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Da' colli Euganei, 11 Ottobre 1797
Il sacrificio della patria non è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia. Il mio nome è nella lista di proscrizione, lo so: ma vuoi tu ch'io per salvarmi da chi m'opprime mi commetta a chi mi ha tradito? Consola mia madre: vinto dalle sue lagrime le ho obbedito, e ho lasciato Venezia per evitare le prime persecuzioni, e le più feroci. Or dovrò io abbandonare anche questa mia solitudine antica, dove, senza perdere dagli occhi il mio sciagurato paese, posso ancora sperare qualche giorno di pace? Tu mi fai raccapricciare, Lorenzo; quanti sono dunque gli sventurati? E noi, purtroppo, noi stessi italiani ci laviamo le mani nel sangue degl'italiani. Per me segua che può. Poiché ho disperato e della mia patria e di me, aspetto tranquillamente la prigione e la morte. Il mio cadavere almeno non cadrà fra le braccia straniere; il mio nome sarà sommessamente compianto da' pochi uomini, compagni delle nostre miserie; e le mie ossa poseranno su la terra de' miei padri.
13 Ottobre
Ti scongiuro, Lorenzo; non ribattere più. Ho deliberato di non
allontanarmi da questi colli. È vero ch'io aveva promesso a mia madre di
rifuggirmi in qualche altro paese; ma non mi è bastato il cuore: e mi
perdonerà, spero. Merita poi questa vita di essere conservata con la viltà, e
con l'esilio? Oh quanti de' nostri concittadini gemeranno pentiti, lontani
dalle loro case! perché, e che potremmo aspettarci noi se non se indigenza e
disprezzo; o al più, breve e sterile compassione, solo conforto che le nazioni
incivilite offrono al profugo straniero? Ma dove cercherò asilo? in Italia?
terra prostituita premio sempre della vittoria. Potrò io vedermi dinanzi agli
occhi coloro che ci hanno spogliati, derisi, venduti, e non piangere d'ira?
Devastatori de' popoli, si servono della libertà come i Papi si servivano delle
crociate. Ahi! sovente disperando di vendicarmi mi caccerei un coltello nel
cuore per versare tutto il mio sangue fra le ultime strida della mia patria.
E questi altri? - hanno comperato la nostra schiavitù, racquistando con l'oro
quello che stolidamente e vilmente hanno perduto con le armi. - Davvero ch'io
somiglio un di que' malavventurati che spacciati morti furono sepolti vivi, e
che poi rinvenuti, si sono trovati nel sepolcro fra le tenebre e gli scheletri,
certi di vivere, ma disperati del dolce lume della vita, e costretti a morire
fra le bestemmie e la fame. E perché farci vedere e sentire la libertà, e poi
ritorcerla per sempre? e infamemente!
16 Ottobre
Or via, non se ne parli più: la burrasca pare abbonacciata; se
tornerà il pericolo, rassicurati, tenterò ogni via di scamparne. Del resto io
vivo tranquillo; per quanto si può tranquillo. Non vedo persona del mondo: vo
sempre vagando per la campagna; ma a dirti il vero penso, e mi rodo. Mandami
qualche libro.
Che fa Lauretta? povera fanciulla! io l'ho lasciata fuori di sé. Bella e giovine
ancora, ha pur inferma la ragione; e il cuore infelice infelicissimo. Io non
l'ho amata; ma fosse compassione o riconoscenza per avere ella scelto me solo
consolatore del suo stato, versandomi nel petto tutta la sua anima e i suoi
errori e i suoi martirj - davvero ch'io l'avrei fatta volentieri compagna di
tutta la mia vita. La sorte non ha voluto; meglio così, forse. Ella amava
Eugenio, e l'è morto fra le braccia. Suo padre e i suoi fratelli hanno dovuto
fuggire la loro patria, e quella povera famiglia destituta di ogni umano
soccorso è restata a vivere, chi sa come! di pianto. Eccoti, o Libertà,
un'altra vittima. Sai ch'io ti scrivo, o Lorenzo, piangendo come un ragazzo? -
pur troppo! ho avuto sempre a che fare con de' tristi; e se alle volte ho
incontrato una persona dabbene ho dovuto sempre compiangerla. Addio, addio.
18 Ottobre
Michele mi ha recato il Plutarco, e te ne ringrazio. Mi disse che con altra occasione m'invierai qualche altro libro; per ora basta. Col divino Plutarco potrò consolarmi de' delitti e delle sciagure dell'umanità volgendo gli occhi ai pochi illustri che quasi primati dell'umano genere sovrastano a tanti secoli e a tante genti. Temo per altro che spogliandoli della magnificenza storica e della riverenza per l'antichità, non avrò assai da lodarmi né degli antichi, né de' moderni, né di me stesso - umana razza!
23 Ottobre
Se m'è dato lo sperare mai pace, l'ho trovata, o Lorenzo. Il
parroco, il medico, e tutti gli oscuri mortali di questo cantuccio della terra
mi conoscono sin da fanciullo e mi amano. Quantunque io viva fuggiasco, mi
vengono tutti d'intorno quasi volessero mansuefare una fiera generosa e
selvatica. Per ora io lascio correre. Veramente non ho avuto tanto bene dagli
uomini da fidarmene così alle prime: ma quel menare la vita del tiranno che
freme e trema d'essere scannato a ogni minuto mi pare un agonizzare in una
morte lenta, obbrobriosa. Io seggo con essi a mezzodì sotto il platano della
chiesa leggendo loro le vite di Licurgo e di Timoleone. Domenica mi s'erano affollati
intorno tutti i contadini, che, quantunque non comprendessero affatto, stavano
ascoltandomi a bocca aperta. Credo che il desiderio di sapere e ridire la
storia de' tempi andati sia figlio del nostro amor proprio che vorrebbe
illudersi e prolungare la vita unendoci agli uomini ed alle cose che non sono
più, e facendole, sto per dire, di nostra proprietà. Ama la immaginazione di
spaziare fra i secoli e di possedere un altro universo. Con che passione un
vecchio lavoratore mi narrava stamattina la vita de' parrochi della villa
viventi nella sua fanciullezza, e mi descriveva i danni della tempesta di
trentasett'anni addietro, e i tempi dell'abbondanza, e quei della fame,
rompendo il filo ogni tanto, ripigliandolo, e scusandosi dell'infedeltà! Così
mi riesce di dimenticarmi ch'io vivo.
È venuto a visitarmi il signore T*** che tu conoscesti a Padova. Mi disse che
spesso gli parlavi di me, e che jer l'altro glien'hai scritto. Anche egli s'è
ridotto in campagna per evitare i primi furori del volgo, quantunque a dir vero
non siasi molto ingerito ne' pubblici affari. Io n'aveva inteso parlare come
d'uomo di colto ingegno e di somma onestà: doti temute in passato, ma adesso
non possedute impunemente. Ha tratto cortese, fisonomia liberale, e parla col
cuore. V'era con lui un tale; credo, lo sposo promesso di sua figlia. Sarà
forse un bravo e buono giovine; ma la sua faccia non dice nulla. Buona notte.
24 Ottobre
L'ho pur una volta afferrato nel collo quel ribaldo contadinello che dava il guasto al nostro orto, tagliando e rompendo tutto quello che non poteva rubare. Egli era sopra un pesco, io sotto una pergola: scavezzava allegramente i rami ancora verdi perché di frutta non ve ne erano più: appena l'ebbi fra le ugne, cominciò a gridare: Misericordia! Mi confessò che da più settimane facea quello sciagurato mestiere perché il fratello dell'ortolano aveva qualche mese addietro rubato un sacco di fave a suo padre. - E tuo padre t'insegna a rubare? - In fede mia, signor mio, fanno tutti così. - L'ho lasciato andare, e scavalcando una siepe io gridava: Ecco la società in miniatura; tutti così.
26 Ottobre
La ho veduta, o Lorenzo, la divina fanciulla; e te ne
ringrazio. La trovai seduta miniando il proprio ritratto. Si rizzò salutandomi
come s'ella mi conoscesse, e ordinò a un servitore che andasse a cercar di suo
padre. Egli non si sperava, mi diss'ella, che voi sareste venuto; sarà per la
campagna; né starà molto a tornare. Una ragazzina le corse fra le ginocchia
dicendole non so che all'orecchio. È un amico di Lorenzo, le rispose Teresa, è
quello che il babbo andò a trovare l'altr'jeri. Tornò frattanto il signor T***:
m'accoglieva famigliarmente, ringraziandomi che io mi fossi sovvenuto di lui.
Teresa intanto, prendendo per mano la sua sorellina, partiva. Vedete, mi
diss'egli, additandomi le sue figliuole che uscivano dalla stanza; eccoci
tutti. Proferì, parmi, queste parole come se volesse farmi sentire che gli
mancava sua moglie. Non la nominò. Si ciarlò lunga pezza. Mentr'io stava per
congedarmi, tornò Teresa: Non siamo tanto lontani, mi disse; venite qualche
sera a veglia con noi.
Io tornava a casa col cuore in festa. - Che? lo spettacolo della bellezza basta
forse ad addormentare in noi tristi mortali tutti i dolori? vedi per me una
sorgente di vita: unica certo, e chi sa! fatale. Ma se io sono predestinato ad
avere l'anima perpetuamente in tempesta, non è tutt'uno?
28 Ottobre
Taci, taci: - vi sono de' giorni ch'io non posso fidarmi di me: un demone mi arde, mi agita, mi divora. Forse io mi reputo molto; ma e' mi pare impossibile che la nostra patria sia così conculcata mentre ci resta ancora una vita. Che facciam noi tutti i giorni vivendo e querelandoci? insomma non parlarmene più, ti scongiuro. Narrandomi le nostre tante miserie mi rinfacci tu forse perché io mi sto qui neghittoso? e non t'avvedi che tu mi strazi fra mille martirj? Oh! se il tiranno fosse uno solo, e i servi fossero meno stupidi, la mia mano basterebbe. Ma chi mi biasima or di viltà, m'accuserebbe allor di delitto; e il savio stesso compiangerebbe in me, anziché il consiglio del forte, il furore del forsennato. Che vuoi tu imprendere fra due potenti nazioni che nemiche giurate, feroci, eterne, si collegano soltanto per incepparci? e dove la loro forza non vale, gli uni c'ingannano con l'entusiasmo di libertà, gli altri col fanatismo di religione: e noi tutti guasti dall'antico servaggio e dalla nuova licenza, gemiamo vili schiavi, traditi, affamati, e non provocati mai né dal tradimento, né dalla fame. - Ahi, se potessi, seppellirei la mia casa, i miei più cari e me stesso per non lasciar nulla nulla che potesse inorgoglire costoro della loro onnipotenza e della mia servitù! E' vi furono de' popoli che per non obbedire a' Romani ladroni del mondo, diedero all'incendio le loro case, le loro mogli, i loro figli e sé medesimi, sotterrando fra le gloriose ruine e le ceneri della loro patria la lor sacra indipendenza.
1 Novembre
Io sto bene, bene per ora come un infermo che dorme e non
sente i dolori; e mi passano gl'interi giorni in casa del signore T*** che mi
ama come figliuolo: mi lascio illudere, e l'apparente felicità di quella
famiglia mi sembra reale, e mi sembra anche mia. Se nondimeno non vi fosse
quello sposo, perché davvero - io non odio persona del mondo, ma vi sono
cert'uomini ch'io ho bisogno di vedere soltanto da lontano. - Suo suocero me
n'andava tessendo jer sera un lungo elogio in forma di commendatizia: buono
- esatto - paziente! e niente altro? possedesse queste doti con angelica
perfezione, s'egli avrà il cuore sempre così morto, e quella faccia magistrale
non animata mai né dal sorriso dell'allegria, né dal dolce silenzio della
pietà, sarà per me un di que' rosaj senza fiori che mi fanno temere le spine.
Cos'è l'uomo se tu lo abbandoni alla sola ragione fredda, calcolatrice? scellerato,
e scellerato bassamente. - Del resto, Odoardo sa di musica; giuoca bene a
scacchi; mangia, legge, dorme, passeggia, e tutto con l'oriuolo alla mano; e
non parla con enfasi se non per magnificare tuttavia la sua ricca e scelta
biblioteca. Ma quando egli mi va ripetendo con quella sua voce cattedratica, ricca
e scelta, io sto lì lì per dargli una solenne smentita. Se le umane
frenesie che col nome di scienze e di dottrine si sono iscritte e
stampate in tutti i secoli, e da tutte le genti, si riducessero a un migliajo
di volumi al più, e' mi pare che la presunzione de' mortali non avrebbe da
lagnarsi - e via sempre con queste dissertazioni.
Frattanto ho preso a educare la sorellina di Teresa: le insegno a leggere e a
scrivere. Quand'io sto con lei, la mia fisonomia si va rasserenando, il mio
cuore è più gajo che mai, ed io fo mille ragazzate. Non so perché, tutti i
fanciulli mi vogliono bene. E quella ragazzetta è pur cara! bionda e ricciuta,
occhi azzurri, guance pari alle rose, fresca, candida, paffutella, pare una
Grazia di quattr'anni. Se tu la vedessi corrermi incontro, aggrapparmisi alle
ginocchia, fuggirmi perch'io la siegua, negarmi un bacio e poi improvvisamente
attaccarmi que' suoi labbruzzi alla bocca! Oggi io mi stava su la cima di un
albero a cogliere le frutta: quella creaturina tendeva le braccia, e
balbettando pregavami che per carità non cascassi. Che bell'autunno!
addio Plutarco! sta sempre chiuso sotto il mio braccio. Sono tre giorni ch'io
perdo la mattina a colmare un canestro d'uva e di pesche, ch'io copro di
foglie, avviandomi poi lungo il fiumicello, e giunto alla villa, desto una
famiglia cantando la canzonetta della vendemmia.
12 Novembre
Jeri giorno di festa abbiamo con solennità trapiantato i pini delle vicine collinette sul monte rimpetto la chiesa. Mio padre pure tentava di fecondare quello sterile monticello; ma i cipressi ch'esso vi pose non hanno mai potuto allignare, e i pini sono ancor giovinetti. Assistito io da parecchi lavoratori ho coronato la vetta, onde casca l'acqua, di cinque pioppi, ombreggiando la costa orientale di un folto boschetto che sarà il primo salutato dal Sole quando splendidamente comparirà dalle Cime de' monti. E jeri appunto il Sole più sereno del solito riscaldava l'aria irrigidita dalla nebbia del morente autunno. Le villanelle vennero sul mezzodì co' loro grembiuli di festa intrecciando i giuochi e le danze di canzonette e di brindisi. Tale di esse era la sposa novella, tale la figliuola, e tal altra la innamorata di alcuno de' lavoratori; e tu sai che i nostri contadini sogliono, allorché si trapianta, convertire la fatica in piacere, credendo per antica tradizione de' loro avi e bisavi che senza il giolito de' bicchieri gli alberi non possano mettere salda radice nella terra straniera. - Frattanto io mi vagheggiava nel lontano avvenire un pari giorno di verno quando canuto mi trarrò passo passo sul mio bastoncello a confortarmi a' raggi del Sole, sì caro a' vecchi: salutando, mentre usciranno dalla chiesa, i curvi villani già miei compagni ne' dì che la gioventù rinvigoriva le nostre membra; e compiacendomi delle frutta che, benché tarde, avranno prodotti gli alberi piantati dal padre mio. Conterò allora con fioca voce le nostre umili storie a' miei e a' tuoi nepotini, o a quei di Teresa che mi scherzeranno dattorno. E quando le ossa mie fredde dormiranno sotto quel boschetto alloramai ricco ed ombroso, forse nelle sere d'estate al patetico susurrar delle fronde si uniranno i sospiri degli antichi padri della villa, i quali al suono della campana de' morti pregheranno pace allo spirito dell'uomo dabbene e raccomanderanno la sua memoria ai lor figli. E se talvolta lo stanco mietitore verrà a ristorarsi dall'arsura di giugno, esclamerà guardando la mia fossa: Egli egli innalzò queste fresche ombre ospitali! - O illusioni! e chi non ha patria, come può dire lascierò qua o là le mie ceneri?
O fortunati! e
ciascuno era certo
Della sua sepoltura; ed ancor nullo
Era, per Francia, talamo deserto.
Dante, Paradiso, XV.
20 Novembre
Più volte incominciai questa lettera: ma la faccenda andava
assai per le lunghe; e la bella giornata, la promessa di trovarmi alla villa
per tempo, e la solitudine - ridi? - L'altr'jeri, e jeri mi svegliava
proponendo di scriverti; e senza accorgermi, mi trovava fuori di casa.
Piove, grandina, fulmina: penso di rassegnarmi alla necessità, e di giovarmi di
questa giornata d'inferno, scrivendoti. - Sei o sette giorni addietro s'è iti
in pellegrinaggio. Io ho veduto la Natura più bella che mai. Teresa, suo padre,
Odoardo, la piccola Isabellina, ed io siamo andati a visitare la casa del
Petrarca in Arquà. Arquà è discosto, come tu sai, quattro miglia dalla mia
casa; ma per più accorciare il cammino prendemmo la via dell'erta. S'apriva
appena il più bel giorno d'autunno. Parea che Notte seguìta dalle tenebre e
dalle stelle fuggisse dal Sole, che uscia nel suo immenso splendore dalle nubi
d'oriente, quasi dominatore dell'universo; e l'universo sorridea. Le nuvole
dorate e dipinte a mille colori salivano su la volta dei cielo che tutto sereno
mostrava quasi di schiudersi per diffondere sovra i mortali le cure della
Divinità. Io salutava a ogni passo la famiglia de' fiori e dell'erbe che a poco
a poco alzavano il capo chinato dalla brina. Gli alberi susurrando soavemente,
faceano tremolare contro la luce le gocce trasparenti della rugiada; mentre i
venti dell'aurora rasciugavano il soverchio umore alle piante. Avresti udito
una solenne armonia spandersi confusamente fra le selve, gli augelli, gli
armenti, i fiumi, e le fatiche degli uomini: e intanto spirava l'aria profumata
delle esalazioni che la terra esultante di piacere mandava dalle valli e da'
monti al Sole, ministro maggiore della Natura. - Io compiango lo sciagurato che
può destarsi muto, freddo e guardare tanti beneficj senza sentirsi gli occhi
bagnati dalle lagrime della riconoscenza. Allora ho veduto Teresa nel più
bell'apparato delle sue grazie. Il suo aspetto per lo più sparso di una dolce
malinconia, si andava animando di una gioja schietta, viva, che le usciva dal
cuore; la sua voce era soffocata; i suoi grandi occhi neri aperti prima
nell'estasi, si inumidivano poscia a poco a poco: tutte le sue potenze parevano
invase dalla sacra beltà della campagna. In tanta piena di affetti le anime si
schiudono per versarli nell'altrui petto: ed ella si volgeva a Odoardo. Eterno
Iddio! parea ch'egli andasse tentone fra le tenebre della notte, o ne' deserti
abbandonati dalla benedizione della Natura. Lo lasciò tutto a un tratto, e
s'appoggiò al mio braccio, dicendomi - ma, Lorenzo! per quanto mi studi di
continuare, conviene pur ch'io mi taccia. Se potessi dipingerti la sua
pronunzia, i suoi gesti, la melodia della sua voce, la sua celeste fisonomia, o
ricopiar non foss'altro le sue parole senza cangiarne o traslocarne sillaba,
certo che tu mi sapresti grado; diversamente, rincresco persino a me stesso.
Che giova copiare imperfettamente un inimitabile quadro, la cui fama soltanto
lascia più senso che la sua misera copia? E non ti pare ch'io somigli i poeti
traduttori d'Omero? Giacché tu vedi ch'io non mi affatico, che per annacquare
il sentimento che m'infiamma e stemprarlo in un languido fraseggiamento.
Lorenzo, ne sono stanco; il rimanente del mio racconto, domani: il vento
imperversa; tuttavolta vo' tentare il cammino; saluterò Teresa in tuo nome.
Per dio! e' m'è forza di proseguire la lettera: su l'uscio della casa ci è un
pantano d'acqua che mi contrasta il passo: potrei varcarlo d'un salto; e poi?
la pioggia non cessa: mezzogiorno è passato, e mancano poche ore alla notte che
minaccia la fine del mondo. Per oggi, giorno perduto, o Teresa. -
Non sono felice! mi disse Teresa; e con questa parola mi strappò il cuore. Io
camminava al suo fianco in un profondo silenzio. Odoardo raggiunse il padre di
Teresa; e ci precedevano chiacchierando. La lsabellina ci tenea dietro in
braccio all'ortolano. Non sono felice! - io aveva concepito tutto il
terribile significato di queste parole, e gemeva dentro l'anima, veggendomi
innanzi la vittima che doveva sacrificarsi a' pregiudizi ed all'interesse.
Teresa, avvedutasi della mia taciturnità, cambiò voce, e tentò di sorridere:
Qualche cara memoria, mi diss'ella - ma chinò subito gli occhi - Io non
m'attentai di rispondere.
Eravamo già presso ad Arquà, e scendendo per l'erboso pendio, andavano sfumando
e perdendosi all'occhio i paeselli che dianzi si vedeano dispersi per le valli
soggette. Ci siamo finalmente trovati a un viale cinto da un lato di pioppi che
tremolando lasciavano cadere sul nostro capo le foglie più giallicce, e
adombrato dall'altra parte d'altissime querce, che con la loro opacità
silenziosa faceano contrapposto a quell'ameno verde de' pioppi. Tratto tratto
le due file d'alberi opposti erano congiunte da varij rami di vite selvatica, i
quali incurvandosi formavano altrettanti festoni mollemente agitati dal vento
del mattino. Teresa allora soffermandosi e guardando d'intorno: Oh quante
volte, proruppe, mi sono adagiata su queste erbe e sotto l'ombra freschissima
di queste querce! io ci veniva sovente la state passata con mia madre. Tacque e
si rivoltò addietro dicendo di volere aspettare la Isabellina che si era un po'
dilungata da noi; ma io sospettai ch'ella m'avesse lasciato per nascondere le
lagrime che le innondavano gli occhi, e che forse non poteva più rattenere. Ma,
e perché, le diss'io, perché mai non è qui vostra madre? - Da più settimane
vive in Padova con sua sorella; vive divisa da noi e forse per sempre! Mio
padre l'amava: ma da ch'ei s'è pur ostinato a volermi dare un marito ch'io non
posso amare, la concordia è sparita dalla nostra famiglia. La povera madre mia
dopo d'avere contraddetto invano a questo matrimonio, s'è allontanata per non
aver parte alla mia necessaria infelicità. Io intanto sono abbandonata da
tutti! ho promesso a mio padre, e non voglio disubbidirlo - ma e mi duole ancor
più, che per mia cagione la nostra famiglia sia così disunita - per me,
pazienza! - E a questa parola, le lagrime le piovevano dagli occhi. Perdonate,
soggiunse, io aveva bisogno di sfogare questo mio cuore angosciato. Non posso
né scrivere a mia madre né avere sue lettere mai. Mio padre fiero e assoluto
nelle sue risoluzioni non vuole sentirsela nominare; egli mi va tuttavia
replicando, che la è la sua e la mia peggiore nemica. Pur sento che non amo,
non amerò mai questo sposo col quale è già decretato - immagina, o
Lorenzo, in quel momento il mio stato. Io non sapeva né confortarla, né
risponderle, né consigliarla. Per carità, ripigliò, non v'affliggete, ve ne
scongiuro: io mi sono fidata di voi: il bisogno di trovare chi sia capace di
compiangermi - una simpatia - non ho che voi solo. - O angelo! sì sì! potessi
io piangere per sempre, e rasciugare così le tue lagrime! questa mia misera
vita è tua, tutta: io te la consacro; e la consacro alla tua felicità!
Quanti guai, mio Lorenzo, in una sola famiglia! Vedi ostinazione nel signore
T*** che d'altronde è un ottimo galantuomo. Ama svisceratamente sua figlia;
spesso la loda e la guarda con compiacenza; e intanto le tiene la mannaja sul
collo. Teresa qualche giorno dopo mi raccontò, com'ei dotato d'un'anima ardente
visse sempre consumato da passioni infelici; sbilanciato nella sua domestica
economia per troppa magnificenza; perseguitato da quegli uomini che nelle
rivoluzioni piantano la propria fortuna su l'altrui rovina, e tremante pe' suoi
figliuoli, crede di provvedere allo stato di casa sua imparentandosi a un uomo
di senno, ricco, e in aspettativa di una eredità ragguardevole - forse, o
Lorenzo, anche per certo fumo; ed io vorrei scommettere cento contr'uno ch'ei
non lascierebbe in isposa la sua figliuola a chi mancasse mezzo quarto di
nobiltà: chi nasce patrizio muore patrizio. Tanto più che egli considera
l'opposizione di sua moglie come una lesione alla propria autorità, e questo
sentimento tirannesco lo rende ancor più inflessibile. E nondimeno è di ottimo cuore;
e quella sua aria sincera, e quell'accarezzare sempre la sua figliuola e alcuna
volta compiangerla sommessamente, mostrano ch'ei vede gemendo la dolorosa
rassegnazione di quella povera fanciulla, ma - E per questo quand'io veggo come
gli uomini cercano per una certa fatalità le sciagure con la lanterna, e come
vegliano, sudano, piangono per fabbricarsele dolorosissime, eterne; io mi
sparpaglierei le cervella temendo che non mi si cacciasse per capo una simile
tentazione.
Ti lascio, o Lorenzo; Michele mi chiama a desinare: tornerò a scriverti,
s'altro non posso, a momenti.
Il mal tempo s'è diradato, e fa il più bel dopo pranzo del
mondo. Il Sole squarcia finalmente le nubi, e consola la mesta Natura,
diffondendo su la faccia di lei un suo raggio. Ti scrivo di rimpetto al balcone
donde miro la eterna luce che si va a poco a poco perdendo nell'estremo
orizzonte tutto raggiante di fuoco. L'aria torna tranquilla; e la campagna,
benché allagata, e coronata soltanto d'alberi già sfrondati e cospersa di piante
atterrate pare più allegra che la non era prima della tempesta. Così, o
Lorenzo, lo sfortunato si scuote dalle funeste sue cure al solo barlume della
speranza, e inganna la sua trista ventura, con que' piaceri a' quali era
affatto insensibile in grembo alla cieca prosperità. - Frattanto il dì
m'abbandona: odo la campana della sera; eccomi dunque a dar fine una volta alla
mia narrazione.
Noi proseguimmo il nostro breve pellegrinaggio fino a che ci apparve
biancheggiar dalla lunga la casetta che un tempo accoglieva
Quel Grande alla cui
fama è angusto il mondo,
Per cui Laura ebbe in terra onor celesti.
Io mi vi sono appressato come se andassi a
prostrarmi su le sepolture de' miei padri, e come uno di que' sacerdoti che
taciti e riverenti s'aggiravano per li boschi abitati dagl'Iddii. La sacra casa
di quel sommo italiano sta crollando per la irreligione di chi possiede un
tanto tesoro. Il viaggiatore verrà invano di lontana terra a cercare con
meraviglia divota la stanza armoniosa ancora dei canti celesti del Petrarca.
Piangerà invece sopra un mucchio di ruine coperto di ortiche e di erbe
selvatiche fra le quali la volpe solitaria avrà fatto il suo covile. Italia!
placa l'ombre de' tuoi grandi. - Oh! io mi risovvengo col gemito nell'anima,
delle estreme parole di Torquato Tasso. Dopo d'essere vissuto quaranta sette
anni in mezzo a' dileggi de' cortigiani, le noje de' saccenti, e l'orgoglio de'
principi, or carcerato ed or vagabondo, e tuttavia melancolico, infermo,
indigente; giacque finalmente nel letto della morte e scriveva esalando
l'eterno sospiro: Io non mi voglio dolere della malignità della fortuna, per
non dire della ingratitudine degli uomini, la quale ha pur voluto aver la
vittoria di condurmi alla sepoltura mendico. O mio Lorenzo, mi suonano
queste parole sempre nel cuore! e' mi par di conoscere chi forse un giorno
morrà ripetendole.
Frattanto io recitava sommessamente con l'anima tutta amore e armonia la
canzone: Chiare, fresche, dolci acque; e l'altra: Di pensier in
pensier, di monte in monte; e il sonetto: Stiamo, Amore, a veder la
gloria nostra; e quanti altri di que' sovrumani versi la mia memoria
agitata seppe allora suggerire al mio cuore.
Teresa e suo padre se n'erano iti con Odoardo il quale andava a rivedere i
conti al fattore d'una tenuta ch'egli ha in que' dintorni. Ho poi saputo ch'e'
sta sulle mosse per Roma, stante la morte di un suo cugino; né si sbrigherà
così in fretta, perché essendosi gli altri parenti impadroniti de' beni del
morto, l'affare si ridurrà a' tribunali.
Come tornarono, quella famigliuola d'agricoltori ci allestì da colazione, dopo
di che ci siamo avviati verso casa. Addio, addio. Avrei a narrarti delle altre
cose; ma, a dirti il vero, ti scrivo svogliatamente. - Appunto: mi dimenticava
di dirti che, ritornando, Odoardo accompagnò a passo a passo Teresa e le parlò
lungamente quasi importunandola e con un'aria di volto autorevole. Da alcune
poche parole che mi venne fatto d'intendere, sospetto ch'egli la torturasse per
sapere a ogni patto di che abbiamo parlato. Onde tu vedi ch'io devo diradar le
mie visite - almeno finch'ei si parta.
Buona notte, Lorenzo. Serbati questa lettera: quando Odoardo si porterà seco la
felicità, ed io non vedrò più Teresa, né più scherzerà su queste ginocchia la
sua ingenua sorellina, in que' giorni di noja ne' quali ci è caro perfino il
dolore, rileggeremo queste memorie sdrajati su l'erba che guarda la solitudine
d'Arquà, nell'ora che il dì va mancando. La rimembranza che Teresa fu nostra
amica rasciugherà il nostro pianto. Facciamo tesoro di sentimenti cari e soavi
i quali ci ridestino per tutti gli anni, che ancora tristi e perseguitati ci
avanzano, la memoria che non siamo sempre vissuti nel dolore.
22 Novembre
Tre giorni, e Odoardo, a dir molto - non sarà qui. Il padre di
Teresa lo accompagnerà sino a' confini. S'era lasciato intendere che m'avrebbe
pregato di far seco questa breve corsa; ma io ne l'ho ringraziato, perché
voglio assolutamente partire: andrò a Padova. Non devo abusare dell'amicizia
del signore T*** e della sua buona fede. - Tenete buona compagnia alle mie
figliuole, mi diceva egli questa mattina. A vedere, egli mi reputa Socrate -
me? e con quell'angelica creatura nata per amare, e per essere amata? e così
misera a un tempo! ed io sono sempre in perfetta armonia con gl'infelici,
perché - davvero - io trovo un non so che di cattivo nell'uomo prospero.
Non so com'ei non s'avvegga ch'io parlando della sua figlia mi confondo e
balbetto; cangio viso e sto come un ladro davanti al giudice. In quel punto io
m'immergo in certe meditazioni, e bestemmierei il cielo veggendo in quest'uomo
tante doti eccellenti, guaste tutte da' suoi pregiudizi e da una cieca
predestinazione che lo faranno piangere amaramente. - Così intanto io divoro i
miei giorni, querelandomi e de' miei propri mali e degli altrui.
Eppure me ne dispiace: - spesso rido di me, perché propriamente questo mio
cuore non può sofferire un momento, un solo momento di calma. Purché io sia
sempre agitato, per lui non rileva se i venti gli spirano avversi o propizj.
Ove gli manchi il piacere, ricorre tosto al dolore. Jeri è venuto Odoardo a
restituirmi uno schioppetto da caccia ch'io gli aveva prestato, e a pigliare il
buon viaggio da me; non ho potuto vederlo partire senza gettarmigli al collo
tuttoché avessi dovuto veramente imitare la sua indifferenza. Non so mai di che
nome voi altri saggi chiamate chi troppo presto ubbidisce al proprio cuore:
perché di certo non è un eroe; ma è forse vile per questo? Coloro che trattano
da deboli gli uomini appassionati somigliano quel medico che chiamava pazzo un
malato non per altro se non perch'era vinto dalla febbre. Così odo i ricchi
tacciare di colpa la povertà, per la sola ragione che non è ricca. A me però
sembra tutto apparenza; nulla di reale, nulla. Gli uomini non potendo per se
stessi acquistare la propria e l'altrui stima, si studiano d'innalzarsi,
paragonando que' difetti che per ventura non hanno, a quelli che ha il loro
vicino. Ma chi non si ubbriaca perché naturalmente odia il vino, merita egli
lode di sobrio?
