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Zibaldone di pensieri: alcuni passi
Pensiero 79
Pensiero 80
La speme che rinasce in un col giorno.
Dolor mi preme del passato, e noia
Del presente, e terror dell'avvenire.
Si può osservare che il Cristianesimo, senza perciò fargli nessun torto, ha per un verso effettivamente peggiorato l'uomo.
Pensiero 141
[.] Un'arte: 1. non può mai, da sola, eguagliare la natura; 2. per quanto sia familiare agli uomini, si danno certi momenti in cui questi non la sanno adoperare. [.]
Pensieri 208-9
[.] la massima parte delle cose e delle verità che noi crediamo assolute e generali, sono relative e particolari[.].
In somma dal detto qui sopra e da mille altre cose che si potrebbero dire, si deduce quanto giustamente i moderni ideologismi abbiano abolite le idee innate. [.] Abbiamo si può dire innata l'idea della convenienza, ma quali cose si convengano in morale, appartiene alle idee relative.
Considerate la morale dei diversi popoli, massimamente barbari. E mettetevi nello stato primitivo dell'uomo. Vedrete che il far male agli altri per il vostro bene non vi ripugna. Il vostro simile in natura non è una cosa così inviolabile, come credete [.].
Pensieri 252-5
[.] La tirannia non è mai sicura se non quando il popolo non è capace di grandi azioni.
Da questa affermazione capite come il Cristianesimo debba aver reso l'uomo inattivo e ridottolo invece ad essere contemplativo, e per conseguenza come egli sia favorevole al dispotismo, non per principio (perché il cristianesimo né loda la tirannia, né vieta di combatterla, o di fuggirla, o d'impedirla), ma per conseguenza materiale, perché se l'uomo considera questa terra come un esilio, e non ha cura se non di patria situata nell'altro mondo, che gl'importa della tirannia? Ed i popoli abituati alla speranza di beni d'un'altra vita, divengono inetti per questa, o se non altro, incapaci di quei grandi stimoli che producono le grandi azioni. [.] Paragonate ora queste conseguenze, a quelle delle religioni antiche, secondo le quali questa era la patria, e l'altro mondo l'esilio.
Il costume e la massima di macerare la carne e indebolire il corpo per ridurlo, come dice San Paolo, in servitù, dovea necessariamente illanguidire le passioni e l'entusiasmo, e render soggetti anche gli animi di chi cercava di soggiogare il corpo, e così per una parte contribuire infinitamente a spegner la vita nel mondo, per l'altra ad appianare la strada al dispotismo, perché non ci sono forse uomini così atti ad essere tiranneggiati come i deboli di corpo, da qualunque cagione provenga questa debolezza, o da lascivia e mollezza, come presso i Persiani, che dopo i tempi di Ciro divennero l'esempio dell'avvilimento e della servitù, o da macerazione ec. Nel corpo debole non alberga coraggio, non fervore, non altezza di sentimenti, non forza d'illusioni ec. Nel corpo servo anche l'anima è serva.
Pensieri 257-8
Bisogna distinguere in fatto le belle arti, entusiasmo, immaginazione, calore, ec., da invenzione massimamente di soggetti. La vista della bella natura desta entusiasmo.
Pensieri 342-3
Quanto sia vero che i doveri e la morale determinata non provengano da legge naturale né sieno fondate sopra idee innate e comuni a tutti gli uomini, si può anche vedere per questo esempio. Il rispetto e l'immunità degli araldi, considerati antichissimamente come persone sacre ed inviolabili, e da Omero chiamati cari a Giove, entra nel diritto così detto universale delle genti, e l'abitudine ce la fa riguardare come un dovere naturale. Ora mettiamoci coll'immaginazione nello stato di natura e vedremo che l'uomo non ha nessuna ripugnanza di far male al suo nemico, sotto qualunque aspetto se gli presenti, come non l'hanno gli altri animali, perché il nemico è sempre nemico e l'uomo inclina a nuocergli quanto e come e quando e dove possa. Così che l'inviolabilità degli araldi non è fondata sull'istinto, non è insegnata dalla natura, ma è legge di pura convenienza, cagionata dall'utilità e necessità sua, utilità e necessità riconosciuta dalla ragione e per via di argomento, non istillata e ingenita negli animi dalla natura senza bisogno di riflessione. E così il diritto delle genti, che si crede naturale, vediamo per questo esempio che contiene una legge di pura convenzione, la quale, prima ch'esistesse, non era colpa il contravvenirle, come si sarà mille volte fatto [.].
