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Tito Maccio
Plauto, commediografo latino, nacque in Umbria, a Sarsina, probabilmente verso
il
Da Cicerone (Bruto, 60) apprendiamo che egli morì nell'anno
in cui Catone esercitò la censura. La data di nascita invece è più difficile da
fissare: lo stesso Cicerone (Catone Maggiore, 50) riporta che Plauto compose lo
Pseudolus, insieme al Truculentus, in tarda età, per i romani infatti la senectus cominciava a sessant'anni. Poiché
la commedia fu rappresentata, secondo la didascalia, nel 191 a.C., la nascita
di Plauto dovrà essere approssimativamente al 225-250 a.C.
Il nome completo del commediografo ci è stato tramandato come Titus Maccius Plautus, con i tria nomina che identificano il
cittadino romano, mentre gli altri poeti dell'età arcaica, tutti di origine
greca o italica (come Plauto), ci sono noti soltanto con due nomi.
In realtà è possibile che Maccius e Plautus non siano altro che due soprannomi.
Il primo,
infatti, è molto simile a Maccus, nome di una maschera della farsa atellana (lo
'Sciocco'); Plautus invece potrebbe significare qualcosa come
"piedi-piatti", infatti gli umbri chiamavano Ploti coloro che nascevano con i
piedi piatti. Il poeta Maccio, poiché era umbro di Sarsina, all'inizio fu
chiamato Ploto a causa dei piedi piatti, poi si sentì chiamare "Plauto".
Secondo le notizie che ci sono pervenute sulla sua vita, e che fra l'altro sono
poche e incerte, fornite per lo più da un erudito del I secolo a.C. , Marco
Terenzio Varrone, (ma anche da A. Gellio e
S. Girolamo, IV sec. d.C.) parrebbe certo che, ancora giovinetto, dalla natia
Sarsina venne a Roma, dove, al servizio di una compagnia teatrale, non si sa
bene con quali funzioni, probabilmente come attore, imparò il greco, si
impratichì del mestiere di commediografo e mise insieme anche un discreto gruzzolo, che poi impiegò nel
commercio del grano. L'esperienza acquisita nel campo del teatro, gli
fu utile quando, in seguito al fallimento dei suoi tentativi nel commercio,
perdette tutto il suo denaro e, per guadagnarsi la vita, dopo essere stato in
prigione per debiti, ormai ridotto alla povertà, dovette impiegarsi come uomo
di fatica presso un mugnaio, costretto a guadagnarsi da vivere girando una macina.
In questo periodo cominciò a comporre le sue prime commedie, fra cui il 'Saturio' ('Il pancia piena') e l' 'Addictus' (schiavo per debiti), che già dai titoli richiamano gl'infelici rovesci personali; e una terza, dal titolo sconosciuto, che, rappresentate con successo, furono l'inizio di una fortunata attività teatrale durata oltre un quarantennio. Estraneo della politica, ma non insensibile agli avvenimenti del tempo (la sua produzione si svolse, del resto, praticamente durante la II guerra punica), visse interamente della sua arte, praticata con instancabile fervore creativo: egli, insomma, scriveva per vivere, la sua scrittura era una vera e propria professione. Fu un autore popolarissimo ed ebbe un gran numero di imitatori, si fecero passare per sue anche commedie illegittime: nel I sec. a.C. ne circolavano addirittura 130. Su queste commedie che, dopo la sua morte, passavano sotto il suo nome, Varrone, attuò uno studio approfondito ('De comoedis Plautinis'), facendo una triplice ripartizione divenuta poi usuale:
21 autentiche le uniche che ci sono giunte pressoché integre, tranne l'ultima ridotta a frammenti (Vidularia)
19 dubbie, di cui restano soltanto i titoli
90 illegittime, andate del tutto perdute.
Poiché i
codici che ci conservano l'opera di Plauto contengono un corpus costituito
proprio da 21 commedie, si può considerare certo che si tratta delle commedie
che vengono ancora dette "Fabulae Varronianae", sopravvissute grazie
all'autorità del celebre filologo: il sigillo d'autenticità da lui appostovi
fece sì che solo quelle ventuno continuassero ad essere trascritte in più copie
e lette fino alla tarda antichità, così da venire poi ricopiate dagli amanuensi
medievali, salvandosi dalla rovina in cui andò perduta la massima parte della
produzione latina arcaica.
Plauto è quindi il primo autore della letteratura latina di cui conserviamo
opere intere.
Le ventuno commedie rimaste, sono disposte nei codici in ordine alfabetico: Amphitruo, Asinaria, Aulularia, Captivi, Curculio, Casina, Cistellaria, Epidicus, Bacchides, Mostellaria, Menachmi, Miles gloriosus, Mercator, Pseudolus, Poenulus, Persa, Rudens, Stichus, Trinummus, Truculentus, Vidularia.
Tuttavia, da varie testimonianze degli antichi, si è indotti a pensare che esistessero altre commedie sicuramente plautine, oggi perdute quali
'Commorientes', 'Colax', 'Gemini lenones', 'Condalium', 'Anus', 'Agroecus', 'Faerenatrix', 'Acharistio', 'Parasitus piger', 'Artemo', 'Frivolaria', 'Sitellitergus', 'Astraba.
Attraverso le relative 'didascalie' (ossia brevi notizie che i grammatici solevano dare, valendosi delle indicazioni trovate nei copioni delle compagnie drammatiche, intorno alla prima rappresentazione, alla sua esecuzione e al suo esito), possono essere datate con certezza, fra le ventun commedie a noi rimaste, solo lo Stico, rappresentato nel 200, e lo Pseudolo, rappresentato nel 191, e con approssimazione il Soldato millantatore, che accenna all'incarcerazione di Nevio e sarà stato quindi messo in scena subito dopo il 206; la cronologia delle altre è definibile solo in base ad elementi interni. Provando comunque ad azzardare un ordine cronologico, questo potrebbe essere: 'Asinaria' (212), 'Mercator' (212-10), 'Rudens' (211-205), 'Amphitruo' (206), 'Menaechmi' (206), 'Miles gloriosus' (206-5), 'Cistellaria' (204), 'Stichus' (200), 'Persa' (dopo il 196), 'Epidicus' (195-4), 'Aulularia' (194), 'Mostellaria' (inc.), 'Curculio' (200-191?), 'Pseudolus' (191), 'Captivi' (191-90), 'Bacchides' (189), 'Truculentus' (189), 'Poenulus' (189-8), 'Trinummus' (188), 'Casina' (186-5); in più la 'Vidularia' pervenuta assai mutila. Ovviamente le date riportate a fianco ai titoli sono passibili di molti dubbi, essendo risultato di supposizioni.
Plauto si dedicò durante tutta la sua vita ad un unico genere letterario, la commedia, anzi si limitò, apparentemente, a tradurre le opere della cosiddetta 'commedia nuova' greca, operando una sintesi originale tra quest'ultima ed elementi attinti alla tradizione popolare della farsa italica: da Menandro sono derivate la Cistellaria, lo Stico e le Bacchidi; da Filemone il Trinummo e il Mercator; da Difilo la Casina e il Rudens; da Demofilo l'Asinaria. Nessuno dei modelli ci è rimasto, ma anche se non sapessimo, dalle fonti antiche, delle libertà che Plauto si prendeva adattando i drammi al gusto romano, basta la lettura delle commedie a darci una tale idea del suo ingegno e della sua cultura che toglie ogni dubbio sulla sua originalità.
