze, in modo legittimo» .

Si può concludere che il deviante, ad eccezione dei pentiti e degli infami, non rappresenta un vero pericolo per la comunità ma crea un forte senso di solidarietà richiamando l'attenzione di tutti gli altri detenuti solitamente presi da interessi individuali.



7 La visione della sessualità nella cultura carceraria italiana


L'interesse per i temi sessuali ha prodotto molti studi che hanno analizzato i costumi sessuali all'interno del carcere. Eseguiti prevalentemente all'estero, soprattutto in America, hanno evidenziato tutti l'esistenza di pratiche sessuali "anormali", derivanti soprattutto dal fatto che i detenuti vivono in spazi ristretti senza la possibilità di allontanarsi uno dall'altro, che l'uso del bagno avviene in maniera pubblica, che le docce sono fatte in presenza degli altri; insomma, generalmente, per mancanza di spazi privati, di privacy.

Tale visione, così degradante per la comunità carceraria di molti Stati, non lo è assolutamente per quella italiana, contrariamente a quanto una certa letteratura, anche cinematografica, vuole far credere. Tra l'altro non si conoscono studi condotti in Italia su questo argomento e non si capisce come tale visione sia entrata a far parte del senso comune. Sebbene l'argomento sarà trattato brevemente, la sua importanza non potrà essere sottovalutata.

Naturalmente l'immaginario sessuale che si sviluppa in ogni singolo carcerato ha una forte influenza sull'individuo, soprattutto se consideriamo che gli stimoli che provengono dalla società civile suscitano desideri sessuali. Infatti, la radio trasmette canzoni d'amore che fanno sognare il detenuto, riviste specializzate e non riportano storie d'amore e di sesso, soprattutto quelle di basso profilo, le lettere delle innamorate o delle mogli parlano spesso d'amore (ma anche di sesso), la televisione emana in continuazione messaggi di sesso attraverso l'avvenenza fisica della ragazza di turno. Quindi non c'è da meravigliarsi se c'è un alto grado di desiderio, ma da qui a dire che esistono anche comportamenti e atteggiamenti sessuali è soltanto una ingiustificata e gratuita accusa non provata da fatti concreti.

Certamente la mancanza del contatto con una donna è una delle più crudeli forme di condanna correlate alla pena legale. La privazione sessuale è la più demoralizzante per l'individuo dietro le sbarre, ma se si chiedesse a qualsiasi detenuto spiegazioni in proposito egli non farebbe riferimento soltanto alla mancanza di sesso, ma anche all'assenza di una figura femminile in sé stessa, alla sua voce, al suo sorriso, alle sue lacrime. Si può affermare, comunque, che il desiderio sessuale e la malinconia per la mancanza di una compagnia femminile è per la grande maggioranza dei detenuti l'elemento più doloroso della detenzione. Il desiderio sessuale è spesso oggetto di discussione tra detenuti da poco tempo arrestati e quasi sempre non sposati, mentre la mancanza della figura della donna come soggetto importante della propria vita diventa argomento discorsivo tra detenuti sposati o da molto tempo in carcere. Questi ultimi sentono di più la mancanza di quei momenti passati con la propria famiglia e tendono a parlarne soltanto in momenti particolari e solo con persone dalle quali ritengono di essere capiti, magari vecchi compagni di cella con cui si è instaurato un rapporto di fiducia. I giovani detenuti invece tendono ad enfatizzare la mancanza di sesso, lo fanno sorridendo e scherzando, magari ricordandosi a vicenda (a volte probabilmente esagerando) le loro storie sessuali passate, oppure sottolineando che cosa farebbero una volta usciti dal carcere. E' emblematico che quasi tutti esprimano come primo desiderio una volta liberi quello di trovare subito una donna con cui fare sesso, foss'anche a pagamento; oppure che facciano domande a chi rientra da un permesso premio del tipo : «Quante te ne sei fatte?». In genere non si ha molta sensibilità a parlare di argomenti del genere e la donna tende ad essere esclusivamente oggetto di desiderio sessuale.

L'unica pratica sessuale corrente nelle carceri italiane è l'automasturbazione. Nella comunità civile è considerata una pratica anormale, ma in carcere è la normalità, accettata da tutti e spiegata su basi biologiche. È un mezzo per alleviare le tensioni che si accumulano col tempo e varia con l'età, con l'opportunità di restare appartato, dal grado di assimilazione della cultura carceraria e con la frequenza della manifestazione di affetto da parte di chi sta fuori del carcere.

L'assenza di altre pratiche sessuali deriva anche dalla presenza di valori fondanti la subcultura mafiosa esterna. È una sottocultura di origine patriarcale e cattolica in cui l'uomo di rispetto non può praticare pratiche omosessuali, anzi molti detenuti della "vecchia guardia", soprattutto calabresi e siciliani non praticavano neanche la masturbazione e osteggiavano la sua pratica. Infatti, come ricordato in precedenza, gli omosessuali sono considerati "devianti per eccellenza" e sono separati dagli altri detenuti già dal loro ingresso nell'istituto. Da qualche anno, comunque, c'è la possibilità che qualcuno faccia parte della stessa comunità, ma la loro presenza, benché etichettati come devianti, è accettata soltanto nella misura in cui non enfatizzano la loro "anormalità". Se accadesse che qualche detenuto volesse approfittare della loro presenza per sfogare il proprio desiderio di sessualità, verrebbe subito messo al bando da tutti gli altri, dopo aver subito la tremenda sanzione della conserva o dello sconfinamento in sezioni differenziate, dove sarebbe marchiato anche dagli altri devianti che convivono con lui.

Per sottolineare ancora di più quanto è falsa l'idea che la società civile ha riguardo al tema della sessualità in carcere, basta ricordare che non è permesso né fare la doccia nudi né girare in mutande all'interno della cella.

In conclusione si può dire che il desiderio sessuale è dominante nella mente del detenuto e cerca di appagarlo nell'unico modo consentito, attraverso la masturbazione, ma lo stesso detenuto non accetta e non tollera la "depravazione" sessuale, tanto da essere considerata "pratica deviante".