Pensieri 353-4
Quanto anche la religione cristiana sia contraria alla natura, quando non influisce se non sul semplice e rigido raziocinio, e quando questo solo serve di norma, si può vedere per questo esempio. Io ho conosciuto intimamente una madre di famiglia che non era punto superstiziosa, ma saldissima ed esattissima nella credenza cristiana, e negli esercizi della religione. Questa non solo non compiangeva quei genitori che perdevano i loro figli bambini, ma gl'invidiava intimamente e sinceramente, perché questi eran volati al paradiso senza pericoli, e avean liberato i genitori dall'incomodo di mantenerli. Trovandosi più volte in pericolo di perdere i suoi figli nella stessa età, non pregava Dio che li facesse morire, perché la religione non lo permette, ma gioiva cordialmente; e vedendo piangere o affliggersi il marito, si rannicchiava in se stessa, e provava un vero e sensibile dispetto. Era esattissima negli uffizi che rendeva a quei poveri malati, ma nel fondo dell'anima desiderava che fossero inutili, ed arrivò a confessare che il solo timore che provava nell'interrogare i medici, era di sentire opinioni o ragguagli di miglioramento.[.] Considerava la bellezza una disgrazia, e vedendo i suoi figli brutti e deformi, ne ringraziava Dio, non per eroismo, ma di tutta voglia. [.] Questa donna aveva sortito dalla natura un carattere sensibilissimo, ed era stata così ridotta dalla ragione. Ora questo che altro è se non barbarie ?
Pensieri 426-9
[.] Ed ecco il punto in cui comparve il Cristianesimo, cioè quel momento in cui l'eccessivo progresso della ragione e del sapere, negando tutto o dubitando di tutto (perché tutto è veramente falso o dubbio), spegnendo tutte le illusioni o credenze primitive, gettava l'uomo nell'inazione, nell'indifferenza, nell'egoismo [.]. E il Cristianesimo fece certo un gran bene, e sostenne il mondo crollante, sovvenendo con una medicina composta della ragione, alla malattia mortale cagionata da essa ragione. Ma appunto perché la medicina era composta di ragione, e perché le origini del Cristianesimo furono quelle che ho spiegate, cioè il guasto fatto dalla ragione e la necessità di un rimedio ragionevole, perciò quel rimedio era bensì l'unico applicabile a quei tempi, e giovò, ma relativamente al peggiore stato in cui si era, non a quello anteriore del male. [.] Ma la vita, sebbene torno ad essere vita, fu però molto minore, meno attiva, meno bella, meno varia, e precisamente più infelice, giacché il Cristianesimo non aveva insegnato all'uomo che la vita è ragionevole, e ch'egli deve vivere, se non insegnandogli che deve indirizzare questa ad un'altra vita, rispetto alla quale solamente, è ragionevole questa: e che questa sarebbe necessariamente infelice.
Pensiero 452
La verità, che una cosa sia buona, che un'altra sia cattiva, vale a dire il bene e il male, si credono naturalmente assoluti, e non sono altro che relativi. Quest'è un'osservazione vastissima che distrugge infiniti sistemi filosofici ec.; e appiana e toglie infinite contraddizioni e difficoltà nella gran considerazione delle cose, massimamente generale, e appartenente ai loro rapporti. Non v'è altra verità assoluta se non che Tutto è relativo. Questa dev'esser la base di tutta la metafisica.
