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I rapporti con lo staff carcerario




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I rapporti con lo staff carcerario


Lo staff carcerario è composto da tutte le figure professionali che operano all'interno del carcere. Esse operano per aree: l'area educativa o trattamentale, l'area sanitaria, l'area della sicurezza e dell'ordine, l'area di segreteria e l'area amministrativo-contabile. Dal punto di vista del detenuto le figure più importanti sono gli educatori che costituiscono i mediatori tra le risorse e le opportunità offerte dall'istituzione e la disponibilità dei reclusi a fruirne. Egli «dovrebbe rappresentare il volto umano dell'istituzione penitenziaria, dal momento che dovrebbe essere disposto a comprendere i problemi e le difficoltà che la situazione detentiva comporta» ; ma anche l'assistente sociale che «può essere considerato il ponte tra carcere e società, dal momento che si occupa prevalentemente dell'attività di trattamento che si svolge all'esterno dell'istituto, in particolare in riferimento alle misure alternative alla detenzione» .

Le figure però che più interessano in questa sede sono quelle preposte all'area della sicurezza e dell'ordine, principalmente gli agenti di custodia in quanto sono quotidianamente a contatto diretto con i detenuti. Il loro compito principale consiste nel far rispettare il regolamento penitenziario, prevenire il nascere di conflitti tra detenuti, il controllo costante degli spazi in comune e delle celle attraverso le "perquisizioni ambientali". Spesso il loro lavoro li porta ad avere contrasti, più o meno significativi, con i detenuti, tenendo presente che esiste una contrapposizione di fondo tra la figura del detenuto e quella dell'agente, «due mondi sociali e culturali diversi [che] procedono fianco a fianco, urtandosi l'un l'altro con qualche punto di contatto di carattere ufficiale, ma con ben poche possibilità di penetrazione reciproca» . Così gli agenti diventano le guardie, in senso dispregiativo. Un detenuto è costretto a rivolgersi a loro per qualsiasi cosa: per accendere o spegnere la luce della cella (dal 2000 l'interruttore dovrebbe essere disposto in tutte le celle, ma non tutti i carceri si sono ancora adeguati a questa direttiva ministeriale), per la corrispondenza con l'esterno, per andare all'aria, ecc.; per fare richieste solitamente si fa ricorso alla domandina, cosa in sé molto frustrante perché spesso non si ha risposta.

È improprio parlare di norme ben individuate regolanti i rapporti tra detenuti e agenti, ad eccezione di alcune che si vedranno di seguito. Anche in questo caso è necessario far ricorso alla pratica carceraria. Le poche regole riguardano più che altro il comportamento che un carcerato deve tassativamente osservare in particolari situazioni che saranno analizzate specificatamente una per una.

Solitamente ci si rivolge agli agenti dando del lei, non solo per educazione ma anche per mantenere le distanze da un ruolo non molto "simpatico". La forma della richiesta è quasi standardizzata: «Mi scusi, agente, posso.?potrei.?é possibile.?é lecito.? mi farebbe una gentilezza?» Rivolgersi in questo modo è percepito dalle guardie come una specie di sottomissione ed esalta il loro ruolo di "educatori"; da parte del detenuto è visto come uno strumento per ottenere più facilmente soddisfazioni alla propria richiesta. Certamente non si può generalizzare, tutto dipende dalla cultura personale di entrambi i soggetti. Una cosa è certa: il modo di rivolgersi è molto importante ed anche chi non è predisposto culturalmente alla gentilezza e al rispetto, alla fine li usa per i propri scopi pratici. Il carcere è un grande mondo di personalità diverse e bisogna fare i conti col fatto che sono concentrate in un ambiente molto ristretto. I conflitti di personalità sono all'ordine del giorno e la forma è molto importante per evitarli. Col passar del tempo, ogni detenuto conosce ogni agente, il suo carattere e il suo modo di agire. Così si evita di fare delle richieste quando l'agente di riferimento per le stesse è visto come ostile; addirittura si evita, se istigato (succede spesso) di reagire in modo sgarbato. Al contrario, si approfitta quando l'agente è una persona più sensibile, più predisposto ad ascoltare. La predisposizione dell'agente dipende anche dalla personalità del detenuto, dal suo comportamento durante tutto il periodo della detenzione. Le guardie conoscono tutti, hanno a disposizione i fascicoli di ognuno, facilmente consultabili. Anche loro assumono comportamenti diversi a seconda del detenuto e delle circostanze, favorevoli o meno ad assumere un atteggiamento adeguato alla situazione. Anche i semplici gesti quotidiani hanno molta importanza nelle relazioni tra agenti e detenuti e sono determinanti a farsi un'idea dell'altro: il modo di aprire la posta e il modo di riceverla, i movimenti delle mani nel dialogo, il tono della voce nel chiamare l'altro, ecc.

I rapporti tra agenti e detenuti sono sempre sotto gli occhi di tutti, anche i dialoghi avvengono in presenza di altre persone, siano esse guardie o carcerati. È qui che influiscono quelli che si possono definire i "suggerimenti comportamentali", che spesso il detenuto li percepisce come "norme comportamentali" imposte dal conformismo della comunità carceraria. Possono essere qualificate come norme proscrittive:

  • non parlare mai da soli e sottovoce con le guardie;
  • non ricorrere mai alle guardie in caso di conflitti con altri detenuti;
  • in caso di contese verbali tra guardie e detenuti, nessun detenuto terzo deve intromettersi per sostenere le tesi o le ragioni dell'agente, che siano esse giuste o sbagliate; è consentito, altresì, fare il contrario.