8 Verso una nuova mentalità


Dopo l'uscita di scena dei "punti di riferimento" nella comunità carceraria c'è stato un cambiamento radicale soprattutto dal punto di vista delle idee e degli atteggiamenti individuali. La mancanza di una "fonte" a cui rivolgersi ha portato a credere che ognuno fosse uguale agli altri e che tutti avessero diritto ad esigere rispetto. Cosa del tutto legittima dal punto di vista dell'eguaglianza, ma, mentre in precedenza il debole poteva rivolgersi a qualcuno ben individuato per denunciare le prepotenze subite e spesso veniva protetto, oggi è cresciuta in lui una sensazione di insicurezza. Ma anche i più forti percepiscono la privazione di sicurezza. In molti casi i detenuti costretti a convivere insieme hanno alle spalle una storia di violenze ed aggressioni. C'è un detto nel carcere che più o meno suona così: «Il problema non è la galera, ma è" con chi ti fai la galera"». Lo stesso concetto è sottolineato da Gresham M. Sykes quando raccoglie un commento di un detenuto della prigione dello Stato del New Jersey: « la cosa peggiore del carcere è che devi vivere con altri carcerati» . Può sembrare una stupidaggine, ma ognuno vede nell'altro una certa pericolosità. Sicuramente tutti hanno ricevuto un marchio dalla società, un'etichetta, ma anche se «il singolo carcerato ritiene che lui stesso non è il genere di persona che facilmente assalta o sfrutta i compagni di carcere più deboli o meno dotati di risorse, egli tende a vedere gli altri con più sospetto. E se egli stesso è pronto a commettere crimini in prigione, probabilmente avrà la sensazione che molti altri sono almeno ugualmente pronti [.]» . Anche se il detenuto non vive costantemente nella paura di venire derubato o percosso, non è molto rassicurante vivere in costante compagnia di ladri o assassini. Il detenuto è sempre sul "chi va là", perché può essere messo alla prova in qualsiasi momento, e allora, come comportarsi? Queste insicurezze costituiscono una minaccia per il individuale e non tutti hanno un comportamento versatile per essere capaci di mettersi sullo stesso piano di criminali incalliti.

La cesura avvenuta a seguito della legislazione che ha permesso un regime differenziato per i detenuti ritenuti più pericolosi, la legge del 10 ottobre 1986, n. 663 (c.d. «legge Gozzini»), la quale pone modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e la legge del 27 maggio 1998, n. 165 (c.d. «legge Simeone»), che ha ulteriormente esteso le ipotesi di misure alternative, hanno influito non poco sull'atteggiamento mentale del detenuto in carcere: egli ha gradualmente cominciato a pensare che una vita più ritirata gli avrebbe permesso di accedere ai benefici previsti dalla legislazione. Ad un ideale comunitario è andato sostituendosi un'ideale individualistico, direi quasi egoistico. Un atteggiamento del genere spinge ogni singolo detenuto ad appartarsi dalla massa dei suoi simili e a tenersi in disparte a svantaggio della comunità. Un esempio su tutti. Fino a qualche anno fa ci si serviva spesso degli scioperi per rivendicare un qualche diritto negato. Anche se erano organizzati quasi esclusivamente dalla solita èlite, spesso si raggiungeva il fine desiderato, soprattutto se si scioperava contro la sola amministrazione penitenziaria di appartenenza. È successo spesso che i promotori siano stati trasferiti in altri istituti, ma l'obiettivo era raggiunto. La partecipazione di tutti, anche se qualche volta costretti, dava forza e ragione all'azione di protesta. Anche quando l'iniziativa era di livello nazionale, pur se tanti non ne erano al corrente del motivo dello sciopero, in quanto la cultura politica è pressoché inesistente, si univano alla protesta per dare più voce e forza. Oggi non succede più, anzi si tengono alla larga anche dalle piccole proteste interne. Ognuno pensa per sé; se un suo simile viene punito per un qualche motivo, la giustificazione è: «avrebbe dovuto prevederlo!». Oggi la solidarietà tra detenuti è solo un mito da sfatare. Ognuno deve contare sulle proprie forze e stare attento che gli altri non facciano di tutto per fargli togliere i piccoli benefici conquistati. L'invidia, la gelosia, sono il prodotto di questo individualismo sfrenato. Il potere centrale, benché oppressivo e a volte violento e spesso ingiusto, aveva la capacità di mantenere latenti anche tutte le individualità più forti; la sua graduale soppressione sta provocando uno sconvolgimento generale anche nelle coscienze, non più sottoposte a ferree regole formali. Questa situazione influisce in modo diverso sul processo di prigionizzazione; personalmente credo che sia un bene che ognuno abbia la possibilità di scegliere il comportamento da adottare nelle svariate situazioni in cui è chiamato a intervenire, ma c'è il pericolo di entrare in una fase di anarchia in cui è permessa la prevaricazione dell'uomo più forte sull'uomo più debole. Non solo, ma il fatto di non sentirsi legato a regole comunitarie ben precise, quindi libero di agire individualmente, produce una sorta di individualismo, che è causa di molti nuovi conflitti nell'ambito della comunità. Se l'individuo forte tende a regolare i suoi conflitti mettendo in campo le proprie capacità, il più debole tende a ricorrere alle autorità, che sono costrette ad intervenire, con la conseguenza che il loro intervento è percepito dal resto della popolazione detenuta invadente e deleterio per tutta la comunità.

Se in molte carceri del Sud questo processo di disgregazione comunitaria è lento per la presenza ancora attiva di gruppi della criminalità organizzata che cercano di tenere in vita le "vecchie regole di rispetto", in molte carceri del Nord la loro latenza e soprattutto la forte presenza di extracomunitari, in gran parte nordafricani, ha accelerato tale processo.