Il capolavoro di Plauto è il suo linguaggio, proprio l'unico elemento in cui l'imitazione non poteva aver luogo: Plauto sfrutta, meglio di chiunque altro, tutte le risorse del latino; la sua lingua pura, ricca, lingua viva e popolare ma essenziale, spesso riesce a esprimere senza volgarità le idee volgari di gente volgare. 'Musas plautino sermone locuturas fuisse, si latine loqui vellent.' ('Se le Muse avessero voluto esprimersi in latino avrebbero parlato con la lingua di Plauto'): così Quintiliano, nella sua 'Instituto oratoria', ci tramanda il giudizio critico di Elio Stilone, il primo grande filologo latino del II sec. a.C. Per non dimenticare, poi, l'epitaffio del poeta citato da Gellio (che lo aveva letto negli scritti di Varrone) dove si dice che, alla morte di Plauto: 'numeri innumeri simul omnes conlacrimarunt' ('scoppiarono in pianto tutti insieme ritmi innumerevoli'). Non minore è il senso d'arte di Plauto nel metro e nello stile dei canti lirici, che si alternano alle parti dialogate. Plauto ha lasciato l'immagine eterna di un mondo, nel quale sa farsi strada soltanto il cinismo spregiudicato degli astuti e degli imbroglioni, soprattutto dei servi. Un aspetto particolare del teatro plautino è l'atteggiamento nei confronti dei greci. È chiaro che Plauto sfrutta a fini comici quel sentimento di ostilità nei confronti dei Greci, tipica di una parte della società romana e che aveva trovato portavoce in Catone. Plauto conia addirittura un verbo, 'pergraecari', che significa più o meno 'gozzovigliare alla greca', vivere in modo dissoluto, proprio come farebbero i Greci. Dopo la fortuna goduta fino ai tempi di Adriano, Plauto si avvia a sparire dall'interesse degli uomini, che parve non volessero più ridere: i sui scherzi tacquero per circa un millennio.
Le
situazioni, gli imbrogli e i caratteri plautini piacquero però in tutti i
tempi, e si ritrovano nel Boccaccio come nell'Ariosto e nell'Aretino, in
Shakespeare come in Molière.
Plauto tornò alla luce delle scene in età rinascimentale; e fu un ritorno
clamoroso, che parve rinnovare i rumori e la popolarità della prima volta. La
cultura allora stava subendo un processo di laicizzazione, che metteva in crisi
la sacra rappresentazione, da cui si stava sviluppando il dramma profano. La
scoperta di Plauto accelerò enormemente questo processo, dando un impulso
incalcolabile alla nascita del teatro moderno. Nel grande teatro fiorentino del
Rinascimento, Plauto più che tradotto, venne rifatto, imitato, emulato, secondo
la tendenza, propria di questo periodo, di creare il nuovo sulla scorta
dell'antico.
Il Machiavelli, il Giannotti, il Firenzuola, il Cecchi, il Lasca, il Gelli ora traducendo, ora imitando Plauto, crearono il primo teatro comico italiano, che è anche il primo teatro europeo.
Anche fuori dall'Italia, il teatro moderno subì l'influenza di Plauto che molte volte fu imitato assai da vicino: dallo Shakespeare (la Commedia degli errori), dal Molière (Amphitryon e Avare), dal Beaumarchais (Le mariage de Figaro), dal Kleist (Amphitryon), dal Lemercier (Plaute ou la Comedie latine).
Un giorno Lisidamo vide che alle prime luci dell'alba stavano abbandonando una fanciulla per strada. Egli si avvicinò alla donna che la lasciava e la pregò di darla a lui, l'ottenne e la portò a casa consegnandola a sua moglie pregandola di averne cura e di educarla. La padrona acconsentì e la prese come se fosse sua figlia.
Appena Casina giunge in età da marito, il vecchio se ne innamora perdutamente, e così suo figlio. Entrambi, di nascosto l'uno dall'altro, pensano di accasarla: il vecchio con il suo fattore, il giovane con lo scudiero, sperando entrambi di aver modo di dormire fuori casa.
La moglie del vecchio si avvede che il marito è innamorato e prende la parti del figlio.
Il vecchio, accortosi che suo figlio ama la stessa fanciulla e gli è d'ostacolo, manda il giovane all'estero.
La sorte favorisce il vecchio, ma la moglie, venuta a conoscenza delle intenzioni del marito, si prepara a punirlo. Il giorno delle nozze, il fattore e Lisidamo portano Calina nella casa del vicino condiscendente, ignorando che la sposa non è altri che lo scudiero vestito da donna. Il vecchio è costretto a chiedere scusa alla moglie e Casina viene riconosciuta libera, una nobile Ateniese, poiché in realtà è la figlia del vicino e in questo modo potrà sposare Eutinico.
PROLOGO
All'inizio della commedia, dopo l'acrostico, si trova il prologo, aggiunto dopo la morte del poeta, dove il narratore saluta gli spettatori e si compiace del loro desiderio di vedere le antiche commedie, in particolare quelle di Plauto. Presenta allora un'antica commedia di Plauto che quando fu inscenata per la prima volta ottenne un successo superiore a quello di tutte altre commedie. Il narratore a questo punto svela il nome della commedia, in greco Clerumenoe scritta da Difilo e in latino Sortientes, cioè I sorteggianti, tradotta da Plauto, e fa una breve descrizione della trama della commedia.
ATTO PRIMO
SCENA UNICA
I due servi litigano animatamente: Olimpione si lamenta con Calino, deciso a seguirlo, pregandolo di tornare in campagna nel suo dipartimento dove aveva tanto da fare, con la paura che il suo rivale, attraverso i suoi intrighi e quelli del vecchio padrone, porti via Casina sposandola a sua insaputa. Ma Olimpione si è fatto sostituire nel lavoro in campagna, poiché è deciso a raggiungere lo scopo per il quale è arrivato in città, sposare la schiava Casina e tornare nel suo dipartimento con sua moglie, non facendo più ritorno nella città. A questo punto si scatena un veloce scambio di battute provocatorie tra i due. Olimpione è intenzionato a costringere Calino a portare la fiaccola il giorno delle nozze, per far luce alla novella sposa, e di costringerlo, quando andrà alla fattoria, a mangiare grano e a dormire nel vano di una finestra, in modo tale che veda sempre i due sposini, e a portare un'anfora per riempire un paiolo e otto botti di acqua da una fonte, in modo da farlo incurvare per la fatica. Dopo l'accesa discussione Olimpione, annoiato, entra in casa di Lisidamo, Calino lo segue.
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Cleostrata, la moglie di Lisidamo, intenzionata ad andare a casa della sua vicina per lagnarsi della sua sorte orribile, parla con Pardalisca, la sua ancella, sulla soglia di casa e le ordina di sigillare le dispense e di mandarla a chiamare nel caso che suo marito avesse bisogno di lei. Informata subito dall'ancella che suo marito desiderava avere un buon pranzo, Cleostrata, contrariata, zittendo la serva, accusa il marito di mettersi contro di lei e suo figlio, pur di soddisfare i suoi capricci amorosi, poi, giurando vendetta, lo minaccia di fargli soffrire la fame e la sete. Proprio in quel momento la porta del vicino di casa inizia a scricchiolare, la vicina di casa esce, e va incontro a Cleostrata.
