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Edvard Munch 1863-1944
Nei suoi quadri Munch esprime i temi dell'angoscia e della disperazione in quanto sentimenti che manifestano la finitezza e la conflittualità interna dell'io.
Munch stesso affermava:
'La mia arte ha le sue radici nelle riflessioni, sul perché non sono uguale agli altri, sul perché ci fu una maledizione sulla mia culla, sul perché sono stato gettato nel mondo senza poter scegliere."
e in queste tele, emerge proprio tutta la sua disperazione, il suo voler essere interprete della coscienza umana.
Dopo la perdita della madre e della sorella, la morte divenne per lui un elemento costante al punto che egli affermava di non aver mai superato l'infelicità di allora e di aver sempre vissuto solo con malattie e morte. Non stupisce che tutte le sue tele, dunque, siano popolate da spettri della mente, da fantasmi dell'anima, da inquietanti presenze dai volti simili a teschi, che in una immobilità glaciale, sembrano fissarci, situati in paesaggi nei quali i cieli si tingono di rosso sangue o di viola.
Munch replicava instancabilmente i suoi soggetti, le proprie ossessioni, alla ricerca di una soluzione al dolore.
"Il grido" (o "L'urlo", come viene spesso chiamata l'opera nella traduzione italiana), fa parte di una serie di opere realizzate da Munch tra la fine dell'ottocento ed i primi del novecento e che l'autore stesso ha idealmente raccolto in una serie intitolata "Fregio della vita".
"Una sera passeggiavo per un sentiero, da una parte stava la città e sotto di me il fiordo. Ero stanco e malato. Mi fermai e guardai al di là del fiordo - il sole stava tramontando - le nuvole erano tinte di un rosso sangue. Sentii un urlo attraversare la natura: mi sembrò quasi di udirlo. Dipinsi questo quadro, dipinsi le nuvole come sangue vero. I colori stavano urlando". (Edvard Munch, spiegazione del grido)
Dell'opera esistono altre versioni, di cui alcune incisioni in bianco e nero che anticipano le versioni rese a colori. Una versione a colori anticipa di un anno questa prescelta: è un olio su tavola cm 83,5 x 66 ed è conservata ad Oslo al Munch Museet.
La prima impressione che l'osservatore ha guardando questa particolare opera di Munch, è, appunto, di angoscia. Attraverso la forma ed i colori quest'opera riesce dunque a trasmettere una sensazione a livello dell'inconscio. L'opera agisce nell'animo stesso dell'osservatore perché è espressione diretta dell'animo dell'autore.
Colori irreali, contrastanti, contorni dissolti, forme indefinite sembrano emergere dalla dimensione del sogno. La prospettiva, tesa e obliqua, dà al ponte una lunghezza allucinante, resa soprattutto dal contrasto cromatico e dalle linee ondulate che partendo dalla sagoma dell'uomo si propagano per tutto il dipinto. Il tapparsi le orecchie è una figura che compare anche in un'altra opera di Munch, raffigurante la sorella sul letto di morte della madre; nel caso del grido, le mani portate alle orecchie non servono però a non sentire un urlo che parte da dentro e si propaga verso l'esterno.
La rappresentazione pone in primo piano l'uomo che urla, l'artista stesso, un corpo lontano da ogni naturalismo, con la testa completamente calva come un teschio, gli occhi-orbite dallo sguardo allucinato e terrorizzato, il naso appena accennato nelle narici, la cavità della bocca aperta, vero centro compositivo dell'opera, dalla quale si dipartono le onde sonore del grido, una serie di pennellate sinuose che innestano in tutto il quadro un movimento concentrico, come cerchi nell'acqua, che contagia la natura circostante, il paesaggio, il cielo, trascinandoli in un gorgo di irresistibile potenza dove tutto si annichilisce.
La spinta dinamica del movimento ad onda domina l'insieme, incombendo sulla figura, sulla natura, definendo con tratti concitati la tipica deformazione espressionista che, premendo sulla forma, vuol farne sgorgare e liberare l'angoscia interiore, fecendola esplodere con un grido liberatorio.
La figura in primo piano è tagliata in diagonale dalla linea del parapetto del ponte, di scorcio sulla sinistra, sul quale si allontanano le figure di sfondo, mentre sulla destra è raffigurato un paesaggio irreale e desolato, un gorgo d'acqua sopra il quale un cielo innaturalmente striato di rosso riprende lo stesso andamento ondulato. In antitesi con la contemporanea corrente impressionista, di lirico naturalismo e gioioso cromatismo, l'opera di Munch, al contrario, non si proietta verso il mondo esterno, verso la natura, ma si rivolge all'inconscio, ripiegandosi su un'interiorità della quale scopre tutta la incontrollabile violenza emotiva.