Gli stranieri provengono da una cultura diversa; hanno costumi, usanze, idee diverse e quando entrano in carcere trasferiscono anche il loro bagaglio culturale. Molti di essi appartengono anche ad una subcultura criminale che è diversa da quella analizzata nelle pagine precedenti. Se la loro presenza è minima in un dato ambiente carcerario, allora si adattano sovente alla nuova comunità ed assimilano col tempo il linguaggio e le usanze della stessa comunità. Quando invece la loro presenza è ben nutrita, come in molte realtà del centro-nord (Torino, Milano, Bologna, ecc.) il loro diverso modo di "farsi la galera" urta inevitabilmente le coscienze degli autoctoni che hanno una concezione diversa. Non c'è assimilazione tra le due subculture o culture, ma solo un conflitto che, tra l'altro, rimane latente. Questa vicendevole "sopportazione" dell'altro è il risultato della tendenza al "quieto vivere".

Da quanto sinora detto potrebbe sembrare che per un detenuto sia preferibile il vecchio sistema. È vero solo in parte. Il debole lo era prima e lo è ancora oggi, ma mentre prima doveva guardarsi solo dalle "prepotenze" di una limitata schiera di personaggi e a loro stessi poteva rivolgersi in caso di sopraffazioni da parte di altri, oggi è circondato da un ambiente ostile in cui ognuno si sente in diritto di farsi giustizia da solo, con conseguente intervento delle autorità penitenziarie, che in passato avevano poco spazio d'intervento nella comunità carceraria, se non in casi estremi.

L'Ordinamento penitenziario che premia i delatori e punisce gli omertosi ha sconvolto l'ordine sociale delle cose e molti detenuti pur di ottenere un qualche beneficio sono disposti a tradire i propri compagni, spesso raccontando bugie o enfatizzando in senso negativo una situazione che negativa non è. Gli esempi possono essere tantissimi, dalla semplice denuncia informale o "confidenza" fatta all'agente di turno alle lettere firmate o spesso anonime ( ma rimangono per poco poiché, in un modo o nell'altro, si viene a sapere l'autore) spedite alla Direzione del carcere. Da un punto di vista legale sarà una cosa accettata, ma la percezione del detenuto è diversa, perché non accetta intromissioni esterne nella sua quotidianità. Da questo punto di vista il detenuto probabilmente preferisce il vecchio sistema. Di contro, il detenuto è più "libero" di agire, di pensare, di esprimere il proprio pensiero, senza paura che qualcuno intervenga nelle sue cose personali. Se ha perso la libertà, intesa come spazio libero, almeno ha ritrovato la libertà di affrontare i problemi, insiti inevitabilmente nella vita carceraria, come meglio crede, non essendo influenzato da pratiche tipicamente delinquenziali o "mafiose".

Lo schema riportato sotto, in modo piuttosto semplicistico, mostra che un alto grado di sicurezza personale e un basso grado di democrazia, intesa come uguaglianza delle condizioni ma anche come libertà di agire e affrontare i problemi individualmente senza far ricorso a "tecniche" mafiose, sono due caratteristiche del regime "mafioso" o fortemente delinquenziale in genere, mentre il basso grado di sicurezza personale e l'alto grado di democrazia corrispondono alla tendenza attuale. Per sicurezza personale si intende la certezza di incolumità fisica, che è tanto più garantita quanto più un individuo tende a rispettare le regole comunitarie, cioè quelle regole che legittimano il potere "mafioso".




alta democr.

bassa democr.

alta

sicur.

pers.




regime

mafioso

bassa

sicur.

pers.


tendenza

attuale


tendenza

anarchia



Oggettivamente, dal di fuori si è portati a credere che la tendenza attuale corrisponde di più al senso di giustizia ideale, sperando che si arrivi presto a concepire anche un alto grado di sicurezza personale (cosa inconcepibile allo stato attuale), oltre a quello di democrazia. Ma se si guarda la situazione dal di dentro, è necessario vedere la situazione da prospettive diverse, tenendo conto delle tipologie di detenuti viste in precedenza. Se guardiamo la realtà dal punto di vista di un boss mafioso o di un affiliato, è chiaro che esso la vede cambiare in senso negativo, a suo danno e svantaggio (probabilmente è uno dei motivi per cui molti decidono di collaborare con la Giustizia); ma cosa ne pensano gli altri detenuti? Stavano meglio prima o adesso? Parlando nel carcere di Torino con detenuti di diverse tipologie, si riscontrano opinioni divergenti. Soprattutto le differenze sono evidenti tra detenuti giovani e detenuti anziani, tra detenuti "settentrionali" e "meridionali", tra detenuti "esperti" e detenuti "pivelli". Naturalmente ognuno ha le proprie esperienze individuali e le loro opinioni sono legate ad esse. Su una cosa sono tutti d'accordo: oggi si sentono più "liberi"di agire. E non è poco. Le discordanze sono evidenti su ciò che riguarda il rapporto con gli agenti. Mentre i più giovani e i "pivelli" tendono a privilegiare lo stato attuale, cioè farebbero ricorso a loro in caso di necessità, i più anziani e gli "esperti" preferiscono pensare che con loro è meglio non avere a che fare, per il semplice fatto che sono guardie; settentrionali e meridionali invece si differenziano perché i secondi hanno una visione più chiusa rispetto ai primi, sono più restii a cambiare le proprie abitudini, i propri valori. Generalmente sono più attaccati alle vecchie regole. Non pretendono di imporle, ma per loro il "rispetto" e la solidarietà tra detenuti sono ancora dei punti fermi su cui basano la loro vita intramuraria; mentre gli altri, certamente non tutti, sono più propensi all'individualismo.














CONCLUSIONI






Numerose ricerche, tra le quali quella di Sykes nel penitenziario del New Jersey, hanno cercato di spiegare come potesse emergere una subcultura carceraria. Il punto principale era che il carcere sottopone a così tante situazioni di sofferenza che i detenuti hanno bisogno di una difesa contro il sistema: la privazione della libertà personale, dell'autonomia, della sicurezza dagli altri detenuti, sono situazioni di tale sofferenza che i detenuti creano la società carceraria, con le sue norme e valori. Ciò non fa diminuire certo il dolore ma, se non altro, li attenua: avere una cultura comune protegge dalle pressioni dell'ambiente. La cultura dei detenuti diventa così una comprensibile reazione[25].