SCENA SECONDA
Mirrina, l'amica di Cleostrata, sulla soglia di casa, si rivolge alle sue ancelle, invitandole ad andarla a chiamare a casa della vicina, nel caso in cui qualcuno l'avesse cercata, infatti Aveva deciso di andare a trovare l'amica perché si annoiava a star da sola a casa. Cleostrata avvicinandosi saluta la sua amica, e Mirrina, notando subito la faccia scura e triste dell'amica, si affretta a chiedere spiegazioni sul motivo del suo dispiacere. Cleostrata chiarisce la causa della sua tremenda afflizione: il marito la sottopone a continui tormenti e umiliazioni e la povera moglie si sente incapace di far valere i suoi diritti. Mirrina appare molto sorpresa poiché è convinta che di norma siano i mariti a dover subire le angherie delle mogli. Cleostrata continuando a dolersi per la sua sfortuna, spiega che suo marito si rifiuta di dare in moglie al fattore la giovane serva che lei ha allevato a proprie spese come se fosse stata sua figlia, egli se n'è infatti innamorato. Mirrina subito dubita dell'onestà di Cleostrata, accusandola di essersi appropriata indebitamente della schiava: le donne non potevano possedere beni all'insaputa del consorte, tutto ciò che una donna possedeva apparteneva anche a lui, per questo Mirrina consiglia all'amica di non contrariarlo e di lasciarlo amare, dal momento che in casa non le mancava nulla, e lui aveva il potere di divorziare e mandarla via. Il dialogo tra le due donne si spegne all'arrivo del marito di Cleostrata; Mirrina si affretta ad uscire dalla casa dell'amica per tornare a casa sua. La padrona di casa promette alla sua vicina di tornare a trovarla appena le sarà possibile, così le due donne si congedano con un addio.
SCENA TERZA
Lisidamo giunge dalla via della piazza, egli è convinto che il suo amore per Casina possa superare ogni ostacolo, per questo si lascia trasportare da dolci pensieri su questo sentimento davanti alla porta di casa sua. Convinto di sorpassare in eleganza l'Eleganza in persona, il vecchio era appena stato da tutti i profumieri di sua conoscenza e si era fatto cospargere da unguenti raffinati per piacere alla sua innamorata, sicuro che l'effetto degli unguenti avrebbe funzionato alla perfezione. Ma alla vista della moglie, la sua contentezza si spegne, e cerca di rivolgersi con estrema dolcezza a quella donna che in realtà considera una disgrazia e un ostacolo per il suo amore. Cleostrata non si lascia facilmente incantare dalle lusinghe di suo marito, che continua imperterrito a giurargli amore. La donna, dopo uno scambio veloce di battute, accostandosi al marito, sente l'odore degli unguenti e chiede spiegazioni. Lisidamo si sente perduto, e maledice tra sé il profumiere per avergli venduto i balsami profumati, tentando di asciugarsi la testa col mantello. Cleostrata si mostra indignata al pensiero che suo marito alla sua età se ne vada per strada tutto profumato, e lo rimprovera severamente; i vani tentativi del consorte di giustificarsi fomentano la rabbia della moglie che lo accusa senza pietà di essere ubriaco e di frequentare luoghi poco opportuni per un uomo sposato, sperperando i suoi averi a suo piacimento. Lisidamo infastidito dalle accuse continue della moglie la mette a tacere sgarbatamente, chiede nuovamente di far sposare la serva Casina con il fattore, servo onesto, che la renderà felice e non le farà mancare mai nulla, mentre al contrario, lo scudiero, era un servo, a suo dire, mascalzone, che non possedeva nulla. Cleostrata ricorda a suo marito che occuparsi delle schiave era una sua competenza, e finge di avere come solo scopo il compiacimento del figlio. Stavolta è Lisidamo a far valere i suoi diritti di padre, pretendendo di sapere ciò che è giusto per il suo discendente, e ritenendo ragionevole che egli si pieghi al suo volere. Cleostrata presagisce che suo marito sta andando incontro a delle disgrazie, e per questo finge di indagare sul motivo dell'interesse dell'uomo per Casina. Ma Lisidamo continua a fingersi interessato al bene della fanciulla.
Cleostrata a questo punto propone una sfida: lei stessa andrà dal fattore, per tentare di convincerlo a lasciare la serva al suo protetto, mentre Lisidamo, convinto di ottenere ciò che vuole, si offre di andare a parlare con Calino, lo scudiero.
Cleostrata entra in casa, e manda a chiamare Calino, perché parli con il marito. Lisidamo a questo punto capisce il vero motivo dell'affannarsi della donna in favore dello scudiero, e comincia a preoccuparsi, avendo inteso il piano di sua moglie.
SCENA QUARTA
Calino esce di casa e incontra Lisidamo: ignorando il motivo per il quale è stato fatto chiamare dal padrone, chiede spiegazioni in modo sgarbato. Lisidamo, vedendo la faccia scura dello scudiero, subito lo rimprovera, richiamandogli alla mente i suoi doveri di sottoposto, e fa subito vedere di essere ben disposto nei confronti del suo servo, che, approfittandone, chiede di essere affrancato. Lisidamo, cogliendo prontamente l'occasione, propone allo schiavo la libertà, ma in cambio lui dovrà lasciare ad Olimpione la serva Casina, poiché lui l'aveva assicurata a questi, diventando così celibe e libero, senza essere costretto a far passare una vita da schiavi a sua moglie e ai suoi figli. Lo scudiero però non cede al ricatto e rivendica diritti su Casina, che le era stata promessa dalla padrona e dal figlio di lei; egli inoltre, acquistando la libertà, sarebbe costretto a vivere a sue spese, e non più sulle spalle del vecchio e della sua famiglia. Lisidamo a questo punto decide di affidare alla sorte la complicata questione, sperando di potersi finalmente vendicare del servo e dei suoi sostenitori; perciò ordina a Calino di chiamare la moglie, e di portare un secchiello colmo d'acqua con delle sorti. Calino entra in casa, e il vecchio, rimasto solo, è tormentato dai dubbi: comincia a credere che la moglie sia riuscita a convincere il fattore a rinunciare a Casina. Gli rimane la speranza nel sorteggio, ed è pronto a reagire tragicamente nel caso che la fortuna lo tradisca; tutti questi pensieri sono cancellati dalla vista di Olimpione che esce di casa in quel momento.
SCENA QUINTA
Olimpione esce dalla casa dicendo alla sua padrona di non essere intenzionato a cedere ai suoi desideri irragionevoli. Lisidamo, udendo a distanza le parole del suo protetto, si rallegra. Anche la padrona di casa ha tentato di suggestionare il servo con la proposta della libertà. Il vecchio si affretta a chiamare il fattore, curioso di sapere cosa stia dicendo sua moglie. Olimpione appare molto indignato, e giura di non volere cedere in alcun modo Casina, nonostante sia preoccupato dall'ira di Cleostrata, e dall'odio che il figlio di lei e i servi nutrono nei suoi confronti: teme soprattutto la morte del suo protettore, (in quel caso infatti nessuno potrà difenderlo dall'ira della sua famiglia) e la determinazione della padrona. Lisidamo, sicuro della sua forza, dopo aver rassicurato Olimpione, lo informa della sua intenzione di tirare a sorte per i due contendenti. Nonostante il fattore provi fermamente ad avanzare qualche dubbio, Lisidamo non lo sta ad ascoltare.