Il primo suggerimento evidenzia in modo esplicito il timore di delazione, di spiata, sottolineando la mancanza di senso di fedeltà al "sistema comunitario". La delazione o, come comunemente è chiamata, l'infamità è una operazione che avviene spesso in un carcere, accrescendo il senso di insicurezza tra i carcerati. Il sospetto è uno spettro che si aggira nell'aria rendendola pesante; i movimenti di ognuno sono costantemente controllati da tutti, per cui è difficile sottrarsi alla vista. Parlare ad alta voce con l'agente di turno è il modo migliore per evitare stigmatizzazioni non supportate da fatti. È un marchio che, se bene attecchito, comporterà l'isolamento e l'emarginazione da parte di tutti; spesso le conseguenze sono spiacevoli tanto che si è costretti a cambiare sezione, anche se la posizione nella comunità non cambia poi tanto.

Anche quando si va in udienza dal Direttore o dall'Ispettore (naturalmente tramite domandina) per più di una volta in un breve periodo, magari legittimamente per risolvere un problema personale, se non si è una persona di sicura affidabilità, c'è il rischio di essere etichettati come persona "strana"; questo comporta una certa emarginazione da discorsi che possono essere compromettenti. Solo dimostrando la propria buona fede si può evitare l'isolamento dagli altri. È auspicabile che prima di andare in udienza si dica il vero motivo a qualche detenuto più vicino, in modo che costui, che sarà contattato sicuramente dagli altri per chiedere spiegazioni in merito, possa sostenere l'inesistenza della mala fede.

Il secondo suggerimento riguarda i casi di contrasti tra detenuti, che possono essere di vario tipo. Un dissidio che spesso esiste può essere quello riguardante il volume del televisore, soprattutto nelle tarde ore serali in cui tutti sono chiusi nelle proprie celle e non si ha la possibilità di dirlo direttamente all'interessato: non si può chiamare la guardia per far abbassare il volume del televisore; è preferibile aspettare la mattina successiva e dirlo direttamente all'interessato. Questo tipo di atteggiamento, che è un caso particolare di un principio generale secondo cui non bisogna mai coinvolgere in alcun modo le istituzioni nei conflitti interpersonali o tra gruppi, è da evitare in quanto non si può mettere un qualsiasi detenuto in cattiva luce con l'agente, solitamente predisposto ad un richiamo verbale per il disturbo arrecato agli altri. È più accettabile il richiamo da parte del detenuto che da una guardia. Il fatto di essere disposti a chiamare l'agente per una così stupida questione porta la maggior parte dei detenuti a fare questo ragionamento: «Se costui fa ricorso alle guardia per una stupidata, e dovesse succedere qualcosa di più grosso, cosa sarà disposto a fare?»

Uno dei casi in cui fare ricorso alla guardia è veramente considerato un'infamità è quello in cui si è oggetto di conserva, e in tutti quei casi in cui si arriva a regolare le questioni con le mani. La regola del vero carcerato vuole che in questi casi bisogna essere "cristiani" (veri uomini) e accettare le conseguenze. Anzi, se la conserva viene praticata per questioni personali e chi la subisce la accetta, allora questa persona sarà, paradossalmente, in seguito rispettata, forse ancora più di prima, come un vero Cristiano (nel gergo meridionale intramurario vuol dire "vero uomo"). Naturalmente il ricorso alle autorità è tassativamente sanzionato con l'esilio alla "sezione precauzionale". Naturalmente farà la stessa fine chi, pur non essendo oggetto di cappotta ma spettatore inconsapevole, denuncerà il fatto alle guardie.

Il terzo suggerimento ha come oggetto la disputa verbale, e non solo, tra un agente e un detenuto. Succede molto spesso e, di solito, davanti a terzi. Sostenere la tesi dell'agente è percepito come un affronto verso il detenuto, che si sente offeso dall'atteggiamento sfavorevole di un suo simile. Il fatto di averlo fatto davanti all'agente è ancora più umiliante, perché lo fa sentire più piccolo, meno importante. D'altra parte la guardia acquista ancora più coraggio e potrebbe sanzionare con più facilità il detenuto. La soluzione è quella di allontanarsi e far finta di niente o, al massimo, quella di cercare di riportare la pace tra i due contendenti, anche se è opportuno non farlo (non si sa mai ciò che possono pensare gli altri). Se proprio si vuole evidenziare che il "compagno" è in torto, è meglio farlo in privato. Questo tipo di atteggiamento probabilmente esiste anche tra lo staff, ed ha la stessa valenza simbolica: dimostrare la superiorità della propria "classe" di appartenenza.




Ronco D., A. A. 2001-02, tesi di laurea in Scienze politiche, Il trattamento penitenziario nella prospettiva della sociologia del carcere, Torino.

Ivi.

Goffman E., (1961), Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell'esclusione e della violenza, pag. 39, Edizioni di Comunità, Torino.

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