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CONCLUSIONI - L'umanità - sfide collettive
L'umanità ha davanti a sé grandi sfide collettive[1]: la sfida legata all'incremento delle disuguaglianze, sia all'interno di ciascuna nazione, sia fra nazioni e continenti diversi; la sfida della globalizzazione, che offre opportunità di crescita per tutti, ma non realizzabili da tutti, e non certamente dai più deboli; la sfida ecologica, che esige far proprio il destino comune dell'umanità, anche per il futuro.
Tuttavia, la sfida delle sfide, che condiziona in larga misura le altre, riguarda una particolare categoria di beni pubblici da produrre e conservare nel tempo, in quanto preziosi, sia per i loro effetti sulla qualità della vita, sia per la loro capacità di produrre ulteriori obiettivi, anche economici.
Sono i cosiddetti beni relazionali che nascono da atteggiamenti e comportamenti disinteressati. Consistono in reti di relazioni caratterizzate da conoscenza reciproca, attenzione, fiducia, comprensione, comunicazione positiva, collaborazione generosa, tensione alla condivisione. Purtroppo tali beni, che sono immateriali e, quindi, non misurabili con gli attuali strumenti economici, rischiano di essere trascurati ed oscurati.
Eppure, numerose sono le conferme della loro incidenza nel determinare il
successo di un sistema economico, di un progetto sociale, di un'iniziativa
imprenditoriale.
S.Latouche - ad esempio -, profondo conoscitore dell'Africa, ritiene che questo continente riesca a sopravvivere, nonostante i suoi immani problemi sociali, perché guidato da una cultura fondata sulla logica del dono.
G.De Rita, che ammette il sostanziale fallimento di tanti progetti di sviluppo, propone di aprirsi all'altro per dialogare; di calarsi nella cultura dell'altro per capirlo, di valorizzarne l'apporto.
Sappiamo, per esperienza, che l'intervento pubblico in favore dei più emarginati e svantaggiati ha maggiori probabilità di successo, se sostenuto dalla collaborazione volontaria e sensibile di molte persone, anche associate fra loro.
La sfida ecologica stessa, che, per essere vinta, richiede una condivisione intelligente e concorde delle limitate, ma abbondanti risorse del pianeta, non consegue i risultati sperati (come è stato evidenziato al Congressi di Kyoto), in buona parte per la scarsa sensibilità al bene comune di molti cittadini , troppo interessati alla crescita materiale.
L'uomo, con i suoi atteggiamenti e comportamenti di chiusura, o di apertura verso gli altri, forse non si rende conto che si assume la responsabilità di determinare condizioni vantaggiose o svantaggiose per sé e per gli altri.
Non basta aumentare la produzione dei beni materiali, per risolvere i problemi sociali; occorre incrementare i beni immateriali - cioè relazionali - per rendere possibile la condivisione di quelli materiali.
Il progetto di E.d.C. si fonda su questa intuizione e individua nella comunione la strada per ridurre le disuguaglianze sociali. Indica l'impresa quale strumento protagonista del progetto. Essa è concepita come comunità di persone che attraverso il lavoro ricercano la reciprocità con tutti: anche con i clienti, i fornitori, le istituzioni e i concorrenti, non più considerati ostacoli.
Ricerca l'utile, ma per condividerlo con i poveri e per diffondere la cultura della condivisione.
In tal modo si utilizza il mercato - che per definizione è il luogo dove si produce la ricchezza - per la distribuzione della ricchezza, compito tradizionalmente attribuito allo Stato.
Le 750 imprese, sparse in tutto il mondo, che fino ad oggi aderiscono all'E.d.C., hanno dato buoni risultati economici: nuovi posti di lavoro, utili condivisi. Questi hanno permesso a tante persone di uscire dall'indigenza e di riacquistare fiducia nella vita. Le aziende sono riuscite a rimanere sul mercato, utilizzandone gli strumenti del mercato, ma con una nuova logica.
Un altro aspetto mi sembra importante. L'esperienza dell'E.d.C., vivendo la dimensione relazionale in economia, produce vantaggi visibili per l'uomo e la società; in tal modo 'mette in crisi' il paradigma dell'individualismo, che non la può spiegare; allo stesso tempo alimenta il dibattito teorico che coinvolge da tempo alcuni - ma sono ormai tanti - economisti. Essi, partendo dai bisogni delle persone che soffrono a causa delle disuguaglianze prodotte da un'economia centrata sul profitto, individuano nella dimensione relazionale l'elemento capace di produrre un miglioramento sociale.
A.Sen distingue le opportunità teoriche offerte a tutti di accedere ai beni e ai servizi, dalle capacità effettive di poterne usufruire. La società individualista offre a tutti solo opportunità teoriche, e non si preoccupa di chi non ha le
capacità di accedervi.
G.Becker, che ha condotto numerosi studi sulla famiglia, indica la famiglia stessa quale modello a cui l'economia dovrebbe ispirarsi per i vantaggi che relazioni disinteressate (come quelle vissute in famiglia) possono produrre.
Rimane ancora aperta la discussione sull'incapacità, dell'unico modello teorico esistente, a comprendere la nuova dimensione relazionale..
Il prof. Zamagni, al riguardo, esprime così il suo punto di vista: 'Bisogna avere un pluralismo di principi, lasciando agire la libertà di scelta. E' solo in questo modo che potrà essere verificata la validità di tali principi. Dopo tutto dobbiamo tener presente che l'economia deve cercare di rendere felici le persone'.[2]
All'inizio della mia tesi, ho posto la domanda: 'Verso una nuova dimensione dell'economia?'.
La mia riflessione mi permette di affermare che nel pensiero di molti economisti il rinnovamento dell'economia passa anche attraverso la valorizzazione della dimensione relazionale, quale variabile dei risultati economici e della qualità della vita.
L'esperienza di E.d.C. vuole esserne una testimonianza.
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