Pensieri 816-7
Insomma questa idea benché entri subito nel bello ideale, è figlia della madre comune di tutte le idee, cioè dell'esperienza che deriva dalle nostre sensazioni, e non già di un insegnamento e di una forma ispirataci e impressaci dalla natura nella mente avanti l'esperienza, il che non è più bisogno dimostrare dopo Locke. Ma quello che mi tocca trovare sì e, che queste sensazioni, sole nostre maestre, c'insegnano che le cose stanno così, perché così stanno, e non perché così debbano assolutamente stare, cioè perch'esista un bello e un buono assoluto ec. Questo noi lo deduciamo pure dalle nostre sensazioni, (e lo deduciamo naturalmente, come ne deduciamo naturalmente le idee innate, della quale opinione questa è una conseguenza) ma questo è ciò che non ne possiamo dedurre; e non possiamo, appunto perché tutto ci è insegnato dalle sole sensazioni, le quali sono relative al puro modo si essere ec. e perché nessuna cognizione o idea ci deriva da un principio anteriore all'esperienza. Quindi è chiaro che la distruzione delle idee innate distrugge il principio della bontà, bellezza, perfezione assoluta, e de' loro contrarii. Vale a dire di una perfezione ec., la quale abbia un fondamento, una ragione, una forma anteriore all'esistenza dei soggetti che la contengono, e quindi eterna, immutabile, necessaria, primordiale ed esistente prima dei detti soggetti, e indipendentemente da loro. Or dov'esiste questa ragione, questa forma? E in che consiste? E come la possiamo noi conoscere o sapere, se ogn'idea ci deriva dalle sensazioni relative ai soli oggetti esistenti? Supporre il bello e il buono assoluto, è tornare alle idee di Platone, e risuscitare le idee innate dopo averle distrutte, giacché tolte queste, non v'è altra possibile ragione per cui le cose debbano assolutamente e astrattamente e necessariamente essere così o così, buone queste e cattive quelle, indipendentemente da ogni volontà, da ogni accidente, da ogni cosa di fatto, che in realtà è la sola ragione del tutto, e quindi sempre e solamente relativa, e quindi tutto non è buono, bello, vero, cattivo, falso, se non relativamente; e dunque la convenienza delle cose fra loro è relativa, se così posso dire, assolutamente.
In somma il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla. Giacché nessuna cosa è assolutamente necessaria, cioè non v'è ragione assoluta perch'ella non possa non essere, o non essere in quel tal modo ec. E tutte le cose sono possibili, cioè non v'è ragione assoluta perché una cosa qualunque, non possa essere, o essere in questo o in quel modo ec. E non v'è divario alcuno assoluto fra tutte le possibilità, né differenza assoluta fra tutte le bontà e perfezioni possibili.
Vale a dire che un primo ed universale principio delle cose, o non esiste, né mai fu, o, se esiste o esisté non lo possiamo in niun modo conoscere, non avendo noi né potendo avere il menomo dato per giudicare delle cose avanti le cose, e conoscerle al di là del puro fatto reale. Noi, secondo il naturale errore di credere assoluto il vero, crediamo di conoscere questo principio, attribuendogli in sommo grado tutto ciò che noi giudichiamo perfezione, e la necessità non solamente di essere ma di essere in quel tal modo, che noi giudichiamo assolutamente perfettissimo. Ma queste perfezioni, son tali solamente nel sistema delle cose che noi conosciamo, vale a dire in uno solo dei sistemi possibili; anzi, solamente in alcune parti di esso, in altre no, come ho provato in tanti altri luoghi: e quindi non sono perfezioni assolutamente, ma relativamente: né sono perfezioni in se stesse, e separatamente considerate, ma negli esseri a' quali appartengono, e relativamente alla loro natura, fine ec., né sono perfezioni maggiori o minori di qualunque altra ec. e quindi non costituiscono l'idea di un ente assolutamente perfetto, e superiore in perfezione a tutti gli enti possibili; ma possono anche essere imperfezioni, e talora lo sono, pure relativamente ec. Anche la necessità di essere, o di essere in un tal modo, e di essere indipendentemente da ogni cagione, è perfezione relativa alle nostre opinioni ec. Certo è che distrutte le forme Platoniche preesistenti alle cose, è distrutto Iddio.
