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Arthur Schopenhauer
Opere principali
La quadruplice radice del principio di ragion sufficiente (1813), Il mondo come volontà e rappresentazione ( 1819), La volontà della natura ( 1836), La libertà del volere ( 1839), n mondo come volontà e rappresentazione (seconda edizione, 1844), Parerega e paralipomena (1851).
Il mondo come volontà e rappresentazione
Il presupposto che sta alla base dell'opera è che la filosofia non deve fermarsi, come avevano preteso gli idealisti, a una verità che si manifesta nella storia, per questo sarebbe sufficiente la scienza, il fine della filosofia è la contemplazione delle strutture universali ed eterne. La tesi fondamentale che Schopenhauer sostiene è: il mondo è l'oggetto della nostra conoscenza e il nostro essere è lo strumento che ne rivela l'essenza.
Nell'approfondimento di questa tesi, Schopenhauer comincia a considerare la divisione kantiana fra fenomeno e noumeno. L'errore di Kant è stato considerare reale solo il fenomeno, riducendo il noumeno a pura esigenza, la cui soddisfazione è preclusa. La conoscenza della realtà invece può venire solo da un atto di riflessione sulla nostra esistenza, il fenomeno infatti è una rappresentazione che esiste solo entro la coscienza di ogni individuo. Di conseguenza possiamo conoscere il mondo solo cercando il principio da cui prende origine la nostra esistenza. Questo principio è una forza inconscia, irrazionale, è volontà; essa è ovunque: nel pensiero e nella realtà, è fondamento del nostro conoscere, del nostro essere e del nostro agire.
Anche l'analisi del processo di conoscenza dimostra la profonda verità di questa tesi. Gli elementi fondamentali della rappresentazione, su cui ogni conoscenza si fonda, il soggetto e l'oggetto, sono un'unica cosa: la ragione appartiene al soggetto, ma, senza un contenuto, non potrebbe sussistere. Il problema fondamentale della filosofia è perciò quello di individuare una verità immediata e da essa ricavare mediante l'astrazione la verità assoluta. La verità immediata e indubitabile che ogni essere intuisce è: Il mondo è la mia rappresentazione.
La filosofia, per realizzare il suo compito: capire a fondo questa verità, deve prima di tutto mettere a fuoco il problema della rappresentazione: conoscere, per la filosofia, significa non solo sapere che cosa sia un Oggetto, ma perché esso sia in quel modo, ricercarne la causa.
Il principio di ragione
Il problema è analizzato ne La quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, che Schopenhauer considera unica premessa necessaria alla comprensione de Il Mondo. Se comprendere significa rispondere alla domanda 'perché?', bisogna riconoscere che la risposta non è mai unica: essa dipende dal rapporto che si instaura fra il soggetto. che conosce e l'oggetto della conoscenza.
Nel processo conoscitivo questo rapporto si basa su quattro forme di causalità fondamentali, necessarie, a priori:
I) la forma del divenire, per la quale colleghiamo tra loro gli oggetti naturali, che fonda la necessità fisica;
2) la forma del conoscere, per la quale colleghiamo nel giudizio premesse e conseguenze, che fonda la necessità logica;
3) la forma dell'essere, per la quale colleghiamo un oggetto o un evento a un punto dello spazio e del tempo, che fonda la necessità matematica;
4) la forma dell'agire, per la quale colleghiamo un'azione a un motivo che ne ha determinato il compimento, che fonda la necessità morale. Non ha senso distinguere fra intelletto e ragione; l'intelletto è solo una funzione del cervello, che opera tanto sulle sensazioni quanto sulle astrazioni; la differenza fra le une e le altre sta nel fatto che le prime dànno origine a rappresentazioni singole, le seconde raggruppano sensazioni diverse in concetti generali secondo due principi:
1) quello di specificazione col quale determiniamo il significato di una rappresentazione
2) quello di omogeneità col quale raccogliamo gli elementi comuni a varie rappresentazioni per formare gruppi più generali.
Obiettivo della filosofia diventa la ricerca del principio che rende possibile l'unificazione dei termini della conoscenza tradizionalmente concepiti come separati. Questo principio è la volontà; l'intuizione immediata e assolutamente certa, 'il mondo è la mia rappresentazione', diventa: ' il mondo è la mia volontà'.
Il linguaggio è l'espressione di questa unità, perché esso consente di trasformare un oggetto esterno in uno mentale; attraverso il linguaggio la mente arriva all'astrazione; la differenza fra astrazione e intuizione è solo di grado: la prima, per sussistere, ha bisogno della seconda che, in quanto immediata, è certa.
L'identità fondamentale fra soggetto e oggetto rende anche impossibile ogni distinzione fra realtà e sogno; il mondo come rappresentazione è mero sogno, ma anche il sogno è una forma di conoscenza autentica. Si tratta allora di integrare queste due forme di conoscenza per poter cogliere gli oggetti nella loro essenza. La conoscenza infatti ha due fonti diverse: il senso esterno e il senso interno, l'uno non può essere ridotto all'altro, l'oggetto sentito è altro da quello intuito. Queste diverse forme di conoscenza non sono contrapposte, solo distinte e stanno fra loro in una gradazione gerarchica: quella del senso esterno è superficiale, quella del senso interno è profonda. Fra il mondo e noi esiste un diaframma, il velo di Maja, attraverso il quale noi possiamo percepire gli oggetti, che nella realtà esistono solo come apparenza, come sogno.