Calino esce di casa con il secchiello e le sorti. Decisi a lottare a ranghi serrati, i due uomini attendono l'arrivo dello scudiero.
SCENA SESTA
Cleostrata, uscendo di casa con Calino, che è arrivato per chiamarla, gli chiede cosa voglia il marito da lei. A parte, Lisidamo e Olimpione decidono di levare le insegne e andare incontro ai loro rivali. Il vecchio predispone tutto per il sorteggio, convinto che tale metodo sia il più giusto, e dopo aver promesso di rassegnarsi in caso di sconfitta, consegna ad Olimpione una sorte. La sorte consegnata al fattore è la numero uno. Calino, dubbioso, chiede alla padrona di assicurarsi che in fondo al secchiello non ci siano altre sorti. Verificata la regolarità del procedimento, Calino e Olimpione gettano le due sorti dentro l'acqua, che viene mescolata da Cleostrata. Calino e Olimpione iniziano a litigare, e Lisidamo si affretta a zittirli, invitando Cleostrata, anche per dimostrare di non essere ricorso a trucchi, a sorteggiare. La tensione del momento fa scoppiare nuovamente una serie di battute tra i due servi, che ben presto coinvolge anche i due padroni, distogliendogli momentaneamente dall'estrazione. Lisidamo mette fine alle zuffe tra i due contendenti. Cleostrata prende la sorte tenendola in mano e indugia un attimo nel farla vedere al marito; Olimpione a questo punto afferra la sorte ed esulta, Calino ha perduto. Lisidamo, lieto perché gli dei lo hanno aiutato, ordina alla moglie di entrare in casa per preparare le nozze; la moglie accetta suo malgrado la sconfitta ed entra in casa. Il vecchio e il fattore entrano in casa seguendo la moglie con l'intento di farla sbrigare.
SCENA SETTIMA
Calino, rimasto solo, si affligge, abbandona presto il desiderio di togliersi la vita, ritenendolo un gesto inutile, pensando sopratutto al piacere che provocherebbe nei suoi nemici. La sua afflizione non è data dal fatto di essere stato sconfitto dalla sorte, o dall'imminente matrimonio tra il fattore e Casina, ma dall'ostinazione del vecchio nel rifiutarsi di concederla a lui invece che ad Olimpione. Mentre Calino pensa all'agitarsi del vecchio, alla sua fretta, e a come saltava dalla gioia quando il suo protetto aveva vinto, si apre la porta della casa di Lisidamo, e lo scudiero, per non essere visto dagli avversari, nascondendosi rimane in disparte ad ascoltare.
SCENA OTTAVA
Olimpione e Lisidamo escono di casa deridendo Calino: Olimpione desidera che il padrone lo mandi in campagna da lui, perché lo possa tormentare; Lisidamo invece, avrebbe volutomandarlo a fare le spese per le nozze, se Calino fosse stato in casa, insieme al fattore, per aggiungere alla pena dello sconfitto anche quest'umiliazione. Calino, deciso ad intercettare la conversazione senza farsi vedere, indietreggia contro il muro e, avendo sentito le proposte, insulta tra se il suo rivale in amore. Olimpione, senza vedere lo scudiero, si compiace di essere stato accondiscendente con il suo padrone, e promette di mettergli a disposizione la notte stessa delle nozze l'oggetto dei suoi desideri, senza che sua moglie lo sappia. Lisidamo, preso da una gran gioia, chiede al suo servitore di poterlo abbracciare, e quello, un po' scocciato, accetta, ma visti i continui e insistenti complimenti del vecchio, lo respinge. Le parole di Lisidamo suonano equivoche alle orecchie di Calino, ma la sua convinzione è subito spezzata dalle parole di Lisidamo, che progetta di darsi al buon tempo con Casina, di nascosto da sua moglie, subito dopo le nozze. Olimpione invece, è convinto che la cosa non sia possibile, ma il piano del suo padrone risulta perfetto: lui ha confidato al suo amico Alcesimo il segreto del suo amore, ed egli ha promesso di ospitarlo. La moglie, essendo molto amica di Cleostrata, verrà invitata alle nozze, perché le faccia compagnia e l'aiuti; Lisidamo invece lascerà libera la casa, e il compito di Olimpione sarà quello di portare Casina, subito dopo le nozze, nella casa prestabilita, e poi condurla in campagna prima dell'alba. I due uomini si affrettano a preparare il loro piano nei minimi dettagli, mentre il fattore si allontana per la via dalla piazza per comprare cibi raffinati, il vecchio entra in casa di Alcesimo per sollecitarlo a compiere l'incarico che gli è stato affidato. Gli intrighi dei due vengono però colti da Calino che, soddisfatto e trionfante, decide di raccontare tutto alla sua padrona ed entra nella casa di Lisidamo.
ATTO TERZO
SCENA PRIMA
Lisidamo, uscendo dalla casa del suo amico, si assicura che tutto sia stato preparato per bene. Alcesimo, dimostrandosi un amico fedele, dispone di mandare servi e ancelle a casa di Lisidamo, per le nozze. Dopo le ultime raccomandazioni, Lisidamo si appresta ad andare al Foro. Alcesimo, promettendo di fare tutto ciò che era stato stabilito, e di farsi trovare in casa, saluta il compagno che si allontana per la via della piazza.
SCENA SECONDA
Cleostrata, venuta a sapere tutto, uscendo di casa, impreca adirata contro il marito, che la pregava con tanta insistenza di far venire la vicina a casa sua, per avere libera la casa dove condurre Casina. La donna è decisa a non far venire l'amica a casa sua, e a non dare campo libero ai due vecchi. Vedendo uscire di casa Alcesimo, impreca nuovamente.
SCENA TERZA
Alcesimo si domanda sulla soglia di casa come mai nessuno abbia invitato sua moglie, pronta da molto tempo, a casa del vicino. Vedendo Cleostrata si rallegra, immaginando che stia venendo a prendere sua moglie, si avvicina, e dopo avere salutato la vicina la sollecita affinché passi a prendere sua moglie. Cleostrata fa finta di nulla abilmente e promette di passare più tardi non avendo bisogno di nessun aiuto per i preparativi delle nozze, poiché in casa aveva molte persone ad aiutarla. Dopo che la donna, mandando i saluti alla moglie del vicino, si congeda, lui si dispera per la sua azione infame, e inveisce sull'amico, sia perché lo ha costretto ad offrire i servigi di sua moglie in modo insistente, sia perché gli aveva promesso che Cleostrata sarebbe venuta a prendere Mirrina. L'uomo arriva anche a supporre che la consorte dell'amico abbia sospettato qualcosa, ma si convince dell'impossibilità della cosa e rientra in casa. Cleostrata intanto se la ride per aver preso in giro il suo vicino, e spera nell'arrivo di suo marito, essendo intenzionata a prendere in giro anch'egli per far scatenare una lite tra i due. Intanto giunge Lisidamo con un'aria severa da uomo giudizioso.