Pensiero 1185
(Circa l'idea di bello). Ecco subito l'idea di una proposizione non assoluta, ma relativa; idea non innata, ma acquisita, non derivata dalla natura né dall'essenza delle cose, né da un tipo e da una nozione preesistente nel suo intelletto (del fanciullo), né da un orine necessario, ma dall'assuefazione del senso della vista circa quel tale oggetto, e dall'arbitrio della natura che ha fatto realmente la maggior parte degli uomini in quel tal modo.
Noi stessi nelle nostre riflessioni giornaliere le meno profonde, conosciamo e sentiamo che la virtù, per esempio, è un fantasma, e che non c'è ragione per cui tal cosa sia virtù se non giova, né vizio se non nuoce; e siccome una cosa ora giova, ora nuoce; a questo giova, a quello no; ad un genere di essere sì, ad un altro no, ec. ec., così veniamo a confessare che la virtù, il vizio, il cattivo, il buono è relativo. Noi non troviamo nell'ordine di questo mondo alcuna ragione perché una cosa che giova a me (anche grandemente) e nuoce ad altri (anche leggermente) non si possa fare e sia colpa; [.]
Le ragioni di tutto ciò noi siamo costretti a riporle in un Essere dove personifichiamo il bene, la virtù, la verità, la giustizia ec. facendolo assolutamente, e per assoluta necessità, buono: ché se così non facessimo, neppure in lui avremmo trovato il confine delle cose, e la ragione per cui questo o quello sia assolutamente buono o cattivo. Noi consideriamo dunque detto Essere come un tipo, a norma del quale convenga giudicare della bontà o bellezza ec. della bruttezza o malvagità delle cose (ecco le idee di Platone). Quello che somiglia o piace a lui, è dunque assolutamente, primordialmente, universalmente e necessariamente buono, e viceversa. Benissimo: altra ragione infatti che questa non vi può essere del buono ec. assoluto; e, come ho detto altrove, tolte le idee di Platone, l'assoluto si perde. Ma qual ragione ha questo tipo di essere tale e quale noi ce lo figuriamo, e non diverso? Che possieda tutte le qualità che noi gli ascriviamo? Che queste sino buone necessariamente? [.] La ragione che abbiamo è Dio. Dunque noi proviamo l'idea dell'assoluto coll'idea di Dio, e l'idea di Dio coll'idea dell'assoluto. Iddio è l'unica prova delle nostre idee, e le nostre idee sono l'unica prova di Dio. Da tutto ciò si conferma ciò che ho detto altrove che il principio delle cose è il nulla.
L'animo umano è così fatto ch'egli prova molto maggiore soddisfazione di un piacere piccolo, di un'idea di una sensazione piccola, ma di cui non conosca i limiti, che di una grande, di cui veda e senta i confini. La speranza di un piccolo bene, è un piacere assolutamente maggiore del possesso di un bene grande già provato (perché, se non ancora provato, sta sempre nella categoria della speranza). La scienza distrugge i principali piaceri dell'animo nostro, perché determina le cose e ce ne mostra i confini, benché in moltissime cose, abbia materialmente ingrandito d'assaissimo le nostre idee. Dico materialmente e non spiritualmente, giacché, per esempio la distanza del sole dalla terra, era assai maggiore nella mente umana quando si credeva di poche miglia, né si sapeva quante, di quanto ora si sa essere di tante precise migliaia di miglia. Così la scienza è nemica della grandezza delle idee, benché abbia smisuratamente ingrandito le opinioni naturali.[.] Quindi l'ignoranza, la quale sola può nascondere i confini delle cose, è la fonte principale delle idee ec. indefinite. Quindi è la maggior sorgente di felicità, e perciò la fanciullezza è l'età più felice dell'uomo, la più paga di se stessa, meno soggetta alla noia.
[.] La legge naturale varia secondo le nature. Un cavallo che non è carnivoro giudicherà forse ingiusto un lupo che assalga e uccida una pecora, l'odierà come sanguinario, e proverà un senso di ribrezzo e d'indignazione abbattendosi a vedere qualche sua carneficina. Non così un lione. Il bene ed il male morale non ha dunque nulla di assoluto. Non v'è altra azione malvagia, se non quelle che ripugnano alle inclinazioni di ciascun genere di esseri operanti: né sono malvagie quelle che nocciono ad altri esseri, mentre non ripugnino alla natura di chi le eseguisce.