La conoscenza e l'etica
La conoscenza dell'uomo non è tuttavia solo visione immediata, intuizione. La rappresentazione, in quanto prodotto della sensibilità, è propria di tutti gli animali, ma l'uomo è anche ragione e, dalla intuizione ricava il concetto astratto attraverso la riflessione. Con questo processo l'uomo cerca di penetrare l'intimo significato del mondo, quello che va oltre il manifestarsi della realtà, oltre il 'velo di Maja'.
Il percorso conoscitivo che porta l'uomo alla ricerca della verità che si manifesta oltre il mondo dei fenomeni, ha una corrispondenza precisa nel campo pratico. Proprio perché corpo l'uomo, nella ricerca dell'essenza di sé, comprende la propria vitalità, il muoversi, l'agire, il godere, il soffrire, comprende cioè se stesso come fatto esteriore e interiore insieme, come tensione, desiderio di vivere, volontà.
[Sarebbe impossibile trovare il significato di questo mondo che ci sta dinanzi come rappresentazione, oppure comprendere il suo passaggio da semplice rappresentazione del soggetto conoscente a qualcosa d'altro e di più se colui che ricerca non fosse nient'altro che un puro soggetto conoscente (un'alata testa d'angelo senza il corpo). Ma il ricercatore ha la sua radice nel mondo, ci si trova come individuo e cioè la sua conoscenza, condizione e fulcro del mondo come rappresentazione, è necessariamente condizionata dal corpo, le cui affezioni forniscono all'intelletto il punto di partenza per l'intuizione del mondo medesimo] (Il mondo come volontà e rappresentazione, II, 18)
Da tutto ciò Schopenhauer ricava, per analogia, che se il corpo è oggetto di rappresentazione, tutti gli oggetti di rappresentazione saranno uguali al corpo e che, se il corpo è caratterizzato dalla volontà, tutti gli oggetti possederanno una volontà. Il mondo e l'uomo sono perciò rappresentazione, per quanto riguarda la loro conoscenza, e volontà per quanto riguarda il loro essere.
Da tutto ciò consegue che nell'uomo, come nel mondo, la volontà, anche se sembra libera, è determinata; ogni azione è oggettivazione della volontà. Il finalismo che ritroviamo nella totalità delle azioni è una ricostruzione della nostra ragione e non può per questo essere considerata caratteristica della volontà. La volontà è fuori del principio di ragione, le forme della conoscenza possono solo riguardare le sue oggettivazioni, i suoi fenomeni, in nessun caso la volontà in sé.
L'arte
Se la realtà in sé, la volontà, è cosa del tutto diversa dalla sua manifestazione e se con la ragione noi possiamo capire solo questa manifestazione, come può l'uomo cogliere l'essenza, l'idea? Il passaggio dalla conoscenza comune a quella delle idee può avvenire solo in via eccezionale, quando la nostra conoscenza riesce a liberarsi dal condizionamento della volontà.
Non è la ragione che determina questo passaggio; la conoscenza è condizionata dallo spazio e dal tempo, è legata al cambiamento perché i fenomeni, la volontà, sono il suo contenuto. Per uscire da questi limiti bisogna superare la comprensione razionale e arrivare a una forma di conoscenza che non sia sottoposta al cambiamento: l'arte. Il fine dell'arte infatti è comunicare immediatamente l'essenza del mondo, ciò che l'arte rappresenta non è un fatto o un sentimento determinati, è l'essenza di quel fatto, di quel sentimento: l'arte è 'il sole che rivela il mondo' nell'opera del genio, colui che possiede la conoscenza delle idee e le riproduce nella sua attività.
Dal momento che l'arte è contemplazione di essenze immutabili e eterne ha la capacità di staccare l'uomo dai dolori della vita quotidiana proiettandolo oltre la volontà, al di là di ogni dolore. In questo stato non esiste la felicità o l'infelicità, esiste solo il soggetto puro della conoscenza, 'l'occhio puro del mondo'. La visione unitaria delle pure idee che l'arte consente non annulla il fatto che la natura sia contrasto lotta incessante della volontà per emergere: i sentimenti del bello e del sublime rappresentano i poli di questo contrasto fra i quali agisce il genio artistico. Il sentimento del bello con la commozione che procura è lo strumento di questa liberazione; ma quando la rappresentazione presenta forti contrasti, la lotta fra affermazione e annullamento della volontà e in essa è possibile coglierne l'essenza, abbiamo il sentimento del sublime, attraverso il quale si manifesta nel modo più elevato il doppio carattere della coscienza.