O tu che disputi pacatamente su le passioni: se le tue fredde mani non
trovassero freddo tutto quello che toccano; se quant'entra nel tuo cuore di
ghiaccio non divenisse tosto gelato; credi tu che andresti così glorioso della
tua severa filosofia? or come puoi ragionare di cose che non conosci?
Per me, lascio che i saggi vantino una infeconda apatia. Ho letto già tempo,
non so in che poeta, che la loro virtù è una massa di ghiaccio che attrae tutto
in se stessa e irrigidisce chi le si accosta. Né Dio sta sempre nella sua
maestosa tranquillità; ma si ravvolge fra gli aquiloni e passeggia con le
procelle.
27 Novembre
Odoardo è partito, ed io me n'andrò quando tornerà il padre di Teresa. Buon giorno.
3 Dicembre
Stamattina io me n'andava un po' per tempo alla villa, ed era
già presso alla casa T***, quando mi ha fermato un lontano tintinnio d'arpa. O!
io mi sento sorridere l'anima, e scorrere in tutto me quanta mai voluttà allora
m'infondeva quel suono. Era Teresa - come poss'io immaginarti, o celeste
fanciulla, e chiamarti dinanzi a me in tutta la tua bellezza, senza la
disperazione nel cuore! Pur troppo! tu cominci a gustare i primi sorsi
dell'amaro calice della vita, ed io con questi occhi ti vedrò infelice, né
potrò sollevarti se non piangendo! io; io stesso ti dovrò per pietà consigliare
a pacificarti con la tua sciagura.
Certo ch'io non potrei né asserire né negare a me stesso ch'io l'amo; ma se
mai, se mai! - in verità non d'altro che di un amore incapace di un solo
pensiero: Dio lo sa! -
Io mi fermava, lì lì, senza batter palpebra, con gli occhi, le orecchie, e i
sensi tutti intenti per divinizzarmi in quel luogo dove l'altrui vista non mi
avrebbe costretto ad arrossire de' miei rapimenti. Ora ponti nel mio cuore,
quand'io udiva cantar da Teresa quelle strofette di Saffo tradotte alla meglio
da me con le altre due odi, unici avanzi delle poesie di quella amorosa
fanciulla, immortale quanto le Muse. Balzando d'un salto, ho trovato Teresa nel
suo gabinetto su quella sedia stessa ove io la vidi il primo giorno, quand'ella
dipingeva il proprio ritratto. Era neglettamente vestita di bianco; il tesoro
delle sue chiome biondissime diffuse su le spalle e sul petto, i suoi divini
occhi nuotanti nel piacere, il suo viso sparso di un soave languore, il suo
braccio di rose, il suo piede, le sue dita arpeggianti mollemente, tutto tutto
era armonia: ed io sentiva una nuova delizia nel contemplarla. Bensì Teresa
parea confusa, veggendosi d'improvviso un uomo che la mirava così discinta, ed
io stesso cominciava dentro di me a rimproverarmi d'importunità e di villania:
essa tuttavia proseguiva ed io sbandiva tutt'altro desiderio, tranne quello di
adorarla, e di udirla. Io non so dirti, mio caro, in quale stato allora io mi
fossi: so bene ch'io non sentiva più il peso di questa vita mortale.
S'alzò sorridendo e mi lasciò solo. Allora io rinveniva a poco a poco: mi sono
appoggiato col capo su quell'arpa e il mio viso si andava bagnando di lagrime -
oh! mi sono sentito un po' libero.
Padova, 7 Dicembre
Non lo vo' dire; pur temo assai non tu m'abbia pigliato in parola e ti sia maneggiato a tutto potere per cacciarmi dal mio dolce romitorio. Jeri mi sopravvenne Michele a darmi avviso da parte di mia madre ch'era già allestito l'alloggio in Padova dov'io aveva detto altra volta (davvero appena me ne sovviene) di volermi ridurre al riaprirsi della università. Vero è ch'io avea fatto sacramento di venirci; e te n'ho scritto; ma aspettava il signore T*** - non per anche tornato. Del resto, ho fatto bene a cogliere il punto della mia vocazione, e ho abbandonato i miei colli senza dire addio ad anima vivente. Diversamente, malgrado le tue prediche e i miei proponimenti, non mi sarei partito mai più: e ti confesso ch'io mi sento un certo che d'amaro nel cuore, e che spesso mi salta la tentazione di ritornarvi - or via in somma, vedimi in Padova: e presto a diventar sapientone, acciocché tu non vada tuttavia predicando ch'io mi perdo in pazzie. Per altro bado di non volermiti opporre quando mi verrà voglia d'andarmene; perché tu sai ch'io sono nato espressamente inetto a certe cose, massime quando si tratta di vivere con quel metodo di vita ch'esigono gli studj, a spese della mia pace e del mio libero genio, o di' pure, ch'io tel perdono, del mio capriccio. Frattanto ringrazia mia madre, e per minorarle il dispiacere, fa di pronosticarle, così come se la cosa venisse da te, ch'io qui non troverò lunga stanza per più d'un mese, o poco più.
Padova, 11 Dicembre
Ho conosciuto la moglie del patrizio M*** che abbandona i tumulti di Venezia e la casa del suo indolente marito per godersi gran parte dell'anno in Padova. Peccato! la sua giovane bellezza ha già perduto quella vereconda ingenuità che sola diffonde le grazie e l'amore. Dotta assai nella donnesca galanteria, si studia di piacere non per altro che per conquistare; così almeno giudico. Tuttavolta, chi sa! Ella sta con me volentieri, e mormora meco sottovoce sovente, e sorride quando la lodo; tanto più ch'ella non si pasce come le altre di quell'ambrosia di freddure chiamate be' motti, e frizzi di spirito, indizj sempre d'animo nato maligno. Ora sappi che jer sera accostando la sua sedia alla mia, mi parlò d'alcuni miei versi, e innoltrando di mano in mano a ciarlare di sì fatte inezie, non so come, nominai certo libro di cui ella mi richiese. Promisi di recarglielo io stamattina; addio - s'avvicina l'ora.
Ore 2
Il paggio m'additò un gabinetto ove innoltratomi appena, mi si
fe' incontro una donna di forse trentacinque anni leggiadramente vestita, e
ch'io non avrei presa mai per cameriera se non mi si fosse appalesata ella
stessa, dicendomi - La padrona è a letto ancora: a momenti uscirà. Un
campanello la fe' correre nella stanza contigua ov'era il talamo della Dea, ed
io rimasi a scaldarmi al caminetto, considerando ora una Danae dipinta sul
soffitto, ora le stampe di cui le pareti erano tutte coperte, ed ora alcuni
romanzi francesi gittati qua e là. In questa le porte si schiusero, ed io
sentiva l'aere d'improvviso odorato di mille quintessenze, e vedeva madama
tutta molle e rugiadosa entrarsene presta presta e quasi intirizzita di freddo,
e abbandonarsi sovra una sedia d'appoggio che la cameriera le preparò presso al
fuoco. Mi salutava più con le occhiate, che con la persona - e mi chiedea
sorridendo s'io m'era dimenticato della promessa. Io frattanto le porgeva il
libro osservando con meraviglia ch'ella non era vestita che di una lunga e rada
camicia la quale non essendo allacciata radeva quasi il tappeto, lasciando
ignude le spalle e il petto ch'era per altro voluttuosamente difeso da una
candida pelle in cui ella stavasi involta. I suoi capelli benché imprigionati
da un pettine, accusavano il sonno recente; perché alcune ciocche posavano i
loro ricci or sul collo, or fin dentro il seno, quasi che quelle picciole liste
nerissime dovessero servire agli occhi inesperti di guida; ed altre calando giù
dalla fronte le ingombravano le pupille; essa frattanto alzava le dita per
diradarle e talvolta per avvolgerle e rassettarle meglio nel pettine, mostrando
in questo modo, forse sopra pensiero, un braccio bianchissimo e tondeggiante
scoperto dalla camicia che nell'alzarsi della mano cascava fin'oltre il gomito.
Posando sopra un piccolo trono di guanciali si volgeva con compiacenza al suo
cagnuolino che le si accostava e fuggiva e correva torcendo il dosso e
scuotendo le orecchie e la coda. Io mi posi a sedere sopra una seggiola
avvicinata dalla cameriera che si era già dileguata. Quell'adulatrice bestiuola
schiattiva, e mordendole e scompigliandole, quasi avesse intenzione, con le
zampine gli orli della camicia, lasciava apparire una gentile pianella di seta
rosa-languida, e poco dopo un picciolo piede, o Lorenzo, simile a quello che
l'Albano dipingerebbe a una Grazia ch'esce dal bagno. O! se tu avessi, com'io,
veduto Teresa nell'atteggiamento medesimo, presso un focolare, anch'ella appena
balzata di letto, così discinta, così - chiamandomi a mente quel fortunato
mattino mi ricordo che non avrei osato respirar l'aria che la circondava, e
tutti tutti i miei pensieri si univano riverenti e paurosi soltanto per
adorarla - e certo un genio benefico mi presentò la immagine di Teresa;
perch'io, non so come, ebbi l'arte di guardare con un rattenuto sorriso il
cagnuolino, e la bella, poi il cagnuolino, e di bel nuovo il tappeto ove posava
il bel piede; ma il bel piede era intanto sparito. M'alzai chiedendole perdono
ch'io fossi venuto fuor d'ora; e la lasciai quasi pentita - certo; di gaja e
cortese si fe' un po' contegnosa - del resto non so. Quando fui solo, la mia
ragione, che è in perpetua lite con questo mio cuore, mi andava dicendo:
Infelice! temi soltanto di quella beltà che partecipa del celeste: prendi
dunque partito, e non ritrarre le labbra dal contravveleno che la fortuna ti
porge. Lodai la ragione; ma il cuore aveva già fatto a suo modo. - T'accorgerai
che questa lettera la è ricopiata, perch'io ho voluto sfoggiare lo bello
stile.
O! la canzoncina di Saffo! io vado canticchiandola scrivendo, passeggiando,
leggendo: né così io vaneggiava, o Teresa, quando non mi era conteso di poterti
vedere e udire: pazienza! undici miglia ed eccomi a casa; e poi altre due; e
poi? - Quante volte mi sarei fuggito da questa terra se il timore di non essere
dalle mie disavventure strascinato troppo lontano da te, non mi trattenesse in
tanto pericolo? qui siamo almeno sotto lo stesso cielo.
P.S. Ricevo in questo momento tue lettere - e torna, Lorenzo! la è pure la
quinta volta che tu mi tratti da innamorato: innamorato sì, e che perciò? Ho
veduto di molti innamorarsi della Venere Medicea, della Psiche, e perfin della
Luna o di qualche stella lor favorita. E tu stesso non eri talmente entusiasta
di Saffo, che pretendevi ravvisarne il ritratto nella più bella donna che tu
conoscessi, trattando da maligni e ignoranti coloro che la dipingono piccola,
bruna, e bruttina anzi che no?
Fuor di scherzo: conosco d'essere un cervello bizzarro, e stravagante
fors'anche; ma dovrò perciò vergognarmi? di che? - da più dì tu mi vuoi cacciar
per la testa il grillo di arrossire: ma, salva la tua grazia, io non so, né
posso, né devo arrossire di cosa alcuna rispetto a Teresa, né pentirmi, né
dolermi. - E viviti lieto.
Padova
Di questa lettera si sono smarrite due carte dove Jacopo narrava certo dispiacere a cui per la sua natura veemente e pe' suoi modi assai schietti andò incontro. L'editore, propostosi di pubblicare religiosamente l'autografo, crede acconcio d'inserire ciò che di tutta la lettera gli rimane, tanto più che da questo si può quasi desumere quello che manca.
manca la prima carta
riconoscente de' beneficj, sono riconoscentissimo anche delle ingiurie; e
nondimeno tu sai quante volte io le ho perdonate: ho beneficato chi mi ha
offeso; e talora ho compianto chi mi ha tradito. Ma le piaghe fatte al mio
onore, Lorenzo! - doveano essere vendicate. Io non so che ti abbiano scritto,
né ho cura di saperlo. Ma quando mi s'affacciò quello sciagurato, quantunque da
tre anni quasi io non lo rivedeva, m'intesi ardere tutte le membra; eppur mi
contenni. Ma doveva egli con nuovi frizzi inasprire l'antico mio sdegno? Io
ruggiva quel giorno come un leone, e mi pareva che l'avrei sbranato, anche se
l'avessi trovato nel santuario.
Due giorni dopo, il codardo scansò le vie dell'onore, ch'io gli aveva esibite;
e tutti gridavano la crociata contro di me, come s'io avessi dovuto
tranguggiarmi pacificamente una ingiuria da colui, che ne' tempi addietro mi
aveva mangiato la metà del cuore. Questa galante gentaglia affetta generosità,
perché non ha coraggio di vendicarsi a visiera alzata; ma chi vedesse i
notturni pugnali, e le calunnie, e le brighe! - E dall'altra parte io non l'ho
soperchiato. Gli dissi: Voi avete braccia, e petto al pari di me, ed io sono
mortale come voi. Ei pianse, e gridò; ed allora la ira, quella furia mia
dominatrice, cominciò ad ammansarsi, perché dall'avvilimento di lui mi accorsi
che il coraggio non deve dare diritto per opprimere il debole. Ma deve per
questo il debole provocare chi sa trarne vendetta? Credimi: ci vuole una
stupida bassezza o una sovrumana filosofia per lasciarsi a beneplacito d'un
nemico che ha faccia impudente, anima negra, e mano tremante.
Frattanto l'occasione mi ha smascherato tutti que' signorotti, che mi giuravano
sviscerata amicizia; che ad ogni mia parola faceano le meraviglie; e che ad
ogni ora mi proferivano la loro borsa e il lor cuore. Sepolture! bei marmi, e
pomposi epitaffi: ma schiudili, vi trovi vermi e fetore. Pare a te, mio
Lorenzo, che se l'avversità ci riducesse a domandar del pane, vi sarebbe taluno
memore delle sue promesse? o nessuno, o qualche astuto soltanto, che co' suoi
beneficj vorrebbe comperare il nostro avvilimento. Amici da bonaccia, nelle
burrasche ti annegano. Per costoro tutto è calcolo in fondo. Onde se v'ha
taluno nelle cui viscere fremano le generose passioni, o le deve strozzare, o
rifuggirsi come le aquile e le fiere magnanime ne' monti inaccessibili e nelle
foreste lungi dalla invidia e dalla vendetta degli uomini. Le sublimi anime
passeggiano sopra le teste della moltitudine che oltraggiata dalla loro
grandezza tenta d'incatenarle o di deriderle, e chiama pazzie le azioni ch'essa
immersa nel fango non può, non che ammirare, conoscere. - Io non parlo di me;
ma quand'io ripenso agli ostacoli che frappone la società al genio ed al cuore
dell'uomo, e come ne' governi licenziosi o tirannici tutto è briga, interesse e
calunnia - io m'inginocchio a ringraziar la Natura che dotandomi di questa
indole, nemica di ogni servitù, mi ha fatto vincere la fortuna e mi ha
insegnato a innnalzarmi sopra la mia educazione. So che la prima, sola, vera
scienza è questa dell'uomo la quale non si può studiare nella solitudine, e ne'
libri: e so che ognuno dee prevalersi della propria fortuna, o dell'altrui per
camminare con qualche sostegno su i precipizj della vita. Sia: per me, pavento
d'essere ingannato da chi saprebbe ammaestrarmi, precipitato da quella stessa fortuna
che potrebbe innalzarmi; e battuto dalla mano che avrebbe tanto vigore da
sostenermi
manca un'altra carta
s'io fossi nuovo: ma ho sentito fieramente tutte le passioni, né potrei
vantarmi intatto da tutti i vizj. È vero, che nessun vizio mi ha vinto mai, e
ch'io in questo terrestre pellegrinaggio sono d'improvviso trapassato dai
giardini ai deserti: ma insieme confesso che i miei ravvedimenti nacquero da un
certo sdegno orgoglioso, e dalla disperazione di trovare la gloria e la
felicità a cui da' primi anni io agognava. S'io avessi venduta la fede,
rinnegata la verità, trafficato il mio ingegno, credi tu ch'io non vivrei più
onorato e tranquillo? Ma gli onori e la tranquillità del mio secolo guasto
meritano forse di essere acquistati col sagrificio dell'anima? Forse più che
l'amore della virtù, il timore della bassezza m'ha rattenuto alle volte da
quelle colpe, che sono rispettate ne' potenti, tollerate ne' più, ma che per
non lasciare senza vittime il simulacro della giustizia sono punite nei miseri.
No; né umana forza, né prepotenza divina mi faranno recitare mai nel teatro del
mondo la parte del piccolo briccone. Per vegliare le notti nel gabinetto delle
belle più illustri, ben io mi so che conviene professare libertinaggio, perché
le vogliono mantenersi in riputazione dove sospettano ancora il pudore. E
taluna m'addottrinò nelle arti della seduzione, e mi confortò al tradimento - e
avrei forse tradito e sedotto; ma il piacere ch'io ne sperava scendeva
amarissimo dentro il mio cuore, il quale non ha saputo mai pacificarsi co'
tempi, o far alleanza con la ragione. E però tu mi udivi assai volte esclamare che
tutto dipende dal cuore! - dal cuore che né gli uomini né il cielo, né i
nostri medesimi interessi possono cangiar mai.
Nella Italia più culta, e in alcune città della Francia ho cercato ansiosamente
il bel mondo ch'io sentiva magnificare con tanta enfasi: ma dappertutto
ho trovato volgo di nobili, volgo di letterati, volgo di belle, e tutti
sciocchi, bassi, maligni; tutti. Mi sono intanto sfuggiti que' pochi che
vivendo negletti fra il popolo o meditando nella solitudine serbano rilevati i
caratteri della loro indole non ancora strofinata. Intanto io correva di qua,
di là, di su, di giù come le anime de' scioperati cacciate da Dante alle porte
dell'inferno, non reputandole degne di starsi fra' perfetti dannati. In tutto
un anno sai tu che raccolsi? ciance, vituperj, e noja mortale. - E qui dond'io
guardava il passato tremando, e mi rassicurava, credendomi in porto, il demonio
mi strascina a sì fatti malanni. - Or tu vedi ch'io debbo drizzar gli occhi
miei al raggio di salute che il Cielo mi ha presentato. Ma ti scongiuro, lascia
andare l'usata predica: Jacopo Jacopo! questa tua indocilità ti fa divenire
misantropo. E' ti pare che se odiassi gli uomini, mi dorrei come fo' de'
lor vizj? tuttavia poiché non so riderne, e temo di rovinare, io stimo migliore
partito la ritirata. E chi mi affida dall'odio di questa razza d'uomini tanto
da me diversa? né giova disputare per iscoprire per chi stia la ragione: non lo
so; né la pretendo tutta per me. Quello che importa, si è (e tu in ciò sei
d'accordo) che questa indole mia altera, salda, leale; o piuttosto ineducata,
caparbia, imprudente, e la religiosa etichetta che veste d'una stessa divisa
tutti gli esterni costumi di costoro, non si confanno; e davvero io non mi
sento in umore di mutar abito. Per me dunque è disperata perfino la tregua,
anz'io sono in aperta guerra, e la sconfitta è imminente; poiché non so neppure
combattere con la maschera della dissimulazione, virtù d'assai credito e
di maggiore profitto. Ve' la gran presunzione! io mi reputo meno brutto degli
altri e sdegno perciò di contraffarmi; anzi buono o reo ch'io mi sia, ho la
generosità, o di' pure la sfrontatezza, di presentarmi nudo, e quasi quasi come
sono uscito dalle mani della Natura. Che se talvolta io dico fra me: Pensi tu
che la verità in bocca tua sia men temeraria? io da ciò ne desumo che sarei
matto se avendo trovato nella mia solitudine la tranquillità de' Beati, i quali
s'imparadisano nella contemplazione del sommo bene, io per non istare a
rischio d'innamorarmi (ecco la tua solita antifona) mi commettessi alla
discrezione di questa ciurma cerimoniosa e maligna.
Padova, 23 Dicembre
Questo scomunicato paese m'addormenta l'anima, nojata della
vita: tu puoi garrirmi a tua posta, in Padova non so che farmi: se tu vedessi
con che faccia sguajata mi sto qui scioperando e durando fatica a incominciarti
questa meschina lettera! - Il padre di Teresa è tornato a' colli e mi ha scritto;
gli ho risposto dandogli avviso che fra non molto ci rivedremo; e mi pare
mill'anni.
Questa università (come saranno, pur troppo, tutte le università della terra!)
è per lo più composta di professori orgogliosi e nemici fra loro, e di scolari
dissipatissimi. Sai tu perché fra la turba de' dotti gli uomini sommi son così
rari? Quello istinto ispirato dall'alto che costituisce il GENIO non vive se
non se nella indipendenza e nella solitudine, quando i tempi vietandogli
d'operare, non gli lasciano che lo scrivere. Nella società si legge molto, non
si medita, e si copia; parlando sempre, si svapora quella bile generosa che fa
sentire, pensare, e scrivere fortemente: per balbettar molte lingue, si
balbetta anche la propria, ridicoli a un tempo agli stranieri e a noi stessi:
dipendenti dagl'interessi, dai pregiudizj, e dai vizj degli uomini fra' quali
si vive, e guidati da una catena di doveri e di bisogni, si commette alla
moltitudine la nostra gloria, e la nostra felicità: si palpa la ricchezza e la
possanza, e si paventa perfino di essere grandi perché la fama aizza i
persecutori, e l'altezza di animo fa sospettare i governi; e i principi
vogliono gli uomini tali da non riescire né eroi, né incliti scellerati mai. E
però chi in tempi schiavi è pagato per istruire, rado o non mai si sacrifica al
vero e al suo sacrosanto istituto; quindi quell'apparato delle lezioni
cattedratiche le quali ti fanno difficile la ragione e sospetta la verità. - Se
non ch'io d'altronde sospetto che gli uomini tutti sieno altrettanti ciechi che
viaggiano al bujo, alcuni de' quali si schiudano le palpebre a fatica
immaginando di distinguere le tenebre fra le quali denno pur camminar
brancolando. Ma questo sia per non detto: e' ci sono certe opinioni che
andrebbero disputate con que' pochi soltanto che guardano le scienze col
sogghigno con che Omero guardava le gagliardie delle rane e de' topi.
A questo proposito: vuoi tu darmi retta una volta? or che Dio mandò il
compratore, vendi in corpo e in anima tutti i miei libri. Che ho da fare di quattro
migliaja e più di volumi ch'io non so né voglio leggere? Preservami que'
pochissimi che tu vedrai ne' margini postillati di mia mano. O come un tempo io
m'affannava profondendo co' librai tutto il mio! ma questa pazzia la non se n'è
ita se non per cedere forse luogo ad un'altra. Il danaro dàllo a mia madre.
Cercando di rifarla di tante spese - io non so come, ma, a dirtela, darei fondo
a un tesoro - questo ripiego mi è sembrato il più spiccio. I tempi diventano
sempre più calamitosi, e non è giusto che quella povera donna meni per me
disagiata la poca vita che ancora le avanza. Addio.
Da' colli Euganei, 3 Gennajo 1798
Perdona; ti credeva più savio. - Il genere umano è questo
branco di ciechi che tu vedi urtarsi, spingersi, battersi, e incontrare o
strascinarsi dietro la inesorabile fatalità. A che dunque seguire, o temere ciò
che ti deve succedere?
M'inganno? l'umana prudenza può rompere questa catena invisibile di casi e
d'infiniti minimi accidenti che noi chiamiamo destino? sia: ma può ella per questo
mettere sicuro lo sguardo fra le ombre dell'avvenire? O! tu nuovamente mi
esorti a fuggire Teresa; e gli è come dirmi: Abbandona ciò che ti fa cara la
vita; trema del male, e t'imbatti nel peggio. Ma poniamo ch'io paventando il
pericolo da prudente, dovessi chiudere l'anima mia a ogni barlume di felicità,
tutta la mia vita non somiglierebbe forse le austere giornate di questa
nebbiosa stagione, le quali ci fanno desiderare di poter non esistere fin tanto
ch'esse rattristano la Natura? Di' il vero, Lorenzo; or non saria meglio che
parte almeno del mattino fosse confortata dal raggio del Sole anche a patti che
la notte si rapisse il dì innanzi sera? Che s'io dovessi far sempre la guardia
a questo mio cuore prepotente, sarei con me stesso in eterna guerra, e senza
pro. Navigherò per perduto, e vada come sa andare. - Intanto io
Sento l'aura mia
antica, e i dolci colli
Veggo apparir!
10 Gennajo
Odoardo spera distrigato il suo affare tra un mese; così scrive: tornerà dunque, a dir tardi, a primavera. - Allora sì, verso ai primi d'Aprile, crederò ragionevole di partirmi.
19 Gennajo
Umana vita? sogno; ingannevole sogno al quale noi pur diam sì
gran prezzo, siccome le donnicciuole ripongono la loro ventura nelle
superstizioni e ne' presagj! Bada; ciò cui tu stendi avidamente la mano è
un'ombra forse, che mentre è a te cara, a tal altro è nojosa. Sta dunque tutta
la mia felicità nella vota apparenza delle cose che ora m'attorniano; e s'io
cerco alcun che di reale, o torno a ingannarmi, o spazio attonito e spaventato
nel nulla! Io non lo so; ma, per me, temo che Natura abbia costituito la nostra
specie quasi minimo anello passivo dell'incomprensibile suo sistema, dotandone
di cotanto amor proprio, perché il sommo timore e la somma speranza creandoci
nella immaginazione una infinita serie di mali e di beni, ci tenessero pur
sempre affannati di questa esistenza breve, dubbia, infelice. E mentre noi
serviamo ciecamente al suo fine, essa ride del nostro orgoglio che ci fa
reputare l'universo creato solo per noi, e noi soli degni e capaci di dar leggi
al creato.
Andava dianzi perdendomi per le campagne, inferrajuolato sino agli occhi,
considerando lo squallore della terra tutta sepolta sotto le nevi, senza erba
né fronda che mi attestasse le sue passate dovizie. Né potevano gli occhi miei
lungamente fissarsi su le spalle de' monti, il vertice de' quali era immerso in
una negra nube di gelida nebbia che piombava ad accrescere il lutto dell'aere
freddo ed ottenebrato. E parevami vedere quelle nevi disciogliersi e precipitare
a torrenti che innondavano il piano, trascinandosi impetuosamente piante,
armenti, capanne, e sterminando in un giorno le fatiche di tanti anni, e le
speranze di tante famiglie. Trapelava di quando in quando un raggio di Sole, il
quale quantunque restasse poi soverchiato dalla caligine, lasciava pur divedere
che sua mercé soltanto il mondo non era dominato da una perpetua notte
profonda. Ed io rivolgendomi a quella parte di cielo che albeggiando manteneva
ancora le tracce del suo splendore: - O Sole, diss'io, tutto cangia quaggiù! E
verrà giorno che Dio ritirerà il suo sguardo da te, e tu pure sarai
trasformato; né più allora le nubi corteggeranno i tuoi raggi cadenti; né più
l'alba inghirlandata di celesti rose verrà cinta di un tuo raggio su l'oriente ad
annunziar che tu sorgi. Godi intanto della tua carriera, che sarà forse
affannosa, e simile a questa dell'uomo; tu 'l vedi; l'uomo non gode de' suoi
giorni; e se talvolta gli è dato di passeggiare per li fiorenti prati d'Aprile,
dee pur sempre temere l'infocato aere dell'estate, e il ghiaccio mortale del
verno.
22 Gennajo
Così va, caro amico: - stavami al focolare del mio castaldo,
dove alcuni villani de' contorni s'adunano a crocchio a scaldarsi, contandosi
le loro novelle e le antiche avventure. Entrò una ragazza scalza, assiderata, e
fattasi all'ortolano, lo richiese della limosina per la povera vecchia. Mentre
la si stava rifocillando al fuoco, esso le preparava due fasci di legna e due
pani bigi. La villanella se li pigliò, e salutandoci, uscì. Usciva io pure, e
senz'avvedermi, la seguitava calcando dietro le sue peste la neve. Giunta a un
mucchio di ghiaccio, si soffermò esaminando con gli occhi un altro sentiero, ed
io raggiungendola: - Andate voi lontano ragazza? - Signor mio, no; un mezzo miglio.
- Pur que' due fasci vi fanno camminare a disagio; lasciatene portare uno anche
a me. - I fasci tanto non mi darebbero noja se me li potessi reggere sulla
spalla con tutte due le braccia; ma questi due pani m'intrigano. - Or via,
porterò i pani. - Non fiatò, e la si fe' tutta rossa, e mi porse i pani ch'io
mi riposi sotto il tabarro. Dopo breve ora entrammo in una capannuccia. Sedeva
in un cantuccio una vecchierella con un caldano fra piedi pieno di brace
smorzata sovra le quali stendeva le palme, appoggiando i polsi su le estremità
de' ginocchi. - Buongiorno, madre. - Buongiorno. - Come state voi, madre? - Né
a questa, né a dieci altre interrogazioni mi fu possibile d'impetrare risposta;
perch'essa attendeva a riscaldarsi le mani, alzando gli occhi di quando in
quando come per vedere se eravamo ancora partiti. Posammo trattanto quelle
poche provvisioni, e la vecchia, senza più guardar noi, le stava considerando
con occhio mobile: e a' nostri saluti e alle promesse di ritornare domani, la
non rispose se non se un'altra volta quasi per forza - Buongiorno.
Ravviandoci verso casa, la villanella mi raccontava, come quella donna ad onta
di forse ottanta anni e più, e di una difficilissima vita, perché talvolta
avveniva che i temporali vietavano a' contadini di recarle la limosina che le
raccoglievano, in guisa che vedevasi sul punto di perire d'inedia, pur
nondimeno tremava tuttavia di morire e borbottava sempre sue preci perché il
cielo la tenesse ancor viva. Ho poi udito dire a' vecchi del contado, che da
molti anni le morì di un'archibugiata il marito dal quale ebbe figliuoli e
figliuole, e poi generi, nuore e nipoti ch'essa vide tutti perire e cascarle
l'un dopo l'altro a' piedi nell'anno memorabile della fame. - Eppur, fratel
mio, né i passati né i presenti mali la uccidono, e si palpa ancora una vita
che nuota sempre in un mar di dolore.
Ahi dunque! tanti affanni assediano la nostra vita, che a mantenerla vuolsi non
meno che un cieco istinto prepotente per cui (quantunque la Natura ci spiani i
mezzi da liberarcene) siamo spesso forzati a comperarla con l'avvilimento, col
pianto, e talvolta ancor col delitto!
17 Marzo
Da due mesi non ti do segno di vita, e tu ti se' sgomentato; e
temi ch'io sia vinto oggimai dall'amore da dimenticarmi di te e della patria.
Fratel mio Lorenzo, tu conosci pur poco me e il cuore umano ed il tuo, se
presumi che il desiderio di patria possa temperarsi mai, non che spegnersi; se
credi che ceda ad altre passioni - ben irrita le altre passioni, e n'è più
irritato; ed è pur vero, e in questo hai detto pur bene! L'amore in un'anima
esulcerata, e dove le altre passioni sono disperate, riesce onnipotente - e
io lo provo; ma che riesca funesto, t'inganni: senza Teresa, io sarei forse
oggi sotterra.
La Natura crea di propria autorità tali ingegni da non poter essere se non
generosi; venti anni addietro sì fatti ingegni si rimanevano inerti ed
assiderati nel sopore universale d'Italia: ma i tempi d'oggi hanno ridestato in
essi le virili e natie loro passioni; ed hanno acquistato tal tempra, che
spezzarli puoi, piegarli non mai. E non è sentenza metafisia questa: la è
verità che splende nella vita di molti antichi mortali gloriosamente infelici:
verità di cui mi sono accertato convivendo fra molti nostri concittadini: e li
compiango insieme e gli ammiro; da che, se Dio non ha pietà dell'Italia,
dovranno chiudere nel loro secreto il desiderio di patria - funestissimo!
perché o strugge, o addolora tutta la vita; e nondimeno anziché abbandonarlo,
avranno cari i pericoli, e quell'angoscia, e la morte. Ed io mi sono uno di
questi; e tu, mio Lorenzo.