Con questa tesi si è cercato di mettere in luce come la comunità carceraria italiana ha sviluppato al suo interno una serie di norme che regolano la medesima comunità. Norme formulate da un potere elitistico e indirizzate ai membri della collettività per orientarne i comportamenti trovando legittimazione apparentemente in valori più o meno condivisi. La loro derivazione dalla subcultura mafiosa ha permesso l'instaurarsi di un regime oppressivo, non soltanto materialmente ma anche per ciò che riguarda lo spirito di ogni recluso, il quale è costretto quasi sempre ad adeguarsi e ad assimilare anche comportamenti e atteggiamenti che sono propri di tutti fino alla automatizzazione di essi. Tali atteggiamenti e comportamenti contribuiscono, congiuntamente, se non in maniera peggiore, al carattere inglobante della struttura carceraria, al processo di mortificazione del sé[26]: il detenuto viene privato delle sue proprietà e della sua riservatezza, viene circondato da oggetti standardizzati e il suo comportamento viene incanalato in regole tali per cui egli perde ogni margine per compiere scelte responsabili. Il comportamento del recluso non è più determinato dalla sua volontà, ma dalle regole, comunitarie e istituzionali, che egli è tenuto a rispettare in modo del tutto passivo. Da questo punto di vista, è molto facile che il detenuto venga inserito in un gruppo criminale ostile nei confronti dello staff, dei tribunali e della società libera, per cui interiorizza molto spesso valori in contrasto con quelli che caratterizzano la società civile.

Non bisogna dimenticare che l'avvicinamento dell'individuo alla subcultura carceraria è anche conseguenza del tentativo da parte dell'istituzione di far perdere allo stesso il senso della propria identità (spoliazione); per mantenere un'identità l'individuo entra a far parte della subcultura, spesso per mancanza di alternative. Questo avvicinamento contribuisce ad elevare il grado di prigionizzazione con la conseguenza che egli finisce per accettare e sentire come propri i valori e le norme che da essi derivano.

Era proprio questo l'intento: verificare come i valori e le norme comunitarie contribuiscono, in modo molto più decisivo rispetto alla struttura totalizzante del carcere, a modificare atteggiamenti e comportamenti individuali.

In conclusione di questo lavoro vorrei dare una mia opinione a riguardo, il più possibile oggettiva, certamente non neutrale, vista la mia lunga esperienza carceraria in cui si sono sovrapposti periodi di fiducia a momenti di sfiducia sia verso le Istituzioni penitenziarie sia verso le varie comunità carcerarie in cui ho vissuto, o sono stato costretto a vivere. Ad eccezione degli ultimi tre anni circa, cioè da quando sono a Torino per motivi di studio, la mia esperienza è legata alle carceri della Puglia, ma credo di poter dire, dato che ho conosciuto in tredici anni detenuti provenienti da tutta la penisola, che la situazione nelle altre carceri sia stata e lo è ancora del tutto simile. Le uniche differenze, che si riscontrano nelle carceri del nord rispetto a quelle del sud, sono la presenza di molti immigrati extracomunitari e quella meno massiccia della delinquenza mafiosa. Credo che siano due elementi molto importanti, il primo perché la presenza di culture diverse permette anche atteggiamenti diversi verso le norme comunitarie, il secondo, al contrario, radicalizza i comportamenti, facilita l'interiorizzazione delle norme medesime e, nello stesso tempo, velocizza il processo di prigionizzazione.

Si è detto in precedenza che si sta avviando un processo graduale di indebolimento del vecchio sistema "assolutista", sotto la spinta di fattori materiali e sociali, in cui un ruolo primario è giocato dalle leggi dei primi anni Novanta e dall'espansione della cultura in una larga fascia di detenuti, pronti per contestare il vecchio sistema. Non vi è una spaccatura netta, ma un processo naturale che, grazie anche a nuove leggi, evolve col tempo e coinvolge anche le menti più aperte che in passato appoggiavano o si sentivano obbligate ad appoggiare un potere "paternalistico" e spesso "arbitrario". Tale potere ha consentito l'attecchimento di regole che non tenevano conto delle più diverse individualità ed esigenze presenti in un carcere; una volta fatte proprie, interiorizzate, sono state percepite dal detenuto come se fossero nate da se stesso e da una sua libera scelta, mentre ha percepito quelle "istituzionali" come provenienti dall'esterno, non corrispondenti alla sua volontà, quindi imposte. È questa percezione di "autonomia" delle norme che ha tenuto coesa la comunità carceraria. Ma è stata solo una coesione apparente, poiché fondata su valori imposti dall'alto e fatti propri dalla maggioranza dei detenuti solo per razionale convenienza.

Di contro, bisogna dire che la coesione in una piccola comunità è essenziale e, paradossalmente, la sua morte ha permesso la nascita di un diffuso sentimento egoistico che porta ogni individuo a non guardare oltre il proprio orticello di casa. Pensa solo a se stesso, convive con gli altri ma non li vede. L'invidia e la gelosia sono caratteristiche principali dell'egoismo, insieme generatrici di odio e ostilità nei confronti degli altri. Dal punto di vista sociale le conseguenze sono disastrose: mancanza di fiducia reciproca, rischio di delazioni continue non suffragate dai fatti, forte sentimento di sospetto. Questa situazione provoca conflitti, che il più delle volte rimangono latenti, grazie soprattutto al timore di incorrere in qualche sanzione disciplinare, o meglio di non poter avere benefici. Rischiano però di manifestarsi da un momento all'altro se portati all'esasperazione, con conseguenze disastrose per tutta la comunità. Paradossalmente, la «legge Simeone» (citata più volte) da un lato ha permesso l'estensione di benefici ad un numero più vasto di detenuti, dall'altro, proprio per questo, contribuisce ad alimentare quel sentimento individualistico di cui sopra. Non solo. Questa situazione di frammentazione eccessiva, se vogliamo di atomismo, all'interno della comunità ha reso possibile un atteggiamento diverso da parte anche delle Amministrazioni penitenziarie, che per governare e controllare con più efficienza adottano, più frequentemente che nel passato, il principio dividi et impera, percependo che molti detenuti sono molto sensibili sia alla promessa di benefici che a quella delle sanzioni disciplinari.