Nella rappresentazione che Munch fa della scena non c'è alcun elemento che induca a credere alla funzione liberatoria e consolatoria dell'urlo, che resta solo un grido muto, inavvertito dagli altri, dolore pietrificato che vorrebbe uscire dal profondo dell'animo, senza mai riuscirci.
I temi dominanti, il dolore, la sofferenza di vivere, l'angoscia di guardarsi dentro, la disperazione dell'uomo e della natura, sono aspetti che definiranno da lì a poco la poetica dell'Espressionismo tedesco ed austriaco ed anticipano anche ciò che essi mutueranno dal Simbolismo.
Munch nelle sue opere fu ispirato dalla filosofia di Kierkegaard.
"Il concetto dell'angoscia" (1844)
L'angoscia di cui parla Kierkegaard è il "sentimento del possibile", cioè quello stato d'animo che prende l'uomo quando si trova dinanzi alla libertà e alle infinite possibilità negative che incombono sulla sua vita e sulla sua personalità. Proprio per queste sue caratteristiche l'angoscia è diversa dalla paura che si prova davanti a un pericolo preciso. Lo stesso filosofo danese ha vissuto in pieno la figura da egli descritta nelle ultime pagine della sua opera "Il concetto dell'angoscia", pubblicata nel 1844: quella del discepolo dell'angoscia, cioè di colui che sente dentro di sè le terribili e devastanti possibilità che ogni alternativa dell'esistenza gli prospetta. Perciò di fronte a ogni alternativa Kierkegaard si è sentito paralizzato, impossibilitato a scegliere.
L'angoscia inoltre è un sentimento tipicamente umano e viene provata soltanto da chi ha spirito: egli stesso asserisce che "più profonda è l'angoscia, più grande è l'uomo". La povertà spirituale sottrae l'uomo all'angoscia, ma in questo modo egli diventa lo schiavo di qualsiasi circostanza: l'angoscia è la più gravosa di tutte le categorie.
«Nesun grande inquisitore tien pronte torture così terribili come l'angoscia; nessuna spia sa attaccare con tanta astuzia la persona sospetta, proprio nel momento in cui è più debole, nè sa preparare così bene i lacci per accalappiarla come sa l'angoscia; nessun giudice, per sottile che sia, sa esaminare così a fondo l'accusato come l'angoscia che non se lo lascia mai sfuggire, nè nel divertimento, nè nel chiasso, nè sotto il lavoro, nè di giorno, nè di notte.»
L'unico modo efficace per contrastare l'angoscia e i suoi tormenti non è l'accortezza umana, bensì la fede religiosa in Colui al quale tutto è possibile, cioè Dio. Solo nel Cristianesimo egli vede un' ancora di salvezza, in quanto esso gli sembra insegnare quella stessa dottrina dell'esistenza e offrire, con la fede, un modo per sottrarre l'uomo all'angoscia e alla disperazione, che costituiscono l'esistenza.
Nonostante i suoi benefici, la fede è, però, paradosso e scandalo: Cristo è il segno di questo paradosso, poichè è colui che soffre e muore come uomo, mentre parla e agisce come Dio; è colui che è e si deve riconoscere come Dio, mentre soffre e muore come un misero uomo.
Kierkegaard inoltre collega l'angoscia strettamente con il principio dell'infinità o dell'onnipotenza del possibile: per questo principio, ogni possibilità favorevole all'uomo è annientata dall'infinito numero delle possibilità sfavorevoli. E' l'infinità o indeterminatezza delle possibilità che rende insuperabile l'angoscia e ne fa la situazione fondamentale dell'uomo nel mondo.
Biografia
Edvard Munch nacque nel 1863 a Löten (Norvegia). Da giovane studiò inizialmente nella sua terra, vincendo una borsa di studio che gli permettè di trasferirsi a Parigi, che all'epoca era considerata la capitale dell'arte, dove studiò gli impressionisti. In seguito si spostò in diverse città europee, mentre si consolidava l'amicizia che lo legava a Van Gogh e a Gauguin. Maturò una cultura letteraria e intellettuale non indifferente.
Egli apprese la lezione dell'Avanguardia francese, dell'impressionismo, ma capì che la sua strada era un'altra e iniziò così a dare vita a uno stile proprio, per il quale sarà riconosciuto come il precursore dell'espressionismo tedesco. Trattò con grande originalità ed efficacia anche l'incisione e la xilografia.