Ma s'io scrivessi intorno a quello ch'io vidi, e so delle cose nostre, farei
cosa superflua e crudele ridestando in voi tutti il furore che vorrei pur
sopire dentro di me: piango, credimi, la patria - la piango secretamente, e
desidero,
Che le lagrime mie si spargan sole.
Un'altra specie d'amatori d'Italia si quereli ad altissima voce a sua posta. Esclamano d'essere stati venduti e traditi: ma se si fossero armati sarebbero stati vinti forse, non mai traditi; e se si fossero difesi sino all'ultimo sangue, né i vincitori avrebbero potuto venderli, né i vinti si sarebbero attentati di comperarli. Se non che moltissimi de' nostri presumono che la libertà si possa comperare a danaro; presumono che le nazioni straniere vengano per amore dell'equità a trucidarsi scambievolmente su' nostri campi onde liberare l'Italia! Ma i francesi che hanno fatto parere esecrabile la divina teoria della pubblica libertà, faranno da Timoleoni in pro nostro? - Moltissimi intanto si fidano nel Giovine Eroe nato di sangue italiano; nato dove si parla il nostro idioma. Io da un animo basso e crudele, non m'aspetterò mai cosa utile ed alta per noi. Che importa ch'abbia il vigore e il fremito del leone, se ha la mente volpina, e se ne compiace? Sì; basso e crudele - né gli epiteti sono esagerati. A che non ha egli venduto Venezia con aperta e generosa ferocia? Selim I che fece scannare sul Nilo trenta mila guerrieri Circassi arresisi alla sua fede, e Nadir Schah che nel nostro secolo trucidò trecento mila Indiani, sono più atroci, bensì meno spregevoli. Vidi con gli occhi miei una costituzione democratica postillata dal Giovine Eroe, postillata di mano sua, e mandata da Passeriano a Venezia perché s'accettasse; e il trattato di Campo Formio era già da più giorni firmato e Venezia era trafficata; e la fiducia che l'Eroe nutriva in noi tutti ha riempito l'Italia di proscrizioni, d'emigrazioni, e d'esilii. - Non accuso la ragione di stato che vende come branchi di pecore le nazioni: così fu sempre, e così sarà: piango la patria mia,
Che mi fu tolta, e il modo ancor m'offende.
Nasce italiano, e soccorrerà un giorno alla
patria: - altri sel creda; io risposi, e risponderò
sempre: La Natura lo ha creato tiranno: e il tiranno non guarda a patria; e non
l'ha.
Alcuni altri de' nostri, veggendo le piaghe d'Italia, vanno pur predicando
doversi sanarle co' rimedi estremi necessari alla libertà. Ben è vero, l'Italia
ha preti e frati; non già sacerdoti: perché dove la religione non è inviscerata
nelle leggi e ne' costumi d'un popolo, l'amministrazione del culto è bottega.
L'Italia ha de' titolati quanti ne vuoi; ma non ha propriamente patrizj: da che
i patrizj difendono con una mano la repubblica in guerra, e con l'altra la
governano in pace; e in Italia sommo fasto de' nobili è il non fare e il non
sapere mai nulla. Finalmente abbiamo plebe; non già cittadini; o pochissimi. I
medici, gli avvocati, i professori d'università, i letterati, i ricchi
mercatanti, l'innumerabile schiera degl'impiegati fanno arti gentili essi
dicono, e cittadinesche; non però hanno nerbo e diritto cittadinesco. Chiunque
si guadagna sia pane, sia gemme con l'industria sua personale, e non è padrone
di terre, non è se non parte di plebe; meno misera, non già meno serva. Terra
senza abitatori può stare; popolo senza terra, non mai: quindi i pochi signori
delle terre in Italia, saranno pur sempre dominatori invisibili ed arbitri
della nazione. Or di preti e frati facciamo de' sacerdoti; convertiamo i
titolati in patrizj; i popolani tutti, o molti almeno, in cittadini abbienti, e
possessori di terre - ma badiamo! senza carnificine; senza riforme sacrileghe
di religione; senza fazioni; senza proscrizioni né esilii; senza ajuto e sangue
e depredazioni d'armi straniere; senza divisione di terre; né leggi agrarie; né
rapine di proprietà famigliari - da che se mai (a quanto intesi ed intendo) se
mai questi rimedi necessitassero a liberarne dal nostro infame perpetuo
servaggio, io per me non so cosa mi piglierei - né infamia, né servitù: ma neppur
essere esecutore di sì crudeli e spesso inefficaci rimedi - se non che
all'individuo restano molte vie di salute; non fosse altro il sepolcro: - ma
una nazione non si può sotterrar tuttaquanta. E però, se scrivessi, esorterei
l'Italia a pigliarsi in pace il suo stato presente, e a lasciare alla Francia
la obbrobriosa sciagura di avere svenato tante vittime umane alla Libertà - su
le quali la tirannide de' Cinque, o de' Cinquecento, o di Un solo - torna
tutt'uno - hanno piantato e pianteranno i lor troni; e vacillanti di minuto in
minuto, come tutti i troni che hanno per fondamenta i cadaveri.
Il lungo tempo da che non ti scrivo non è corso perduto per me; credo invece
d'avere guadagnato anche troppo - ma guadagni fatali! Il sigoore T*** ha
moltissimi libri di filosofia politica, e i migliori storici del mondo moderno:
e tra per non volermi trovare assai spesso vicino a Teresa, tra per noja e per
curiosità, due vigili istigatrici del genere umano - mi son fatto mandare que'
libri; e parte n'ho letto, parte ne ho scartabellato, e mi furono tristi
compagni di questa vernata. Certo che più amabile compagnia mi parvero gli
uccelletti i quali cacciati per disperazione dal freddo a cercarsi alimento
vicino alle abitazioni degli uomini loro nemici, si posavano a famiglie e a
tribù sul mio balcone dov'io apparecchiava loro da desinare e da cena - ma
forse ora che va cessando il loro bisogno non mi visiteranno mai più. Intanto
dalle mie lunghe letture ho raccolto: Che il non conoscere gli uomini è pur
cosa pericolosa; ma il conoscerli quando non s'ha cuore da volerli ingannare è
pur cosa funesta! Ho raccolto: Che le molte opinioni de' molti libri, e le
contraddizioni storiche, t'inducono al pirronismo e ti fanno errare nella
confusione, e nel caos, e nel nulla: ond'io, a chi mi stringesse o di sempre
leggere, o di non leggere mai, mi torrei di non leggere mai; e così forse farò.
Ho raccolto: Che abbiamo tutti passioni vane com'è appunto la vanità della
vita; e che nondimeno sì fatta vanità è la sorgente de' nostri errori, del
nostro pianto, e de' nostri delitti.
Pur nondimeno io mi sento rinsanguinare più sempre all'anima questo furore di
patria: e quando penso a Teresa - e se spero - rientro in un subito in me assai
più costernato di prima; e ridico: Quand'anche l'amica mia fosse madre de' miei
figliuoli, i miei figliuoli non avrebbero patria; e la cara campagna della mia
vita se n'accorgerebbe gemendo. - Pur troppo! alle altre passioni che fanno
alle giovinette sentire sull'aurora del loro giorno fuggitivo i dolori, e più
assai alle giovinette italiane, s'è aggiunto questo infelice amore di patria.
Ho sviato il signore T*** da' discorsi di politica, de' quali si appassiona -
sua figlia non apriva mai bocca: ma io pur m'avvedeva come le angosce di suo
padre e le mie si rovesciavano nelle viscere di quella fanciulla. Tu sai che
non è femminetta volgare: e prescindendo anche da' suoi interessi - da che in
altri tempi avrebbero potuto eleggersi altro marito - è dotata d'animo altero,
e di signorili pensieri. E vede quanto m'è grave quest'ozio di oscuro e freddo
egoista in cui logoro tutti i miei giorni - davvero, Lorenzo; anche tacendo, io
paleso che sono misero e vile dinanzi a me stesso. La volontà forte e la
nullità di potere in chi sente una passione politica lo fanno sciaguratissimo
dentro di sé: e se non tace, lo fanno parere ridicolo al mondo; si fa la figura
di paladino da romanzo e d'innamorato impotente della propria città. Quando
Catone s'uccise, un povero patrizio, chiamato Cozio, lo imitò: l'uno fu
ammirato perché aveva prima tentato ogni via a non servire; l'altro fu deriso
perché per amore della libertà non seppe far altro che uccidersi.
Ma qui stando, non foss'altro co' miei pensieri, presso a Teresa - perch'io
regno ancor tanto sopra di me, ch'io lascio passare tre e quattro giorni senza
vederla - pur il solo ricordarmene mi fa provare un foco soave, un lume, una
consolazione di vita - breve forse, ma divina dolcezza - e così mi preservo per
ora dalla assoluta disperazione.
E quando sto seco - ad altri forse nol crederesti, o Lorenzo, a me sì - allora
non le parlo d'amore. È mezz'anno oramai da che l'anima sua s'è affratellata
alla mia, e non ha mai inteso uscire fuor delle mie labbra la certezza ch'io
l'amo. - Ma e come non può esserne certa? - Suo padre giuoca meco a scacchi le
intere serate: essa lavora seduta accanto a quel tavolino, silenziosissima, se
non quanto parlano gli occhi suoi; ma di rado: e chinandosi a un tratto non mi
domandano che pietà. - E qual altra pietà posso mai darle, da questa in fuori
di tenerle, quanto avrò forza, tenerle occulte come più potrò tutte le mie
passioni? Né io vivo se non per lei sola: e quando anche questo mio nuovo sogno
soave terminerà, io calerò volentieri il sipario. La gloria, il sapere, la
gioventù, le ricchezze, la patria, tutti fantasmi che hanno fino ad or recitato
nella mia commedia, non fanno più per me. Calerò il sipario; e lascierò che gli
altri mortali s'affannino per accrescere i piaceri e menomare i dolori d'una
vita che ad ogni minuto s'accorcia, e che pure que' meschini se la vorrebbero
persuadere immortale.
Eccoti con l'usato disordine, ma con insolita pacatezza risposto alla tua lunga
affettuosissima lettera: tu sai dire assai meglio le tue ragioni: - io le mie
le sento troppo; però pajo ostinato. - Ma s'io ascoltassi più gli altri che me,
rincrescerei forse a me stesso: - e nel non rincrescere a sé, sta quel po' di
felicità che l'uomo può sperar su la terra.
3 Aprile
Quando l'anima è tutta assorta in una specie di beatitudine, le nostre deboli facoltà oppresse dalla somma del piacere diventano quasi stupide, mute, e inette ad ogni fatica. Che s'io non menassi una vita da santo, le mie lettere ti capiterebbero innanzi più spesse. Se le sventure raggravano il carico della vita, noi corriamo a farne parte a qualche infelice; ed egli spreme conforto dal sapere che non è il solo dannato alle lagrime. Ma se lampeggia qualche momento di felicità, noi ci concentriamo tutti in noi stessi, temendo che la nostra ventura possa, partecipandosi, diminuirsi; o l'orgoglio nostro soltanto ci consiglia a menarne trionfo. E poi sente assai poco la propria passione, o lieta o trista che sia, chi sa troppo minutamente descriverla. - Intanto la Natura ritorna bella - quale dev'essere stata quando nascendo la prima volta dall'informe abisso del caos, mandò foriera la ridente Aurora di Aprile; ed ella abbandonando i suoi biondi capelli su l'oriente, e cingendo poi a poco a poco l'universo del roseo suo manto, diffuse benefica le fresche rugiade, e destò l'alito vergine de' venticelli per annunciare ai fiori, alle nuvole, alle onde e agli esseri tutti che la salutavano, il Sole: il Sole! sublime immagine di Dio, luce, anima, vita di tutto il creato.
6 Aprile
È vero; troppo! - questa mia fantasia mi dipinge così realmente la felicità ch'io desidero, e me la pone davanti agli occhi, e sto lì lì per toccarla con mano, e mi mancano ancor pochi passi - e poi? il tristo mio cuore se la vede svanire e piange quasi perdesse un bene posseduto da lungo tempo. Tuttavia - ei le scrive che la cabala forense gli fu da prima cagione d'indugio, e che poi la rivoluzione ha interrotto per qualche giorno il corso dei tribunali: aggiungi che dove predomina l'interesse, le altre passioni si tacciono; un nuovo amore forse - ma tu dirai: E tutto ciò cosa importa? Nulla, caro Lorenzo: a Dio non piaccia ch'io mi prevalga della freddezza d'Odoardo - ma non so come si possa starle lontano un solo giorno di più! - Andrò dunque ognor più lusingandomi per tracannarmi poscia la mortale bevanda che mi sarò io medesimo preparata?
11 Aprile
Ella sedeva sopra un sofà di rincontro alla finestra delle
colline, osservando le nuvole che passeggiavano per la ampiezza del cielo.
Vedete, mi disse, quel l'azzurro profondo! Io le stava accanto muto muto, con
gli occhi fissi su la sua mano che tenea socchiuso un libricciuolo. - Io non so
come - ma non mi avvidi che la tempesta cominciava a muggire dal settentrione,
e atterrava le piante più giovani. Poveri arbuscelli! esclamò Teresa. Mi
scossi. Si addensavano le tenebre della notte che i lampi rendeano più negre.
Diluviava, tuonava - poco dopo vidi le finestre chiuse, e i lumi nella stanza.
Il ragazzo per far ciò ch'ei soleva fare tutte le sere e temendo del mal tempo,
venne a rapirci lo spettacolo della Natura adirata; e Teresa che stava sopra
pensiero, non se ne accorse e lo lasciò fare.
Le tolsi di mano il libro e aprendolo a caso, lessi:
«La tenera Gliceria lasciò su queste mie labbra l'estremo sospiro. Con Gliceria
ho perduto tutto quello ch'io poteva mai perdere. La sua fossa è il solo palmo
di terra ch'io degni di chiamar mio. Niuno, fuori di me, ne sa il luogo. L'ho
coperta di folti rosaj i quali fioriscono come un giorno fioriva il suo volto,
e diffondono la fragranza soave che spirava il suo seno. Ogni anno nel mese delle
rose io visito il sacro boschetto. Siedo su quel cumulo di terra che serba le
sue ossa; colgo una rosa, e - sto meditando: Tal tu fiorivi un dì! E
sfoglio quella rosa, e la sparpaglio - e mi rammento quel dolce sogno de'
nostri amori. O mia Gliceria, ove sei tu? una lagrima cade su l'erba che spunta
su la sepoltura, e appaga l'ombra amorosa».
Tacqui. - Perchè non leggete? diss'ella sospirando e guardandomi. Io rileggeva:
e tornando a proferire nuovamente: Tal tu fiorivi un dì! la mia voce fu
soffocata; una lagrima di Teresa grondò su la mia mano che stringeva la sua.
17 Aprile
Ti risovviene di quella giovinetta che quattro anni fa
villeggiava appie' di queste colline? era la innamorata del nostro Olivo P***,
e tu sai com'ei impoverì, né poté più averla in isposa. Oggi io l'ho riveduta
accasata a un titolato, parente della famiglia T***. Passando per le sue
possessioni, venne a visitare Teresa. Io sedeva per terra sul tappeto, e
attentissimo all'esemplare della mia Isabellina che scorbiava l'abbiccì
sopra una sedia. Com'io la vidi, m'alzai correndole incontro quasi quasi per
abbracciarla: - quanto diversa! contegnosa, affettata, penò a ravvisarmi, e poi
fece le maraviglie masticando un complimentuccio mezzo a me, mezzo a Teresa - e
scommetto che la mia vista non preveduta l'ha sconcertata. Ma cinguettando e di
giojelli e di nastri e di vezzi e di cuffie, si rinfrancò. Io mi sperava di
usarle un atto di carità graziosa sviando il disorso da simili frascherie; e
perché quasi tutte le giovani le si fanno più belle in viso, e non bisognano
d'altri ornamenti, allorquando modestamente ti parlano del lor cuore, le
ricordai queste campagne e que' suoi giorni beati. - Ah, ah, rispose
sbadatamente; e tirò innanzi ad anatomizzare l'oltramontano travaglio de'
suoi orecchini. Il marito frattanto (perché fra il Popolone de' pigmei
ha scroccato fama di savant come l'Algarotti e il ***) gemmando il suo
pretto favellare toscano di mille frasi francesi, magnificava il prezzo
di quelle inezie, e il buon gusto della sua sposa. Stava io per pigliarmi il
cappello, ma un'occhiata di Teresa mi fe' star cheto. La conversazione venne di
mano in mano a cadere su' libri che noi leggevamo in campagna. Allora tu
avresti udito Messere tesserci il panegerico della prodigiosa biblioteca
de' suoi maggiori, e della collezione di tutte l'edizioni Principes
degli antichi ch'ei ne' suoi viaggi ebbe cura di completare. Io rideva
fra cuore, ed ei proseguiva la sua lezione di frontespizj. Quando Gesù volle,
tornò un servo ch'era ito in traccia del signore T*** ad avvertire Teresa che
non l'avea potuto trovare, perché egli era uscito a caccia per le montagne; e
la lezione fu rotta. Chiesi alla sposa novella di Olivo ch'io dopo le sue
disgrazie non aveva più riveduto. Immaginerai che cuore fu il mio quando
m'intesi freddamente rispondere dall'antica sua amante: È già morto. - È morto!
sclamai balzando in piedi, e guardandola stupidito. E descrissi a Teresa
l'egregia indole di quel giovine senza pari, e la sua nemica fortuna che lo
costrinse a combattere con la povertà e con la infamia; e morì nondimeno scevro
di taccia e di colpa.
Il marito allora prese a narrarci la morte del padre di Olivo, le dissensioni
con suo fratello primogenito, le liti sempre più accanite, e la sentenza de'
tribunali che giudici fra due figli di uno stesso padre, per arricchire l'uno,
spogliarono l'altro; divoratosi il povero Olivo fra le cabale del foro anche
quel poco che gli rimanea. Moralizzava su questo giovine stravagante che
ricusò i soccorsi di suo fratello, e invece di placarselo, lo inasprì sempre
più. - Sì sì, lo interruppi, se suo fratello non ha potuto essere giusto, Olivo
non doveva essere vile. Tristo colui che ritira il suo cuore dai consigli e dal
compianto dell'amicizia, e sdegna i mutui sospiri della pietà, e rifiuta il
pronto soccorso che la mano dell'amico gli porge. Ma le mille volte più tristo
chi fida nell'amicizia del ricco: e presumendo virtù in chi non fu mai
sventurato, accoglie quel beneficio che dovrà poscia scontare con altrettanta
onestà. La felicità non si collega con la sventura che per comperare la
gratitudine e tiranneggiare la virtù. L'uomo, animale oppressore, abusa dei
capricci della fortuna per aggiudicarsi il diritto di soverchiare. A' soli
afflitti è bensì conceduto il potersi e soccorrere e consolare scambievolmente
senz'insultarsi; ma colui che giunse a sedere alla mensa del ricco, tosto,
benché tardi, s'avvede.
Come sa di sale
Lo pane altrui.
E per questo, oh quanto è men doloroso
l'andare accattando di porta in porta la vita, anziché umiliarsi, o esecrare
l'indiscreto benefattore che ostentando il suo beneficio, esige in ricompensa
il tuo rossore e la tua libertà! -
Ma voi, mi rispose il marito, non mi avete lasciato finire. Se Olivo uscì dalla
casa paterna, rinunziando tutti gl'interessi al primogenito, perché poi
volle pagare i debiti di suo padre? Che? non affrontò ei medesimo l'indigenza
ipotecando per questa sciocca delicatezza anche la sua porzione della dote
materna? -
Perché? - se l'erede defraudò i creditori co' sotterfugj forensi, Olivo doveva
mai comportare che le ossa di suo padre fossero maledette da coloro che nelle
avversità lo aveano sovvenuto delle loro sostanze, e ch'ei fosse mostrato a
dito per le strade come figliuolo di un fallito? Questa generosa onestà diffamò
il primogenito che non era nato a imitarla, e che dopo d'avere tentato invano
il fratello co' beneficj, gli giurò poscia inimicizia mortale e veramente
feudale e fraterna. Olivo intanto perdé l'ajuto di quelli che lo lodavano forse
nel loro secreto, perché restò soverchiato dagli scellerati, essendo più
agevole approvar la virtù, che sostenerla a spada tratta e seguirla. Per questo
l'uomo dabbene in mezzo a' malvagi rovina sempre; e noi siam soliti ad
associarci al più forte, a calpestare chi giace e a giudicar dall'evento. - Non
mi rispondevano; ed erano forse convinti, non già persuasi, e soggiunsi. -
Invece di piangere Olivo, ringrazio il sommo Iddio che lo ha chiamato lontano
da tante ribalderie, e dalle nostre imbecillità. Da che, a dir vero, noi stessi,
noi devoti della virtù, siamo pure imbecilli! Sono certi uomini che hanno
bisogno della morte perché non sanno assuefarsi a' delitti de' tristi, né alla
pusillanimità degli uomini buoni.
La sposa parea intenerita. Oh pur troppo! esclamò con un sospiro. Ma - chi per
altro ha bisogno di pane non ha poi da assottigliarsi tanto su l'onore. -
E questa la è pure una delle vostre bestemmie! proruppi: voi dunque perché
siete favoriti dalla fortuna vorreste essere onesti voi soli; anzi perché la
virtù su la oscura vostr'anima non risplende, vorreste reprimerla anche ne'
petti degl'infelici, che pure non hanno altro conforto, e illudere in questa
maniera la vostra coscienza? - Gli occhi di Teresa mi davano ragione; pur si
studiava di far mutare discorso - ma la visiera era alzata; e come poteva io
più tacere? ben ora ne sento rimorso - gli occhi degli sposi erano fitti a
terra, e la loro anima fu anch'essa atterrata, quando gridai con fierissima
voce: - Coloro che non furono mai sventurati, non sono degni della loro
felicità. Orgogliosi! guardano la miseria per insultarla: pretendono che tutto
debba offerirsi in tributo alla ricchezza e al piacere. Ma l'infelice che serba
la sua dignità è spettacolo di coraggio a' buoni, e di rimbrotto a' malvagi. -
E sono uscito cacciandomi le mani ne' capelli. Grazie a' primi casi della mia
vita che mi costituirono sventurato! Lorenzo mio, or non sarei forse tuo amico;
or non sarei amico di questa fanciulla. - Mi sta sempre davanti l'avvenimento
di stamattina. Qui dove siedo solo mi guardo intorno e temo di rivedere alcuno
de' miei conoscenti. Chi l'avrebbe mai detto? Il cuore di colei non ha
palpitato al nome del suo primo amore! ardì di turbare le ceneri di lui che le
ha per la prima volta ispirato l'universale sentimento della vita. Né un solo
sospiro? - ma pazzo! tu t'affliggi perché non trovi fra gli uomini quella virtù
che forse, ahi! forse non è che voto nome - o necessità che si muta con le
passioni e le circostanze - o prepotenza di natura in alcuni pochi individui, i
quali essendo generosi e pietosi per indole, sono obbligati a guerra perpetua
contro l'universalità de' mortali; - e bastasse! ma guai allorché, volere e non
volere, denno pure aprir gli occhi alla luce funerea del disinganno!
Io non ho l'anima negra; e tu il sai, mio Lorenzo; nella mia prima gioventù
avrei sparso fiori su le teste di tutti i viventi: chi mi ha fatto così rigido
e ombroso verso la più parte degli uomini se non la loro ipocrita crudeltà?
Perdonerei tutti i torti che mi hanno fatto. Ma quando mi passa dinanzi la
venerabile povertà che mentre s'affatica mostra le sue vene succhiate dalla
onnipotente opulenza; e quando io vedo tanti uomini infermi, imprigionati,
affamati, e tutti supplichevoli sotto il terribile flagello di certe leggi - ah
no, io non mi posso rinconciliare. Io grido allora vendetta con quella turba di
tapini co' quali divido il pane e le lagrime: e ardisco ridomandare in lor nome
la porzione che hanno ereditato dalla Natura, madre benefica ed imparziale - la
Natura? ma se ne ha fatti quali pur siamo, non è forse matrigna?
Sì, Teresa, io vivrò teco; ma io non vivrò se non quanto potrò vivere teco. Tu
sei uno di que' pochi angioli sparsi qua e là su la faccia della terra per
accreditare l'amore dell'umanità. Ma s'io ti perdessi, quale scampo si
aprirebbe a questo giovine infastidito di tutto il resto del mondo?
Se dianzi tu l'avessi veduta! mi stendeva la mano, dicendomi - Siate discreto;
e davvero, quelle due persone mi pareano compunte: e se Olivo non fosse stato
infelice, avrebbe egli avuto anche oltre la tomba un amico?
Ahi! proseguì dopo un lungo silenzio, per amar la virtù conviene dunque vivere
nel dolore? - Lorenzo! l'anima sua celeste raggiava da' lineamenti del viso.
29 Aprile
Vicino a lei io sono sì pieno di vita che appena sento di
vivere. Così quand'io mi desto dopo un pacifico sonno, se il raggio di Sole mi
riflette su gli occhi, la mia vista si abbaglia e si perde in un torrente di
luce.
Da gran tempo mi lagno della inerzia in cui vivo. Al riaprirsi della primavera
mi proponeva di studiare botanica; e in due settimane io aveva raccattato su
per le balze parecchie dozzine di piante che adesso non so più dove me le abbia
riposte. Mi sono assai volte dimenticato il mio Linneo sopra i sedili
del giardino, o appié di qualche albero; l'ho finalmente perduto. Jeri Michele
me ne ha recato due foglj tutti umidi di rugiada; e stamattina mi ha recato
notizia che il rimanente era stato mal concio dal cane dell'ortolano.
Teresa mi sgrida: per compiacerle m'accingo a scrivere; ma sebbene incominci
con la più bella vocazione che mai, non so andar innanzi per più di tre o
quattro periodi. Mi assumo mille argomenti; mi s'affacciano mille idee: scelgo,
rigetto, poi torno a scegliere; scrivo finalmente, straccio, cancello, e perdo
spesso mattina e sera: la mente si stanca, le dita abbandonano la penna, e mi
avvengo d'avere gittato il tempo e la fatica. - Se non che t'ho detto che lo
scrivere libri la è cosa da più e da meno delle mie forze: aggiungi lo stato
dell'animo mio, e t'accorgerai che s'io ti scrivo ogni tanto una lettera, non è
poco. - Oh la scimunita figura ch'io fo quand'ella siede lavorando, ed io
leggo! M'interrompo a ogni tratto, ed ella: Proseguite! Torno a leggere: dopo
due carte la mia pronunzia diventa più rapida e termina borbottando in cadenza.
Teresa s'affanna: Deh leggete un po' ch'io v'intenda! - io continuo; ma gli
occhi miei, non so come, si sviano disavvedutamente dal libro, e si trovano
immobili su quell'angelico viso. Divento muto; cade il libro e si chiude; perdo
il segno, né so più ritrovarlo - Teresa vorrebbe adirarsi; e sorride.
Pur se afferrassi tutti i pensieri che mi passano per fantasia! - ne vo notando
su' cartoni e su' margini del mio Plutarco; se non che, non sì tosto scritti,
m'escono dalla mente; e quando poi li cerco sovra la carta, ritrovo aborti
d'idee scarne sconnesse, freddissime. Questo ripiego di notare i pensieri, anzi
che lasciarli maturare dentro l'ingegno, è pur misero! - ma così si fanno de'
libri composti d'altrui libri a mosaico. - E a me pure, fuor d'intenzione, è
venuto fatto un mosaico. - In un libretto inglese ho trovato un racconto di
sciagura; e mi pareva a ogni frase di leggere le disgrazie della povera
Lauretta: - il Sole illumina da per tutto ed ogni anno i medesimi guai su la
terra! - Or io per non parere di scioperare mi sono provato di scrivere i casi
di Lauretta, traducendo per l'appunto quella parte del libro inglese, e
togliendovi, mutando, aggiungendo assai poco di mio, avrei raccontato il vero,
mentre forse il mio testo è romanzo. Io voleva in quella sfortunata creatura
mostrare a Teresa uno specchio della fatale infelicità dell'amore. Ma
credi tu che le sentenze, e i consigli, e gli esempj de' danni altrui giovino
ad altro fuorché a irritare le nostre passioni? Inoltre in cambio di narrare di
Lauretta, ho parlato di me: tale è lo stato dell'anima mia, torna sempre a
tastare le proprie piaghe - però non mi pare di lasciar leggere questi tre o
quattro fogli a Teresa: le farei più male che bene - e per ora lascio anche
stare di scrivere - Tu leggili. Addio.
«Non so se il cielo badi alla terra. Pur se ci ha qualche volta badato (o almeno il primo giorno che la umana razza ha incominciato a formicolare) io credo che il Destino abbia scritto negli eterni libri:
L'uomo sarà infelice
Né oso appellarmi di questa sentenza, perché
non saprei forse a che tribunale, tanto più che mi giova crederla utile alle
tante altre razze viventi ne' mondi innumerabili. Ringrazio nondimeno
quella Mente che mescendosi all'universo degli enti, li fa sempre rivivere
distruggendoli; perché con le miserie, ci ha dato almeno il dono del pianto, ed
ha punito coloro che con una insolente filosofia si vogliono ribellare dalla
umana sorte, negando loro gl'inesausti piaceri della compassione - Se vedi
alcuno addolorato e piangente non piangere. Stoico! or non sai tu che le
lagrime di un uomo compassionevole sono per l'infelice più dolci della rugiada
su l'erbe appassite?
O Lauretta! io piansi con te sulla bara del tuo povero amante, e mi ricordo che
la mia compassione disacerbava l'amarezza del tuo dolore. T'abbandonavi sovra
il mio seno, e i tuoi biondi capelli mi coprivano il volto, e il tuo pianto
bagnava le mie guance; poi col tuo fazzoletto mi rasciugavi, e rasciugavi le
tue lagrime che tornavano a sgorgarti dagli occhi e scorrerti sulle labbra. -
Abbandonata da tutti! - ma io no; non ti ho abbandonata mai.
Quando tu erravi fuor di te stessa per le romite spiagge del mare, io seguiva
furtivamente i tuoi passi per poterti salvare dalla disperazione del tuo
dolore. Poi ti chiamava a nome, e tu mi stendevi la mano, e sedevi al mio
fianco. Saliva in cielo la Luna, e tu guardandola cantavi pietosamente - taluno
avrebbe osato deriderti: ma il Consolatore de' disgraziati che guarda con un occhio
stesso e la pazzia e la saviezza degli uomini, e che compiange e i loro delitti
e le loro virtù - udiva forse le tue meste voci, e ti spirava qualche conforto:
le preci del mio cuore t'accompagnavano: e a Dio sono accetti i voti e i
sacrificj delle anime addolorate. - I flutti gemeano con flebile fiotto, e i
venti che gl'increspavano gli spingeano a lambir quasi la riva dove noi stavamo
seduti. E tu alzandoti appoggiata al mio braccio t'indirizzavi a quel sasso ove
parevati di vedere ancora il tuo Eugenio, e sentir la sua voce, e la sua mano,
e i suoi baci. - Or che mi resta? esclamavi; la guerra mi allontana i fratelli,
e la morte mi ha rapito il padre e l'amante; abbandonata da tutti!
O Bellezza, genio benefico della natura! Ove mostri l'amabile tuo sorriso
scherza la gioja, e si diffonde la voluttà per eternare la vita dell'universo:
chi non ti conosce e non ti sente incresca al mondo e a se stesso. Ma quando la
virtù ti rende più cara, e le sventure, togliendoti la baldanza e la invidia
della felicità, ti mostrano ai mortali co' crini sparsi e privi delle allegre
ghirlande - chi è colui che può passarti davanti e non altro offerirti che
un'inutile occhiata di compassione?