SCENA QUARTA
Lisidamo, senza vedere Cleostrata, parla tra sé: è appena tornato dal Foro, dove aveva dovuto assistere un suo parente che aveva chiesto il suo aiuto, ma, poiché continuava a pensare a Casina, aveva perso la causa; il vecchio non attribuisce la colpa a se stesso ma al parente, che non si era assicurato se il suo attendente fosse o no concentrato. A questo punto il vecchio si accorge della presenza della moglie davanti alla porta e, sperando che non abbia sentito nulla, la saluta dolcemente avvicinandosi. Cleostrata lo sta aspettando e riferisce al marito di essere andata a chiamare la moglie del vicino, ma lui, essendo in collera per qualche motivo con la moglie, le aveva detto che essa non poteva accettare l'invito. Lisidamo la accusa di essere poco convincente e Cleostrata lo invita ad andare a risolvere la situazione dal vicino, mentre lei va a preparare ciò che occorre per il matrimonio, e rientra in casa decisa a mettere ancora paura al marito.
SCENA QUINTA
Alcesimo, uscendo di casa senza scorgere Lisidamo, va a controllare se il suo amico innamorato è tornato dal Foro. Vedendolo davanti a casa si avvicina e lo saluta. Lisidamo controbatte, arrabbiato per l'inefficienza dell'amico, che non ha né sgombrato la casa, né mandato Mirrina da sua moglie. Alcesimo non capisce l'amico, e tra i due si scatena un acceso scambio di battute. Alla fine Lisidamo chiede all'amico di prendere una decisione definitiva, e di inviare la moglie a casa sua. Alcesimo acconsente ed entra in casa per chiamare sua moglie, in modo che passi dal giardino e raggiunga la casa di Cleostrata. Lisidamo si mostra molto riconoscente, ma si duole in cuor suo della sfortuna e dell'opposizione di Venere nell'amore per Casina; ma dalla sua casa giunge una grande confusione e il vecchio incuriosito vi si dirige per osservare.
SCENA SESTA
Pardalisca, l'ancella di Cleostrata, esce precipitosamente di casa gridando. Questa, scossa e tremante per la paura e per le cose inaudite che ha visto dentro la casa dei padroni, si volge intorno per trovare qualcuno che l'aiuti. Guardando all'interno dell'abitazione grida alla sua padrona di allontanarsi. Lisidamo, vedendo la scena da lontano si preoccupa, e chiama forte la serva per chiedere delle spiegazioni. Pardalisca, ancora apparentemente sconvolta, pur sentendo la sua voce, non lo vede e si volta da una parte all'altra, finalmente dopo un altro richiamo, vedendolo, si avvicina disperata lamentandosi; Pardalisca, nonostante le continue richieste di spiegazione da parte del vecchio, che teme delle sventure, continua a lamentarsi. Solo dopo minacce di percosse con il bastone, si decide a raccontare i misteriosi avvenimenti che succedono nella casa. Spiega molto disordinatamente che dentro la casa, l'ancella che doveva diventare sposa del fattore, si era abbandonata a orribili azioni minacciando suo marito di morte con una spada; inoltre l'ancella, inseguendo tutti per le stanze di casa, non si lasciava avvicinare da nessuno, tutti gli abitanti della casa perciò erano nascosti sotto le casse e sotto i letti non fiatando per la paura. La promessa sposa, impazzita, non aveva risparmiato le minacce neanche per il suo padrone, colpevole di volerla far sposare con Olimpione. Lisidamo ascolta intimorito il racconto, non sapendo cosa fare. Pardalisca rivela sottovoce al pubblico che si sta prendendo gioco di lui: era stata inviata da Cleostrata e Mirrina, che avevano inventato la storia. Il vecchio s'informa spaventato se Casina avesse ancora la spada e se sua moglie l'avesse affrontata. L'ancella continua a farsi beffe del padrone, affermando che la sposa aveva due spade: una per uccidere lui e l'altra per uccidere il fattore. La moglie poi non osava avvicinarla, e le parlava da lontano tentando di convincerla, ma non vi era nulla da fare se non fermare le nozze. Lisidamo le promette dei sandali e un anello d'oro se riuscirà a convincerla a farlo entrare in casa, l'ancella fingendosi obbediente rientra. Nel frattempo, tornando dal mercato, sopraggiunge dalla piazza Olimpione, seguito da Citrine, il cuoco, dal flautista, e da altri cuochi carichi di provviste.
SCENA SETTIMA
Olimpione controlla scrupolosamente Citrine e gli altri cuochi, che avevano l'abitudine di rubare qualsiasi cosa gli capitasse sotto mano, facendo del male a chiunque tentasse di strappargliela, danneggiando il padrone. Scorgendo Lisidamo, il servo lo saluta, mentre il padrone, triste, lo accarezza. Ma Olimpione, fraintendendo, indietreggia; tra i due scoppia un battibecco: Lisidamo svela d'essere triste per la mancanza di Casina. Allora i due affrettano i preparativi. I cuochi vengono fatti entrare in casa per preparare la raffinata cena, dopo la quale il vecchio sarebbe potuto stare con la sposa. Lisidamo non accenna a seguire il flautista e i cuochi per paura di Casina e delle sue spade. Olimpione però ha compreso che dietro alla storia dell'ancella pazza dovessero esserci la padrona e la sua vicina, perciò lo convince ad entrare. Lisidamo, sentendosi in debito con il suo fattore, lo segue ed entra in casa mal volentieri.
ATTO QUARTO
SCENA PRIMA
Pardalisca esce divertita dalla casa di Lisidamo. In casa tutto è in fermento: il vecchio Lisidamo è nella cucina, e sprona i cuochi urlando e lamentandosi del ritardo; il fattore con la corona e il vestito bianco delle nozze, tutto agghindato ed elegante, passeggia su e giù; le due signore, nella stanza da letto, preparano lo scudiero, vestendolo da donna per darlo in moglie a Olimpione in luogo di Casina, fingendo con disinvoltura di non saper nulla di ciò che sta per accadere. I cuochi, poi, s'impegnano perché il padrone salti la cena: rovesciando pentole o buttando l'acqua sul fuoco, poiché Cleostrata e Mirrina li avevano corrotti in modo da buttare fuori casa Lisidamo, per cenare da sole.
SCENA SECONDA
Lisidamo rinuncia ben presto a stare appresso ai cuochi, ed esce di casa, dicendo come scusa a sua moglie, d'essere intenzionato a cenare in campagna, in modo da accompagnare i due sposini alla fattoria, preoccupato perché qualcuno non rapisca la fanciulla durante il viaggio. Lascia quindi il banchetto a sua moglie, convinto di avere ancora di che banchettare il giorno seguente, al suo ritorno, con la raccomandazione di inviargli al più presto i due novelli sposi. Pardalisca è fuori dalla casa per ordine di Cleostrata e osserva il vecchio che viene cacciato di casa senza cena, dal perfido inganno delle donne. Il padrone la scorge infastidito, e temendo che possa scoprire i suoi piani e rivelarli alla moglie la manda via. L'ancella si avvia lentamente all'interno, e proprio in quel momento esce con la corona e la fiaccola Olimpione.