Gli eventuali conflitti tra detenuti, siano essi manifesti che latenti, introducono un tema che reputo molto importante dal punto di vista dell'indagine sociologica: la loro risoluzione. Anche in quest'ambito c'è stato un mutamento negli ultimi anni, o meglio c'è una tendenza al cambiamento. Ma qui bisogna distinguere tra conflitti alla cui risoluzione è deputata l'Istituzione e conflitti che vengono risolti all'interno della comunità carceraria. È la modalità di risoluzione di questi ultimi che tende a cambiare ed è molto importante analizzarla, ovviamente, sotto il profilo non giuridico.

È pacifico che le regole giuridiche, ossia il diritto, hanno varie funzioni sociali, di cui le più importanti sono la riduzione della conflittualità e la legittimazione del potere. Sono gli stessi scopi fondamentali che cercano di perseguire le norme comunitarie. Naturalmente è necessario che tali norme siano, anche se non condivise da tutti o dalla maggior parte della comunità, almeno conosciute. Il conflitto per essere risolto deve poter essere manifesto ed individuale. Sappiamo anche che il diritto risolve la conflittualità individuale attraverso la giurisdizione, cioè tramite una decisione presa da un apparato appositamente creato per risolvere le controversie, il tribunale o altro, ma anche attraverso la mediazione, cioè la presenza di un terzo soggetto che fa da mediatore. Mentre nella società civile la giurisdizione e la mediazione sono contemporanee, ossia in un dato momento si può scegliere tra la prima e la seconda, in ragione del grado di conflittualità, nella comunità carceraria la cosa sta in termini un po' diversi, nel senso che la giurisdizione, che qui è usato impropriamente e solo per definire il potere di prendere le decisioni nell'ambito di un conflitto, era più una pratica usata in passato rispetto ad oggi in cui si tende a preferire la mediazione.

Allorché i conflitti individuali non vengono tradotti davanti all'autorità per essere risolti giuridicamente, è necessario che la loro risoluzione sia trovata all'interno della comunità. Naturalmente era il detentore del potere a decidere i termini in cui veniva risolto il conflitto, da cui scaturiva in passato quasi sempre un vincitore e un vinto. Ciò ha comportato due conseguenze. In primo luogo, in questo modo non si risolvevano affatto i conflitti, nel senso che li si risolveva solo dal punto di vista formale (come fa il diritto), cioè dal punto di vista del detentore del potere, ma sostanzialmente non eliminava le ragioni stesse del conflitto. In secondo luogo, il fatto stesso che ci sia, ovviamente, un vantaggio per il vincitore e uno svantaggio per lo sconfitto, anche se il vinto potrà riconoscere la decisione, accresce in via generale la legittimazione del potere agli occhi del vincitore e la diminuisce agli occhi dello sconfitto. Quindi si può dire che, seguendo Pocar, «la situazione che ne scaturisce non è meno conflittuale di quella di partenza» , anche se non è così dal punto di vista di chi ha preso la decisione. Se poi teniamo conto che il potere "mafioso", tendente alla coesione della comunità attraverso l'imposizione del suo potere, è alquanto arbitrario e sovente ingiusto, in quanto è portatore di ineguaglianze "sociali" (molto spesso infatti la bilancia decisionale pende a favore dei gruppi più "prigionizzati"), è facile immaginare che la sua legittimazione è solo apparente, nel senso che non è riconosciuto dalla maggior parte della popolazione, costretta, d'altra parte ad accettarlo per evitare danni maggiori.

La tendenza attuale sembra essere quella di far ricorso alla mediazione per risolvere i conflitti individuali, quando questi non vengano risolti per via istituzionale, la quale, di solito, anch'essa adopera il sistema della decisione (infatti quando due detenuti si presentano davanti ad un consiglio disciplinare per risolvere la loro questione, è molto probabile che questa decreti un vincitore ed uno sconfitto, con le conseguenze viste sopra). Causa di questo cambiamento è sicuramente l'assenza di un potere "centrale". Come avviene questa mediazione e perché è così importante per la comunità carceraria? Diversamente dal passato, libero da imposizioni, l'individuo tende a risolvere le proprie divergenze individualmente, ossia senza far ricorso ad un potere esterno ben individuato. D'altra parte, è difficile che le divergenze tra due detenuti, o gruppi di detenuti, siano tenute lontane dal resto della popolazione detenuta: gli spazi ristretti e la pubblicità inevitabile che ne scaturisce, aumentano l'interferenza da parte degli altri, seppur in maniera passiva, ossia a livello di opinione. In altre parole, quando scaturisce un qualsiasi conflitto, tutti, o quasi, sanno, in un modo o nell'altro, la causa che lo ha generato, e tutti, o quasi, si fanno un'idea e hanno la loro opinione a riguardo. Il fatto che tutto avviene sotto gli occhi della comunità porta la stessa ad intervenire come "mediatrice" nel conflitto. Materialmente agisce attraverso individualità forti, che hanno una certa credibilità verso entrambi i soggetti in causa, solitamente sono i più anziani o i più "esperti". Il mediatore non fa leva sui rispettivi torti o ragioni, o sui loro interessi, ma su un interesse di un diverso soggetto che entrambe le parti sono disponibili a ritenere rilevante: l'interesse comunitario. Naturalmente il mediatore deve godere della fiducia dei contendenti e avere una certa autorevolezza. Per fare un esempio molto semplice, si immagini una situazione in cui ci sia un solo pallone e quattro squadre che vorrebbero giocare. Si forma così un conflitto che vede due squadre da una parte e due dall'altra. Una eventuale "decisione" permetterebbe a due di giocare e alle altre due di provare un sentimento di astio, non solo verso le squadre vincitrici ma anche verso chi ha preso la decisione, con la conseguenza che potrebbe intervenire l'amministrazione penitenziaria nel conflitto, adottando una soluzione molto semplice: togliere l'unico pallone disponibile. Il mediatore, al contrario, mettendo in campo l'interesse della comunità (cioè quello di non far intervenire le istituzioni, proprio perché adottano soluzioni sbrigative), al quale tutti sono, più o meno, sensibili, ottiene una conciliazione tra le parti, che, nel nostro caso, potrebbe essere quella di far giocare le squadre per dieci minuti ciascuna. Non bisogna dimenticare che, molto spesso, il mediatore è solo virtuale, agisce dall'interno, cioè ogni detenuto ha un sentimento di attaccamento morale alla comunità, è una sorta di vincolo psicologico che agisce da freno inibitore alle sue azioni. Il mediatore potrebbe anche fallire, ma se la mediazione riesce entrambe le parti sono portate a legittimarlo. In poche parole, si può dire che il vecchio potere decisionale (come fa, tra l'altro, il diritto) tendeva al riconoscimento di un interesse a scapito di un altro, provocando, come detto, un effetto contrario, almeno sostanzialmente, a quello sperato, mentre la mediazione tende a far prevalere l'interesse della comunità e a legittimare il suo potere.