Ma io t'offeriva, o Lauretta, le mie lagrime, e questo mio romitorio dove tu
avresti mangiato del mio pane, e bevuto nella mia tazza, e ti saresti
addormentata sovra il mio petto. Tutto quello ch'io aveva! e meco forse la
tua vita sebbene non lieta, sarebbe stata libera almeno e pacifica. Il cuore
nella solitudine e nella pace va a poco a poco obbliando i suoi affanni; perché
la pace e la libertà si compiacciono della semplice e solitaria natura.
Una sera d'autunno la Luna appena si mostrava alla terra rifrangendo i suoi
raggi su le nuvole trasparenti, che accompagnandola l'andavano ad ora ad ora
coprendo, e che sparse per l'ampiezza del cielo rapivano al mondo le stelle.
Noi stavamo intenti a' lontani fuochi dei pescatori, e al canto del gondoliere
che col suo remo rompea il silenzio e la calma dell'oscura laguna. Ma Lauretta
volgendosi cercò con gli occhi intorno il suo innamorato; e si rizzò, e ramingò
un pezzo chiamandolo; poi stanca tornò dov'io sedeva, e s'assise quasi
spaventata della sua solitudine. Guardandomi parea che volesse dirmi: Io sarò
abbandonata anche da te! - e chiamò il suo cagnuolino.
Io? - Chi l'avrebbe mai detto che quella dovesse essere l'ultima sera ch'io la
vedeva! Era vestita di bianco; un nastro cilestro raccogliea le sue chiome, e
tre mammole appassite spuntavano in mezzo al lino che velava il suo seno. - Io
l'ho accompagnata fino all'uscio della sua casa; e sua madre che venne ad
aprirci mi ringraziava della cura ch'io mi prendeva per la sua disgraziata
figliuola. Quando fui solo m'accorsi che m'era rimasto fra le mani il suo
fazzoletto: - gliel ridarò domani, diss'io.
I suoi mali incominciavano già a mitigarsi, ed io forse - è vero; io non poteva
darti il tuo Eugenio; ma ti sarei stato sposo, padre, fratello. I miei
concittadini persecutori, giovandosi de' manigoldi stranieri, proscrissero
improvvisamente il mio nome; né ho potuto, o Lauretta, lasciarti neppure
l'ultimo addio.
Quand'io penso all'avvenire e mi chiudo gli occhi per non conoscerlo e tremo e
mi abbandono con la memoria a' giorni passati, io vo per lungo tratto vagando
sotto gli alberi di queste valli, e mi ricordo le sponde del mare, e i fuochi
lontani, e il canto del gondoliere. M'appoggio ad un tronco - sto pensando - il
cielo me l'avea conceduta; ma l'avversa fortuna me l'ha rapita! traggo il
suo fazzoIetto - infelice chi ama per ambizione! ma il tuo cuore, o
Lauretta, è fatto per la schietta natura: m'ascugo gli occhi, e torno sul
far della notte alla mia casa.
Che fai tu frattanto? torni errando lungo le spiagge e mandando preghiere e
lagrime a Dio? - Vieni! tu corrai le frutta del mio giardino; tu berrai
nella mia tazza, tu mangerai del mio pane, e ti poserai sovra il mio seno e
sentirai come batte, come oggi batte assai diversamente il mio cuore. Quando si
risveglierà il tuo martirio, e lo spirito sarà vinto dalla passione, io ti
verrò dietro per sostenerti in mezzo al cammino, e per guidarti, se ti
smarrissi, alla mia casa; mai ti verrò dietro tacitamente per lasciarti libero
almeno il conforto del pianto. Io ti sarò padre, fratello - ma, il mio cuore -
se tu vedessi il mio cuore! - una lagrima bagna la carta e cancella ciò che
vado scrivendo.
Io la ho veduta tutta fiorita di gioventù e di bellezza; e poi impazzita,
raminga, orfana; e la ho veduta baciare le labbra morenti del suo unico
consolatore - e poscia inginocchiarsi con pietosa superstizione davanti a sua
madre lagrimando e pregandola acciocché ritirasse la maledizione che quella
madre infelice aveva fulminata contro la sua figliuola. - Così la povera
Lauretta mi lasciò nel cuore per sempre la compassione delle sue sventure.
Preziosa eredità ch'io vorrei pur dividere con voi tutti a' quali non resta
altro conforto che di amare la virtù e di compiangerla. Voi non mi conoscete;
ma noi, chiunque voi siate, noi siamo amici. Non odiate gli uomini prosperi;
solamente fuggiteli.»
4 Maggio
Hai tu veduto dopo i giorni della tempesta prorompere fra l'auree nuvole dell'oriente il vivo raggio del Sole e riconsolar la natura? Tale per me è la vista di costei. - Discaccio i miei desiderj, condanno le mie speranze, piango i miei inganni: no, io non la vedrò più; io non l'amerò. Odo una voce che mi chiama traditore; la voce di suo padre! M'adiro contro me stesso, e sento risorgere nel mio cuore una virtù sanatrice, un pentimento. - Eccomi dunque saldo nella mia risoluzione; saldo più che mai: ma poi? - All'apparir del suo volto ritornano le illusioni, e l'anima mia si trasforma, e obblia se medesima, e s'imparadisa nella contemplazione della bellezza.
8 Maggio
Ella non t'ama; e se pure volesse amarti, nol può. È vero, Lorenzo: ma s'io consentissi a strapparmi il velo dagli
occhi, dovrei subito chiuderli in sonno eterno; poiché senza questo angelico
lume, la vita mi sarebbe terrore, il mondo caos, la Natura notte e deserto. -
Anziché spegnere una per una le fiaccole che rischiarano la prospettiva teatrale
e disingannare villanamente gli spettatori, non sarebbe assai meglio calar il
sipario in un subito, e lasciarli nella loro illusione? Ma se l'inganno ti
nuoce: - che monta? se il disinganno mi uccide!
Una domenica intesi il parroco che sgridava i villani perché s'ubbriacavano. E
non s'accorgeva come avvelenava a que' meschini il conforto di addormentare
nell'ebbrietà della sera le fatiche del giorno, di non sentire l'amarezza del
loro pane bagnato di sudore e di lagrime, e di non pensare al rigore e alla
fame che il venturo verno minaccia.
11 Maggio
Conviene dire che Natura abbia pur d'uopo di questo globo, e
della specie di viventi litigiosi che lo stanno abitando. E per provvedere alla
conservazione di tutti, anziché legarci in reciproca fratellanza, ha costituito
ciascun uomo così amico di se medesimo, che volentieri aspirerebbe
all'esterminio dell'universo per vivere più sicuro della propria esistenza e
rimanersi despota solitario di tutto il creato. Niuna generazione ha mai veduto
per tutto il suo corso la dolce pace, la guerra fu sempre l'arbitra de'
diritti, e la forza ha dominato tutti i secoli. Così l'uomo or aperto, or
secreto, e sempre implacabile nemico della umanità, conservandosi con ogni
mezzo, cospira all'intento della Natura che ha d'uopo della esistenza di tutti:
e i discendenti di Caino e d'Abele, quantunque imitino i loro primitivi parenti
e si trucidino perpetuamente l'un l'altro, vivono e si propagano. Or odi. - Ho
accompagnato stamattina per tempo Teresa e la sua sorellina in casa di una lor
conoscente venuta a villeggiare. Credeva di desinare in lor compagnia, ma per
mia disgrazia aveva fin dalla settimana passata promesso al chirurgo che mi
troverei a pranzo con lui, e se Teresa non me ne facea sovvenire, io, a dirti
la verità, me n'era dimenticato. Mi vi sono dunque avviato un'oretta innanzi al
mezzogiorno; ma affannato dal caldo, mi sono a mezza strada coricato sotto un
ulivo: al vento di jeri fuor di stagione, oggi è succeduta un'arsura
nojosissima: e me ne stava lì al fresco spensieratamente come se avessi già
desinato. Voltando la testa mi sono avveduto di un contadino che guardavami
bruscamente: - Che fate voi qui?
- Sto, come vedete, riposando.
- Avete voi possessioni? - percotendo la terra col calcio del suo schioppo.
- Perché?
- Perché - sdrajatevi su i vostri prati, se ne avete; e non venite a pestare
l'erba degli altri, - e partendo, - fate ch'io tornando vi trovi!
Io non mi era mosso, ed egli se n'era ito. A bella prima, io non aveva badato
alle sue bravate; ma ripensandoci; se ne avete! e se la fortuna non
avesse conceduto a' miei padri due pertiche di terreno, tu m'avresti negato
anche nella parte più sterile del tuo prato l'estrema pietà del sepolcro! - Ma
osservando che l'ombra dell'ulivo diventava più lunga, mi sono ricordato del
pranzo.
Poco fa tornandomi a casa ho trovato su la mia porta l'uomo stesso di
stamattina. - Signore, vi stava aspettando; se mai - vi foste adirato meco; vi
domando perdono.
- Riponete il cappello: io non me ne sono già offeso.
Perché mai questo mio cuore nelle stesse occasioni ora è pace pace, ora è tutto
tempesta? Diceva quel viaggiatore: Il flusso e riflusso de' miei umori
governa tutta la mia vita. Forse un minuto prima il mio sdegno sarebbe
stato assai più grave dell'insulto. Perché dunque rimetterci al beneplacito di
chi ne offende, permettendo ch'egli ci possa turbare con una ingiuria non
meritata? Vedi come l'amor proprio ruffiano si prova con questa pomposa
sentenza di ascrivermi a merito un'azione che è derivata forse da - chi lo sa?
In pari occasioni non ho usato di eguale moderazione: è vero che passata
mezz'ora ho filosofato contro di me; ma la ragione è venuta zoppicando; e il
pentimento, per chi aspira alla saviezza, è sempre tardo - ma né io v'aspiro:
io mi sono uno de' tanti figliuoli della terra, non altro; e porto meco tutte
le passioni e le miserie della mia specie.
Il contadino andava ridicendo: - Vi ho fatto villania, ma io non vi conosceva;
que' lavoratori che segavano il fieno ne' prati vicino mi hanno dopo ammonito.
- Non importa, buon uomo: come andrà egli il raccolto quest'anno?
- Patiremo del caro: or pregovi, signor mio, perdonatemi. Dio volesse v'avessi
allor conosciuto!
- Galantuomo; o conoscendo, o non conoscendo non date noja a nessuno, perché
starete a rischio a ogni modo o di inimicarvi il ricco, o di maltrattare il
povero: quanto a me non occorre.
- Dice bene il signore; Dio gliene rimeriti. - E si partì. E farà forse peggio;
gli ha un certo che di sfacciato nel viso; e la ragione degli animali
ragionevoli, quando non sentono verecondia, è ragione perniciosissima a
chiunque ha che fare con loro.
Intanto? crescono ogni giorno i martiri perseguitati dal nuovo usurpatore della
mia patria. Quanti andranno tapinando e profughi ed esiliati, senza il letto di
poca erba né l'ombra di un ulivo - Dio lo sa! Lo straniero infelice è cacciato
perfino dalla balza dove le pecore pascono tranquillamente.
12 Maggio
Non ho osato no, non ho osato. - Io poteva abbracciarla e stringerla qui, a questo cuore. La ho veduta addormentata: il sonno le tenea chiusi que' grandi occhi neri; ma le rose del suo sembiante si spargeano allora più vive che mai su le sue guance rugiadose. Giacea il suo bel corpo abbandonato sopra un sofà. Un braccio le sosteneva la testa e l'altro pendea mollemente. Io la ho più volte veduta a passeggiare e a danzare; mi sono sentito sin dentro l'anima e la sua arpa e la sua voce; la ho adorata pien di spavento come se l'avessi veduta discendere dal paradiso - ma così bella come oggi, io non l'ho veduta mai, mai. Le sue vesti mi lasciavano trasparire i contorni di quelle angeliche forme; e l'anima mia le contemplava e - che posso più dirti? tutto il furore e l'estasi dell'amore mi aveano infiammato e rapito fuori di me. Io toccava come un divoto e le sue vesti e le sue chiome odorose e il mazzetto di mammole ch'essa aveva in mezzo al suo seno - sì sì, sotto questa mano diventata sacra ho sentito palpitare il suo cuore. Io respirava gli aneliti della sua bocca socchiusa - io stava per succhiare tutta la voluttà di quelle labbra celesti - un suo bacio! e avrei benedette le lagrime che da tanto tempo bevo per lei - ma allora allora io la ho sentita sospirare fra il sonno: mi sono arretrato, respinto quasi da una mano divina. T'ho insegnato io forse ad amare, ed a piangere? e cerchi tu un breve momento di sonno perché ti ho turbato le tue notti innocenti e tranquille? a questo pensiero me le sono prostrato davanti immobile immobile rattenendo il sospiro - e sono fuggito per non ridestarla alla vita angosciosa in cui geme. Non si querela, e questo mi strazia ancor più: ma quel suo viso sempre più mesto, e quel guardarmi con pietà, e tacere sempre al nome di Odoardo, e sospirare sua madre - ah! il cielo non ce l'avrebbe conceduta se non dovesse anch'essa partecipare del sentimento del dolore. Eterno Iddio! esisti tu per noi mortali? O sei tu padre snaturato verso le tue creature? So che quando hai mandato su la terra la Virtù, tua figliuola primogenita, le hai dato per guida la Sventura. Ma perché poi lasciasti la Giovinezza e la Beltà così deboli da non poter sostenere le discipline di sì austera istitutrice? In tutte le mie afflizioni ho alzato le braccia sino a te, ma non ho osato né mormorare né piangere: ahi adesso! Or perché farmi conoscere la felicità s'io doveva bramarla sì fieramente, e perderne la speranza per sempre? - No, Teresa è mia tutta; tu me l'hai assegnata perché mi creasti un cuore capace di amarla immensamente, eternamente.
13 Maggio
S'io fossi pittore! che ricca materia al mio pennello!
L'artista immerso nella idea deliziosa del bello addormenta o mitiga almeno
tutte le altre passioni. - Ma se anche fossi pittore? Ho veduto ne' pittori e
ne' poeti la bella, e talvolta anche la schietta natura; ma la natura somma,
immensa, inimitabile non la ho veduta dipinta mai. Omero, Dante e Shakespeare,
tre maestri di tutti gl'ingegni sovrumani, hanno investito la mia immaginazione
ed infiammato il mio cuore: ho bagnato di caldissime lagrime i loro versi; e ho
adorato le loro ombre divine come se le vedessi assise su le volte eccelse che
sovrastano l'universo a dominare l'eternità. Pure gli originali che mi veggo
davanti mi riempiono tutte le potenze dell'anima, e non oserei, Lorenzo, non
oserei, s'anche si trasfondesse in me Michelangelo, tirarne le prime linee.
Sommo Iddio! quando tu miri una sera di primavera ti compiaci forse della tua
creazione? tu mi hai versato per consolarmi una fonte inesausta di piacere, ed
io la ho guardata sovente con indifferenza. Su la cima del monte indorato da'
pacifici raggi del Sole che va mancando, io mi vedo accerchiato da una catena
di colli su' quali ondeggiano le messi, e si scuotono le viti sostenute in
ricchi festoni dagli ulivi e dagli olmi: le balze e i gioghi lontani vanno
sempre crescendo come se gli uni fossero imposti su gli altri. Di sotto a me le
coste del monte sono spaccate in burroni infecondi fra i quali si vedono
offuscarsi le ombre della sera, che a poco a poco s'innalzano; il fondo oscuro
e orribile sembra la bocca di una voragine. Nella falda del mezzogiorno l'aria è
signoreggiata dal bosco che sovrasta e offusca la valle dove pascono al fresco
le pecore, e pendono dall'erta le capre sbrancate. Cantano flebilmente gli
uccelli come se piangessero il giorno che muore, mugghiano le giovenche, e il
vento pare che si compiaccia del susurrar delle fronde. Ma da settentrione si
dividono i colli, e s'apre all'occhio una interminabile pianura: si distinguono
ne' campi vicini i buoi che tornano a casa: lo stanco agricoltore li siegue
appoggiato al suo bastone; e mentre le madri e le mogli apparecchiano la cena
alla affaticata famigliuola, fumano le lontane ville ancor biancicanti, e le
capanne disperse per la campagna. I pastori mungono il gregge, e la
vecchiarella che stava filando su la porta dell'ovile, abbandona il lavoro e va
carezzando e fregando il torello, e gli agnelletti che belano intorno alle loro
madri. La vista intanto si va dilungando, e dopo lunghissime file di alberi e
di campi, termina nell'orizzonte dove tutto si minora e si confonde. Lancia il
Sole partendo pochi raggi, come se quelli fossero gli estremi addio che dà alla
Natura; e le nuvole rosseggiano, poi vanno languendo, e pallide finalmente si
abbujano: allora la pianura si perde, l'ombre si diffondono su la faccia della
terra; ed io, quasi in mezzo all'oceano, da quella parte non trovo che il
cielo.
Jer sera appunto dopo più di due ore d'estatica contemplazione d'una bella sera
di Maggio, io scendeva a passo a passo dal monte. Il mondo era in cura alla
Notte, ed io non sentiva che il canto della villanella, e non vedeva che i
fuochi de' pastori. Scintillavano tutte le stelle, e mentr'io salutava ad una
ad una le costellazioni, la mia mente contraeva un non so che di celeste, ed il
mio cuore s'innalzava come se aspirasse ad una regione più sublime assai della terra.
Mi sono trovato su la montagnuola presso la chiesa: suonava la campana de'
morti, e il presentimento della mia fine trasse i miei sguardi sul cimiterio
dove ne' loro cumuli coperti di erba dormono gli antichi padri della villa: -
Abbiate pace, o nude reliquie: la materia è tornata alla materia; nulla scema,
nulla cresce, nulla si perde quaggiù; tutto si trasforma e si riproduce - umana
sorte! men felice degli altri chi men la teme. - Spossato mi sdrajai boccone
sotto il boschetto de' pini, e in quella muta oscurità, mi sfilavano dinanzi
alla mente tutte le mie sventure e tutte le mie speranze. Da qualunque parte io
corressi anelando alla felicità, dopo un aspro viaggio pieno di errori e di
tormenti, mi vedeva spalancata la sepoltura dove io m'andava a perdere con
tutti i mali e tutti i beni di questa inutile vita. E mi sentiva avvilito e
piangeva perché avea bisogno di consolazione - e ne' miei singhiozzi io
invocava Teresa.
14 Maggio
Anche jer sera tornandomi dalla montagna, mi posai stanco
sotto que' pini; anche jer sera io invocava Teresa. - Udii un calpestio fra gli
alberi; e mi parea d'intendere bisbigliare alcune voci. Mi sembrò poi di vedere
Teresa con sua sorella - sbigottitesi a prima vista fuggivano. Io le chiamai
per nome, e la Isabellina raffigurandomi, mi si gittò addosso con mille baci.
Mi rizzai. Teresa s'appoggiò al mio braccio, e noi passeggiammo taciturni lungo
la riva del fiumicello sino al lago de' cinque fonti. E là ci siamo quasi di
consenso fermati a mirar l'astro di Venere che ci lampeggiava su gli occhi. -
Oh! diss'ella, con quel dolce entusiasmo tutto suo, credi tu che il Petrarca
non abbia anch'egli visitato sovente queste solitudini sospirando fra le ombre
pacifiche della notte la sua perduta amica? Quando leggo i suoi versi io me lo
dipingo qui - malinconico - errante - appoggiato al tronco di un albero,
pascersi de' suoi mesti pensieri, e volgersi al cielo cercando con gli occhi
lagrimosi la beltà immortale di Laura. Io non so come quell'anima, che avea in
sé tanta parte di spirito celeste, abbia potuto sopravvivere in tanto dolore, e
fermarsi fra le miserie de' mortali - oh quando s'ama davvero! - E mi parve
ch'essa mi stringesse la mano, e io mi sentiva il cuore che non voleva starmi
più in petto. - Sì! tu eri creata per me, nata per me, ed io - non so come ho
potuto soffocare queste parole che mi scoppiavano dalle labbra. - E saliva su
per la collina ed io la seguitava. Le mie potenze erano tutte di Teresa; ma la
tempesta che le aveva agitate era alquanto sedata. - Tutto è amore, diss'io;
l'universo non è che amore; e chi lo ha mai più sentito, chi più del Petrarca
lo ha fatto dolcissimamente sentire? Que' pochi genj che si sono innalzati
sopra tanti altri mortali mi spaventano di meraviglia; ma il Petrarca mi
riempie di fiducia religiosa e d'amore; e mentre il mio intelletto gli
sacrifica come a nume, il mio cuore lo invoca padre e amico consolatore. -
Teresa sospirò insieme e sorrise.
La salita l'aveva stancata: riposiamo, diss'ella: l'erba era umida, ed io le
additai un gelso poco lontano. Il più bel gelso che mai. È alto, solitario,
frondoso: fra' suoi rami v'ha un nido di cardellini - ah vorrei poter innalzare
sotto l'ombre di quel gelso un altare! - La ragazzina intanto ci aveva
lasciati, saltando su e giù, cogliendo fioretti e gettandoli dietro le lucciole
che veniano aleggiando - Teresa sedea sotto il gelso ed io seduto vicino a lei
con la testa appoggiata al tronco, le recitava le odi di Saffo - sorgeva la
Luna - oh! - perché mentre scrivo il mio cuore batte sì forte? beata sera!
14 Maggio, ore 11
Sì, Lorenzo! - dianzi io meditai di tacertelo - Or odilo, la mia bocca è tuttavia rugiadosa - d'un suo bacio - e le mie guance sono state innondate dalle lagrime di Teresa. Mi ama - lasciami, Lorenzo, lasciami in tutta l'estasi di questo giorno di paradiso.
14 Maggio, a sera
O quante volte ho ripigliato la penna, e non ho potuto
continuare: mi sento un po' calmato e torno a scriverti. - Teresa giacea sotto
il gelso - ma e che posso dirti che non sia tutto racchiuso in queste parole? Vi
amo. A queste parole tutto ciò ch'io vedeva mi sembrava un riso
dell'universo: io mirava con occhi di riconoscenza il cielo, e mi parea ch'egli
si spalancasse per accoglierci! deh! a che non venne la morte? e l'ho invocata.
Sì; ho baciato Teresa; i fiori e le piante esalavano in quel momento un odore
soave; le aure erano tutte armonia; i rivi risuonavano da lontano; e tutte le
cose s'abbellivano allo splendore della Luna che era tutta piena della luce
infinita della Divinità. Gli elementi e gli esseri esultavano nella gioja di
due cuori ebbri di amore - ho baciata e ribaciata quella mano - e Teresa mi
abbracciava tutta tremante, e trasfondea i suoi sospiri nella mia bocca, e il
suo cuore palpitava su questo petto: mirandomi co' suoi grandi occhi languenti,
mi baciava, e le sue labbra umide, socchiuse mormoravano su le mie - ahi! che
ad un tratto mi si è staccata dal seno quasi atterrita: chiamò sua sorella e
s'alzò correndole incontro. Io me le sono prostrato, e tendeva le braccia come
per afferrar le sue vesti - ma non ho ardito di rattenerla, né richiamarla. La
sua virtù - e non tanto la sua virtù, quanto la sua passione, mi sgomentava:
sentiva e sento rimorso di averla io primo eccitata nel suo cuore innocente. Ed
è rimorso - rimorso di tradimento! Ahi mio cuore codardo! - Me le sono
accostato tremando. - Non posso essere vostra mai! - e pronunciò queste parole
dal cuore profondo e con una occhiata con cui parea rimproverarsi e
compiangermi. Accompagnandola lungo la via, non mi guardò più; né io avea più
cuore di dirle parola. Giunta alla ferriata del giardino mi prese di mano la
Isabellina e lasciandomi: Addio, diss'ella; e rivolgendosi dopo pochi passi, -
addio.
Io rimasi estatico: avrei baciate l'orme de' suoi piedi: pendeva un suo
braccio, e i suoi capelli rilucenti al raggio della Luna svolazzavano
mollemente: ma poi, appena appena il lungo viale e la fosca ombra degli alberi
mi concedevano di travedere le ondeggianti sue vesti che da lontano ancor
biancheggiavano; e poiché l'ebbi perduta, tendeva l'orecchio sperando di udir
la sua voce. - E partendo, mi volsi con le braccia aperte, quasi per
consolarmi, all'astro di Venere: era anch'esso sparito.
15 Maggio
Dopo quel bacio io son fatto divino. Le mie idee sono più alte e ridenti, il mio aspetto più gajo, il mio cuore più compassionevole. Mi pare che tutto s'abbellisca a' miei sguardi; il lamentar degli augelli, e il bisbiglio de' zefiri fra le frondi son oggi più soavi che mai; le piante si fecondano, e i fiori si colorano sotto a' miei piedi; non fuggo più gli uomini, e tutta la Natura mi sembra mia. Il mio ingegno è tutto bellezza e armonia. Se dovessi scolpire o dipingere la Beltà, io sdegnando ogni modello terreno la troverei nella mia immaginazione. O Amore! le arti belle sono tue figlie; tu primo hai guidato su la terra la sacra poesia, solo alimento degli animali generosi che tramandano dalla solitudine i loro canti sovrumani sino alle più tarde generazioni, spronandole con le voci e co' pensieri spirati dal cielo ad altissime imprese: tu raccendi ne' nostri petti la sola virtù utile a' mortali, la Pietà, per cui sorride talvolta il labbro dell'infelice condannato ai sospiri: e per te rivive sempre il piacere fecondatore degli esseri, senza del quale tutto sarebbe caos e morte. Se tu fuggissi, la Terra diverrebbe ingrata; gli animali, nemici fra loro; il Sole, foco malefico; e il Mondo, pianto, terrore e distruzione universale. Adesso che l'anima mia risplende di un tuo raggio, io dimentico le mie sventure; io rido delle minacce della fortuna, e rinunzio alle lusinghe dell'avvenire. - O Lorenzo! sto spesso sdrajato su la riva del lago de' cinque fonti: mi sento vezzeggiare la faccia e le chiome dai venticelli che alitando sommovono l'erba, e allegrano i fiori, e increspano le limpide acque del lago. Lo credi tu? io delirando deliziosamente mi veggo dinanzi le Ninfe ignude, saltanti, inghirlandate di rose, e invoco in lor compagnia le Muse e l'Amore; e fuor dei rivi che cascano sonanti e spumosi, vedo uscir sino al petto con le chiome stillanti sparse su le spalle rugiadose, e con gli occhi ridenti le Najadi, amabili custodi delle fontane. Illusioni! grida il filosofo. - Or non è tutto illusione? tutto! Beati gli antichi che si credeano degni de' baci delle immortali dive del cielo; che sacrificavano alla Bellezza e alle Grazie; che diffondeano lo splendore della divinità su le imperfezioni dell'uomo, e che trovavano il BELLO ed il VERO accarezzando gli idoli della lor fantasia! Illusioni! ma intanto senza di esse io non sentirei la vita che nel dolore, o (che mi spaventa ancor più) nella rigida e nojosa indolenza: e se questo cuore non vorrà più sentire, io me lo strapperò dal petto con le mie mani, e lo caccerò come un servo infedele.
21 Maggio
Ohimè che notti lunghe, angosciose! - il timore di non rivederla mi desta: divorato da un presentimento profondo, ardente, smanioso, sbalzo dal letto al balcone e non concedo riposo alle mie membra nude aggrezzate, se prima non discerno sull'oriente un raggio di giorno. Corro palpitando al suo fianco e stupido! soffoco le parole, e i sospiri: non concepisco, non odo: il tempo vola, e la notte mi strappa da quel soggiorno di paradiso. - Ahi lampo! tu rompi le tenebre, splendi, passi ed accresci il terrore e l'oscurità.
25 Maggio
Ti ringrazio, eterno Iddio, ti ringrazio! Tu hai dunque
ritirato il tuo sospiro, e Lauretta ha lasciato alla terra le sue infelicità:
tu ascolti i gemiti che partono dalle viscere dell'anima, e mandi la Morte per
isciogliere dalle catene della vita le tue creature perseguitate ed afflitte.
Mia cara amica! il tuo sepolcro beva almeno queste lagrime, sole esequie ch'io
posso offerirti: le zolle che ti nascondono sieno coperte di fresca erba, e
dalle benedizioni di tua madre e dalla mia. Tu vivendo speravi da me qualche
conforto; eppure! non ho potuto nemmeno prestarti gli ultimi ufficj; ma - ci
rivedremo - sì.
Quand'io, caro Lorenzo, mi ricordava di quella povera innocente, certi
presentimenti mi gridavano dentro l'anima: È morta. Pure se tu non me ne
avessi scritto, io certo non lo avrei saputo mai; perché, e chi si cura della
virtù quand'è ravvolta nella povertà? Spesso mi sono accinto a scriverle. M'è
caduta la penna, e ho bagnato la carta di lagrime: temeva non mi raccontasse
de' nuovi martirj, e mi destasse nel cuore una corda la cui vibrazione non
sarebbe cessata sì tosto. Pur troppo! noi sfuggiamo d'intendere i mali de'
nostri amici; le loro miserie ci sono gravi, e il nostro orgoglio sdegna di
porgere il conforto delle parole, sì caro agli infelici, quando non si può unire
un soccorso vero e reale. Ma - fors'ella e sua madre mi annoveravano fra la
turba di coloro che ubbriacati dalla prosperità abbandonano gli sventurati. Lo
sa il cielo! Frattanto Dio ha conosciuto che non poteva reggere più: Ei
tempera i venti in favore dell'agnello recentemente tosato; e - tosato al
vivo! E ti dee pur ricordare com'essa un giorno tornò a casa sua, portando
chiuso nel suo canestrino da lavoro un cranio di morto; e ci scoverse il
coperchio, e rideva; e mostrava il cranio in mezzo a un nembo di rose. - E
le sono tante e tante, diceva a noi, queste rose; e le ho rimondate di
tutte le spine: e domani le si appassiranno: ma io ne compererò ben dell'altre
perché ogni giorno, ogni mese crescono rose, e la morte se le piglia
tuttequante. - Ma che vuoi tu farne, o Lauretta; io le dissi. - Vo'
coronare questo cranio di rose, e ogni giorno di rose fresche; - e
rispondendo rideva pur sempre con soave amabilità. E in quelle parole e in quel
riso e in quell'aria di volto demente e in quegli occhi fitti sul cranio e in
quelle sue dita pallide e tremanti che andavano intrecciando le rose - tu ti
se' pur avveduto come alle volte il desiderio di morire è necessario insieme e
dolcissimo; ed eloquente fin anche sul labbro d'una fanciulla impazzata.
Tornerò, Lorenzo: conviene ch'io esca; il mio cuore si gonfia e geme come se
non volesse starmi più in petto: su la cima di un monte mi sembra d'essere
alquanto più libero; ma qui nella mia stanza - sto quasi sotterrato in un
sepolcro. -
Sono salito su la più alta montagna: i venti imperversavano; io vedeva le
querce ondeggiar sotto a' miei piedi; la selva fremeva come mar burrascoso, e
la valle ne rimbombava; su le rupi dell'erta sedeano le nuvole - nella
terribile maestà della Natura la mia anima attonita e sbalordita ha dimenticato
i suoi mali, ed è tornata alcun poco in pace con se medesima.