SCENA TERZA
Il flautista, sotto ordine d'Olimpione, poiché la novella sposa stava per essere portata fuori, si accinge a far risuonare nella piazza, in onore dello sposo, il canto nuziale. Olimpione si lamenta affamato e contrariato insieme a Lisidamo, poiché la sposa tardava ad arrivare; per affrettare la cerimonia intonano anche loro il canto nuziale "Imene Imeneo, o Imene!". Lisidamo si dimostra sempre più impaziente di vedere la sposa, e viene ripreso più volte da Olimpione, disperato per la cena mancata. I due iniziano a litigare, quando si ode lo schriccchiolio della porta.
Casina esce.
SCENA QUARTA
Pardalisca esce di casa con Cleostrata e con Calino, che è travestito da Casina e indossa l'abito nuziale. L'ancella, rivolgendosi alla sposa, le raccomanda di sollevare il piede in modo da non inciampare sulla soglia, e di ingannare sempre suo marito. Lisidamo non appare contento degli insegnamenti della donna, Pardalisca accelera il rituale, e consegna la "casta e ingenua" Casina al marito. Cleostrata e l'ancella rientrano in casa dopo essersi congedate. Lisidamo, contento perché la moglie se n'è andata, si avvicina subito a Calino, e lo abbraccia. Viene fermato da Olimpione, che tenta di frapporsi fra i due, ma la finta sposina pesta il piede al marito, che, incredulo, si avvicina nuovamente, ricevendo però una gomitata allo stomaco. Lisidamo rimprovera il fattore di trattare sua moglie con durezza, e di ricevere dunque da lei un trattamento adeguato; ma senza finire di parlare riceve anch'egli una gomitata. I due interpretano le percosse di Calino come una richiesta di andare a dormire. I tre allora entrano nella casa di Alcesimo.
ATTO QUINTO
SCENA PRIMA
Mirrina esce con Cleostrata e Pardalisca dalla casa di Lisidamo. Le donne dopo avere finito il banchetto si avviano a vedere i giochi nuziali: Cleostrata, desiderosa di vedere suo marito con la faccia pesta per le percosse di Calino, ordina all'ancella di aspettare l'uscita di qualcuno dalla casa, e continuare a sbeffeggiarlo, dicendo liberamente ciò che vorrà, per far si che la loro messa in scena riesca a dovere. Pardalisca potrà inoltre controllare ciò che accade nella casa di Alcesimo. La porta di casa di Mirrina si apre e le tre donne si ritirano in disparte per non essere scorte in modo da vedere chi sarà ad uscire per primo.
SCENA SECONDA
Olimpione esce precipitosamente dalla casa di Alcesimo, cerca il modo di fuggire e di nascondersi per la vergogna. Ha scoperto infatti lo scandalo in cui lui e il suo padrone sono andati a capitare. Inizia a raccontare la sua avventura: indotta in casa la novella sposa, l'aveva condotta subito nella stanza da letto, con l'intento di celebrare le nozze prima di Lisidamo. Ma dentro la stanza vi era molto buio. Si era trattenuto per un momento e aveva messo il catenaccio alla porta per paura che arrivasse il vecchio.
Cleostrata invita Pardalisca ad abbordare il fattore ed essa avvicinandosi lo saluta, e con domande continue e pungenti chiede ad Olimpione di continuare a raccontare la storia che aveva iniziato. Egli si vergogna terribilmente di raccontare l'accaduto: dopo chiusa la porta, allo sposo venne in mente che sua moglie potesse avere ancora qualche spada nascosta. Si mise a cercare e trovò l'impugnatura, una spada non poteva essere, poichè se lo fosse stata sarebbe stata fredda. La sua sposa comunque continuava a rifiutarlo. Pardalisca si interessa maliziosamente al discorso, divertita dall'imbarazzo del fattore; a parte anche Mirrina e Cleostrata ascoltano divertite; il pover'uomo aveva persino provato a baciare la sua sposa, ma si era sentito pungere le labbra da una barba molto ispida. Casina a questo punto ave va dato un forte calcio sullo stomaco allo sposo che era caduto dal letto, lei allora era saltata giù dal letto e gli aveva ammaccato il viso. Allora era scappato fuori in silenzio lasciando il mantello e il vecchio padrone al loro destino. La porta scricchiola e Lisidamo esce.
SCENA TERZA
Lisidamo, uscendo a testa bassa, brucia dalla vergogna per l'orrendo scandalo, poiché le sue turpitudini sono state scoperte. Teme di incontrare la moglie, non sapendo in che modo giustificarsi. Decide in ogni caso di entrare in casa dalla moglie e offrirle la schiena, perché si vendichi del torto subito. Pensa anche di scappare, come il malvagio servo, non avendo nessuna voglia di buscarle, nonostante se lo sia meritato. Perciò alla fine decide di scappare, ma spunta fuori Cleostrata che gli intima di fermarsi.
SCENA QUARTA
Calino, uscendo dalla casa di Alcesimo con un bastone in mano, sbarra la strada a Lisidamo che vorrebbe fuggire, minacciando di colpirlo. Lisidamo cambia direzione, fugge verso sinistra, ma va a sbattere rovinosamente contro Cleostrata che gli sbarra la strada. Lisidamo non sapendo più dove fuggire, decide di affrontare la moglie, che si domanda dove siano finiti il mantello e il bastone del marito. Intervengono contro Lisidamo anche Calino e Pardalisca. Il pavido vecchio dà la colpa alle Baccanti.
Olimpione tenta di discolparsi confessando tutta la verità: il padrone lo aveva insistentemente supplicato perché chiedesse in moglie Casina, per poi favorire i suoi desideri. Lisidamo chiede perdono a sua moglie, dandole il permesso di appenderlo per i piedi e fustigarlo nel caso l'avesse fatto nuovamente; domanda poi a Mirrina di intercedere presso Cleostrata; la buona vicina crede che sia giusto perdonare l'uomo.
Cleostrata acconsente, e perdona il marito. Calino restituisce a Lisidamo bastone e mantello. Tutti entrano in casa di Lisidamo.
La compagnia
Spettatori, vi racconteremo ciò che accadrà la dentro.
Si scoprirà che Casina è la figlia di questo nostro vicino, ed essa sposerà Eutinico, figlio del nostro vecchio padrone.
Ora è giusto che diate con le vostre mani la ricompensa a chi se l'è meritata.
Chi lo farà, avrà sempre l'amante che vorrà, all'insaputa di sua moglie.
Chi invece non avrà applaudito con tutta la forza delle sue mani, avrà come amante un becco profumato all'acqua di fogna.".
I personaggi di Plauto non sono dei caratteri individuali ma delle maschere fisse, e per questo già noti al pubblico nel momento stesso in cui si presentano sulla scena: anche i loro nomi propri servono esclusivamente a ribadirne la fissità del ruolo scenico.