D'altro canto, non bisogna dimenticare, però, che la mancanza di un potere coercitivo e il sentimento egoistico, di cui si è parlato sopra, potrebbero far aumentare le situazioni in cui sia necessario l'intervento delle forme di risoluzione "istituzionali", tendenti solo alla risoluzione formale dei conflitti. In altri termini all'interno del micro-sistema carcerario si sta assistendo ad una sorta di "mutamento sociale" influenzato soprattutto da fattori esogeni ( provenienti dall'esterno, ossia dalla società civile) piuttosto che endogeni (cioè prodotti all'interno del sistema), come le leggi sopra citate e una nuova cultura delle nuove generazioni, ma anche un sempre maggiore afflusso di migranti da Paesi extracomunitari.

Un altro elemento che sta contribuendo a mutare l'atteggiamento di una grande massa di reclusi è la comunicazione informale che, come in tutte le organizzazioni più o meno complesse, circola parallelamente alla comunicazione ufficiale, intesa come comunicazione che si trasmette dall'alto verso il basso, dai vertici alla base. Essa si veicola spontaneamente ed in modo nascosto e contraddice le informazioni emesse dal vertice. Questo tipo di media informale è chiamato "radio carcere". Entro questa sorta di circuito informale si riversano tutti i malumori, il malcontento e le paure della base, come anche le critiche che non sono ammesse ufficialmente, i giudizi al potere e così via. Il canale della comunicazione informale può avere funzioni positive e negative. Nel primo caso, chi dirige l'organizzazione può apprendere molte cose che altrimenti resterebbero ignote, se è in grado di accedere al circuito informale. Infatti ciò gli permette di individuare per tempo i problemi e se possibile porvi rimedio. Nel secondo caso si possono rafforzare forme di omertà che proteggono azioni devianti; inoltre, dato che vengono veicolate insieme verità e finzione, generano rumori (intesi come voci che si spargono all'improvviso e circolano in modo spontaneo) ed allarmismi. È quanto sta succedendo nella comunità carceraria. La presenza di canali di comunicazione informale in qualsiasi società, o micro-società, è strutturale, cioè fa parte del sistema. Ma mentre nelle società democratiche, come quella esterna, è tollerata, nelle società autoritarie, come può essere definita quella comunitaria, non è sopportata o è sopportata male. Anche se si è cercato di contenere il flusso informale, soprattutto dopo l'allontanamento dei "boss", non si è riusciti a contenerlo, anzi si è rafforzato ed ha aumentato il flusso dei detenuti verso di esso. Ciò ha permesso una sorta di mercato nero dell'informazione che sta contribuendo allo sfaldamento definitivo del regime. La conseguenza è che il detenuto, anche in questo caso, non ha più punti di riferimento certi, credibili, è confuso e deve far affidamento alle sole proprie forze e soprattutto alla sua capacità di adattamento.

Non si può non essere d'accordo sul fatto che la tendenza attuale mira alla maggiore libertà di movimento e di azione del detenuto, ma c'è il rischio che sia solo una libertà "provvisoria". L'invidia, la gelosia, l'individualismo e l'egoismo potrebbero generare una situazione di "anarchia" normativa con la possibilità di tradursi in una bellum omnium contra omnes (guerra di tutti contro tutti). È compito delle Istituzioni penitenziarie fare in modo che ciò non avvenga.

Credo che sia doveroso, a questo punto, citare un passaggio di Donald Clemmer tratto dal suo saggio The Prison Community, in quanto, a mio avviso, è stato lo studioso che più è riuscito a spiegare la cultura del carcere.


[.] Il mondo del detenuto è un mondo atomizzato. La sua popolazione è fatta di atomi interagenti in modo confuso. È dominata e si sottomette. La sua comunità è priva di una struttura sociale ben definita. I valori riconosciuti producono una miriade di attitudini configgenti. Non ci sono obbiettivi comuni definiti. Non c'è consenso su un fine comune. I conflitti dei detenuti con funzionari dell'amministrazione penitenziaria e la loro opposizione alla società sono di grado soltanto leggermente maggiore ai conflitti e alle opposizioni tra loro stessi. L'inganno e la disonestà sovrastano la simpatia e la cooperazione. Quest'ultima quando esiste ha una natura prevalentemente simbiotica. Il controllo sociale è solo parzialmente effettivo. È un mondo di individui le cui relazioni quotidiane sono personalizzate. È un mondo di "io", "me" e "mio", non di "nostro", "loro" e "suo". La sua popolazione è frustata, infelice, smaniosa, rassegnata, amareggiata, astiosa, vendicativa. La gente che vi vive è imprudente, inefficiente e socialmente analfabeta. Il mondo della prigione è un mondo privo di benevolenza. C'è sporcizia, puzza e sciatteria; ci sono monotonia e stupore. Il disinteresse è sempre presente. C'è desiderio di amore e smania di sesso. C'è la sofferenza della pena. Se si eccettuano pochi individui, regna lo smarrimento. Nessuno sa, a dispetto dei dogmi e dei codici, che cosa è importante. [.] .


Ciò che si è voluto evidenziare in questa tesi è, come ricordato sopra, una visione del carcere dalla prospettiva del detenuto, essendo io stesso tale, per cui non può essere, malgrado mi sia sforzato in questo senso, una visione neutrale.