Nel 1908, dopo un periodo trascorso presso una clinica di Copenaghen a causa di una psicosi ossessiva che gli procurò dilanianti manie di persecuzione e persino una paralisi degli arti, Munch tornò in Norvegia, scegliendo di vivere lontano dalla città, rifugiatosi in un villaggio, a contatto con la natura. I suoi quadri diventarono baluardi contro la pazzia, anche se la sua pittura continuava ad esternare rapporti con il mondo combattuti e sofferti, come nel rapporto con l'amore, di cui Munch parlava come connubio inquietante tra eros-thanatos.
Morì a Ekely nel 1944 a causa di una brutta polmonite.
La disperazione: "La malattia mortale" (1849).
Mentre l'angoscia si riferisce al rapporto dell'uomo con il mondo, la disperazione si riferisce al rapporto dell'uomo con se stesso, cioè con il suo io interiore. In questo rapporto, se l'io vuol essere se stesso, poiché è finito e insufficiente a se stesso, non giungerà mai all'equilibrio e al riposo. Viceversa, se non vuol essere se stesso, urta anche qui nell'impossibilità. In entrambi i casi quindi sopraggiunge la disperazione, che è una malattia mortale, non perché conduca alla morte dell'io, ma perché è il vivere la morte dell'io. A questo concetto Kierkegaard dedica una delle sue opere principali, intitolata "la malattia mortale" e pubblicata nel 1849.
Ogni uomo è malato di disperazione, che ne sia consapevole o meno, e l'unica terapia efficace contro di essa è la fede, cioè quella condizione in cui l'io, pur volendo essere se stesso, riconosce di non essere autosufficiente e perciò la sua dipendenza da Dio, il quale è l'unico in grado di garantire la sua realizzazione.
L'uomo deve quindi volere la disperazione, poiché riconoscendosi in preda ad essa egli può volgersi alla ricerca di una salvezza.
«La possibilità è l'unica cosa che salva. Quando uno sviene si manda per acqua, acqua di colonia, gocce di Hoffmann; ma quando qualcuno vuol disperarsi bisogna dire: "Trovate una possibilità, trovategli una possibilità". La possibilità è l'unico rimedio; dategli una possibilità e il disperato riprende lena, si rianima, perché se l'uomo rimane senza possibilità è come se gli mancasse l'aria. Talvolta l'inventiva della fantasia umana può bastare per trovare una possibilità; ma alla fine, cioè quando si tratta di credere, giova soltanto questo, che a Dio tutto è possibile».
Biografia
Sören Kierkegaard nacque nel 1813 a Copenhagen in Danimarca e fu educato da un padre anziano nel clima di una religiosità severa. All'università di Copenhagen si iscrisse alla facoltà di teologia, disciplina in cui si laureò circa dieci anni dopo con una dissertazione "Sul concetto dell'ironia con particolare riguardo a Socrate", che avrebbe pubblicato poi l'anno seguente: nonostante la sua laurea, egli non intraprese la carriera di pastore. Nel 1841-1842 visse a Berlino per ascoltare le lezioni di Schelling sulla sua filosofia positiva basata sulla distinzione tra realtà e ragione, ma ben presto perse l'entusiasmo per la sua dottrina fino a rimanerne deluso. In seguito egli visse nella sua città natale con un cospicuo capitale lasciatogli dal padre, immerso nella composizione dei suoi libri. Nella sua vita gli episodi spiacevoli sono pochi e apparentemente insignificanti, tuttavia essi hanno avuto una forte influenza nella sua vita interiore e nelle sue opere: tra questi il più importante fu sicuramente il fidanzamento e la successiva separazione (voluta da lui stesso) da Regina Olsen. Nel "Diario di un seduttore" (opera postuma) egli parla di un grande terremoto che si è prodotto ad un certo punto nella sua vita e che lo ha costretto a mutare il proprio atteggiamento di fronte al mondo, ma la causa viene soltanto accennata e rimane una minaccia vaga e insieme terribile. Sempre nel "Diario" il filosofo danese parla di una "scheggia nelle carni" che egli è stato destinato a portare, e proprio nella mancanza di dati precisi sta il carattere ossessionane dell'intera faccenda: fu probabilmente questa scheggia a spingerlo a rompere il fidanzamento con Regina Olsen, senza nessun motivo, oppresso solo dal senso di una minaccia oscura e inafferrabile. Sempre per questo motivo egli non intraprese nè la carriera di pastore, nè nessun altra e pubblicò tutti i suoi scritti sotto pseudonimi diversi. Kierkegaard morì nel 1855.
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