CASINA
Pur essendo la protagonista della commedia, che da lei prende il nome, non compare mai sulla scena. Non viene accennata nessuna descrizione della fanciulla, sennonché inizialmente, nel dialogo tra Calino e Olimpione, dove viene descritta come una fanciulla "graziosa e vezzosa". Era stata trovata un mattino di sedici anni prima, da Lisidamo, al mercato, mentre veniva esposta: le ragazze infatti venivano spesso abbandonate o vendute quando la famiglia non si poteva prendere cura di loro. Viene accolta in casa da Cleostrata, moglie di Lisidamo, e allevata come una figlia. Giunta in età da marito, viene contesa tra il fattore Olimpione e lo scudiero Calino. Alla fine la compagnia svelerà che la fanciulla è figlia del vicino di casa di Lisidamo, attraverso l'espediente dell'agnizione, e diventerà la sposa di Eutifrone, figlio di Cleostrata.
LISIDAMO:
Rappresenta in questa commedia la tipica maschera del "senex", personaggio rigido e scorbutico. È rivale del figlio Eutifrone nell'amore per la schiava Casina, e riesce ad intessere un complicato intreccio nell'intento di averla per sé: dopo avere inviato suo figlio all'estero, avendo intuito il suo interesse per Casina, convince il suo fattore Olimpione a chiederla in moglie, in cambio della promessa di libertà, in modo tale da poter trascorrere con lei la prima notte di nozze; la moglie però, rimasta ad Atene, e avendo intuito le intenzioni del vecchio, aiuterà il figlio, il quale aveva promesso la fanciulla allo scudiero Calino, per poi possederla. Durante il corso della commedia, riesce in tutti i modi a rendersi ridicolo per la smodatezza con la quale esterna i suoi sentimenti, a causa della quale viene continuamente preso in giro sia dalla moglie che dai servi. Continui sono gli elogi a Casina, per il cui amore si considera il più fortunato tra gli dei; egli, il giorno delle nozze, viene mandato fuori di casa dalle donne, e preferisce restare a digiuno pur di vederla: "Chi ama , anche quando ha fame non ha nessuna fame" (v. 796) La follia d'amore viene portata all'esasperazione quando si mostra sottoposto sia ad Olimpione, al quale rivolge continuamente appellativi amorosi: "Non amo me stesso quanto te. Mi permetti di abbracciarti?" (es. v. 456) che raggiungono sempre l'effetto opposto a quello sperato. Tuttavia è anche evidente la sua furbizia e caparbietà. Alla fine, fiero di avere trionfato sui propri nemici grazie all'estrazione delle sorti, verrà sconfitto attraverso una geniale burla che renderà ancora più catastrofica e divertente la sua disfatta, vedendolo costretto a chiedere perdono alla moglie: "Moglie mia, per questa volta perdona tuo marito. Mirrina, intercedi per me presso Cleostrata. Se d'ora in poi dovessi amare Casina, o soltanto pensare ad amarla, dovessi combinare cosa del genere, non v'è alcun motivo, moglie mia, perché tu non mi faccia appendere per i piedi e fustigare"(v. 1000)
CALINO
Il "servus callidus", è il fattore della famiglia di Lisidamo, ricco d'ingegno e abile nello scoprire e far fallire i piani del senex a favore dell' adulescent innamorato, in questo caso è rappresentato da Eutifrone, figlio di Lisidamo. È uno dei personaggi principali della commedia, durante il corso dell'opera assume una falsa identità rivestendo i panni di Casina per mettere in atto l'inganno, del quale riesce a governare tutta la dinamica conferendo un tono comico e sorprendente al finale, assommando inoltre in sé i tratti principali della comicità plautina. L'attore è in opposizione con il padrone Lisidamo e il fattore Olimpione: tra i due, fin dall'inizio, si accendono vivaci discussioni; la loro rivalità non è data solo dall'amore per Casina, per la quale inventa le più mirabolanti menzogne per indurre l'avversario a rinunciarvi, ma anche dalla differente condizione sociale: mentre Olimpione abita in campagna, e dunque possiede dei beni personali, Calino è un semplice servo senza nessun avere, che arriva a preferire la schiavitù alla libertà, con la quale si ritroverebbe, essendo indigente, a patire la fame: "Se fossi libero, dovrei vivere a mie spese, mentre ora vivo a spese tue." (v. 296) È un servo onesto e buono, con un ruolo importante rispetto agli altri, in quanto contribuisce a risolvere l'intrigo iniziale, non ha mai un piano prefissato, anzi la sua abilità consiste spesso nell'adeguarsi alle situazioni fronteggiandole ed approfittandone. Sarà poi l'ingegnosità femminile della sua padrona a dare ordine alle decisioni. Appare dapprima come semplice aiutante e strumento nella mani di Cleostrata e in quanto tale cerca di metterla in guardia e di difenderla. Poi diviene persona di primo piano, gli viene "conferita" anche l'autorità di minacciare il suo padrone con un bastone; infine si assisterà al suo meritato trionfo, coronato con la con la battuta ironica: "Per Polluce! M'è stato fatto un gran torto. Ho sposato due uomini, e nessuno dei due ha fatto.quel che si suol fare a una sposina." (v. 1010)
OLIMPIONE
Il fattore alleato di Lisidamo, è un servo di campagna che abita in un dipartimento esterno alla città. Si differenzia da Calino, servo di città, per i suoi modi grossolani, che lo portano a rivolgere insulti di vivacità campagnola al suo avversario in amore. In generale, insomma, si mettono in evidenza gli aspetti comici del servo di campagna, e non tanto i termini morali e politici del contrasto città-campagna. Olimpione, infatti è un personaggio perdente ed è oggetto di riso: uscito dalla casa di Alcesimo dopo aver scoperto di essere incappato in una burla da parte dei suoi avversari, sarà deriso e umiliato dall'ancella Pardalisca, la quale si farà raccontare tutto ciò che è avvenuto nella casa. Appare inizialmente come un servo onesto e bravo consigliere: in lui il padrone trova un fidato alleato, non ha nessuna esitazione ad infuriarsi contro la padrona, che cercherà di distoglierlo dal suo obbiettivo con le promesse di libertà. Inoltre è considerato da Lisidamo sua unica speranza, suo salvatore e patrono, poiché condivide con lui lo stesso amore e lo stesso obiettivo; il vecchio, per questo, lo elogia continuamente arrivando a dirgli: "T'appartengo interamente"e "Sono il tuo schiavo" v. 739). Ben presto esterna il suo lato materialista: preoccupato dall'odio provato nei suoi confronti dalla padrona, da suo figlio e dai servi, non si rassicura neanche dopo le promesse di protezione da parte di Lisidamo, al quale dice: " Come se tu non sapessi quanto fan presto a crepare i Giovi di questo mondo. Ammettiamo dunque che tu, il mio Giove, muoia: quando il tuo regno sarà toccato agli dei minori, chi mi proteggerà la schiena la testa e le gambe?"(v. 333). Di fatto, infine, messo alle strette, accuserà il suo padrone di averlo infamato con la sua condotta, avendolo supplicato, in cambio della libertà, di sposare Casina. Non solo: spesso il servo esercita una funzione ironico-parodistica nei confronti del padrone innamorato, per ricondurlo alla realtà fatta di bisogni pratici e materiali: egli preferisce il mangiare e il bere, pone dei limiti all'amore, che non deve condurre alla pazzia, ridimensiona il padrone innamorato che si sente un dio. Viene anche da pensare, che il motivo secondario del suo attaccamento a Casina, non sia solo il desiderio di sposarla per conto del suo padrone, ricevendo la libertà, ma anche la semplice volontà di prevalere sul suo avversario, Calino.