L'idea di scegliere la comunità carceraria come argomento è partita dal fatto che sono fermamente convinto che la tecnica dell'osservazione partecipante sia un metodo di ricerca molto importante per arrivare a una comprensione profonda di realtà poco conosciute, o conosciute soltanto attraverso le varie teorie sociologiche "scientifiche", le quali sanciscono una certa distanza tra il ricercatore e il "diverso", con una conseguenza asimmetrica tra il ruolo dell'osservatore e quello dell'osservato.

L'osservazione partecipante permette, dal momento che consiste nel condividere per un certo periodo di tempo la vita del detenuto, di entrare nel mondo dei soggetti che si vogliono studiare, che significa imparare il loro linguaggio, mangiare il loro cibo e praticare una serie di attività che non sono abituali per il ricercatore: è un modo che comporta maggiori costi (soprattutto umani) e maggiori rischi, ma anche maggiori risultati. Naturalmente ciò non è possibile per un ricercatore sociale analizzare la società carceraria da questo punto di vista, dato che le Istituzioni non permettono, o non possono permettere, studi del genere, e poi nessuno studioso accetterebbe mai di farsi arrestare per un periodo relativamente lungo per portare avanti le sue ricerche. Ragionando per assurdo, il sociologo potrebbe osservare direttamente i comportamenti e gli atteggiamenti di molti detenuti e il rapporto tra osservatore e osservato sarebbe diverso. Egli si coinvolgerebbe totalmente nella situazione tanto da consentire un capovolgimento dei ruoli iniziali. Il sociologo si trasformerebbe nell'allievo del suo soggetto, che a sua volta assumerebbe il ruolo dell'esperto che gli insegnerebbe le regole e i ritmi della vita dei detenuti, gli svelerebbe i trucchi del mestiere e il modo di evitare i pericoli quotidiani. Il capovolgimento dei ruoli consentirebbe al ricercatore di entrare fino in fondo nel mondo dei detenuti, di vederlo e di viverlo dall'interno, dal loro stesso punto di vista; inoltre consentirebbe di spiegare la differenza che c'è fra il modo in cui la società civile immagina i detenuti e il modo in cui essi immaginano se stessi.

Spero che questa tesi possa dare un contributo, per quanto io non sia uno studioso di scienze sociali ma solo un "osservatore" particolare, alla comprensione di alcuni aspetti oscuri, o almeno poco discussi, della realtà carceraria che influenzano, positivamente o negativamente, la vita del detenuto anche quando egli rientra nella società civile.



GLOSSARIO












Affiliato: detenuto che fa parte di un gruppo mafioso o di una famiglia mafiosa;

Amico: termine comunemente usato per indicare una persona che è vicina al proprio gruppo di appartenenza, anche se non è affiliato; anche, amico di amici;

Aquila nera: termine per indicare l'Ufficiale Giudiziario durante la consegna dei mandati di cattura;

Area: settori nei quali operano le figure professionali all'interno del carcere: l'area educativa o trattamentale, l'area sanitaria, l'area della sicurezza e dell'ordine, l'area di segreteria e l'area amministrativa e contabile;

Aria: termine che indica il luogo del passeggio all'aperto dei detenuti, il cortile;

Auguri a' libertà: espressione o formula di cortesia che si usa in particolari ricorrenze (p.e. compleanni, onomastici, ecc.);

Bicicletta: zizzania, contrasto, grave discordia (sinonimo di tragedia);

Biciclettaro: colui che semina zizzanie, biciclette (sinonimo di tragicatore);

Blindo: termine per indicare la porta blindata delle celle: può essere in legno o in ferro;

Boss: termine che proviene dalla società civile e indica il capo, il padrone;

Buttarsi sul carrello: espressione che si usa quando si mangia il vitto dell'Amministrazione carceraria che viene distribuito con un carrello;

Capocella: termine per indicare il responsabile della cella: di solito è un boss, ma può anche essere un "esperto" o il più anziano. Deve cercare di mantenere l'ordine e la disciplina, soprattutto in celle con più di quattro persone;

Capotavola: termine che indica chi siede a tavola al posto d'onore: è sempre il capocella ad esserlo;

Cappotta: termine che indica una dura aggressione da parte di più detenuti dopo aver coperto l'aggredito con una coperta o un lenzuolo. Probabilmente deriva dal fatto che gli aggressori stanno sull'aggredito come la cappotte dell'auto (sinonimo di conserva);

Carcerite: atteggiamento psicologico temporaneo di rifiuto dell'ambiente circostante, dovuto a varie cause: la lontananza degli affetti, stress psicologico, contrasti con i compagni di cella, ecc. Porta all'autoisolamento e può essere forte o debole, dipende dall'atteggiamento del soggetto e dal periodo, più o meno breve, di persistenza del fenomeno.

Carrello: termine per indicare lo strumento con cui si consegna il vitto ai detenuti;

Casansa: termine che indica l'Amministrazione Penitenziaria, ma anche la struttura in sé;

Comune (detenuto): detenuto non etichettabile, ossia non affiliato o non abituale;

Conserva: Sinonimo di cappotta. Deriva dal fatto che dopo l'aggressione, l'aggredito perde così tanto sangue da far pensare alla conserva del pomodoro;

Corvo: termine che indica l'Ufficiale giudiziario, sinonimo di Aquila nera;

Cristiano: termine che indica il vero uomo, l'uomo di rispetto, integro, omertoso e affiliato; Il buono cristiano invece è riferito a persona anziana, rispettabile ma non affiliata;

Domandina: strumento cartaceo con cui il detenuto pone le proprie richieste allo staff carcerario, per esempio per parlare con il Direttore, con l'ispettore o con l'educatore, ma anche per fare acquisti particolari;

Errare: commettere un errore, essere in errore. In carcere non è sinonimo di sbagliare (vedi più avanti);

Esperto: detenuto con molti anni di galera sulle spalle, altamente prigionizzato;

Fare il morto: non avere il diritto di dire la propria opinione su qualsiasi argomento, spesso significa stare steso sul letto e chiedere il permesso di alzarsi per qualsiasi cosa. È una punizione per colui che si comporta male nell'ambito della cella: una sorta di emarginazione forzata momentanea, solitamente usata per punire chi non si attiene alle regole interne, soprattutto se riguardano la pulizia personale e ambientale;