Vorrei dirti di grandi cose: mi passano per la mente; vi sto pensando! -
m'ingombrano il cuore, s'affollano, si confondono: non so più da quale io mi
debba incominciare; poi tutto a un tratto mi sfuggono, e prorompo in un pianto
dirotto. Vado correndo come un pazzo senza saper dove, e perché: non m'accorgo,
e i miei piedi mi trascinano fra precipizj. Io domino le valli e le campagne
soggette; magnifica ed inesausta creazione! I miei sguardi e i miei pensieri si
perdono nel lontano orizzonte. - Vo salendo, e sto lì - ritto - anelante -
guardo ingiù; ahi voragine! - alzo gli occhi inorridito e scendo precipitoso
appiè del colle dove la valle è più fosca. Un boschetto di giovani querce mi
protegge dai venti e dal sole; due rivi d'acqua mormorano qua e là
sommessamente: i rami bisbigliano, e un rosignuolo - ho sgridato un pastore che
era venuto per rapire dal nido i suoi pargoletti: il pianto, la desolazione, la
morte di quei deboli innocenti dovevano essere venduti per una moneta di rame;
così va! or bench'io l'abbia compensato del guadagno che sperava di trarne e mi
abbia promesso di non disturbare più i rosignuoli, tu credi ch'ei non tornerà a
desolarli? - e là io mi riposo. - Dove se' ito, o buon tempo di prima! la mia
ragione è malata e non può fidarsi che nel sopore, e guai se sentisse tutta la
sua infermità! Quasi quasi - povera Lauretta! tu forse mi chiami - e forse fra
non molto io verrò. Tutto, tutto quello ch'esiste per gli uomini non è che la
lor fantasia. Dianzi fra le rupi la morte mi era spavento; e all'ombra di quel
boschetto io avrei chiusi gli occhi volentieri in sonno eterno. Ci fabbrichiamo
la realtà a nostro modo; i nostri desideri si vanno moltiplicando con le nostre
idee; sudiamo per quello che vestito diversamente ci annoja; e le nostre
passioni non sono alla stretta del conto che gli effetti delle nostre
illusioni. Quanto mi sta d'intorno richiama al mio cuore quel dolce sogno della
mia fanciullezza. O! come io scorreva teco queste campagne aggrappandomi or a
questo or a quell'arbuscello di frutta, immemore del passato, non curando che
del presente, esultando di cose che la mia immaginazione ingrandiva e che dopo
un'ora non erano più, e riponendo tutte le mie speranze ne' giuochi della
prossima festa. Ma quel sogno è svanito! e chi m'accerta che in questo momento
io non sogni? Ben tu, mio Dio, tu che creasti gli umani cuori, tu solo, sai che
sonno spaventevole è questo ch'io dormo; sai che non altro m'avanza fuorché il
pianto e la morte.
Così vaneggio! cangio voti e pensieri, e quanto la Natura è più bella tanto più
vorrei vederla vestita a lutto. E veramente pare che oggi m'abbia esaudito. Nel
verno passato io era felice: quando la Natura dormiva mortalmente la mia anima
pareva tranquilla - ed ora?
Eppur mi conforto nella speranza di essere compianto. Su l'aurora della vita io
cercherò forse invano il resto della mia età che mi verrà rapito dalle mie
passioni e dalle mie sventure; ma la mia sepoltura sarà bagnata dalle tue
lagrime, dalle lagrime di quella fanciulla celeste. E chi mai cede a una eterna
obblivione questa cara e travagliata esistenza? Chi mai vide per l'ultima volta
i raggi del Sole, chi salutò la Natura per sempre, chi abbandonò i suoi
diletti, le sue speranze, i suoi inganni, i suoi stessi dolori senza lasciar
dietro a sé un desiderio, un sospiro, uno sguardo? Le persone a noi care che ci
sopravvivono, sono parte di noi. I nostri occhi morenti chiedono altrui qualche
stilla di pianto, e il nostro cuore ama che il recente cadavere sia sostenuto
da braccia amorose, e cerca un petto dove trasfondere l'ultimo nostro respiro.
Geme la Natura perfin nella tomba, e il suo gemito vince il silenzio e
l'oscurità della morte.
M'affaccio al balcone ora che la immensa luce del Sole si va spegnendo, e le
tenebre rapiscono all'universo que' raggi languidi che balenano su l'orizzonte;
e nella opacità del mondo malinconico e taciturno contemplo la immagine della
Distruzione divoratrice di tutte le cose. Poi giro gli occhi sulle macchie de'
pini piantati dal padre mio su quel colle presso la porta della parrocchia, e
travedo biancheggiare fra le frondi agitate da' venti la pietra della mia
fossa. E mi par di vederti venir con mia madre, a benedire, o perdonar non
foss'altro alle ceneri dell'infelice figliuolo. E predico a me, consolandomi:
Forse Teresa verrà solitaria su l'alba a rattristarsi dolcemente su le mie
antiche memorie, e a dirmi un altro addio. No! la morte non è dolorosa. Che se
taluno metterà le mani nella mia sepoltura e scompiglierà il mio scheletro per
trarre dalla notte in cui giaceranno, le mie ardenti passioni, le mie opinioni,
i miei delitti - forse; non mi difendere, Lorenzo; rispondi soltanto: Era
uomo, e infelice.
26 Maggio
Ei viene, Lorenzo - ei ritorna.
Scrisse di Toscana ove si fermerà venti giorni; e la lettera è in data de' 18
Maggio: fra due settimane al più - dunque!
27 Maggio
Ma penso: Ed è pur vero che questa immagine d'angelo de' cieli
esista qui, in questo basso mondo, fra noi? e sospetto d'essermi innamorato
della creatura della mia fantasia.
E chi non avrebbe voluto amarla anche infelicemente? e dov'è l'uomo così
avventuroso col quale io degnassi di cangiare questo mio stato lagrimevole? -
ma come io posso dall'altra parte essere tanto carnefice mio per tormentarmi -
or nol veggo? nol vidi pur sempre? - senza niuna speranza? - Forse! un certo
orgoglio in costei della sua bellezza e delle mie angosce - non mi ama, e la
sua compassione coverà un tradimento. Ma quel suo bacio celeste che mi sta
sempre su le labbra e mi domina tutti i pensieri? e quel suo pianto? - ahi, ma
dopo quel momento mi sfugge; né s'attenta di guardarmi più in faccia.
Seduttore! io? - e quando mi sento tuonare nell'anima quella tremenda sentenza:
Non sarò vostra mai; io trapasso di furore in furore e medito delitti di
sangue. - Non tu, innocente vergine, io solo io solo ho tentato il tradimento;
e l'avrei, chi sa? - consumato.
O! un altro tuo bacio, e abbandonami poscia a' miei sogni e a' miei soavi
delirj: io ti morrò a' piedi; ma tutto tuo, e sapendo che pur t'ho lasciata
innocente - ma insieme infelice! Tu, se non potrai essermi sposa, mi sarai
almeno compagna nel sepolcro. Ah no; la pena di questo amore fatale si rovesci
sopra di me. Ch'io pianga per tutta un'eternità; ma che il cielo, o Teresa, non
voglia che tu sia lungamente per mia cagione infelice! - Ma intanto io ti ho
perduta, e tu mi t'involi, tu stessa. Ah se tu mi amassi com'io t'amo!
Eppure, o Lorenzo, in sì fieri dubbj, e in tanti tormenti, ogni qual volta io
domando consiglio alla mia ragione, mi riconforta dicendomi: Tu non se'
immortale. Or via, soffriamo dunque; e sino agli estremi - uscirò, uscirò
dall'inferno della vita; e basto io solo: a questa idea rido e della fortuna, e
degli uomini, e quasi della onnipotenza di Dio.
28 Maggio
Spesso io mi figuro tutto il mondo a soqquadro, e il Cielo, e il Sole, e l'Oceano, e tutti i globi nelle fiamme e nel nulla; ma se anche in mezzo alla universale rovina io potessi stringere un'altra volta Teresa - un'altra volta soltanto fra queste braccia, io invocherei la distruzione del creato.
29 Maggio, all'alba
O illusione! perché quando ne' miei sogni quest'anima è un
paradiso, e Teresa è al mio fianco, e mi sento sospirar su la bocca, e - perché
mi trovo poi un vuoto, un vuoto di tomba? Almen que' beati momenti non fossero
mai venuti, o non fossero fuggiti mai! - questa notte io cercava brancicando
quella mano che me l'ha strappata dal seno: mi parea d'intendere da lontano un
suo gemito; ma le coltri molli di pianto, i miei capelli sudati, il mio petto
ansante, la fitta e muta oscurità - tutto tutto mi gridava: Misero, tu
deliri! Spaventato e languente mi sono buttato boccone sul letto
abbracciando il guanciale, e cercando di tormentarmi nuovamente e d'illudermi.
Se tu mi vedessi stanco, squallido, taciturno errar su e giù per le montagne e
cercar di Teresa, e temer di trovarla, sovente brontolar fra me stesso,
chiamare, pregarla, e rispondere alle mie voci: arso dal Sole mi caccio sotto
una macchia e m'addormento o vaneggio - ahi che sovente la saluto come se la
vedessi, e mi pare di stringerla e di baciarla - poi mi svanisce, ed io tengo
gli occhi inchiodati sui precipizj di qualche dirupo. Sì! conviene ch'io la
finisca.
29 Maggio, a sera
Fuggir dunque, fuggire: ma dove? credimi, io mi sento malato: appena reggo questo mio corpo per potermelo strascinare sino alla villa, e confortarmi in quegli occhi e bere un altro sorso di vita, forse ultimo - ma senz'essa vorrei più questo inferno? Dianzi l'ho salutata per andarmene; non rispose - scesi le scale; ma non poteva scostarmi dal suo giardino: e - lo credi? la sua vista mi dà soggezione. Vedendola poi scendere con sua sorella ho tentato di tirarmi sotto una pergola e fuggirmene. La Isabellina ha gridato: Viscere mie, viscere mie, non ci avete vedute? Colpito quasi da un fulmine mi sono precipitato sopra un sedile; la ragazza mi s'è gettata al collo carezzandomi, e dicendomi all'orecchio: Perché taci sempre? Non so se Teresa m'abbia guardato; sparì dentro un viale. Dopo mezz'ora tornò a chiamare la ragazza che stava ancora fra le mie ginocchia, e m'accorsi come le sue pupille erano rosse di pianto; non mi parlò, ma mi ammazzò con un'occhiata quasi volesse dirmi: Tu mi hai ridotta così.
2 Giugno
Ecco tutto ne' suoi veri sembianti. Ahi! non sapeva che in me
s'annidasse questa furia che m'investe, m'arde, mi annienta, eppur non mi
uccide. Dov'è la Natura? Dov'è la sua immensa bellezza? Dov'è l'intreccio
pittoresco de' colli ch'io contemplava dalla pianura inalzandomi con l'immaginazione
nelle regioni dei cieli? mi sembrano rupi nude e non veggo che precipizj. Le
loro falde coperte di ombre ospitali mi sono fatte nojose: io vi passeggiava un
tempo fra le ingannevoli meditazioni della nostra debole filosofia. A qual pro
se ci fanno conoscere le infermità nostre, né porgono i rimedj da risanarle? -
Oggi io sentiva gemere la foresta ai colpi delle scuri: i contadini atterravano
i roveri di duecento anni: - tutto père quaggiù!
Guardo le piante ch'una volta scansava di calpestare, e mi soffermo sovr'esse e
le strappo, e le sfioro gittandole fra la polvere rapita dai venti. Gemesse con
me l'universo!
Sono uscito assai prima del Sole e correndo attraverso de' solchi, cercava
nella stanchezza del corpo qualche sopore a quest'anima tempestosa. La mia
fronte era tutta sudore, e il mio petto ansava con difficile anelito. Soffia il
vento della notte e mi scompiglia le chiome ed agghiaccia il sudore che
grondavami dalle guance. - Oh! da quell'ora mi sento per tutte le membra un
brivido, le mani fredde, le labbra livide, e gli occhi erranti fra le nuvole
della morte.
Almeno costei non mi perseguitasse con la sua immagine, ovunque io mi vada, a
piantarmisi faccia a faccia: perch'ella, o Lorenzo - perch'ella mi move qui
dentro un terrore, una disperazione, una rabbia, una gran guerra - e medito
talor di rapirla e di strascinarla con me nei deserti lungi dalla prepotenza
degli uomini. - Ahi sciagurato! mi percuoto la fronte e bestemmio - partirò.
A chi legge
Tu forse, o Lettore, ti se' fatto amico di Jacopo, e brami di sapere la storia
della sua passione; onde io per narrartela andrò quindi innanzi interrompendo
la serie delle sue lettere.
La morte di Lauretta esacerbò la sua malinconia fatta ancora più nera per
l'imminente ritorno di Odoardo. Diradò le sue visite in casa T***, e non
parlava con anima nata. Dimagrato, sparuto, con gli occhi incavati, ma
spalancati e pensosi, la voce cupa, i passi tardi, andava per lo più
inferrajuolato, senza cappello, e con le chiome giù per la faccia; vegliava le
notti intere girando per le campagne, e il giorno fu spesso veduto dormire
sotta qualche albero.
In questa, tornò Odoardo in compagnia di un giovine pittore che ripatriava da
Roma. Quel giorno stesso incontrarono Jacopo. Odoardo gli si fe' incontro
abbracciandolo; Jacopo quasi sbigottito si arretrò. Il pittore gli disse che
avendo udito a parlare di lui e dell'ingegno suo, da gran tempo bramava di
conoscerlo di persona. - Ei lo interruppe?: Io? - io,
signor mio, non ho mai potuto conoscere me medesimo negli altri mortali; però
non credo che gli altri possano mai conoscere se medesimi in me. Gli
domandarono interpretazione di sì ambigue parole; ed ei per tutta risposta si
ravvolse nel suo tabarro, si cacciò fra gli alberi; e sparì. Odoardo si dolse
di questo contegno col padre di Teresa, il quale già incominciava a temere
della passione di Jacopo.
Teresa dotata di una indole meno risentita, ma passionata ed ingenua; propensa
a una affettuosa malinconia, priva nella solitudine d'ogni altro amico di
cuore, nell'età in cui parla in noi la dolce necessità di amare e di essere
riamati, incominciò a confidare a Jacopo tutta l'anima sua, e a poco a poco se
ne innamorò; ma non ardiva confessarlo a se stessa: e dopo la sera di quel
bacio viveva assai riservata, sfuggendo l'amante, e tremando alla presenza del
padre. Allontanata da sua madre, senza consiglio e senza conforto, atterrita
dal suo stato futuro, e dalla virtù e dall'amore, diventò solitaria, non
parlava quasi mai, leggeva sempre, trascurava e il disegno, e la sua arpa, e il
suo abbigliamento, e fu spesso sorpresa dai famigliari con le lagrime agli
occhi. Scansava la compagnia delle giovinette sue amiche che a primavera
villeggiavano a' colli Euganei; e dileguandosi a tutti e alla sua sorellina, sedeva
molte ore ne' luoghi più appartati del suo giardino. Regnava quindi in quella
casa un silenzio e una certa diffidenza che turbarono lo sposo trafitto anche
da' modi sdegnosi di Jacopo incapace di simulazione. Naturalmente parlava con
enfasi; e sebbene conversando fosse taciturno, fra' suoi amici era loquace,
pronto al riso, e ad una allegria schietta, eccessiva. Ma in que' giorni le sue
parole ed ogni suo atto erano veementi e amari come l'anima sua. Istigato una
sera da Odoardo che giustificava il trattato di Campo Formio, si diede a
disputare, a gridare come un invasato, a minacciare, a percuotersi la testa, e
a piangere d'ira. Avea sempre un'aria assoluta; ma il signore T*** mi
raccontava che allora o stava sepolto ne' suoi pensieri, o se discorreva,
s'infiammava d'improvviso; i suoi occhi metteano paura, e talvolta fra il
discorso gli abbassava inondati di pianto. Odoardo si fe' più circospetto, e
sospettò del cangiamento di Jacopo.
Così passò tutto Giugno. Il misero giovine diveniva ogni dì più tetro ed
infermo; né scriveva più alla sua famiglia, né rispondeva alle mie lettere.
Spesso fu veduto da' contadini cavalcare a briglia sciolta per luoghi scoscesi,
e in mezzo alle fratte e a traverso de' fossi, ed è maraviglia com'ei non sia
pericolato. Una mattina il pittore stando a ritrarre la prospettiva de' monti,
udì la sua voce fra il bosco: gli si accostò di soppiatto, e intese ch'ei
declamava una scena del Saule. Allora gli riuscì di disegnare il
ritratto dell'Ortis, che sta in fronte a questa edizione, appunto quand'ei si
soffermava pensoso dopo avere proferito que' versi dell'atto I, scena I.
Precipitoso
Già mi sarei fra gl'inimici ferri
Scagliato io da gran tempo; avrei già tronca
Così la vita orribile ch'io vivo.
Poi lo vide arrampicarsi sino alla cima
della montagna, guardare all'ingiù risolutamente con le braccia aperte, e tutto
ad un tratto arretrarsi esclamando: O madre mia!
Una domenica rimase a desinare in casa T***. Pregò Teresa perché suonasse, e
le porse l'arpa egli stesso. Mentr'ella incominciava, entrò suo padre e le
s'assise da canto. Jacopo pareva inondato da una dolce mestizia e il suo
aspetto si andava rianimando; ma a poco a poco chinò la testa, e ricadde in una
malinconia più compassionevole di prima. Teresa lo sogguardava e sforzavasi di
reprimere il pianto: Jacopo se n'avvide, né potendosi contenere, s'alzò e
partì. Il padre intenerito si voltò a Teresa dicendole: O figlia mia, tu
vuoi dunque precipitare teco noi tutti? A queste parole le sgorgarono
d'improvviso le lagrime; si gittò fra le braccia di suo padre, e gli confessò.
In questa entrava Odoardo; e la subita partenza di Jacopo, e l'atteggiamento di
Teresa, e il turbamento del signore T*** lo raffermarono ne' suoi dubbj. Queste
cose le ho udite dalla bocca di Teresa.
Il dì seguente, che fu la mattina de' 7 luglio, Jacopo andò da Teresa, e vi
trovò lo sposo, e il pittore che le faceva il ritratto nuziale. Teresa confusa
e tremante uscì in fretta come per badare a qualche cosa di cui si era
dimenticata; ma passando davanti a Jacopo gli disse ansiosamente sottovoce: Mio
padre sa tutto. Ei non fe' motto né cambiò viso; passeggiò tre o quattro
volte su e giù per la stanza, ed uscì. Per tutto quel giorno non si lasciò
vedere ad uomo vivente. Michele che lo aspettava a desinare, ne cercò invano.
Non si ridusse a casa che a mezzanotte suonata. Si sdrajò vestito sul letto, e
mandò a dormire il ragazzo. Poco dopo s'alzò e scrisse.
Mezzanotte
Io mandava alla Divinità i miei ringraziamenti, e i miei voti,
ma io non la ho mai temuta. Eppure adesso che sento tutto il flagello delle
sventure, io la temo e la supplico.
Il mio intelletto è acciecato, la mia anima è prostrata, il mio corpo è
sbattuto dal languore della morte.
È vero! i disgraziati hanno bisogno di un altro mondo diverso da questo dove
mangiano un pane amaro, e bevono l'acqua mescolata alle lagrime. La
immaginazione lo crea, e il cuore si consola. La virtù sempre infelice quaggiù
persevera con la speranza di un premio - ma sciagurati coloro che per non
essere scellerati hanno bisogno della religione!
Mi sono prostrato in una chiesetta posta in Arquà, perché io sentiva che la
mano di Dio pesava sopra il mio cuore.
Son io debole forse, Lorenzo? Il cielo non ti faccia mai sentire la necessità
della solitudine, delle lagrime, e di una chiesa!
Ore 2
Il Cielo è tempestoso: le stelle rare e pallide; e la Luna mezza sepolta fra le nuvole batte con raggi lividi le mie finestre.
All'alba
Lorenzo, non odi? t'invoca l'amico tuo: qual sonno! spunta un
raggio di giorno e forse per rinsanguinare i miei mali. - Dio non mi ode. Mi
condanna anzi ad ogni minuto all'agonia della morte; e mi costringe a maledire
i miei giorni che pur non sono macchiati di alcun delitto.
Che? se tu se' un Dio forte, prepotente, geloso, che rivedi le iniquità de'
padri ne' figli, e che visiti nel tuo furore la terza e la quarta generazione,
dovrò io sperar di placarti? Manda in me - bensì non in altri che in me - l'ira
tua, la quale raccende nell'inferno le fiamme che dovranno ardere
milioni e milioni di popoli a' quali non ti se' fatto conoscere. - Ma Teresa è
innocente: e anziché stimarti crudele, t'adora con serenità soavissima d'animo.
Io non t'adoro, appunto perché ti pavento - e sento pure che ho bisogno di te.
Spogliati, deh! spogliati degli attributi di cui gli uomini t'hanno vestito per
farti simile a loro. Non se' tu forse il Consolatore degli afflitti? E il tuo
Figlio Divino non si chiamava egli il Figlio dell'Uomo? Odimi dunque.
Questo cuore ti sente, ma non t'offendere del gemito a cui la Natura costringe
le viscere dilaniate dell'uomo. E mormoro contro di te, e piango, e t'invoco,
sperando di liberare l'anima mia - di liberarla? ma e come, se non è piena di
te? se non ti ha implorato nella prosperità, e solo rifugge al tuo ajuto, e
domanda il tuo braccio or quando è atterrata nella miseria? se ti teme, e non
ha in te veruna speranza? Né spera, né desidera che Teresa: e ti vedo in lei
sola.
Ecco, o Lorenzo, fuor delle mie labbra il delitto per cui Dio ha ritirato il
suo sguardo da me. Non l'ho mai adorato come adoro Teresa. - Bestemmia! Pari a
Dio colei che sarà a un soffio scheletro e nulla? Vedi l'uomo umiliato. Dovrò
dunque io anteporre Teresa a Dio? - Ah da lei si spande beltà celeste ed
immensa, beltà onnipotente. Misuro l'universo con uno sguardo; contemplo con
occhio attonito l'eternità; tutto è caos, tutto sfuma, e s'annulla; Dio mi
diventa incomprensibile; e Teresa mi sta sempre davanti.
Dopo due giorni ammalò. Il padre di Teresa andò a
visitarlo, e si giovò di quell'occasione a persuaderlo che s'allontanasse da'
colli Euganei. Come discreto e generoso ch'egli era, stimava l'ingegno e
l'animo di Jacopo, e lo amava come il più caro amico ch'ei potesse aver mai; e
m'accertò che in circostanze diverse avrebbe creduto d'ornare la sua famiglia
pigliandosi per genero un giovine che se partecipava d'alcuni errori del nostro
tempo, ed era dotato d'indomita tempra di cuore, aveva a ogni modo, al dire del
signore T***, opinioni e virtù degne de' secoli antichi. Ma Odoardo era ricco,
e di una famiglia sotto la cui parentela il signore T*** fuggiva alle
persecuzioni e alle insidie de' suoi nemici, i quali lo accusavano d'avere
desiderato la verace libertà del suo paese; delitto capitale in Italia. Bensì
imparentandosi all'Ortis, avrebbe accelerato la rovina di lui, e della propria
famiglia. Oltre di che aveva obbligata la sua fede; e per mantenerla s'era
ridotto a dividersi da una moglie a lui cara. Né i suoi bilanci domestici gli
assentivano di accasare Teresa con una gran dote, necessaria alle mediocri
sostanze dell'Ortis. Il signore T*** mi scrisse queste cose, e le disse a
Jacopo che sapeale da sé, e le ascoltò con aspetto riposatissimo; ma non sì
tosto udì parlare di dote. No, lo interruppe,
esule, povero, oscuro a tutti i mortali, mi vorrei sotterrar vivo anziché
domandarvi vostra figlia in sposa. Sono sfortunato, non però vile. Né i miei
figliuoli dovranno riconoscere mai la loro fortuna dalla ricchezza della loro
madre. Vostra figlia è più ricca di me, ed è promessa. Dunque? rispose il
signore T***. - Jacopo non fiatò. Alzò gli occhi al cielo, e dopo molta ora:
O Teresa, esclamò, sarai a ogni modo infelice! O amico mio, gli
soggiunse allora amorevolmente il signore T***, e per chi mai cominciò ad
essere misera se non per voi? Erasi già per amor mio rassegnata al suo stato; e
sola poteva rappacificare una volta i suoi poveri genitori. Vi ha amato; e voi
che pure l'amate con sì altera generosità, voi pur le rapite uno sposo, e
manterrete discorde una casa ove foste, e siete, e sarete sempre accolto come
figliuolo. Arrendetevi; allontanatevi per alcuni mesi. Forse avreste trovato in
altri un padre severo: ma io! - sono stato anch'io sventurato; ho provato le
passioni, pur troppo! e ne provo - e ho imparato a compiangerle, perché sento
io pure il bisogno d'essere compatito. Bensì da voi solo all'età mia quasi
canuta ho imparato come alle volte si stima l'uomo che ci danneggia, massime se
è dotato di tale carattere da far parere generosi e tremendi gli affetti che in
altri pajoni colpevoli insieme e risibili. Né io vel dissimulo: voi, dal dì che
primamente vi ho conosciuto, avete assunto tale inesplicabile predominio sopra
di me, da costringermi a temervi insieme ed amarvi: e spesso andava noverando i
minuti per impazienza di rivedervi, e nel tempo stesso io sentivami preso d'un
tremito subitaneo e secreto allorché i miei servi mi davano avviso che voi
salivate le scale. Or voi abbiate pietà di me, e della vostra gioventù, e della
fama di Teresa. La sua beltà e la sua salute vanno languendo; le sue viscere si
struggono nel silenzio, e per voi. Io vi scongiuro in nome di Teresa, partite;
sacrificate la vostra passione alla sua quiete; e non vogliate ch'io sia
l'amico insieme e il marito e il padre più misero che sia mai nato. Jacopo
parea intenerito: non però mutò aspetto, né gli cadde lagrima dagli occhi, né
rispose parola; benché il signore T*** a mezzo il discorso si rattenesse a
stento dal piangere: e restò a canto al letto di Jacopo sino a notte
tardissima: ma né l'uno né l'altro aprirono più bocca se non quando si dissero
addio. - La malattia del giovine aggravò; e ne' giorni seguenti fu sovrappreso
da febbre pericolosa.
Frattanto io sgomentato e dalle lettere recenti di Jacopo, e da quelle del
padre di Teresa, studiava ogni via per accelerare la partenza dell'amico mio,
come solo rimedio alla sua violenta passione. Né ebbi cuore di rivelarla a sua
madre, la quale aveva già avuto molte altre dolorosissime prove dell'indole sua
capace d'eccessi; e le dissi soltanto, ch'era un po' malato, e che il mutar
aria gli avrebbe certamente giovato.
In quel tempo stesso incominciavano a inferocire in Venezia le persecuzioni.
Non v'erano leggi; ma tribunali arbitrarj; non accusatori, non difensori; bensì
spie di pensieri, delitti nuovi, ignoti a chi n'era punito, e pene subite,
inappellabili. I più sospettati gemevano carcerati; gli altri, benché d'antica
e specchiata fama, erano tolti di notte alle proprie case, manomessi dagli
sgherri, strascinati a' confini e abbandonati alla ventura, senza l'addio de'
congiunti, e destituti d'ogni umano soccorso. Per alcuni pochi l'esilio scevro
da questi modi violenti ed infami fu somma clemenza. Ed io pure tardo, e non
ultimo e tacito martire, vo da più mesi profugo per l'Italia volgendo senza
nessuna speranza gli occhi lagrimosi alle sponde della mia patria. Onde io
allora, adombrato anche per la libertà di Jacopo, persuasi sua madre,
quantunque desolatissima, a raccomandargli che sino a tempi migliori cercasse
rifuggio in altro paese; tanto più che quando s'era partito di Padova, si scusò
allegando gli stessi pericoli. Fu fidata la lettera a un servo il quale giunse
a' colli Euganei la sera de' 15 Luglio, e trovò Jacopo ancora a letto, sebbene
migliorato d'assai. Gli sedeva vicino il padre di Teresa. Lesse la lettera
sommessamente, e la posò sul guanciale; poco dopo la rilesse, e parve commosso;
ma non ne parlò.
Il dì 19 s'alzò da letto. In quel giorno stesso sua madre gli riscrisse
inviandogli danaro, due cambiali, e parecchie commendatizie, e scongiurandolo
per le viscere di Dio che partisse. Assai prima di sera andò da Teresa; e non
trovò che l'Isabellina la quale tutta intenerita contò ch'ei s'assise muto, si
rizzò, la baciò, e se ne andò. Tornò dopo un'ora, e salendo per le scale la
incontrò nuovamente, e se la strinse al petto, la baciò più volte, e la bagnò
di lagrime. Si pose a scrivere, mutò varii fogli, e li stracciò poi tutti. Si
aggirò pensieroso per l'orto. Un servo passandovi su l'imbrunire, lo vide
sdrajato: ripassando, lo trovò ritto presso al rastrello in atto d'uscire, e
col capo rivolto attentissimo verso la casa ch'era battuta dalla Luna.
Tornatosi a casa, rimandò il messo rispondendo a sua madre, che domani su
l'alba partiva. Fece ordinare i cavalli alla posta più vicina. Innanzi di
coricarsi, scrisse la lettera seguente per Teresa, e la consegnò all'ortolano.
All'alba partì.
Ore 9
Perdonami, Teresa; io ho funestato la tua giovinezza, e la quiete della tua casa; ma fuggirò. Né io mi credeva dotato di tanta costanza. Posso lasciarti, e non morir di dolore; e non è poco; usiamo dunque di questo momento finché il cuore mi regge, e la ragione non mi abbandona affatto. Pur la mia mente è sepolta nel solo pensiero di amarti sempre e di piangerti. Ma sarà obbligo mio di non più scriverti, né di mai più rivederti se non se quando sarò certissimo di lasciarti quieta davvero. Oggi t'ho cercato invano per dirti addio. Abbiti almeno, o Teresa, queste ultime righe ch'io bagno, tu 'l vedi, d'amarissime lagrime. Mandami in qualunque tempo, in qualunque luogo il tuo ritratto. Se l'amicizia, se l'amore - o la compassione e la gratitudine ti parlano ancora per questo sconsolato, non negarmi il ristoro che addolcirà tutti i miei patimenti. Tuo padre stesso me lo concederà, spero - egli egli che potrà vederti, ed udirti, e sentirsi riconfortato da te; mentr'io nelle ore fantastiche del mio dolore e delle mie passioni, nojato da tutto il mondo, diffidente di tutti, camminando sopra la terra come di locanda in locanda, e drizzando volontariamente i miei passi verso la sepoltura - perché ho veramente necessità di riposo - io mi conforterò intanto baciando dì e notte l'immagine tua: e così tu m'infonderai da lontano costanza da sopportare questa mia vita, - e finché avrò forze, io la sopporterò per te, e te lo giuro. E tu prega - prega, o Teresa, dalle viscere del tuo cuore purissimo il Cielo - non che mi perdoni i dolori, che forse avrò meritati, e che forse sono inseparabili dalla tempra dell'anima mia - bensì che non mi levi le poche facoltà che ancora mi avanzano, da tollerarli. Con l'immagine tua farò men angosciose le mie notti, e meno tristi i miei giorni solitarj, que' giorni ch'io dovrò pur vivere senza di te. Morendo, io volgerò a te gli ultimi sguardi, io ti raccomanderò il mio sospiro; verserò sovra di te l'anima mia, ti porterò meco nella mia sepoltura attaccata al mio petto - e se è pure prescritto ch'io chiuda gli occhi in terra straniera, e dove nessun cuore mi piangerà, io ti richiamerò tacitamente al mio capezzale, e mi parrà di vederti in quell'aspetto, in quell'atto, con quella stessa pietà che io ti vedeva, quando una volta, assai prima che tu sapessi di amarmi, assai prima che tu t'accorgessi dell'amor mio - ed io era ancora innocente verso di te - mi assistevi nella mia malattia. - Di te non ho se non l'unica lettera che mi scrivesti quando io era in Padova: felice tempo! ma chi l'avrebbe mai detto? allora parevami che tu mi raccomandassi di ritornare: - ed ora? scrivo il decreto; ed eseguirò fra poche ore il decreto della nostra eterna separazione. Da quella tua lettera comincia la storia dell'amor nostro e non mi abbandonerà mai. O mia Teresa! e questi son pure delirj: ma sono insieme la sola consolazione di chi è insanabilmente infelice. Addio. Perdonami, mia Teresa - ohimè, io mi credeva più forte! - scrivo male e di un carattere appena leggibile; ma ho l'anima lacerata, e il pianto su gli occhi. Per carità non mi negare il tuo ritratto. Consegnalo a Lorenzo: e s'ei non me lo potrà far arrivare, lo custodirà come eredità santa che gli ricorderà sempre le tue virtù, e la tua bellezza, e l'unico eterno infelicissimo amore del suo misero amico. Addio - ma non è l'ultimo; mi rivedrai: e da quel giorno in poi sarò fatto tale da obbligare gli uomini ad avere pietà e rispetto alla nostra passione; e a te non sarà più delitto l'amarmi - pur se innanzi ch'io ti rivegga, il mio dolore mi scavasse la fossa, concedimi ch'io mi renda cara la morte con la certezza che tu m'hai amato. - Or sì ch'io sento in che dolore io ti lascio! Oh! potessi morire a' tuoi piedi: oh! morire ed essere sepolto nella terra che avrà le tue ossa - ma addio.