Compaiono nella commedia personaggi di minor rilievo quali:
CLEOSTRATA
La "matrona", madre di Eutifrone e sposa di Lisidamo. È un personaggio molto autoritario e dispotico. Si dimostra molto ingegnosa, è lei infatti, con l'aiuto del fattore e della vicina, a ideare tutta la farsa per punire il marito. Risulta, alla fine, paziente nel perdonarlo. Si sente umiliata dall'atteggiamento del coniuge, contro il quale non ha la possibilità di far valere i propri diritti. Di contro viene vista dal marito come "il mio tormento, che s'ostina a vivere". Lei detiene e amministra i beni della famiglia, anche nei confronti del marito.
PRADALISCA
L'ancella di Cleostrata. Contribuisce all'agnizione, pur essendo una figura secondaria. Viene infatti utilizzata da Cleostrata e Mirrina inizialmente, per ingannare il vecchio, al quale farà credere che Casina è impazzita; e poi "capiterà" per caso fuori dalla casa di Alcesimo, per interrogare i due uomini non appena usciranno dalla casa, sotto gli occhi delle due matrone nascoste. Appare come una donna maliziosa, abile nella finzione e indiscreta, più volte si rivolge al pubblico dando spiegazioni e commentando gli avvenimenti. È certamente più leale nei confronti della sua padrona rispetto ad Olimpione: Lisidamo le promette dei sandali, un anello d'oro e altre cose in cambio che lei parli dolcemente a Casina per placare la sua ira.
MIRRINA
Moglie di Alcesimo, amica e vicina di casa di Cleostrata. Appare poche volte durante il corso della storia, è pur sempre però una protagonista essenziale, in quanto fautrice della vendetta. La sua figura si contrappone al marito, che invece aiuta il suo amico Lisidamo. Inizialmente la donna cerca di sconsigliare alla vicina di mettersi contro il marito, lasciandolo amare, poiché esso potrebbe sempre ripudiarla: "Non contrariarlo di grazia, lascialo amare, lasciali fare ciò che gli piace, che in casa non ti manca nulla" (v. 200) in questo contesto appare pavida e insicura, ma si riscatterà in seguito: quando non esiterà a divertirsi alle spalle del vecchio vicino e ad esortare Pardalisca affinché dia sfogo alla sua fantasia prendendolo in giro. Per merito suo si avrà il perdono di Cleostrata al marito.
ALCESIMO
Vecchio, amico di Lisidamo. Essenziale il suo intervento. Il vecchio protagonista sceglie la sua casa per portare Casina dopo le nozze. Appare come un uomo giusto nell'aiutare il suo amico, al quale non risparmia tuttavia battute sulla sua condizione di folle innamorato. Nel parlare con Cleostrata, dalla quale viene messo in difficoltà, ha dei rimorsi di coscienza sul suo comportamento, tuttavia rimarrà fino all'ultimo alleato di Lisidamo.
Appaiono inoltre sulla scena:
CITRIONE, un cuoco che ha il compito di allestire il banchetto per le nozze tra Casina e Olimpione.
UN FLAUTISTA, chiamato per allietare con il canto nuziale la cerimonia.
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La Casina è probabilmente l'ultima commedia di Plauto, essa c'è giunta in un testo che, almeno per certe parti del prologo, risale ad una ripresa dopo la morte dell'autore, e si tratta del solo testo conosciuto anche dagli antichi. Attraverso il Prologo, probabilmente aggiunto parzialmente da un capocomico successivo a Plauto, conosciamo il nome del poeta greco Dìfilo e il titolo dell'originale greco di questo poeta: Κληρούμενοι; l'opera tradotta da Plauto aveva come titolo la versione letterale di quello greco: Sortientes (coloro che tirano a sorte). Casina, infatti, titolo con cui la commedia è nota agli antichi e tramandato a noi da due filoni della tradizione manoscritta, è per certo il titolo della ripresa. In Plauto è quindi presente la contaminatio ( dal verbo contaminare), con questo nome indichiamo la pratica, presente inoltre in Terenzio e nelle tragedie di Ennio, di inserire in un modello principale una o più scene desunte da altre commedie del medesimo o persino di altro autore greco. La contaminatio può essere riconnessa al sacrificio delle caratteristiche "psicologiche" del personaggio a favore di quelle dell'azione, al cui svolgersi importa ben poco il nome stesso del personaggio. Essenziale è invece che esso rappresenti la maschera tipica, in modo che il pubblico, ne comprenda il comportamento e la funzione nel corso della commedia. Il poeta, in questo modo, trovando un determinato personaggio in una commedia greca poteva facilmente appropriarsene e aggiungerla al suo modello principale. L'ipotesi che Plauto, si fosse limitato a tradurre il titolo greco soltanto per far comodo del pubblico e in realtà avesse intitolato Casina la sua versione, è improbabile. Ancora due peculiarità di questa commedia: Casina stessa, come personaggio, non compare mai in scena: nonostante intorno a lei ruoti tutta la vicenda; la seconda è che il marito di Cleostrata e padre di Eutinico è, in Plauto, personaggio anonimo. Egli è il vero protagonista della commedia, ma nelle versioni redatte da Plauto non si è mai trovato il suo nome, Lisidamo è quindi una successiva aggiunta successiva, forse derivante dal modello greco di Dìfilo. In Plauto questo personaggio incarna perfettamente la maschera del "senex", reso comico a causa della sua passione per la giovane serva. La sua passione per la giovane, nonostante sia equivalente a quella di suo figlio, viene resa più riprovevole in quanto si tratta di un uomo sposato, un vecchio con una famiglia; diversa è quindi la sua situazione rispetto a quella dell' adulescent. Importanti sono anche le figure dei servi,ai quali sono affidati numerosi monologhi: in generale nel teatro plautino, contrariamente a quello di Terenzio, la maggior parte dei monologhi è recitata o cantata appunto da questi personaggi. Il monologo di Calino si inserisce nella scena settima del secondo atto, dove si dispera per la sorte che gli è stata avversa e dell'ancella Pardalisca, nella prima scena del quarto atto. Dai monologhi prende l'avvio un'azione, e ragguagliano su ciò che il protagonista farà. Essi sono il luogo in cui il tempo scenico si annulla e si condensa: il passato (l'antefatto) si fa presente nella necessità di organizzare qualcosa e il presente è anche il futuro dell'insidia preannunciata e dello scioglimento intravisto. I monologhi dei servi plautini presentano alcune costanti. Nel monologo si alternano opposte passioni e matura la decisione. Nel monologo del servo si pone il problema tragico della scelta, della responsabilità e dell'indifferibilità dell'azione. Nei monologhi compaiono poi l'assenza di un piano prestabilito, l'esortazione a non dormire e ad agire, manifestazioni di timore (Calino) o d'esaltazione di sé ed espressioni di trionfo una volta che la beffa è riuscita (Pardalisca). Il linguaggio è spesso metaforico, con una predilezione per le metafore militari: la beffa è una guerra, da qui tutte le variazioni possibili all'interno di questo campo anche la rottura dell'illusione scenica, attraverso la quale lo spettatore è reso consapevole del fatto che la commedia è una finzione (v. 686).
Il
capo comico afferma di mettere in scena un'antica commedia plautina,
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