Farsi la galera: espressione che indica la consapevolezza di dover scontare una condanna per il reato commesso e l'accettazione e l'adeguamento alle regole della comunità;

Favella: termine derivante dalla subcultura mafiosa che indica il modo di esprimersi in termini mafiosi. Avere favella significa saper parlare in modo convincente;

Giudicare: termine che si preferisce non usare secondo il principio per cui solo i Giudici giudicano; il detenuto dà opinioni o pareri, non giudizi;

Gruppo: l'insieme di persone che condividono gli stessi ideali, generalmente mafiosi;

Guardia: termine per indicare in modo dispregiativo gli agenti di custodia, ma spesso viene usato anche come sinonimo di indegno o infame quando è rivolto ad altri detenuti;

Indegno: sinonimo di infame;

Infame: detenuto che denuncia all'autorità giudiziaria un proprio compagno o qualche avvenimento che causa conseguenze negative agli altri, dunque meritevole di disprezzo da parte della comunità carceraria. È il "deviante per eccellenza";

Infamità: caratteristica di chi è infame;

Malandrino: colui che perpetra prepotenze verso gli altri avvalendosi della propria forza fisica oppure approfittando del fatto di avere le spalle coperte;

Malpagatore: colui che non paga i debiti di gioco;

Mandolino: mandato di cattura notificato dall'ufficiale giudiziario, il corvo;

Montare biciclette o tragedie: mettere zizzanie tra detenuti;

Nuovo giunto: detenuto appena arrivato, sia esso un pivello o un esperto, oppure proveniente da altro carcere;

Omertà: atteggiamento di chi rifiuta od omette di fornire indicazioni su colpa o atti illeciti altrui, per paura, solidarietà, difesa di interessi personali, e altro ( lo Zingarelli, vocabolario della lingua italiana, 2005);

Ora d'aria: termine che si usa per indicare il tempo riservato all'aria aperta, anche se è più di un'ora;

Ora di socialità: tempo riservato ai detenuti per socializzare. Di solito avviene in una saletta all'interno della sezione di appartenenza;

Pentito: detenuto disposto a collaborare con la giustizia ottenendo attenuanti, benefici e riduzioni di pena; è un "deviante per eccellenza" ed è ubicato in sezioni differenziate (vedi anche infame);

Piangere: verbo che si usa per scherzare o per schernire un proprio compagno quando questi si apparta per scrivere una lettera o quando è steso sul letto assorto nei propri pensieri. Pensare al mondo esterno o scrivere ai familiari;

Picciotto: nella gerarchia della mafia è il grado più basso, ma in carcere è poco usato. Si preferisce "ragazzo" o "vaglione" accompagnato da un aggettivo possessivo Per es.: questo è un mio ragazzo o mio vaglione, quello è un ragazzo di Tizio;

Pivello: detenuto inesperto;

Prepotenza: sopruso perpetrato nei confronti dei più deboli, soprattutto verso i pivelli oppure i "boni vaglioni";

Protezione: opera protettrice di tutela nei confronti di detenuti inesperti, ma ha anche il significato di favoreggiamento, sinonimo di "avere le spalle coperte" da qualcuno;

Quacquaracquà: detenuto che parla troppo e agisce poco;

Radio carcere: canale di comunicazione informale che permette la diffusione di informazioni diverse da quelle che diffonde il canale di comunicazione ufficiale.

Responsabile: detenuto che è posto sul grado più alto della scala gerarchica nella comunità carceraria. Di solito è un boss o un affiliato, ma può esserlo anche un "esperto" non affiliato o un anziano. Fino alla metà degli anni novanta (ma ancora oggi nel Sud italiano) esisteva il responsabile del carcere, il responsabile di sezione e il responsabile di cella (capocella). Naturalmente il responsabile del carcere è anche il responsabile della sezione e della cella in cui egli è ubicato;

Rispettare il cane per il padrone: stimare qualcuno non meritevole di stima soltanto perché il suo protettore è un uomo di rispetto;

Rispetto: atteggiamento di stima verso una persona ritenuta superiore. Sostantivo usato spesso per indicare un uomo d'onore: uomo di rispetto;

Saletta: luogo in cui si svolge l'ora di socialità nell'ambito di una sezione;

Saltare il secchio: espressione che indica il passare dall'altra parte della barricata. Pentirsi;

Sbirro: solitamente è riferito agli agenti di pubblica sicurezza, ma spesso viene usato per indicare un infame, un indegno o una guardia;

Sbagliare: commettere un'azione infamante. È tassativamente vietato usare questo termine se il detenuto a cui si riferisce è "integro" nel modo di comportarsi, secondo l'assioma che soltanto gli sbirri o gli infami sbagliano;

Scaldare il letto: espressione usata in senso negativo che indica la poca esperienza di galera di un determinato detenuto. (Per es.: Tizio non ha ancora scaldato il letto che pretende di.);

Scoppiare: andare fuori di testa, non sopportare più l'ambiente carcerario dopo una lunga carcerazione; in senso positivo, stancarsi del carcere;

Scoppiato: nella sua accezione particolare è usato anche per indicare in senso negativo il tossicodipendente cronico o il malato mentale;

Sfoglia: informazione che si passa tra detenuti di sezioni diverse; solitamente è scritta su biglietti, ma può anche essere orale se il detenuto che funge da tramite è un uomo fidato;

Tragedia: zizzania, contrasto, grave discordia, sinonimo di bicicletta;

Tragicatore: colui che pone in essere una tragedia, sinonimo di biciclettaro;

Uomo d'azione: colui che alle parole fa seguire i fatti, contrario di quacquaracquà. È usato anche per indicare colui che non si tira indietro a compiere atti punitivi;

Vaglione: indica generalmente il picciotto, ma accompagnato dall'aggettivo "buono" indica il bravo ragazzo non affiliato ma rispettoso;

Vecchio di galera: colui che ha trascorso molti anni in carcere, anche se non in modo continuativo, sinonimo di esperto;




















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