Michele dissemi che il suo podrone viaggiò per due poste silenziosissimo, e con aspetto assai calmo, e quasi sereno. Poi chiese il suo scrigno da viaggio; e tanto che si rimutavano i cavalli, scrisse il seguente biglietto al signore T***
Signore ed amico mio.
All'ortolano di casa mia ho raccomandato jer sera una lettera da ricapitarsi
alla Signorina; - e bench'io l'abbia scritta quand'io già m'era saldamente
deliberato a questo partito d'allontanarmi, temo a ogni modo d'avere versato
sovra quel foglio tanta afflizione da contristare quella innocente. A lei
dunque, signor mio, non rincresca di farsi mandare quella lettera
dall'ortolano; e gli fo' dire che non la fidi se non a lei solo. La serbi così
sigillata o la bruci. Ma perché alla sua figliuola riescirebbe amarissimo ch'io
mi partissi senza lasciarle un addio, e tutto jeri non mi fu dato mai di
vederla - ecco qui annesso un polizzino pur sigillato - ed ardisco sperare
ch'ella, signor mio, la consegnerà a Teresa T*** innanzi che diventi moglie del
marchese Odoardo. - Non so se ci rivedremo - ho ben decretato di morire, non
foss'altro, vicino alla mia casa paterna; ma quand'anche questo mio
proponimento fosse deluso - sono certo ch'ella, signore ed amico mio, non vorrà
mai dimenticarsi di me.
Il signore T*** mi fe' capitare la lettera per Teresa (che
ho riportato dianzi) a sigillo inviolato; - né tardò a dare a sua figlia il
polizzino. L'ebbi sott'occhio; era di poche righe; e d'uomo che per allora
pareva tornato in sé.
Tutti quasi i frammenti che seguono mi vennero per la posta in diversi fogli
Rovigo, 20 Luglio
Io la mirava e diceva a me stesso: Che sarebbe di me se non
potessi vederla più? e correva a piangere meco di consolazione sapendo ch'io le
era vicino - e adesso?
Cos'è più l'universo? qual parte mai della terra potrà sostenermi senza Teresa?
e mi pare di esserle lontano sognando. Ho avuto io tanta costanza? e m'è
bastato il cuore di partire così - senza vederla? né un bacio, né un unico
addio! A minuto a minuto credo di trovarmi alla porta della sua casa, e di
leggere nella mestizia del suo volto, che m'ama. Fuggo; e con che velocità ogni
minuto mi porta ognor più lontano da lei. E intanto? quante care illusioni! ma
io l'ho perduta. Non so più obbedire né alla mia volontà, né alla mia ragione,
né al mio cuore sbalordito: mi lascierò strascinare dal braccio prepotente del
mio destino. Addio.
Ferrara, 20 Luglio, a sera
Io traversava il Po e rimirava le immense sue acque, e più
volte fui per precipitarmi, e profondarmi, e perdermi per sempre. Tutto è un
punto! - ah s'io non avessi una madre cara e sventurata a cui la mia morte
costerebbe amarissime lagrime!
Né finirò così da codardo. Sosterrò tutta la mia sciagura; berrò fino
all'ultima lagrima il pianto che mi fu assegnato dal Cielo; e quando le difese
saranno vane, disperate tutte le passioni, tutte le forze consunte; quando io
avrò coraggio di mirare la Morte in faccia, e ragionare pacatamente con lei, ed
assaporare l'amaro suo calice, ed espiate le altrui lagrime, e disperato di
rasciugarle - allora.
Ma ora ch'io parlo non è forse tutto perduto? e non mi resta che la sola
memoria e la certezza che tutto è perduto: - hai tu provata mai quella piena di
dolore quando ci abbandonano tutte le speranze?
Né un bacio? né addio! - bensì le tue lagrime mi seguiranno nella mia sepoltura. La mia salute, la mia sorte, il mio cuore, tu - tu! - insomma tutto congiura, ed io vi obbedirò tutti.
Ore
E ho avuto cuore di abbandonarla? anzi ti ho abbandonata, o
Teresa, in uno stato più deplorabile del mio. Chi sarà tuo consolatore? e
tremerai al solo mio nome poiché t'ho fatto vedere io - io primo, io unico
sull'aurora della tua vita, le tempeste e le tenebre della sventura; e tu, o
giovinetta, non sei ancora sì forte né da tollerare né da fuggire la vita. Tu,
per anche non sai che l'alba e la sera sono tutt'uno. Ah né io te lo voglio
persuadere! - eppure non abbiamo più ajuto veruno dagli uomini, nessuna
consolazione in noi stessi. Ormai non so che supplicare il sommo Iddio, e
supplicarlo co' miei gemiti, e cercare alcuna speranza fuori di questo mondo
dove tutti ci perseguitano e ci abbandonano. E se gli spasimi, e le preghiere,
e il rimorso ch'è fatto già mio carnefice, fossero offerte accolte dal Cielo,
ah! tu non saresti così infelice, ed io benedirei tutti i miei tormenti.
Frattanto nella mia disperazione mortale chi sa in che pericoli tu sei! né io
posso difenderti, né rasciugare il tuo pianto, né raccogliere nel mio petto i
tuoi secreti, né partecipare delle tue afflizioni; non so né dove fuggo, né
come ti lascio, né quando potrò più rivederti.
Padre crudele - Teresa è sangue tuo! quell'altare è profanato; la Natura ed il
Cielo maledicono quei giuramenti; il ribrezzo, la gelosia, la discordia ed il
pentimento gireranno fremendo intorno a quel letto e insanguineranno forse
quelle catene. Teresa è figlia tua; placati. Ti pentirai amaramente, ma tardi:
fors'ella un giorno nell'orrore del suo stato maledirà i suoi giorni e i suoi
genitori, e conturberà con le sue querele le tue ossa nel sepolcro, quando tu
non potrai se non intenderla di sotterra. Placati. - Ohimè! tu non mi ascolti -
e dove me la trascini? - la vittima è sacrificata! io odo il suo gemito - il
mio nome nel suo ultimo gemito! Barbari! tremate - il vostro sangue, il mio
sangue - Teresa sarà vendicata. - Ahi delirio! - ma io son pure omicida.
Ma tu, Lorenzo mio, che non mi ajuti? io non ti scriveva perché un'eterna tempesta d'ira, di gelosia, di vendetta, di amore infuriava dentro di me; e tante passioni mi si gonfiavano nel petto, e mi soffocavano, e mi strozzavano quasi; io non poteva mandare parola, e sentiva il dolore impietrito dentro di me - e questo dolore regna ancora e mi chiude la voce e i sospiri, e m'inaridisce le lagrime: - mi sento mancata gran parte della vita, e quel poco che pure mi resta è avvilito dal languore e dalla oscurità della morte.
Or mi adiro sovente di essere partito, e mi accuso di viltà. - Perché mai non hanno ardito d'insultare alla mia passione? Se taluno avesse comandato a quella misera di non rivedermi; se me l'avessero a viva forza strappata, pensi tu ch'io l'avrei lasciata mai? Ma doveva io pagare d'ingratitudine un padre che mi chiamava amico, che tante volte commosso mi abbracciava dicendomi: E perché la sorte ti ha pur unito a noi disgraziati? Poteva io precipitare nel disonore e nella persecuzione una famiglia che in altre circostanze avrebbe diviso meco e la prosperità e l'infortunio? E che poteva io rispondergli quand'ei mi diceva sospirando e pregandomi: - Teresa è mia figlia! - Sì! divorerò nel rimorso e nella solitudine tutti i miei giorni: ma ringrazierò quella tremenda mano invisibile che mi rapì da quel precipizio donde io cadendo avrei strascinato meco nella voragine quella giovinetta innocente. E mi seguitava; ed io crudele andava pur soffermandomi, e voltando gli occhi guardando se affrettavasi dietro a' miei passi precipitosi - e mi seguitava; ma con animo spaventato, e con deboli forze. Che? Or non son io seduttore? - e non dovrò tormele eternamente dagli occhi? Potessi anzi nascondermi a tutto l'universo e piangere le mie sciagure! ma piangerli quando io gli ho esacerbati?
Niuno sa quale segreto sta sepolto qui dentro - e questo
sudore freddo improvviso - e questo arretrarmi - e il lamento che tutte le sere
vien di sotterra, e mi chiama - e quel cadavere - perché io, Lorenzo, non sono
forse omicida; ma pur mi veggo insanguinato d'un omicidio.
Spunta appena il giorno, ed io sto per partire. Da quanto tempo l'aurora mi
trova sempre in un sonno da infermo! La notte non trovo mai posa. Poco fa io
spalancava gli occhi urlando e guatandomi intorno come se mi vedessi sul capo
il manigoldo. Sento nello svegliarmi certi terrori, simile a quegli sciagurati
che hanno le mani calde di delitto. - Addio addio. Parto, e ognor più lontano.
Ti scriverò da Bologna dentr'oggi. Ringrazia mia madre. Pregala perché benedica
il suo povero figliuolo. S'ella sapesse tutto il mio stato! ma taci: su le sue
piaghe non aprire un'altra piaga.
Bologna, 24 Luglio, ore 10
Vuoi tu versare sul cuore dell'amico tuo qualche stilla di
balsamo? Fa che Teresa ti dia il suo ritratto, e consegnalo a Michele ch'io ti
rimando imponendogli di non ritornare senza tue tisposte. Va a' colli Euganei
tu stesso: forse quella disgraziata avrà bisogno di chi la compianga. Leggi
alcuni frammenti di lettere che ne' miei affannosi delirj io tentava di
scriverti. Addio. - Vedrai la Isabellina, baciala mille volte per me. Quando
nessuno si ricorderà più di me, fors'ella nominerà qualche volta il suo Jacopo.
O mio caro! avvolto in tante miserie, fatto diffidente dagli uomini, con
un'anima ardente e che pur vuole amare ed essere riamata, in chi poss'io
confidarmi se non in una fanciullina non corrotta ancora dall'esperienza né
dall'interesse, e che per una secreta simpatia mi ha tante volte bagnato del
suo pianto innocente? S'io un giorno sapessi che non mi nomina più, credo,
morrei di dolore.
E tu, dimmi, Lorenzo mio, m'abbandonerai tu? L'amicizia cara passione della
gioventù ed unico conforto dell'infortunio s'agghiaccia nella prosperità. O gli
amici, gli amici! Tu non mi perderai se non quando io scenderò sotterra. Ed io
cesso dal querelarmi talvolta delle mie disgrazie perché senza di esse non
sarei degno forse di te; né avrei un cuore capace di amarti. Ma quando io non
vivrò più; e tu avrai ereditato da me il calice delle lagrime - oh! non cercare
altro amico fuor di te stesso.
Bologna, la notte de' 28 Luglio
E' mi parrebbe pure di star meno male se potessi dormire lungamente un gravissimo sonno. L'oppio non giova; mi desta dopo brevi letarghi pieni di visioni e di spasimi - e sono più notti! - Ora mi sono alzato per provarmi di scriverti; ma non mi regge più il polso. - Tornerò a coricarmi. Pare che l'anima mia siegua lo stato negro e burrascoso della Natura. Sento diluviare: e giaccio con gli occhi spalancati. Dio mio! Dio mio!
Bologna, 12 Agosto
Oramai sono passati diciotto giorni da che Michele è ripartito per le poste, né torna ancora: e non veggo tue lettere. Tu pure mi lasci? Per Dio, scrivimi almeno: aspetterò sino a lunedì, e poi prenderò la volta di Firenze. Qui tutto il giorno sto in casa perché non posso vedermi impacciato fra tanta gente; e la notte vo baloccone per città come larva, e mi sento sbranare le viscere da tanti indigenti che giacciono per le strade, e gridano pane; non so se per loro colpa, o d'altri - so che domandano pane. Oggi tornandomi dalla posta mi sono abbattuto in due sciagurati menati al patibolo: ne ho chiesto a quei che mi si affollavano addosso; e mi è stato risposto, che uno avea rubato una mula, e l'altro cinquantasei lire per fame. Ahi Società! E se non vi fossero leggi protettrici di coloro che per arricchire col sudore e col pianto de' proprj concittadini li sospingo al bisogno e al delitto, sarebbero poi sì necessarie le prigioni e i carnefici? Io non sono sì matto da presumere di riordinare i mortali; ma perché mi si contenderà di fremere su le loro miserie e più di tutto su la lor cecità? - E mi vien detto che non v'ha settimana senza carneficina; e il popolo vi accorre come a solennità. I delitti intanto crescono co' supplizj. No, no; non voglio più respirare quest'aria fumante sempre del sangue de' miseri. - E dove?
Firenze, 27 Agosto
Dianzi io adorava le sepolture di Galileo, del Machiavelli, e
di Michelangelo; e nell'appressarmivi io tremava preso da brivido. Coloro che
hanno eretti que' mausolei sperano forse di scolparsi della povertà e delle
carceri con le quali i loro avi punivano la grandezza di que' divini
intelletti? Oh quanti perseguitati nel nostro secolo saranno venerati da'
posteri! Ma e le persecuzioni a' vivi, e gli onori a' morti sono documenti
della maligna ambizione che rode l'umano gregge.
Presso a que' marmi mi parea di rivivere in quegli anni miei fervidi, quand'io
vegliando su gli scritti de' grandi mortali mi gittava con la immaginazione fra
i plausi delle generazioni future. Ma ora troppo alte cose per me! - e pazze
forse. La mia mente è cieca, le membra vacillanti, e il cuore guasto qui - nel
profondo.
Ritienti le commendatizie di cui mi scrivi: quelle che mi mandasti io le ho
bruciate. Non voglio più oltraggi, né favori da veruno degli uomini potenti.
L'unico mortale ch'io desiderava conoscere era Vittorio Alfieri; ma odo dire
ch'ei non accoglie persone nuove: né io presumo di fargli rompere questo suo
proponimento che deriva forse da' tempi, da' suoi studj, e più ancora dalle sue
passioni e dall'esperienza del momdo. E fosse anche una debolezza, le debolezze
di sì fatti mortali vanno rispettate; e chi n'è senza, scagli la prima pietra.
Firenze, 7 Settembre
Spalanca le finestre, o Lorenzo, e saluta dalla mia stanza i
miei colli. In un bel mattino di Settembre saluta in mio nome il cielo, i
laghi, le pianure, che si ricordano tutti della mia fanciullezza, e dove io per
alcun tempo ho riposato dopo le ansietà della vita. Se passeggiando nelle notti
serene i piedi ti conducessero verso i viali della parrocchia, io ti prego di
salire sul monte de' pini che serba tante dolci e funeste mie rimembranze.
Appiè del pendio, passata la macchia de' tigli che fanno l'aere sempre fresco e
odorato, là dove que' rigagnoli adunano un pelaghetto, troverai il salice
solitario sotto i cui rami piangenti io stava più ore prostrato parlando con le
mie speranze. E come tu sarai giunto presso alla vetta, udrai forse un cuculo
il quale parea che ogni sera mi chiamasse col lugubre suo metro, e soltanto lo
interrompea quando accorgevasi del mio borbottare o del calpestio de' miei
piedi. Il pino dove allora e' si stava nascosto, fa ombra a' rottami di una
cappelletta ove anticamente si ardeva una lampada a un crocifisso: il turbine
la sfracellò quella notte che lasciò fino ad oggi e mi lascierà finché avrò
vita lo spirito atterrito di tenebre e di rimorso; e quelle ruine mezzo
sotterrate mi pareano nell'oscurità pietre sepolcrali, e più volte io mi
pensava di erigere in quel luogo e fra quelle secrete ombre il mio avello. Ed
ora? chi sa ov'io lascierò le mie ossa! - Consola tutti i contadini che ti
chiederanno novelle di me. Già tempo mi si affollavano attorno, ed io li chiamava
miei amici, e mi chiamavano benefattore. Io era il medico più accetto a' loro
figliuoletti malati; io ascoltava amorevolmente le querele di que' meschini
lavoratori, e componeva i loro dissidj; io filosofava con que' rozzi vecchj
cadenti ingegnandomi di dileguare dalla lor fantasia i terrori della religione,
e dipingendo i premj che il Cielo riserba all'uomo stanco della povertà e del
sudore. Ma ora s'attristeranno nel nominarmi, poiché in questi ultimi mesi
passava muto e fantastico senza talvolta rispondere a' loro saluti; e
scorgendoli da lontano mentre cantando tornavano da' lavori, o riconduceano gli
armenti, io gli scansava imboscandomi dove la selva è più negra. E mi vedeano
su l'alba saltare i fossi e sbadatamente urtar gli arboscelli, i quali crollando
mi pioveano la brina su le chiome; e così affrettarmi per le praterie, e poi
arrampicarmi sul monte più alto donde io fermandomi ritto e ansante, con le
braccia stese all'oriente, aspettava il Sole per querelarmi con lui che più non
sorgeva allegro per me. Ti additeranno il ciglione della rupe sul quale, mentre
il mondo era addormentato, io sedeva intento al lontano fragore delle acque, e
al rombare dell'aria quando i venti ammassavano quasi su la mia testa le
nuvole, e le spingevano a funestare la Luna che tramontando, ad ora ad ora
illuminava nella pianura co' suoi pallidi raggi le croci conficcate su i tumuli
del cimitero; e allora il villano de' vicini tugurj, per le mie grida
destandosi sbigottito, s'affacciava alla porta, e m'udiva in quel silenzio
solenne mandare le mie preci, e piangere, e ululare, e guatare dall'alto le
sepolture, e invocare la morte. O antica mia solitudine! Ove sei tu? Non v'è
gleba, non antro, non albero che non mi riviva nel cuore alimentandomi quel
soave e patetico desiderio che sempre accompagna fuori dalle sue case l'uomo
esule, e sventurato. Parmi che i miei piaceri e i miei dolori, i quali in que'
luoghi m'erano cari - tutto insomma quello ch'è mio, sia rimasto tutto con te;
e che qui non si trascini pellegrinando se non lo spettro del povero Jacopo.
Ma tu, amico unico mio, perché appena mi scrivi due nude parole avvisandomi che
tu se' con Teresa? E non mi dici né come vive; né se s'attenta di nominarmi; né
se Odoardo me l'ha rapita? Corro, e ricorro alla posta, ma senza pro; e torno
lento, smarrito, e mi si legge nel volto il presentimento di grave sciagura. E
mi par d'ora in ora udirmi pronunziare la mia sentenza mortale - Teresa ha
giurato. - Ohimè! e quando mai cesserò da' miei funebri delirj, e dalle mie
crudeli lusinghe? Addio.
Firenze, 17 Settembre
Tu mi hai inchiodata la disperazione nel cuore. Vedo oramai
che Teresa tenta di punirmi d'averla amata. Il suo ritratto l'aveva mandato a
sua madre prima ch'io lo chiedessi? - tu me ne accerti, ed io credo; ma guardati
che per tentare di risanarmi tu non congiurassi a contendermi l'unico balsamo
alle mie viscere lacerate.
O mie speranze! si dileguano tutte; ed io siedo qui derelitto nella solitudine
del mio dolore.
In che devo più confidare? non mi tradire, Lorenzo: io non ti perderò mai dal
mio petto, perché la tua memoria è necessaria all'amico tuo: in qualunque tua
avversità tu non mi avresti perduto. Sono io dunque destinato a vedermi svanire
tutto davanti? - anche l'unico avanzo di tante speranze? ma sia così! io non mi
querelo né di lei, né di te - non di me stesso, non della mia fortuna - ben
m'avvilisco con tante lagrime, e perdo la consolazione di poter dire: Soffro
i miei travagli e non mi lamento.
Voi tutti mi lascierete - tutti: e il mio gemito vi seguirà da per tutto;
perché senza di voi non sono uomo: e da ogni luogo vi richiamerò disperato. -
Ecco le poche parole scrittemi da Teresa: «Abbiate rispetto alla vostra vita;
ve ne scongiuro per le nostre disgrazie. Non siamo noi due soli infelici.
Avrete il mio ritratto quando potrò. Mio padre piange con me; e non gli
rincresce ch'io risponda al biglietto che mi ha ricapitato da parte vostra; pur
con le sue lagrime a me pare che tacitamente mi proibisca di scrivervi d'ora
innanzi - ed io piangendo lo prometto; e vi scrivo, forse per l'ultima volta,
piangendo - perché io non potrò più confessare d'amarvi fuorché davanti a Dio
solo».
Tu sei dunque più forte di me? Sì, ripeterò queste poche righe come fossero le
tue ultime volontà - parlerò teco un'altra volta, o Teresa; ma solamente quel
giorno che mi sarò agguerrito di tanta ragione e di tale coraggio da separarmi
davvero da te.
Che se ora l'amarti di questo amore insoffribile, immenso, e tacere e
seppellirmi agli occhi di tutti, potesse ridarti pace - se la mia morte potesse
espiare al tribunale de' nostri persecutori la tua passione e sopirla per
sempre dentro il tuo petto, io supplico con tutto l'ardore e la verità
dell'anima mia la Natura ed il Cielo perché mi tolgano finalmente dal mondo. Or
ch'io resista al mio fatale e insieme dolcissimo desiderio di morte, te lo
prometto; ma ch'io lo vinca, ah! tu sola con le tue preghiere potrai forse
impetrarmelo dal mio Creatore - e sento che ad ogni modo ei mi chiama. Ma tu
deh! vivi per quanto puoi felice - per quanto puoi ancora. Iddio forse
convertirà a tua consolazione, sfortunata giovine, queste lagrime penitenti
ch'io mando a lui domandandogli misericordia per te. Pur troppo tu, pur troppo,
tu ora partecipi del doloroso mio stato, e per me tu se' fatta infelice - e come
ho io rimeritato tuo padre delle affettuose sue cure, della fiducia, de' suoi
consigli, delle sue carezze? e tu a che precipizio non ti se' trovata e non ti
trovi per me? - Ma e di che dunque mi ha egli beneficato tuo padre, e ch'io
oggi nol ricompensi con gratitudine inaudita? non gli presento in sacrificio il
mio cuore che insanguina? Nessun mortale mi è creditore di generosità; - né io,
che pur sono, e tu 'l sai, ferocissimo giudice mio posso incolparmi d'averti
amata - bensì l'esserti causa d'affanni, è il più crudele delitto ch'io mai
potessi commettere.
Ohimè! con chi parlo? e a che pro?
Se questa lettera ti trova ancora a' miei colli, o Lorenzo, non la mostrare a
Teresa. Non le parlare di me - se te ne chiede, dille ch'io vivo, ch'io vivo
ancora - non le parlare insomma di me. Ma io te lo confesso: mi compiaccio
delle mie infermità: io stesso palpo le mie ferite dove sono più mortali, e
cerco d'esulcerarle, e le contemplo insanguinate - e mi pare che i miei martirj
rechino qualche espiazione alle mie colpe, e un breve refrigerio a' dolori di
quella innocente.
Firenze, 25 Settembre
In queste terre beate si ridestarono dalla barbarie le sacre
Muse e le lettere. Dovunque io mi volga, trovo le case ove nacquero, e le pie
zolle dove riposano que' primi grandi Toscani: ad ogni passo ho timore di
calpestare le loro reliquie. La Toscana è tuttaquanta una città continuata, e
un giardino; il popolo naturalmente gentile; il cielo sereno; e l'aria piena di
vita e di salute. Ma l'amico tuo non trova requie: spero sempre - domani, nel
paese vicino - e il domani viene, ed eccomi di città in città, e mi pesa sempre
più questo stato di esilio e di solitudine. - Neppure mi è conceduto di
proseguire il mio viaggio: avea decretato di andare a Roma a prostrarmi su le reliquie
della nostra grandezza. Mi negano il passaporto; quello già mandatomi da mia
madre è per Milano: e qui, come s'io fossi venuto a congiurare, mi hanno
circuito con mille interrogazioni: non avran torto; ma io risponderò domani,
partendo. - Così noi tutti Italiani siamo fuorusciti e stranieri in Italia: e
lontani appena dal nostro territoriuccio, né ingegno, né fama, né illibati
costumi ci sono di scudo: e guai se t'attenti di mostrare una dramma di sublime
coraggio! Sbanditi appena dalle nostre porte, non troviamo chi ne raccolga.
Spogliati dagli uni, scherniti dagli altri, traditi sempre da tutti,
abbandonati da' nostri medesimi concittadini, i quali anziché compiangersi e
soccorrersi nella comune calamità, guardano come barbari tutti quegl'Italiani che
non sono della loro provincia, e dalle cui membra non suonano le stesse catene
- dimmi, Lorenzo, quale asilo ci resta? Le nostre messi hanno arricchiti nostri
dominatori; ma le nostre terre non somministrano né tugurj né pane a tanti
Italiani che la rivoluzione ha balestrati fuori dal cielo natio, e che
languenti di fame e di stanchezza hanno sempre all'orecchio il solo, il supremo
consigliere dell'uomo destituto da tutta la natura, il delitto! Per noi dunque
quale asilo più resta, fuorché il deserto, e la tomba? - e la viltà! e chi più
si avvilisce più vive forse; ma vituperoso a se stesso, e deriso da quei
tiranni medesimi a cui si vende, e da' quali sarà un dì trafficato.
Ho corsa tutta Toscana. Tutti i monti e tutti i campi sono insigni per le
fraterne battaglie di quattro secoli addietro; i cadaveri intanto d'infiniti
Italiani ammazzatisi hanno fatte le fondamenta a' troni degl'Imperadori e de'
Papi. Sono salito a Monteaperto dove è infame ancor la memoria della sconfitta
de' Guelfi. - Albeggiava appena un crepuscolo di giorno, e in quel mesto
silenzio, e in quella oscurità fredda, con l'anima investita da tutte le
antiche e fiere sventure che sbranano la nostra patria - o mio Lorenzo! io mi
sono sentito abbrividire, e rizzare i capelli; io gridava dall'alto con voce
minacciosa e spaventata. E mi parea che salissero e scendessero dalle vie
dirupate della montagna le ombre di tutti que' Toscani che si erano uccisi; con
le spade e le vesti insanguinate; guatarsi biechi, e fremere tempestosamente, e
azzuffarsi e lacerarsi le antiche ferite. - O! per chi quel sangue? il
figliuolo tronca il capo al padre e lo squassa per le chiome - e per chi tanta
scellerata carnificina? I re per cui vi trucidate si stringono nel bollor della
zuffa le destre e pacificamente si dividono le vostre vesti e il vostro
terreno. - Urlando io fuggiva precipitosamente guatandomi dietro. E quelle
orride fantasie mi seguitavano sempre - e ancora quando io mi trovo solo di
notte mi sento attorno quegli spettri, e con essi uno spettro più tremendo di
tutti, e ch'io solo conosco. - E perché io debbo dunque, o mia patria,
accusarti sempre e compiangerti, senza niuna speranza di poterti emendare o di
soccorrerti mai?
Milano, 27 Ottobre
< Ti scrissi da Parma; e poi da Milano il dì ch'io ci giunsi:
la settimana addietro ti scrissi una lettera lunghissima. Come dunque la tua mi
capita sì tarda, e per la via di Toscana d'onde partii sino dai 28 Settembre?
mi morde un sospetto: le nostre lettere sono intercette. I governi millantano
la sicurezza delle sostanze; ma invadono intanto il secreto, la preziosissima
di tutte le proprietà: vietano le tacite querele; e profanano l'asilo sacro che
le sventure cercano nel petto dell'amicizia. Sia pure! io mel dovea prevedere:
ma que' loro manigoldi non andranno più a caccia delle nostre parole e de'
nostri pensieri. Troverò compenso perché le nostre lettere d'ora in poi
viaggino inviolate.
Tu mi chiedi novelle di Giuseppe Parini: serba la sua generosa fierezza, ma
parmi sgomentato dai tempi e dalla vecchiaja. Andandolo a visitare, lo
incontrai su la porta delle sue stanze mentre egli strascinavasi per uscire. Mi
ravvisò; e fermatosi sul suo bastone, mi posò la mano su la spalla, dicendomi:
Tu vieni a rivedere quest'animoso cavallo che si sente nel cuore la superbia
della sua bella gioventù; ma che ora stramazza fra via e si rialza soltanto per
le battiture della fortuna. - E' paventa di essere cacciato dalla sua cattedra,
e di trovarsi costretto dopo settanta anni di studj e di gloria ad agonizzare
elemosinando.
Milano, 11 Novembre
Chiesi la vita di Benvenuto Cellini a un librajo - Non l'abbiamo. Lo richiesi di un altro scrittore; e allora quasi dispettoso mi disse, ch'ei non vendeva libri italiani. La gente civile parla elegantemente francese, e appena intende lo schietto toscano. I pubblici atti e le leggi sono scritte in una cotal lingua bastarda che le ignude frasi suggellano la ignoranza e la servitù di chi le detta. I Demosteni Cisalpini disputarono caldamente nel loro senato per esiliare con sentenza capitale dalla repubblica la lingua greca e la latina. S'è creata una legge che avea l'unico fine di sbandire da ogni impiego il matematico Gregorio Fontana, e Vincenzo Monti, poeta; non so cos'abbiano scritto contro alla Libertà, prima che fosse discesa a prostituirsi in Italia; so che sono presti a scrivere anche per essa. E quale pur fosse la loro colpa, la ingiustizia della punizione li assolve, e la solennità d'una legge creata per due soli individui accresce la loro celebrità. - Chiesi ov'erano le sale de' Consiglj Legislativi: pochi m'intesero; pochissimi mi risposero; e niuno seppe insegnarmi.
Milano, 4 Dicembre
Siati questa l'unica risposta a' tuoi consiglj. In tutti i
paesi ho veduto gli uomini sempre di tre sorta: i pochi che comandano; l'universalità
che serve; e i molti che brigano. Noi non possiam comandare, né forse siam
tanto scaltri; noi non siam ciechi, né vogliamo ubbidire; noi non ci degniamo
di brigare. E il meglio è vivere come que' cani senza padrone a' quali non
toccano né tozzi né percosse. - Che vuoi tu ch'io accatti protezioni ed
impieghi in uno Stato ov'io sono reputato straniero, e donde il capriccio di
ogni spia può farmi sfrattare? Tu mi esalti sempre il mio ingegno; sai tu
quanto io vaglio? né più né meno di ciò che vale la mia entrata: se per altro
io non facessi il letterato di corte, rintuzzando quel nobile ardire che
irrita i potenti, e dissimulando la virtù e la scienza, per non rimproverarli
della loro ignoranza, e delle loro scelleraggini. Letterati! - O! tu dirai,
così da per tutto. - E sia così: lascio il mondo com'è; ma s'io dovessi
impacciarmente vorrei o che gli uomini mutassero modo, o che mi facessero
mozzare il capo sul palco; e questo mi pare più facile. Non che i tirannetti
non si avveggano delle brighe; ma gli uomini balzati da' trivj al trono hanno
d'uopo di faziosi che poi non possono contenere. Gonfj del presente,
spensierati dell'avvenire, poveri di fama, di coraggio e d'ingegno, si armano
di adulatori e di satelliti, da' quali, quantunque spesso traditi e derisi, non
sanno più svilupparsi: perpetua ruota di servitù, di licenza e di tirannia. Per
essere padroni e ladri del popolo conviene prima lasciarsi opprimere,
depredare, e conviene leccare la spada grondante del tuo sangue. Così potrei
forse procacciarmi una carica, qualche migliajo di scudi ogni anno di più,
rimorsi, ed infamia. Odilo un'altra volta: Non reciterò mai la parte del
piccolo briccone.
Tanto e tanto so di essere calpestato; ma almen fra la turba immensa de' miei
conservi, simile a quegli insetti che sono sbadatamente schiacciati da chi
passeggia. Non mi glorio come tanti altri della servitù; né i miei tiranni si
pasceranno del mio avvilimento. Serbino ad altri le loro ingiurie e i lor
beneficj; e' vi son tanti che pur vi agognano! Io fuggirò il vituperio morendo
ignoto. E quando io fossi costretto ad uscire dalla mia oscurità - anziché
mostrarmi fortunato stromento della licenza o della tirannide, torrei d'essere
vittima deplorata.