[.] L'animo forte ed alto resiste alla necessità, ma non resiste al tempo, vero ed unico trionfatore di tutte le cose terrene. Quel dolore profondissimo e ostinatissimo, che sdegnava e calpestava la consolazione volgare delle sventura, cioè l'inevitabilità, e l'irreparabilità della medesima, e il non poterne altro, che rinasceva ogni giorno e talvolta con maggior forza di prima, che per lunghissimo spazio, era sembrato indomabile e inestinguibile, e piuttosto pareva accrescersi gi giorno in giorno che scemarsi;per tutto ciò non può far che ricusi e non ammetta la consolazione del tempo, e dell'assuefazione che il tempo insensibilmente e dissimulatissimamente introduce, e che in ultimo, dopo ostinata guerra non si trovi vinto e morto, e che quell'animo feroce non pieghi il collo, e non s'adatti a strascinare il suo male senza sdegno, e senza forza di solersene.
Pensiero 4104
Il tale diceva che noi venendo in questa vita, siamo come chi si corica in un letto duro e incomodo, che sentendovisi star male, non vi può star quieto, e però si rivolge cento volte da ogni parte, e proccura in vari modi di appianare, ammollire ec. il letto, cercando pur sempre e sperando di avervi a riposare e prender sonno, finché senz'aver dormito né riposato vien l'ora di alzarsi. Tale e da simil cagione è la nostra inquietudine nella vita, naturale e giusta scontentezza d'ogni stato; cure, studi ec. di mille generi per accomodarci e mitigare un poco questo letto; speranza di felicità o almen di riposo, e morte che previen l'effetto della speranza.
Il tempo non è una cosa. Esso è un accidente delle cose, e indipendentemente dalla esistenza delle cose è nulla; è uno accidente di questa esistenza; o piuttosto è una nostra idea, una parola. La durazione delle cose che sono, è il tempo: come 7200 battute di un pendolo da oriuolo sono un'ora; la quale ora però è un parto della nostra mente, e non esiste, né da se medesima, né nel tempo, come membro di esso, non più di quel che ella esistesse prima dell'invenzione dell'oriuolo. Insomma l'esser del tempo non è altro che un modo, un lato per dir così, del considerar che noi facciamo la esistenza delle cose che sono, o che possono o si suppongono poter essere. Medesimamente dello spazio. Il nulla non impedisce che una cosa che è, sia, stia, dimori. Dove nulla è, quivi niuno impedimento è che una cosa non vi stia o non vi venga. Però il nulla è necessariamente luogo. È dunque una proprietà del nulla l'esser luogo; proprietà negativa, giacché anche l'esser di luogo è negativo puramente e non altro. Sicché come il tempo è un modo o un lato del considerar l'esistenza delle cose, così lo spazio non è altro che un modo, un lato, del considerar che noi facciamo il nulla. Dove è nulla quivi è spazio, e il nulla senza spazio non si può dare. Per tanto è manifesto che eziandio fuori degli ultimissimi confini dell'universo esistente, v'è spazio, poiché nulla v'è. E se qualche cosa potesse essere o creata o spinta di là da quegli estremi confini, troverebbe luogo; che è quanto dire non troverebbe nulla che la impedisse di andarvi o starvi. La conclusione si è che tempo e spazio non sono in sostanza altro che idee, anzi nomi. E quelle innumerabili e immense questioni agitate dalla origine della metafisica in qua, dai primi metafisici d'ogni secolo, circa il tempo e lo spazio, non sono che logomachie, nate da malintesi, e da poca chiarezza d'idee e poca facoltà di analizzare il nostro intelletto, che è il solo luogo dove il tempo e lo spazio, come tante altre cose astratte, esistano indipendentemente e per se medesimi, e siano qualche cosa.
Pensiero 4487
[.] La ricordanza del passato, di uno stato, di un metodo di vita, di un soggiorno qualunque, anche noiosissimo, abbandonato, è dolorosissima, quando esso è considerato come passato, finito, che non è, non sarà più, fait.
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