Come le idee sono la rappresentazione di gradi diversi di oggettivazione della volontà che vanno dalla natura all'uomo, così anche le arti hanno una scala gerarchica: dall'architettura, che rappresenta le forze naturali, alla scultura, alla pittura alla poesia, alla tragedia, in cui il contrasto della vita viene espresso in tutta la sua violenza, e infine la musica. La musica è la più alta manifestazione artistica perché, mentre tutte le arti sono in qualche modo rappresentazione delle idee, essa è idea in sé. Se la musica potesse essere spiegata completamente sarebbe filosofia pura.
L'arte tuttavia non offre una liberazione permanente, appena la coscienza percepisce una relazione fra l'oggetto intuito e la volontà, l'incanto finisce e la vita riprende il sopravvento . L'arte quindi non rappresenta una vera liberazione dalla volontà di vivere, ha solo una funzione consolatoria.
La nolontà
La volontà è vita, tensione continua, bisogno di possedere l'oggetto verso cui tende, è perciò mancanza. La vita è dolore: ogni desiderio, finché non viene soddisfatto, è sofferenza, ma la soddisfazione è punto di partenza di un nuovo desiderio e perciò di una nuova sofferenza. Se al soddisfacimento di un desiderio non seguisse un nuovo desiderio, un vuoto insopportabile prenderebbe la coscienza, una noia più insopportabile del dolore stesso.
Quanto più diventa profonda la riflessione, tanto più acuto è il senso di dolore connaturato alla vita. Il piacere, che per tanti aspetti sembra la molla della vita, può venir concepito solo come bisogno soddisfatto, come assenza di dolore; la vita è pertanto solo un perpetuo oscillare fra dolore e noia.
['Volere e aspirare è tutta l'essenza dell'uomo, simile in tutto a una sete inestinguibile. Ma la base di ogni volere è bisogno, mancanza, ossia dolore, a cui l'uomo è vincolato dall'origine, per natura: venendogli invece a mancare oggetti del desiderio, quando questo è eliminato da un troppo facile appagamento, tremendo vuoto e noia l'opprimono: cioè la sua natura e il suo essere medesimo gli diventano un peso intollerabile. La sua vita oscilla quindi come un pendolo, di qua e di là, tra il dolore e la noia, che sono in realtà i suoi veri elementi costitutivi. Tale condizione è espressa singolarmente dal fatto che, dopo che l'uomo ebbe posto nell'inferno tutti i dolori e gli strazi, per il cielo non rimase disponibile altro che la noia'.] (Mondo, 57).
Il problema, dal momento che la gioia è una dimensione irraggiungibile, diventa come superare il dolore, come raggiungere il completo non essere, come negare la vita.
La risposta che si è affacciata nella cultura occidentale, il suicidio, non è la soluzione: è solo soccombere di fronte alla volontà di vivere, è l'esaltazione massima della vita, non la sua negazione. Un'altra risposta viene dalla cultura indiana: col mito della trasmigrazione delle anime insegna a non fermarsi all'esistenza apparente, quella attuale, ma a vivere per quella successiva. Lo stesso insegnamento si ritrova nella cultura buddista che afferma: 'tu raggiungerai il Nirvana, ossia uno stato in cui non sono quattro cose: nascita, età, malattia, morte.' In questi miti orientali c'è una profonda verità filosofica che può aiutare l'uomo occidentale a capire il senso della propria esistenza e il valore supremo dell'assoluto annientamento: la liberazione dal dolore è un compito etico. Il primo atto morale che dalla conoscenza deriva è, dunque, il superamento dell'egoismo che induce l'uomo a soddisfare i propri bisogni ignorando o calpestando gli altri; il superamento dell'egoismo si manifesta così come giustizia.
Non può essere sufficiente il riconoscimento che il dolore individuale è lo stesso in tutti gli uomini; il compito etico che ne deriva è farsi carico della sofferenza universale, riconoscendo che il dolore altrui non è altro dal proprio e sopprimendo ogni distinzione fra sé e gli altri, 'ogni amore è compassione'.
Compatire, comunque, resta pur sempre un 'patire'; farsi carico della sofferenza universale non è negare la volontà. La compassione non è il fine dell'azione morale, è solo uno strumento attraverso la quale il dolore universale viene riconosciuto e compreso come necessità fondamentale; la colpa ha determinato l'affermarsi della volontà e richiede pertanto una pena, il dolore appunto, che sotto questo profilo si manifesta come necessità etica.
Chi perviene a tale livello di conoscenza, non può più accettare la vita, detesta i suoi piaceri che vede come catene che avvincono al dolore; nei confronti della vita può solo provare indifferenza assoluta. Questo nuovo livello etico richiede la negazione radicale della volontà di vivere, è ascesi.
Castità, povertà, digiuno, sacrificio e, infine, morte sono le tappe di questa negazione della volontà di vivere. La morte si raggiunge negando ogni momento in cui la volontà può affermarsi; la morte è la soppressione completa di ogni desiderio, la quiete dell'animo che rende desiderabile la dissoluzione del corpo, è l'assorbimento di se stessi nel Nulla, è Nolontà.
Quel che rimane dopo la soppressione completa della volontà è certamente il nulla, per tutti coloro che sono ancora pieni della volontà di vivere.
Ma per gli altri in cui la volontà si è distolta da se stessa e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee è, esso, il nulla.] (Il mondo come volontà e rappresentazione)
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