Che se mi mancasse il pane e il fuoco, e questa che tu mi additi fosse l'unica
sorgente di vita - cessi il cielo ch'io insulti alla necessità di tanti altri
che non potrebbero imitarmi - davvero, Lorenzo, io me n'andrei alla patria di
tutti, dove non vi sono né delatori, né conquistatori, né letterati di corte,
né principi; dove le ricchezze non coronano il delitto; dove il misero non è
giustiziato non per altro se non perché è misero; dove un dì o l'altro verranno
tutti ad abitare con me e a rimescolarsi nella materia, sotterra.
Aggrappandomi sul dirupo della vita, sieguo alle volte un lume ch'io scorgo da
lontano e che non posso raggiungere mai. Anzi mi pare che s'io fossi con tutto
il corpo dentro la fossa, e che rimanessi sopra terra solamente col capo, mi
vedrei sempre quel lume sfolgorare sugli occhi. O Gloria! tu mi corri sempre
dinanzi, e così mi lusinghi a un viaggio a cui le mie piante non reggono più.
Ma dal giorno che tu più non sei la mia sola e prima passione, il tuo
risplendente fantasma comincia a spegnersi e a barcollare - cade e si risolve
in un mucchio d'ossa e di ceneri fra le quali io veggio sfavillar tratto tratto
alcuni languidi raggi; ma ben presto io passerò camminando sopra il tuo
scheletro, sorridendo della mia delusa ambizione. - Quante volte vergognando di
morire ignoto al mio secolo ho accarezzato io medesimo le mie angosce mentre mi
sentiva tutto il bisogno e il coraggio di terminarle! Né avrei forse
sopravvissuto alla mia patria, se non mi avesse rattenuto il folle timore, che
la pietra posta sopra il mio cadavere non seppellisse ad un tempo il mio nome.
Lo confesso; sovente ho guardato con una specie di compiacenza le miserie
d'Italia, poiché mi parea che la fortuna e il mio ardire riserbassero forse
anche a me il merito di liberarla. Io lo diceva jer sera al Parini - addio:
ecco il messo del banchiere che viene a pigliar questa lettera; e il foglio
tutto pieno mi dice di finire. - Pur ho a dirti ancora assai cose: protrarrò di
spedirtela sino a sabbato; e continuerò a scriverti. Dopo tanti anni di sì
affettuosa e leale amicizia, eccoci, e forse eternamente, disgiunti. A me non
resta altro conforto che di gemere teco scrivendoti; e così mi libero alquanto
da' miei pensieri; e la mia solitudine diventa assai meno spaventosa. Sai
quante notti io mi risveglio, e m'alzo, e aggirandomi lentamente per le stanze
t'invoco! siedo e ti scrivo; e quelle carte sono tutte macchiate di pianto e
piene de' miei pietosi delirj e de' miei feroci proponimenti. Ma non mi dà il
cuore d'inviartele. Ne serbo taluna, e molte ne brucio. Quando poi il Cielo mi
manda questi momenti di calma, io ti scrivo con quanto più di fermezza mi è
possibile per non contristarti del mio immenso dolore. Né mi stancherò di
scriverti; tutt'altro conforto è perduto; né tu, mio Lorenzo, ti stancherai di
leggere queste carte ch'io senza vanità, senza studio e senza rossore ti ho
sempre scritto ne' sommi piaceri e ne' sommi dolori dell'anima mia. Serbale.
Presento che un dì ti saranno necessarie per vivere, almeno come potrai, col
tuo Jacopo.
Jer sera dunque io passeggiava con quel vecchio venerando nel sobborgo
orientale della città sotto un boschetto di tigli. Egli si sosteneva da una
parte sul mio braccio, dall'altra sul suo bastone: e talora guardava gli storpj
suoi piedi, e poi senza dire parola volgevasi a me, quasi si dolesse di quella sua
infermità, e mi ringraziasse della pazienza con la quale io lo accompagnava.
S'assise sopra uno di que' sedili ed io con lui: il suo servo ci stava poco
discosto. Il Parini è il personaggio più dignitoso e più eloquente ch'io
m'abbia mai conosciuto; e d'altronde un profondo, generoso, meditato dolore a
chi non dà somma eloquenza? Mi parlò a lungo della sua patria, e fremeva e per
le antiche tirannidi e per la nuova licenza. Le lettere prostituite; tutte le
passioni languenti e degenerate in una indolente vilissima corruzione: non più
la sacra ospitalità, non la benevolenza, non più l'amore figliale - e poi mi
tesseva gli annali recenti, e i delitti di tanti uomiciattoli ch'io degnerei di
nominare, se le loro scelleraggini mostrassero il vigore d'animo, non dirò di
Silla e di Catilina, ma di quegli animosi masnadieri che affrontano il misfatto
quantunque e' si vedano presso il patibolo - ma ladroncelli, tremanti, saccenti
- più onesto insomma è tacerne. - A quelle parole io m'infiammava di un
sovrumano furore, e sorgeva gridando: Ché non si tenta? morremo? ma frutterà
dal nostro sangue il vendicatore. - Egli mi guardò attonito: gli occhi miei in
quel dubbio chiarore scintillavano spaventosi, e il mio dimesso e pallido
aspetto si rialzò con aria minaccevole - io taceva, ma si sentiva ancora un
fremito rumoreggiare cupamente dentro il mio petto. E ripresi: Non avremo
salute mai? ah se gli uomini si conducessero sempre al fianco la morte, non
servirebbero sì vilmente. - Il Parini non apria bocca; ma stringendomi il
braccio, mi guardava ogni ora più fisso. Poi mi trasse, come accennandomi
perch'io tornassi a sedermi: E pensi, tu, proruppe, che s'io discernessi un
barlume di libertà, mi perderei ad onta della mia inferma vecchiaja in questi
vani lamenti? o giovine degno di patria più grata! se non puoi spegnere quel
tuo ardore fatale, ché non lo volgi ad altre passioni?
Allora io guardai nel passato - allora io mi voltava avidamente al futuro, ma
io errava sempre nel vano e le mie braccia tornavano deluse senza pur mai
stringere nulla; e conobbi tutta tutta la disperazione del mio stato. Narrai a
quel generoso Italiano la storia delle mie passioni, e gli dipinsi Teresa come
uno di que' genj celesti i quali par che discendano a illuminare la stanza
tenebrosa di questa vita. E alle mie parole e al mio pianto, il vecchio pietoso
più volte sospirò dal cuore profondo. - No, io gli dissi, non veggo più che il
sepolcro: sono figlio di madre affettuosa e benefica; spesse volte mi sembrò di
vederla calcare tremando le mie pedate e seguirmi fino a sommo il monte, donde
io stava per diruparmi, e mentre era quasi con tutto il corpo abbandonato
nell'aria - essa afferravami per la falda delle vesti, e mi ritraeva, ed io
volgendomi non udiva più che il suo pianto. Pure s'ella - spiasse tutti gli
occulti miei guai, implorerebbe ella stessa dal Cielo il termine degli ansiosi
miei giorni. Ma l'unica fiamma vitale che anima ancora questo travagliato mio
corpo, è la speranza di tentare la libertà della patria. - Egli sorrise
mestamente; e poiché s'accorse che la mia voce infiochiva, e i miei sguardi si
abbassavano immoti sul suolo, ricominciò: - Forse questo tuo furore di gloria
potrebbe trarti a difficili imprese; ma - credimi; la fama degli eroi spetta un
quarto alla loro audacia; due quarti alla sorte; e l'altro quarto a' loro
delitti. Pur se ti reputi bastevolmente fortunato e crudele per aspirare a
questa gloria, pensi tu che i tempi te ne porgano i mezzi? I gemiti di tutte le
età, e questo giogo della nostra patria non ti hanno per anco insegnato che non
si dee aspettare libertà dallo straniero? Chiunque s'intrica nelle faccende di
un paese conquistato non ritrae che il pubblico danno, e la propria infamia.
Quando e doveri e diritti stanno su la punta della spada, il forte scrive le leggi
col sangue e pretende il sacrificio della virtù. E allora? avrai tu la fama e
il valore di Annibale che profugo cercava per l'universo un nemico al popolo
Romano? - Né ti sarà dato di essere giusto impunemente. Un giovine dritto e
bollente di cuore, ma povero di ricchezze, ed incauto d'ingegno quale sei tu,
sarà sempre o l'ordigno del fazioso, o la vittima del potente. E dove tu nelle
pubbliche cose possa preservarti incontaminato dalla comune bruttura, oh! tu
sarai altamente laudato; ma spento poscia dal pugnale notturno della calunnia;
la tua prigione sarà abbandonata da' tuoi amici, e il tuo sepolcro degnato
appena di un secreto sospiro. - Ma poniamo che tu superando e la prepotenza
degli stranieri e la malignità de' tuoi concittadini e la corruzione de' tempi,
potessi aspirare al tuo intento; di'? spargerai tutto il sangue col quale
conviene nutrire una nascente repubblica? arderai le tue case con le faci della
guerra civile? unirai col terrore i partiti? spegnerai con la morte le
opinioni? adeguerai con le stragi le fortune? ma se tu cadi tra via, vediti
esecrato dagli uni come demagogo, dagli altri come tiranno. Gli amori della
moltitudine sono brevi ed infausti; giudica, più che dall'intento, dalla
fortuna; chiama virtù il delitto utile, e scelleraggine l'onestà che le pare
dannosa; e per avere i suoi plausi, conviene o atterrirla, o ingrassarla, e
ingannarla sempre. E ciò sia. Potrai tu allora inorgoglito dalla sterminata
fortuna reprimere in te la libidine del supremo potere che ti sarà fomentata e
dal sentimento della tua superiorità, e della conoscenza del comune
avvilimento? I mortali sono naturalmente schiavi, naturalmente tiranni,
naturalmente ciechi. Intento tu allora a puntellare il tuo trono, di filosofo
saresti fatto tiranno; e per pochi anni di possanza e di tremore, avresti
perduta la tua pace, e confuso il tuo nome fra la immensa turba dei despoti. -
Ti avanza ancora un seggio fra' capitani; il quale si afferra per mezzo di un
ardire feroce, di una avidità che rapisce per profondere, e spesso di una viltà
per cui si lambe la mano che t'aita a salire. Ma - o figliuolo! l'umanità geme
al nascere di un conquistatore; e non ha per conforto se non la speranza di
sorridere su la sua bara. -
Tacque - ed io dopo lunghissimo silenzio esclamai: O Cocceo Nerva! tu almeno
sapevi morire incontaminato. - Il vecchio mi guardò - Se tu né speri, né temi
fuori di questo mondo - e mi stringeva la mano - ma io! - Alzò gli occhi al
Cielo, e quella severa sua fisionomia si raddolciva di soave conforto, come s'ei
lassù contemplasse tutte le tue speranze. - Intesi un calpestio che s'avanzava
verso di noi; e poi travidi gente fra' tiglj; ci rizzammo; e l'accompagnai sino
alle sue stanze.
Ah s'io non mi sentissi oramai spento quel fuoco celeste che nel tempo della fresca
mia gioventù spargeva raggi su tutte le cose che mi stavano intorno, mentre
oggi vo brancolando in una vota oscurità! s'io potessi avere un tetto ove
dormire sicuro; se non mi fosse conteso di rinselvarmi fra le ombre del mio
romitorio; se un amore disperato che la mia ragione combatte sempre, e che non
può vincere mai - questo amore ch'io celo a me stesso, ma che riarde ogni
giorno e che s'è fatto onnipotente, immortale - ahi! la Natura ci ha dotati di
questa passione che è indomabile in noi forse più dell'istinto fatale della
vita - se io potessi insomma impetrare un anno solo di calma, il tuo povero
amico vorrebbe sciogliere ancora un voto e poi morire. Io odo la mia patria che
grida: - SCRIVI CIÒ CHE VEDESTI. MANDERÒ LA MIA VOCE DALLE ROVINE, E TI DETTERÒ
LA MIA STORIA. PIANGERANNO I SECOLI SU LA MIA SOLITUDINE; E LE GENTI SI
AMMAESTRERANNO NELLE MIE DISAVVENTURE. IL TEMPO ABBATTE IL FORTE: E I DELITTI
DI SANGUE SONO LAVATI NEL SANGUE. - E tu lo sai, Lorenzo, avrei coraggio di
scrivere; ma l'ingegno va morendo con le mie forze, e vedo che fra pochi mesi
avrò fornito questo mio angoscioso pellegrinaggio.
Ma voi pochi sublimi animi che solitarj o perseguitati, su le antiche sciagure
della nostra patria fremete, se i cieli vi contendono di lottare contro la
forza, perché almeno non raccontate alla posterità i nostri mali? Alzate la
voce in nome di tutti, e dite al mondo: Che siamo sfortunati, ma né ciechi né
vili; che non ci manca il coraggio, ma la possanza. - Se avete braccia in
catene, perché inceppate da voi stessi anche il vostro intelletto di cui né i
tiranni né la fortuna, arbitri d'ogni cosa, possono essere arbitri mai?
Scrivete. Abbiate bensì compassione a' vostri concittadini, e non istigate
vanamente le lor passioni politiche; ma sprezzate l'universalità de' vostri
contemporanei: il genere umano d'oggi ha le frenesie e la debolezza della
decrepitezza; ma l'umano genere, appunto quand'è prossimo a morte, rinasce
vigorosissimo. Scrivete a quei che verranno, e che soli saranno degni d'udirvi,
e forti da vendicarvi. Perseguitate con la verità i vostri persecutori. E poi
che non potete opprimerli, mentre vivono, co' pugnali, opprimeteli almeno con
l'obbrobrio per tutti i secoli futuri. Se ad alcuni di voi è rapita la patria,
la tranquillità, e le sostanze; se niuno osa divenire marito; se tutti
paventano il dolce nome di padre, per non procreare nell'esilio e nel dolore
nuovi schiavi e nuovi infelici, perché mai accarezzate così vilmente la vita
ignuda di tutti i piaceri? Perché non la consecrate all'unico fantasma ch'è
duce degli uomini generosi, la gloria? Giudicherete l'Europa vivente, e la
vostra sentenza illuminerà le genti avvenire. L'umana viltà vi mostra terrori e
pericoli; ma voi siete forse immortali? fra l'avvilimento delle carceri e de'
supplicj v'innalzerete sovra il potente, e il suo futuro contro di voi
accrescerà il suo vituperio e la vostra fama.
Milano, 6 Febbraio 1799
Diriggi le tue lettere a Nizza di Provenza perch'io domani
parto verso Francia: e chi sa? forse assai più lontano: certo che in Francia
non mi starò lungamente. Non rammaricarti, o Lorenzo, di ciò; e consola quanto
tu puoi la povera madre mia. Tu dirai forse ch'io dovrei fuggire prima me
stesso, e che se non v'ha luogo dov'io trovi stanza, sarebbe omai tempo ch'io
m'acquetassi. È vero, non trovo stanza; ma qui peggio che altrove. La stagione,
la nebbia perpetua, quest'aria morta, certe fisonomie - e poi - forse m'inganno
- ma parmi di trovar poco cuore; né posso incolparli; tutto si acquista; ma la
compassione e la generosità, e molto più certa delicatezza di animo nascono
sempre con noi, e non le cerca se non chi le sente. - Insomma domani. E mi si è
fitta in fantasia tale necessità di partire, che queste ore d'indugio mi pajono
anni di carcere.
Malaugurato! perché mai tutti i suoi sensi si risentono soltanto al dolore,
simili a quelle membra scorticate che all'alito più blando dell'aria si
ritirano? goditi il mondo com'è, e tu vivrai più riposato e men pazzo. - Ma se
a chi mi declama sì fatti sermoni, io dicessi: Quando ti salta addosso la
febbre, fa che il polso ti batta più lento, e sarai sano - non avrebbe egli
ragione da credermi farneticante di peggior febbre? come dunque potrò io dar
leggi al mio sangue che fluttua rapidissimo? e quando urta nel cuore io sento
che vi si ammassa bollendo, e poi sgorga impetuosamente; e spesso
all'improvviso e talora fra il sonno par che voglia spaccarmisi il petto. - O
Ulissi! eccomi ad obbedire alla vostra saviezza, a patti ch'io, quando vi veggo
dissimulatori, agghiacciati, incapaci di soccorrere alla povertà senza
insultarla, e di difendere il debole dalla ingiustizia; quando vi veggo, per
isfamare le vostre plebee passioncelle, prostrati appié del potente che odiate
e che vi disprezza, allora io possa trasfondere in voi una stilla di questa mia
fervida bile che pure armò spesso la mia voce e il mio braccio contro la
prepotenza; che non mi lascia mai gli occhi asciutti né chiusa la mano alla
vista della miseria; e che mi salverà sempre dalla bassezza. Voi vi credete
savi, e il mondo vi predica onesti: ma toglietevi la paura! - Non vi affannate
dunque; le parti sono pari: Dio vi preservi dalle mie pazzie; ed io lo
prego con tutta l'espansione dell'anima perché mi preservi dalla vostra saviezza.
- E s'io scorgo costoro, anche quando passano senza vedermi, io corro
subitamente a cercare rifugio nel tuo petto, o Lorenzo. Tu rispetti
amorosamente le mie passioni, quantunque tu abbia sovente veduto il leone
ammansarsi alla sola tua voce. Ma ora! Tu il vedi: ogni consiglio e ogni
ragione è funesta per me. Guai s'io non obbedissi al mio cuore! - la Ragione? -
è come il vento; ammorza le faci, ed anima gl'incendj. Addio frattanto.
Ore 10, della mattina
Ripenso - e sarà meglio che tu non mi scriva finché tu non abbia mie lettere. Prendo il cammino delle Alpi Liguri per iscansare i ghiacci del Moncenis: sai quanto micidiale m'è il freddo.
Ore 1
Nuovo inciampo: hanno a passare ancora due giorni prima ch'io riabbia il passaporto. Consegnerò questa lettera nel punto ch'io sarò per salire in calesse.
8 Febbraro, ore 1 1/2
Eccomi con le lagrime su le tue lettere. Riordinando le mie carte mi sono venuti sott'occhio questi pochi versi che tu mi scrivevi sotto una lettera di mia madre due giorni innanzi ch'io abbandonassi i miei colli. - «T'accompagnano tutti i miei pensieri, o mio Jacopo: t'accompagnano i miei voti, e la mia amicizia, che vivrà eterna per te. Io sarò sempre l'amico tuo e il tuo fratello d'amore; e dividerò teco anche l'anima mia.» Sai tu ch'io vo ripetendo queste parole, e mi sento sì fieramente percosso che sono in procinto di venire a gittarmiti al collo e a spirare fra le tue braccia? Addio addio. Tornerò.
Ore 3
Sono andato a dire addio al Parini. - Addio, mi disse, o giovine sfortunato. Tu porterai da per tutto e sempre con te le tue generose passioni alle quali non potrai soddisfare giammai. Tu sarai sempre infelice. Io non posso consolarti co' miei consiglj, perché neppure giovano alle sventure mie derivanti dal medesimo fonte. Il freddo dell'età ha intorpidito le mie membra; ma il cuore - veglia ancora. Il solo conforto ch'io possa darti è la mia pietà: e tu la porti tutta con te. Fra poco io non vivrò più, ma se le mie ceneri serberanno alcun sentimento - se troverai qualche sollievo querelandoti su la mia sepoltura, vieni. - Io proruppi in dirottissime lagrime, e lo lasciai: ed uscì seguendomi con gli occhi mentr'io fuggiva per quel lunghissimo corridojo, e intesi che ei tuttavia mi diceva con voce piangente - addio.
Ore 9 della sera
Tutto è in punto: I cavalli sono ordinati per la mezzanotte - vado a coricarmi così vestito sino a che giungano: mi sento sì stracco! - addio frattanto; addio Lorenzo - Scrivo il tuo nome e ti saluto con tenerezza e con certa superstizione ch'io non ho provato mai mai. Ci rivedremo - se mai dovessi! no, io non morrei senza rivederti e senza ringraziarti per sempre - e te, mia Teresa: ma poiché il mio infelicissimo amore costerebbe la tua pace ed il pianto della tua famiglia, io fuggo senza sapere dove mi trascinerà il mio destino: l'Alpi e l'Oceano e un mondo intero, s'è possibile, ci divida.
Genova, 11 Febbraro
Ecco il Sole più bello! Tutte le mie fibre sono in un tremito soave perché risentono la giocondità di questo Cielo raggiante e salubre. Sono pure contento di essere partito! proseguirò fra poche ore; non so ancora dirti dove mi fermerò, né quando terminerà il mio viaggio: ma per li 16 sarò in Tolone.
Dalla Pietra, 15 Febbraro
Strade alpestri, montagne orride dirupate, tutto il rigore del tempo, tutta la
stanchezza e i fastidj del viaggio, e poi?
Nuovi tormenti e nuovi tormentati.
Scrivo da un paesetto appié delle Alpi
Marittime. E mi fu forza di sostare perché la posta è senza cavalcatura; né so
quando potrò partire. Eccomi dunque sempre con te, e sempre con nuove
afflizioni: sono destinato a non movere passo senza incontrare lungo la mia via
dolore. - In questi due giorni io usciva verso mezzodì un miglio forse lungi
dall'abitato, passeggiando fra certi oliveti che stanno verso la spiaggia del
mare: io vado a consolarmi a' raggi del Sole, e a bere di quel aere vivace;
quantunque anche in questo tepido clima il verno di questo anno è clemente meno
assai dell'usato. E là mi pensava di essere tutto solo, o almeno sconosciuto a
que' viventi che passavano; ma appena mi ridussi a casa, Michele il quale salì
a ravviarmi il fuoco, mi venia raccontando, come certo uomo quasi mendico
capitato poc'anzi in questa balorda osteria gli chiese, s'io era un giovine che
avea già tempo studiato in Padova; non gli sapea dire il nome, ma porgeva assai
contrassegni e di me e di que' tempi, e nominava te pure - Davvero, seguì a
dire Michele, io mi trovava imbrogliato; gli risposi nonostante ch'ei
s'apponeva: parlava veneziano; ed è pure la dolce cosa il trovare in queste
solitudini un compatriota - e poi - è così stracciato! insomma io gli promisi -
forse può dispiacere al signore - ma mi ha fatto tanta compassione, ch'io gli
promisi di farlo venire; anzi sta qui fuori. - E venga, io dissi a Michele - e
aspettandolo mi sentiva tutta la persona inondata d'una subitanea tristezza. Il
ragazzo rientrò con un uomo alto, macilento; parea giovine e bello; ma il suo
volto era contraffatto dalle rughe del dolore. Fratello! io era impellicciato e
al fuoco; stava gittato oziosamente nella seggiola vicina il mio larghissimo
tabarro; l'oste andava su e giù allestendomi da desinare - e quel misero; era
appena in farsetto di tela ed io intirizziva solo a guardarlo. Forse la mia
mesta accoglienza e il meschino suo stato l'hanno disanimato alla prima; ma poi
da poche mie parole s'accorse che il tuo Jacopo non è nato per disanimare
gl'infelici; e s'assise con me a riscaldarsi, narrandomi quest'ultimo
lagrimevole anno della sua vita. Mi disse: Io conobbi famigliarmente uno
scolare che era dì e notte a Padova con voi - e ti nominò - quanto tempo è
ormai ch'io non ne odo novella! ma spero che la fortuna non gli sarà così
iniqua. Io studiava allora - non ti dirò, mio Lorenzo, chi egli è. Dovrò io
contristarti con le sciagure di un uomo che hai conosciuto felice, e che tu
forse ami ancora? è troppo anche se la sorte ti ha condannato ad affliggerti
sempre per me.
Ei proseguiva: Oggi venendo da Albenga, prima di arrivare nel paese v'ho
scontrato lungo la marina. Voi non vi siete avveduto com'io mi voltava spesso a
considerarvi, e mi parea di avervi raffigurato; ma non conoscendovi che di
vista, ed essendo scorsi quattro anni, sospettava di sbagliare. Il vostro servo
poi mi accertò.
Lo ringraziai perch'ei fosse venuto a vedermi; gli parlai di te; e voi mi siete
anche più grato, gli dissi, perché m'avete recato il nome di Lorenzo. - Non ti
ripeterò il suo doloroso racconto. Emigrò per la pace di Campo Formio, e
s'arruolò Tenente nell'artiglieria Cisalpina. Querelandosi un giorno delle
fatiche e delle angarie che gli parea di sopportare, gli fu da un amico suo
proferito un impiego. Abbandonò la milizia. Ma l'amico, l'impiego, e il tetto
gli mancarono. Tapinò per l'Italia, e s'imbarcò a Livorno. - Ma mentr'esso
parlava, io udiva nella camera contigua un rammarichio di bambino e un sommesso
lamento; e m'avvidi ch'egli andavasi soffermando, e ascoltava con certa
ansietà: e quando quel rammarichio taceva, ei ripigliava. - Forse, gli diss'io,
saranno passaggeri giunti pur ora. - No, mi rispose; è la mia figlioletta di
tredici mesi che piange.
E seguì a narrarmi, ch'ei mentre era Tenente s'ammogliò a una fanciulla di
povero stato, e che le perpetue marcie a cui la giovinetta non potea reggere, e
lo scarso stipendio lo stimolarono anche più a confidare in colui che poi lo
tradì. Da Livorno navigò a Marsiglia, così alla ventura: e si trascinò per
tutta Provenza; e poi nel Delfinato, cercando d'insegnare l'Italiano, senza mai
potersi trovare né lavoro né pane; ed ora tornavasi d'Avignone a Milano. Io mi
rivolgo addietro, continuò, e guardo il tempo passato, e non so come sia
passato per me. Senza danaro; seguitato sempre da una moglie estenuata, co'
piedi laceri, con le braccia spossate dal continuo peso di una creatura
innocente che domanda alimento all'esausto petto di sua madre, e che strazia
con le sue strida le viscere degli sfortunati suoi genitori, mentre non
possiamo acquetarla con la ragione delle nostre disgrazie. Quante giornate
arsi, quante notti assiderati abbiamo dormito nelle stalle fra' giumenti, o
come le bestie nelle caverne! cacciato di città in città da tutti i governi,
perché la mia indigenza mi serrava la porta de' magistrati, o non mi concedeva
di dar conto di me: e chi mi conosceva, o non volle più conoscermi, o mi voltò
le spalle. - E sì, gli diss'io, so che in Milano e altrove molti de' nostri
concittadini emigrati sono tenuti liberali. - Dunque, soggiunse, la mia fiera
fortuna li ha fatti crudeli unicamente per me. Anche le persone di ottimo cuore
si stancano di fare del bene; sono tanti i tapini! Io non lo so - ma il tale -
il tale (e i nomi di questi uomini ch'io scopriva così ipocriti mi erano,
Lorenzo, tante coltellate nel cuore) chi mi ha fatto aspettare assai volte
vanamente alla sua porta; chi dopo sviscerate promesse, mi fe' camminare molte
miglia sino al suo casino di diporto, per farmi la limosina di poche lire: il
più umano mi gittò un tozzo di pane senza volermi vedere; e il più magnifico mi
fece così sdruscito passare fra un corteggio di famigli e di convitati, e dopo
d'avermi rammemorata la scaduta prosperità della mia famiglia, e inculcatomi lo
studio e la probità, mi disse amichevolmente che non mi rincrescesse di
ritornare domattina per tempo. Tornatomi, ritrovai nell'anticamera tre
servidori, uno de' quali mi disse che il padrone dormiva; e mi pose nelle mani
due scudi e una camicia. Ah signore! non so se voi siete ricco; ma il vostro
aspetto, e que' sospiri mi dicono che voi siete sventurato e pietoso.
Credetemi; io vidi per prova che il danaro fa parere benefico anche l'usurajo,
e che l'uomo splendido di rado si degna di locare il suo beneficio fra' cenci.
- Io taceva; ed ei rizzandosi per accommiatarsi riprese a dire: I libri
m'insegnavano ad amare gli uomini e la virtù; ma i libri, gli uomini e la virtù
mi hanno tradito. Ho dotta la testa; sdegnato il cuore; e le braccia inette ad
ogni utile mestiere. Se mio padre udisse dalla terra ove sta seppellito con che
gemito grave io lo accuso di non avere fatti i suoi cinque figliuoli legnajuoli
o sartori! Per la misera vanità di serbare la nobiltà senza la fortuna, ha sprecato
per noi tutto quel poco che ei possedeva, nelle università e nel bel mondo. E
noi frattanto? - Non ho mai saputo che si abbia fatto la fortuna degli altri
fratelli miei. Scrissi molte lettere; non però vidi risposta: o sono miseri, o
sono snaturati. Ma per me, ecco il frutto delle ambiziose speranze del padre
mio. Quante volte io sono condotto o dalla notte, o dalla fame a ricoverarmi in
una osteria; ma entrandovi, non so come pagherò la mattina imminente. Senza
scarpe, senza vesti - Ah copriti! gli diss'io, rizzandomi; e lo coprii del mio
tabarro. E Michele, che essendo venuto già in camera per qualche faccenda vi
s'era fermato poco discosto ascoltando, si avvicinò asciugandosi gli occhi col
rovescio della mano, e gli aggiustava in dosso quel tabarro: ma con certo
rispetto, come s'ei temesse d'insultare alla scaduta fortuna di quella persona
così ben nata.
O Michele! io mi ricordo che tu potevi vivere libero sino al dì che tuo
fratello maggiore avviando una botteghetta, ti chiamò seco; eppure scegliesti di
rimanerti con me, benché servo: io noto l'amoroso rispetto per cui tu dissimuli
gl'impeti miei fantastici; e taci anche le tue ragioni ne' momenti
dell'ingiusta mia collera: e vedo con quanta ilarità te la passi fra le noje
della mia solitudine; e vedo la fede con che sostieni i travaglj di questo mio
pellegrinaggio. Spesso col tuo giovale sembiante mi rassereni; ma quando io
taccio le intere giornate, vinto dal mio nerissimo umore, tu reprimi la gioja
del tuo cuore contento per non farmi accorgere del mio stato. Pure! questo atto
gentile verso quel disgraziato ha santificata la mia riconoscenza verso di te.
Tu se' il figliuolo della mia nutrice, tu se' allevato nella mia casa; né io
t'abbandonerò mai. Ma io t'amo ancor più poiché mi avvedo che il tuo stato
servile avrebbe forse indurita la bella tua indole, se non ti fosse stata
coltivata dalla mia tenera madre, da quella donna che con l'animo suo delicato,
e co' soavi suoi modi fa cortese e amoroso tutto quello che vive in lei.
Quando fui solo, diedi a Michele quel più che ho potuto; ed esso, mentre io
desinava, lo recò a quel derelitto. Appena mi sono risparmiato tanto da
arrivare a Nizza dove negozierò le cambiali ch'io né banchi di Genova mi feci
spedire per Tolone e Marsiglia. - Stamattina quando ei, prima di andarsene, è
venuto con la sua moglie e con la sua creatura per ringraziarmi, ed io vedeva
con quanto giubilo mi replicava: Senza di voi io sarei oggi andato cercando il
primo spedale - io non ho avuto animo di rispondergli; ma il mio cuore dicevagli:
Ora tu hai come vivere per quattro mesi - per sei - e poi? La bugiarda speranza
ti guida intanto per mano, e l'ameno viale dove t'innoltri mette forse a un
sentiero più disastroso. Tu cercavi il primo spedale - e t'era forse poco
discosto l'asilo della fossa. Ma questo mio poco soccorso, né la sorte mi
concede di ajutarti davvero, ti ridarà più vigore da sostenere di nuovo e per
più tempo que' mali che già t'avevano quasi consunto e liberato per sempre.
Goditi intanto del presente - ma quanti disagi hai pur dovuto durare perché
questo tuo stato, che a molti pure sarebbe affannoso, a te paja sì lieto! Ah se
tu non fossi padre e marito, io ti darei forse un consiglio! - e senza dirgli
parola, l'ho abbracciato; e mentre partivano, io li guardava, stretto d'un
crepacuore mortale.
Jer sera spogliandomi io pensava: Perché mai quell'uomo emigrò dalla sua
patria? perché s'ammogliò? perché mai lasciò un pane sicuro? e tutta la storia
di lui pareva il romanzo di un pazzo; ed io sillogizzava cercando ciò ch'egli
per non strascinarmi dietro tutte quelle sciagure, avrebbe potuto fare, o non
fare. Ma siccome ho più volte udito infruttuosamente ripetere sì fatti perché,
ed ho veduto che tutti fanno da medici nelle altrui malattie - io sono andato a
dormire borbottando: O mortali che giudicate inconsiderato tutto quello che non
è prospero, mettetevi una mano sul petto e poi confessate - siete più savj, o
più fortunati?
