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Gentile, Giovanni
filosofo italiano (Castelvetrano 1875-Firenze 1944), docente a Palermo dal 1906 al 1914; passò poi a Pisa alla cattedra di filosofia teoretica; nel 1915 partecipò attivamente al Comitato pisano di preparazione e mobilitazione civile, secondo i principi espressi ne La filosofia della guerra (1914). Nel 1919 venne chiamato all'Università di Roma; dal 1922 al 1924 fu ministro della Pubblica Istruzione e legò al suo nome la riforma della scuola. A conclusione di quanto aveva scritto e fatto nel decennio precedente, nel 1923 si iscrisse al partito fascista, adoperandosi per dargli un programma ideologico e culturale: primo atto di questo suo impegno fu il Manifesto degli intellettuali del fascismo (1925), a cui Croce rispose con un contromanifesto che da allora rese insanabile il contrasto fra i due filosofi. Prospettando il fascismo come rigenerazione morale e religiosa degli Italiani, G. tentò di collegarlo direttamente al Risorgimento. Dal 1920 in poi il filosofo diresse il Giornale critico della filosofia italiana e numerose collane di classici e di testi scolastici; dal 1925 al 1944 diresse l'Enciclopedia Italiana. Negli ultimi anni del fascismo G. tentò di porsi al di sopra dei contrasti con un nuovo programma di unità nazionale (Discorso agli Italiani, 1943), ma venne ucciso dai partigiani fiorentini (15 aprile 1944) come uno dei maggiori responsabili del regime fascista.
IL PENSIERO E LE OPERE FILOSOFICHE
Al centro della ricerca filosofica di G. è lo studio del pensiero di Rosmini e di Gioberti, che egli considera espressione genuina e autonoma della filosofia italiana, per cui conferma e assolutizza il primato e l'autonomia del pensiero italiano e critica quanto in esso crede immissione eterogenea e deviante. Programma della sua attività di studioso sono stati quindi: la riforma della dialettica hegeliana in senso soggettivistico (Riforma della dialettica hegeliana, 1913); la critica del marxismo (La filosofia di Marx, 1899; Economia ed etica, 1934); lo studio della tradizione culturale e filosofica delle varie regioni italiane (Il tramonto della cultura siciliana, 1919; Gino Capponi e la cultura toscana del secolo decimonono, 1922; La cultura piemontese, 1922); la riforma della scuola in chiave anti-illuministica e antipositivistica (Scuola e filosofia, 1908; Il problema scolastico del dopoguerra, 1919; La riforma dell'educazione, 1920; Sommario di pedagogia come scienza filosofica, 1913-14); la formulazione di un nuovo sistema filosofico come riforma della dialettica hegeliana (Teoria generale dello spirito come atto puro, 1916; Sistema di logica come teoria del conoscere, 1917; La filosofia dell'arte, 1931; Introduzione alla filosofia, 1933). Nel tentativo di riforma della dialettica hegeliana, G. così procede: Hegel riteneva possibile una dialettica del «pensato», cioè della realtà nei suoi aspetti oggettivi e pensabili; secondo G. invece è possibile solo una dialettica (in quanto attività dell'essere che si sviluppa e diviene) del «pensante» (cioè del soggetto che pensa nell'atto in cui pensa). Ogni cosa, infatti, è reale nella misura in cui è pensata, perciò ogni realtà deve essere ridotta al pensiero nell'atto in cui la pone, ovvero al soggetto del pensiero inteso non come Io empirico o individuale, ma come «soggetto trascendentale», cioè assoluto e universale. A questo si riduce tutta la realtà: il passato e il futuro, il bene e il male, la verità e l'errore, la natura, Dio e infine i vari Io particolari. È perciò assurdo pensare che la realtà sia autonoma rispetto al soggetto ed esista prima e indipendentemente da esso. A questa erronea concezione rimane ferma la scienza che considera la natura preesistente al soggetto pensante, cadendo nel dogmatismo e nel naturalismo, cioè in una visione realistica, statica e meccanica delle cose: la valutazione gentiliana della scienza è pertanto negativa. L'oggettivismo della scienza è ancora più accentuato nell'ambito della religione che subordina il soggetto all'oggetto assolutizzato, cioè a Dio che non è altro se non una posizione o creazione da parte dell'Io. La religione sostituisce al concetto del soggetto autonomo e creatore (autoctisi) quello della creazione del soggetto da parte dell'oggetto (eteroctisi) e al concetto di conoscenza come posizione che il soggetto fa dell'oggetto, quello della rivelazione che l'oggetto fa di se stesso. Il realismo oggettivistico della religione e della scienza sono superati dalla filosofia, nella quale il pensiero in atto si libera della sua alienazione, riconoscendosi come unica realtà. La filosofia in quanto sapere assoluto è quindi superiore sia alla scienza sia alla religione. Al realismo oggettivistico sfugge l'arte, che appartiene al momento della pura soggettività spirituale ed è perciò inattuale in quanto precede l'attualizzarsi, cioè l'oggettivarsi, dello spirito. L'arte è infatti fantasia e sentimento. L'esigenza d'identificazione di soggetto e oggetto è anche a fondamento della filosofia del diritto (Fondamenti di una filosofia del diritto, 1916; Genesi e struttura della società, post., 1946). Tutti i rapporti che sono a fondamento della vita morale e sociale sono risolti nell'interiorità dello spirito, non sussistendo inter homines, ma in interiore homine. Morale e diritto riposano sulla dialettica di volente e voluto, corrispondente a quella di pensante e pensato, in quanto l'atto del pensare puro è anche un atto di volontà. Nella volontà volente si risolve la moralità che è volontà creatrice del bene. Nel voluto, che è l'oggettivazione del contenuto dell'atto volente ed è costituito dall'insieme delle leggi e delle norme che ci obbligano, si risolve il diritto. La legge nella sua normatività e nella sua coattività non è dunque estranea all'Io, ma a esso interna. Da ciò consegue l'identificazione della volontà del singolo e dello Stato nell'unità del soggetto assoluto. Su questo concetto G. insiste in Genesi e struttura della società dove, respingendo l'identificazione di pubblico e privato, nega l'autonomia dell'individuo di fronte allo Stato alla cui potenza non si attribuiscono limiti.
TEORIE PEDAGOGICHE
La pedagogia di G. s'identifica con i suoi concetti filosofici e si basa su due principi fondamentali: la realizzazione dell'identità fra educatore ed educando nell'atto educativo, che rispecchia il superamento delle distinzioni fra soggetti empirici nell'assolutezza dell'Io trascendentale, e il rifiuto di ogni carattere prefissato e astratto nel contenuto dell'insegnamento, e di ogni regola didattica, in quanto sia il metodo sia la tecnica d'insegnamento sono destituiti di senso dal momento che l'educazione è fondamentalmente un atto spirituale di autoeducazione. Questi principi non furono estranei alla riforma della scuola (1923) cui G. attese come ministro della Pubblica Istruzione e che, nota appunto come «riforma G.», venne peraltro condizionata in prevalenza da altri due fondamentali aspetti della posizione idealistica del filosofo: la concezione della scuola come funzione della vita dello Stato (rispecchiata, in particolare, nell'istituzione dell'esame di Stato a conclusione degli studi che potevano anche effettuarsi in istituzioni private) e il privilegio accordato alla formazione d'impronta umanistica.
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