Or credi tu vero tutto ciò ch'ei narrava? - Io? Credo ch'egli era mezzo nudo,
ed io vestito; ho veduto una moglie languente; ho udito le strida di una
bambina. Mio Lorenzo, si vanno pure cercando con la lanterna nuove ragioni
contro del povero perché si sente nella coscienza il diritto che la Natura gli
ha dato su le sostanze del ricco. - Eh! le sciagure non derivano per lo più che
da' vizj; e in costui forse derivarono da un delitto. - Forse? per me non lo
so, né lo indago. Io giudice, condannerei tutti i delinquenti; ma io uomo, ah!
penso al ribrezzo col quale nasce la prima idea del delitto; alla fame e alle
passioni che strascinano a consumarlo; agli spasimi perpetui; al rimorso con
che l'uomo si sfama del frutto insanguinato dalla colpa, alle carceri che il
reo si mira sempre spalancate per seppellirlo - e se poi scampando dalla
giustizia, ne paga il fio col disonore e con l'indigenza, dovrò io abbandonarlo
alla disperazione ed a nuovi delitti? è egli solo colpevole? la calunnia, il
tradimento del secreto, la seduzione, la malignità, la nera ingratitudine sono
delitti più atroci, ma sono essi neppur minacciati? e chi dal delitto ha
ricavato campi ed onore! - O legislatori, o giudici, punite: ma talvolta
aggiratevi ne' tuguri della plebe e ne' sobborghi di tutte le città capitali, e
vedrete ogni giorno un quarto della popolazione che svegliandosi su la paglia
non sa come placare le supreme necessità della vita. Conosco che non si può
rimutare la società; e che l'inedia, le colpe, e i supplizj sono anch'essi
elementi dell'ordine e della prosperità universale; però si crede che il mondo
non possa reggersi senza giudici né senza patiboli; ed io lo credo poiché tutti
lo credono. Ma io? non sarò giudice mai. In questa gran valle dove l'umana
specie nasce, vive, muore, si riproduce, s'affanna, e poi torna a morire, senza
saper come né perché, io non distinguo che fortunati e sfortunati. E se
incontro un infelice, compiango la nostra sorte; e verso quanto balsamo posso
su le piaghe dell'uomo: ma lascio i suoi meriti e le sue colpe su la bilancia
di Dio.
Ventimiglia, 19 e 20 Febbraro
Tu sei disperatamente infelice; tu vivi fra le agonie della
morte, e non hai la sua tranquillità: ma tu dèi tollerarle per gli altri. -
Così la Filosofia domanda agli uomini un eroismo da cui la Natura rifugge. Chi
odia la propria vita può egli amare il minimo bene che è incerto di recare alla
Società e sacrificare a questa lusinga molti anni di pianto? e come potrà
sperare per gli altri colui che non ha desiderj, né speranze per sé; e che
abbandonato da tutto, abbandona se stesso? - Non sei misero tu solo. - Pur
troppo! ma questa consolazione non è anzi argomento dell'invidia secreta che
ogni uomo cova dell'altrui prosperità? La miseria degli altri non iscema la
mia. Chi è tanto generoso da addossarsi le mie infermità? e chi anco volendo,
il potrebbe? avrebbe forse più coraggio da comportarle; ma cos'è il coraggio
voto di forza? Non è vile quell'uomo che è travolto dal corso irresistibile di
una fiumana; bensì chi ha forze da salvarsi e non le adopra. Ora dov'è il
sapiente che possa costituirsi giudice delle nostre intime forze? chi può dare
norma agli effetti delle passioni nelle varie tempre degli uomini e delle
incalcolabili circostanze onde decidere: Questi è un vile, perché soggiace;
quegli che sopporta, è un eroe? mentre l'amore della vita è così imperioso che
più battaglia avrà fatto il primo per non cedere, che il secondo per
sopportare.
Ma i debiti i quali tu hai verso la Società? - Debiti? forse perché mi ha
tratto dal libero grembo della Natura, quand'io non aveva né la ragione, né
l'arbitrio di acconsentirvi, né la forza di oppormivi, e mi educò fra' suoi
bisogni e fra' suoi pregiudizj? - Lorenzo, perdona s'io calco troppo su questo
discorso tanto da noi disputato. Non voglio smoverti dalla tua opinione sì
avversa alla mia; vo' bensì dileguare ogni dubbio da me. Saresti convinto al
pari di me, se ti sentissi le piaghe mie; il Cielo te le risparmi! - Ho io
contratto questi debiti spontaneamente? e la mia vita dovrà pagare, come uno
schiavo, i mali che la Società mi procaccia, solo perché gli intitola beneficj?
e sieno beneficj: ne godo e li ricompenso fino che vivo; e se nel sepolcro non
le sono io di vantaggio, qual bene ritraggo io da lei nel sepolcro? O amico
mio! ciascun individuo è nemico nato della Società, perché la Società è
necessaria nemica degli individui. Poni che tutti i mortali avessero interesse
di abbandonare la vita, credi tu che la sosterrebbero per me solo? e s'io
commetto un'azione dannosa a' più, io sono punito; mentre non mi verrà fatto
mai di vendicarmi delle loro azioni, quantunque ridondino in sommo mio danno. Possono
ben essi pretendere ch'io sia figliuolo della grande famiglia; ma io
rinunziando e a' beni e a' doveri comuni posso dire: Io sono un mondo in me
stesso: e intendo d'emanciparmi perché mi manca la felicità che mi avete
promesso. Che s'io dividendomi non trovo la mia porzione di libertà; se gli
uomini me l'hanno invasa perché sono più forti; se mi puniscono perché la
ridomando - non gli sciolgo io dalle loro bugiarde promesse e dalle mie
impotenti querele cercando scampo sotterra? Ah! que' filosofi che hanno
evangelizzato le umane virtù, la probità naturale, la reciproca benevolenza -
sono inavvedutamente apostoli degli astuti, ed adescano quelle poche anime
ingenue e bollenti le quali amando schiettamente gli uomini per l'ardore di
essere riamate, saranno sempre vittime tardi pentite della loro leale
credulità. -
Eppur quante volte tutti questi argomenti della ragione hanno trovato chiusa la
porta del mio cuore, perch'io tuttavia mi sperava di consecrare i miei tormenti
all'altrui felicità! Ma! - per il nome d'Iddio, ascolta e rispondimi. A che
vivo? di che pro ti son io, io fuggitivo fra queste cavernose montagne? di che
onore a me stesso, alla mia patria, a' miei cari? V'ha egli diversità da queste
solitudini alla tomba? La mia morte sarebbe per me la meta de' guai, e per voi
tutti la fine delle vostre ansietà sul mio stato. Invece di tante ambasce
continue, io vi darei un solo dolore - tremendo, ma ultimo: e sareste certi
della eterna mia pace. I mali non ricomprano la vita.
E penso ogni giorno al dispendio di cui da più mesi sono causa a mia madre; né
so come ella possa far tanto. S'io mi tornassi, troverei casa nostra vedova del
suo splendore. E incominciava già ad oscurarsi, molto innanzi ch'io mi
partissi, per le pubbliche e private estorsioni le quali non restano di
percuoterci. Né però quella madre benefattrice cessa dalle sue cure: trovai
dell'altro denaro a Milano; ma queste affettuose liberalità le scemeranno
certamente quegli agi fra' quali nacque. Pur troppo fu moglie mal avventurata!
le sue sostanze sostengono la mia casa che rovinava per le prodigalità di mio
padre; e l'età di lei mi fa ancora più amari questi pensieri. - Se sapesse!
tutto è vano per lo sfortunato suo figliuolo. E s'ella vedesse qui dentro - se
vedesse le tenebre e la consunzione dell'anima mia! deh! non gliene parlare, o
Lorenzo: ma vita è questa? - Ah sì! io vivo ancora; e l'unico spirito de' miei
giorni è una sorda speranza che li rianima sempre, e che pure tento di non
ascoltare: non posso - e s'io voglio disingannarla, la si converte in
disperazione infernale. - Il tuo giuramento, o Teresa, proferirà ad un tempo la
mia sentenza - ma finché tu se' libera; - e il nostro amore è tuttavia
nell'arbitrio delle circostanze - dell'incerto avvenire - e della morte, tu
sarai sempre mia. Io ti parlo, e ti guardo, e ti abbraccio: e mi pare che così
da lontano tu senta l'impressioni de' miei baci e delle mie lagrime. Ma quando
tu sarai offerita dal padre tuo come olocausto di riconciliazione su l'altare
di Dio - quando il tuo pianto avrà ridata la pace alla tua famiglia - allora -
non io - ma la disperazione sola, e da sé, annienterà l'uomo e le sue passioni.
E come può spegnersi, mentre vivo, il mio amore? e come non ti sedurranno
sempre nel tuo secreto le sue dolci lusinghe? ma allora più non saranno sante e
innocenti. Io non amerò, quando sarà d'altri, la donna che fu mia - amo
immensamente Teresa; ma non la moglie d'Odoardo - ohimè! tu forse mentre scrivo
sei nel suo letto! - Lorenzo! - Ahi Lorenzo! eccolo quel demonio mio persecutore;
torna a incalzarmi, a premermi, a investirmi, e m'accieca l'intelletto, e mi
ferma perfino le palpitazioni del cuore, e mi fa tutto ferocia, e vorrebbe il
mondo finito con me. - Piangete tutti - e perché mi caccia fra le mani un
pugnale, e mi precede, e si volge guardando se io lo sieguo, e mi addita dov'io
devo ferire? Vieni tu dall'altissima vendetta del Cielo? - E così nel mio
furore e nelle mie superstizioni io mi prostendo su la polvere a scongiurare
orrendamente un Dio che non conosco, che altre volte ho candidamente adorato,
ch'io non offesi, di cui dubito sempre - e poi tremo, e l'adoro. Dov'io cerco
ajuto? non in me, non negli uomini: la Terra io la ho insanguinata, e il Sole è
negro.
Alfine eccomi in pace! - Che pace? stanchezza, sopore di sepoltura.
Ho vagato per queste montagne. Non v'è albero, non tugurio, non erba. Tutto è
bronchi; aspri e lividi macigni; e qua e là molte croci che segnano il sito de'
viandanti assassinati. - Là giù è il Roja, un torrente che quando si disfanno i
ghiacci precipita dalle viscere delle Alpi, e per gran tratto ha spaccato in
due questa immensa montagna. V'è un ponte presso alla marina che ricongiunge il
sentiero. Mi sono fermato su quel ponte, e ho spinto gli occhi sin dove può
giungere la vista; e percorrendo due argini di altissime rupi e di burroni
cavernosi, appena si vedono imposte su le cervici dell'Alpi altre Alpi di neve
che s'immergono nel Cielo e tutto biancheggia e si confonde - da quelle
spalancate Alpi cala e passeggia ondeggiando la tramontana, e per quelle fauci
invade il Mediterraneo. La Natura siede qui solitaria e minacciosa, e caccia da
questo suo regno tutti i viventi.
I tuoi confini, o Italia, son questi! ma sono tutto dì sormontati d'ogni parte
dalla pertinace avarizia delle nazioni. Ove sono dunque i tuoi figli? Nulla ti
manca se non la forza della concordia. Allora io spenderei gloriosamente la mia
vita infelice per te: ma che può fare il solo mio braccio e la nuda mia voce? -
Ov'è l'antico terrore della tua gloria? Miseri! noi andiamo ogni dì memorando
la libertà e la gloria degli avi, le quali quanto più splendono tanto più
scoprono la nostra abbietta schiavitù. Mentre invochiamo quelle ombre
magnanime, i nostri nemici calpestano i loro sepolcri. E verrà forse giorno che
noi perdendo e le sostanze, e l'intelletto, e la voce, sarem fatti simili agli
schiavi domestici degli antichi, o trafficati come i miseri Negri, e vedremo i
nostri padroni schiudere le tombe e disseppellire, e disperdere al vento le
ceneri di que' Grandi per annientarne le ignude memorie: poiché oggi i nostri
fasti ci sono cagione di superbia, ma non eccitamento dell'antico letargo.
Così grido quand'io mi sento insuperbire nel petto il nome Italiano, e
rivolgendomi intorno io cerco, né trovo più la mia patria. - Ma poi dico: Pare
che gli uomini sieno fabbri delle proprie sciagure; ma le sciagure derivano
dall'ordine universale, e il genere umano serve orgogliosamente e ciecamente a'
destini. Noi argomentiamo su gli eventi di pochi secoli: che sono eglino
nell'immenso spazio del tempo? Pari alle stagioni della nostra vita normale,
pajono talvolta gravi di straordinarie vicende, le quali pur sono comuni e
necessarj effetti del tutto. L'universo si controbilancia. Le nazioni si
divorano perché una non potrebbe sussistere senza i cadaveri dell'altra. Io
guardando da queste Alpi l'Italia piango e fremo, e invoco contro agl'invasori
vendetta; ma la mia voce si perde tra il fremito ancora vivo di tanti popoli
trapassati, quando i Romani rapivano il mondo, cercavano oltre a' mari e a' deserti
nuovi imperi da devastare, manomettevano gl'Iddii de' vinti, incatenevano
principi e popoli liberissimi, finché non trovando più dove insanguinare i lor
ferri, li ritorceano contro le proprie viscere. Così gli Israeliti trucidavano
i pacifici abitatori di Canaan, e i Babilonesi poi strascinarono nella
schiavitù i sacerdoti, le madri, e i figliuoli del popolo di Giuda. Così
Alessandro rovesciò l'impero di Babilonia, e dopo avere passando arsa gran
parte della terra, si corrucciava che non vi fosse un altro universo. Così gli
Spartani tre volte smantellarono Messene e tre volte cacciarono dalla Grecia i
Messeni che pur Greci erano della stessa religione e nipoti de' medesimi
antenati. Così sbranavansi gli antichi Italiani finché furono ingojati dalla fortuna
di Roma. Ma in pochissimi secoli la regina del mondo divenne preda de' Cesari,
de' Neroni, de' Costantini, de' Vandali, e de' Papi. Oh quanto fumo di umani
roghi ingombrò il Cielo della America, oh quanto sangue d'innumerabili popoli
che né timore né invidia recavano agli Europei, fu dall'Oceano portato a
contaminare d'infamia le nostre spiagge! ma quel sangue sarà un dì vendicato e
si rovescierà su i figli degli Europei! Tutte le nazioni hanno le loro età.
Oggi sono tiranne per maturare la propria schiavitù di domani: e quei che
pagavano dianzi vilmente il tributo, lo imporranno un giorno col ferro e col
fuoco. La Terra è una foresta di belve. La fame, i diluvj, e la peste sono ne'
provvedimenti della Natura come la sterilità di un campo che prepara l'abbondanza
per l'anno vegnente: e chi sa? fors'anche le sciagure di questo globo
apparecchiano la prosperità di un altro.
Frattanto noi chiamiamo pomposamente virtù tutte quelle azioni che giovano alla
sicurezza di chi comanda e alla paura di chi serve. I governi impongono
giustizia: ma potrebbero eglino imporla se per regnare non l'avessero prima
violata? Chi ha derubato per ambizione le intere province, manda solennemente
alle forche chi per fame invola del pane. Onde quando la forza ha rotti tutti
gli altrui diritti, per serbarli poscia a se stessa inganna i mortali con le
apparenze del giusto, finché un'altra forza non la distrugga. Eccoti il mondo,
e gli uomini. Sorgono frattanto d'ora in ora alcuni più arditi mortali; prima
derisi come frenetici, e sovente come malfattori, decapitati: che se poi
vengono patrocinati dalla fortuna ch'essi credono lor propria, ma che in somma
non è che il moto prepotente delle cose, allora sono obbediti e temuti, e dopo
morte deificati. Questa è la razza degli eroi, de' capisette, e de' fondatori
delle nazioni i quali dal loro orgoglio e dalla stupidità de' volghi si stimano
saliti tant'alto per proprio valore; e sono cieche ruote dell'oriuolo. Quando
una rivoluzione nel globo è matura, necessariamente vi sono gli uomini che la
incominciano, e che fanno de' loro teschj sgabello al trono di chi la compie. E
perché l'umana schiatta non trova né felicità né giustizia sopra la terra, crea
gli Dei protettori della debolezza e cerca premj futuri del pianto presente. Ma
gli Dei si vestirono in tutti i secoli delle armi de' conquistatori: e
opprimono le genti con le passioni, i furori, e le astuzie di chi vuole
regnare.
Lorenzo, sai tu dove vive ancora la vera virtù? in noi pochi deboli e
sventurati; in noi, che dopo avere sperimentati tutti gli errori, e sentiti
tutti i guai della vita, sappiamo compiangerli e soccorrerli. Tu o Compassione,
sei la sola virtù! tutte le altre sono virtù usuraje.
Ma mentre io guardo dall'alto le follie e le fatali sciagure della umanità, non
mi sento forse tutte le passioni e la debolezza ed il pianto, soli elementi
dell'uomo? Non sospiro ogni dì la mia patria? Non dico a me lagrimando: Tu hai
una madre e un amico - tu ami - te aspetta una turba di miseri, a cui se' caro,
e che forse sperano in te - dove fuggi? anche nelle terre straniere ti
perseguiranno la perfidia degli uomini e i dolori e la morte: qui cadrai forse,
e niuno avrà compassione di te; e tu senti pure nel tuo misero petto il piacere
di essere compianto. Abbandonato da tutti, non chiedi tu ajuto dal Cielo? non
t'ascolta; eppure nelle tue afflizioni il tuo cuore torna involontario a lui -
va, prostrati; ma all'are domestiche.
O natura! hai tu forse bisogno di noi sciagurati, e ci consideri come i vermi e
gl'insetti che vediamo brulicare e moltiplicarsi senza sapere a che vivano? Ma
se tu ci hai dotati del funesto istinto della vita sì che il mortale non cada
sotto la soma delle tue infermità ed ubbidisca irrepugnabilmente a tutte le tue
leggi, perché poi darci questo dono ancor più funesto della ragione? Noi
tocchiamo con mano tutte le nostre calamità ignorando sempre il modo di
ristorarle.
Perché dunque io fuggo? e in quali lontane contrade io vado a perdermi? dove
mai troverò gli uomini diversi dagli uomini? O non presento io forse i disastri,
le infermità, e la indigenza che fuori della mia patria mi aspettano? - Ah no!
Io tornerò a voi, o sacre terre, che prime udiste i miei vagiti, dove tante
volte ho riposato queste mie membra affaticate, dove ho trovato nella oscurità
e nella pace i miei pochi diletti, dove nel dolore ho confidato i miei pianti.
Poiché tutto è vestito di tristezza per me, se null'altro posso ancora sperare
che il sonno eterno della morte - voi sole, o mie selve, udirete il mio ultimo
lamento, e voi sole coprirete con le vostre ombre pacifiche il mio freddo
cadavere. Mi piangeranno quegli infelici che sono compagni delle mie disgrazie
- e se le passioni vivono dopo il sepolcro, il mio spirito doloroso sarà
confortato da' sospiri di quella celeste fanciulla ch'io credeva nata per me,
ma che gl'interessi degli uomini e il mio destino feroce mi hanno strappata dal
petto.
Alessandria, 29 Febbraro
Da Nizza invece d'innoltrarmi in Francia, ho preso la volta del Monferrato. Stasera dormirò a Piacenza. Giovedì scriverò da Rimino. Ti dirò allora - Or addio.
Rimino, 5 Marzo
Tutto mi si dilegua. Io veniva a rivedere ansiosamente il Bertola; da gran tempo io non aveva sue lettere - È morto.
Ore 11 della sera
Lo seppi: Teresa è maritata. Tu taci per non darmi la vera ferita - ma l'inferno geme quando la morte il combatte, non quando lo ha vinto. Meglio così, da che tutto è deciso: ed ora anch'io sono tranquillo, incredibilmente tranquillo. - Addio. Roma mi sta sempre sul cuore.
Dal frammento seguente che ha la data della sera stessa, apparisce che
Jacopo decretò in quel dì di morire. Parecchi altri frammenti, raccolti come
questo dalle sue carte, paiono gli ultimi pensieri che lo raffermarono nel suo
proponimento; e però li andrò frammentendo secondo le loro date.
«Veggo la meta: ho già tutto fermo da gran tempo nel cuore - il modo, il luogo
- né il giorno è lontano.
Cos'è la vita per me? il tempo mi divorò i momenti felici: io non la conosco se
non nel sentimento del dolore: ed or anche l'illusione mi abbandona - medito
sul passato; m'affiso su i dì che verranno; e non veggo che nulla. Questi anni
che appena giungono a segnare la mia giovinezza, come passarono lenti fra i
timori, le speranze, i desideri, gl'inganni, la noja! e s'io cerco la eredità
che mi hanno lasciato, non mi trovo che la rimembranza di pochi piaceri che non
sono più, e un mare di sciagure che atterrano il mio coraggio, perché me ne
fanno paventar di peggiori. Che se nella vita è il dolore, in che più sperare?
nel nulla; o in un'altra vita diversa sempre da questa. - Ho dunque deliberato;
non odio disperatamente me stesso; non odio i viventi. Cerco da molto tempo la
pace; e la ragione mi addita sempre la tomba. Quante volte sommerso nella
meditazione delle mie sventure io cominciava a disperare di me! L'idea della
morte dileguava la mia tristezza, ed io sorrideva per la speranza di non vivere
più. - Sono tranquillo, tranquillo imperturbabilmente. Le illusioni sono
svanite; i desiderj son morti: le speranze e i timori mi hanno lasciato libero
l'intelletto. Non più mille fantasmi ora giocondi ora tristi confondono e
traviano la mia immaginazione: non più vani argomenti adulano la mia ragione;
tutto è calma. - Pentimenti sul passato, noja del presente, e timor del futuro;
ecco la vita. La sola morte, a cui è commesso il sacro cangiamento delle cose,
promette pace.»
Da Ravenna non mi scrisse; ma da quest'altro squarcio si vede ch'ei vi andò
in quella settimana.
«Non temerariamente, ma con animo consigliato e sicuro. Quante tempeste pria
che la Morte potesse parlare così pacatamente con me - ed io così pacato con
lei!
Sull'urna tua, Padre Dante! Abbracciandola, mi sono prefisso ancor più nel mio
consiglio. M'hai tu veduto? m'hai tu forse, Padre, ispirato tanta fortezza di
senno e di cuore, mentr'io genuflusso, con la fronte appoggiata a' tuoi marmi,
meditava e l'alto animo tuo, e il tuo amore, e l'ingrata tua patria, e
l'esilio, e la povertà, e la tua mente divina? e mi sono scompagnato dall'ombra
tua più deliberato e più lieto.»
Su l'albeggiar de' 13 Marzo smontò a' colli Euganei, e spedì a Venezia
Michele, gittandosi, stivalato com'era, subitamente a dormire. Io mi stava
appunto con la madre di Jacopo, quando essa, che prima di me si vide innanzi il
ragazzo, chiese spaventata: E mio figlio? - La lettera di Alessandria
non era per anco arrivata, e Jacopo prevenne anche quella di Rimino: noi ci
pensavamo ch'ei si fosse già in Francia; perciò l'inaspettato ritorno del servo
ci fu presentimento di fiere novelle. Ei narrava: Il padrone è in campagna;
non può scrivere, perché abbiamo viaggiato tutta notte, dormiva quand'io
montava a cavallo. Vengo per avvertire che noi ripartiremo; e credo, da quel
che gli ho udito dire, per Roma; se ben mi ricordo, per Roma, e poi per Ancona,
dove ci imbarcheremo: per altro il padrone sta bene; ed è quasi una settimana
ch'io lo vedo più sollevato. Mi disse che prima di partire verrà a salutar la
signora; e però ha mandato qui me ad avvisare; anzi verrà qui domani l'altro, e
forse domani. Il servo pareva lieto, ma il suo dire confuso accrebbe le
nostre sollecitudini; né si acquetaron se non il dì appresso, quando Jacopo
scrisse, come ripartirebbe per l'Isole già Venete, e che temendo di non
ritornare forse più, verrebbe a rivederci e a ricevere la benedizione di sua
madre. - Questo biglietto andò smarrito.
Frattanto nel dì del suo arrivo a' colli Euganei, svegliatosi quattr'ore prima
di sera, scese a passeggiare sino presso alla chiesa, tornò, si rivestì, e
s'avviò a casa T***. Seppe da un famigliare come da sei giorni erano tutti
venuti da Padova, e che a momenti sarebbero tornati dal passeggio. Era quasi
sera, e tornavasi a casa. Dopo non molti passi s'accorse di Teresa che veniva
con l'Isabellina per mano; e dietro alle figliuole, il signore T*** con
Odoardo. Jacopo fu preso da un tremito, e s'accostava perplesso. Teresa appena
il conobbe, gridò: Eterno Iddio! e dando indietro mezzo tramortita si
sostenne sul braccio del padre suo. Com'ei fu presso, e che venne ravvisato da
tutti, ella non gli disse parola: appena il signore T*** gli stese la mano; e
Odoardo lo salutò asciuttamente. Solo l'Isabellina gli corse addosso, e mentre
ei se la prendea su le braccia, essa baciavalo, e lo chiamava il suo Jacopa, e
si voltava a Teresa additandolo; ed esso accompagnandosi a loro, parlava sottovoce
con la ragazzina. Niuno aprì bocca: Odoardo soltanto gli chiese se andasse a
Venezia. - Fra pochi giorni, rispose. Giunti alla porta, si accomiatò.
Michele che a nessun patto accettò di riposarsi in Venezia per non lasciare
solo il padrone, si tornò a' colli un'ora incirca dopo mezzanotte, e lo trovò
seduto allo scrittojo rivedendo le sue carte. Moltissime ne bruciò; parecchie
di minor conto le lasciava cadere stracciate sotto al tavolino. Il ragazzo si
coricò, lasciando l'ortolano perché ci badasse; tanto più che Jacopo non aveva
in tutto quel dì desinato. Infatti poco di poi gli fu recata parte del suo
desinare, ed ei ne mangiò attendendo sempre alle carte. Non le esaminò tutte;
ma passeggiò per la stanza, poi prese a leggere. L'ortolano che lo vedeva mi
disse, che sul finir della notte aprì le finestre, e vi si fermò un pezzo: pare
che subito dopo abbia scritto i due frammenti che sieguono: sono in diverse
facciate, ma in un medesimo foglio.
«Or via: costanza. - Eccoti una bragera, scintillante d'infiammati carboni.
Ponvi dentro la mano; brucia le vive tue carni: bada; non t'avvilire d'un
gemito. - A che pro? - E a che pro deggio affettare un eroismo che non mi
giova?»
«È notte; alta, perfetta notte. A che veglio immoto su questo
libro? - Io non imparai se non la scienza di ostentare saviezza quando le
passioni non tiranneggiano l'anima. I precetti sono come le medicine, inutili
quando la infermità vince tutte le resistenze della Natura.
Alcuni sapienti si vantano d'avere domate le passioni che non hanno mai
combattuto: l'origine è questa della loro baldanza. - Amabile stella dell'alba!
tu fiammeggi dall'oriente, e mandi a questi occhi il tuo raggio - ultimo! Chi
l'avria detto sei mesi addietro quando tu comparivi prima degli altri pianeti a
rallegrare la notte, e ad accogliere i nostri saluti?
Spuntasse almeno l'aurora! - Forse Teresa si ricorda in questo momento di me -
pensiero consolatore! Oh come la beatitudine d'essere amato raddolcisce
qualunque dolore!
Ah notturno delirio! va - tu ricominci a sedurmi: passò stagione: ho
disingannato me stesso; un partito solo mi resta.»
La mattina mandò per una Bibbia ad Odoardo il quale non l'aveva: mandò al
parroco, e quando gli fu recata, si chiuse. A mezzodì suonato uscì a spedire la
seguente lettera, e tornò a chiudersi.
14 Marzo
Lorenzo, ho un secreto che da più mesi mi sta confitto nel
cuore: ma l'ora della partenza sta per suonare; ed è tempo ch'io lo deponga
dentro il tuo petto.
Questo amico tuo ha sempre davanti un cadavere. - Ho fatto quanto io doveva;
quella famiglia è da quel giorno men povera - ma il padre loro rivive più?
In uno di que' giorni del mio forsennato dolore, son oggimai dieci mesi, io
cavalcando mi dilungai molte miglia. Era la sera; io vedeva sorgere un tempo
nero, e tornando affrettavami: il cavallo divorava la via, e nondimeno i miei
sproni lo insanguinavano; e gli abbandonai tutte le briglie sul collo,
invocando quasi ch'ei rovinasse e si seppellisse con me. Entrando in un viale
tutto alberi, stretto, lunghissimo, vidi una persona - ripresi le briglie; ma
il cavallo più s'irritava e più impetuosamente lanciavasi. - Tienti a
sinistra, gridai, a sinistra! Quello sfortunato m'intese; corse a
sinistra; ma sentendo più imminente lo scalpito, e in quello stretto sentiero
credendosi addosso il cavallo, ritornava sgomentato a diritta, e fu investito,
rovesciato, e le zampe gli frantumarono le cervella. In quel violento urto il
cavallo stramazzò, balzandomi di sella più passi. Perché rimasi vivo ed illeso?
- Corsi ove intendeva un lamento di moribondo: l'uomo agonizzava boccone in una
palude di sangue: lo scossi: non aveva né voce né sentimento; dopo minuti
spirò. Tornai a casa. Quella notte fu anche burrascosa per tutta la Natura; la
grandine desolò le campagne; le folgori arsero molti alberi, e il turbine
fracassò la cappella di un crocefisso: ed io uscii a perdermi tutta la notte
per le montagne con le vesti e l'anima insanguinata, cercando in quello
sterminio la pena della mia colpa. Che notte! Credi tu che quel terribile
spettro mi abbia perdonato mai? - La mattina dopo, assai se ne parlò: si trovò
il morto in quel viale, mezzo miglio più lontano, sotto un mucchio di sassi fra
due castagni schiantati che attraversavano il cammino; la pioggia che sino
all'alba cascò dalle alture a torrenti ve lo strascinò con que' sassi; aveva le
membra e la faccia a brani: e fu conosciuto per le strida della moglie che lo
cercava. Nessuno fu imputato. Ben mi accusavano nel mio secreto le benedizioni
di quella vedova perché ho subitamente collocata la sua figlia al nipote del
castaldo; e assegnato un patrimonio al figliuolo che si volle far prete. E jer
sera vennero a ringraziarmi di nuovo dicendomi, ch'io gli ho liberati dalla
miseria in cui da tanti anni languiva la famiglia di quel povero lavoratore. -
Ah! vi sono pure tanti altri miseri come voi; ma hanno un marito ed un padre
che li consola con l'amor suo, e che essi non cangierebbero per tutte le
ricchezze della terra - e voi!
Così gli uomini nascono a struggersi scambievolmente!
Fuggono da quel viale tutti i villani, e tornandosi da' lavori, per iscansarlo,
passano per le praterie. Si dice che le notti vi si sentano spiriti; che
l'uccello del mal-augurio siede fra quelle arbori e dopo la mezzanotte urla tre
volte; che qualche sera si è veduto passare una persona morta - né io ardisco
disingannarli, né ridere di tali prestigj. Ma svelerai tutto dopo la mia morte.
Il viaggio è rischioso, la mia salute è incerta; non posso allontanarmi con
questo rimorso sepolto. Que' due figliuoli in ogni loro disgrazia e quella
vedova sieno sacri nella mia casa. Addio.
Per entro la Bibbia si trovarono, assai giorni dopo, le traduzioni zeppe di
cassature e quasi non leggibili di alcuni versi del libro di Job, del
secondo capo dell'Ecclesiaste, e di tutto il cantico di Ezechia. -
Alle quattro dopo mezzodì si trovò a casa T***. Teresa era discesa tutta
sola in giardino. Il padre di lei lo accolse affabilmente. Odoardo si fe' a
leggere presso un balcone; e dopo non molto posò il libro: ne aprì un altro, e
leggendo s'incamminò alle sue stanze. Allora Jacopo prese il primo libro così
come fu lasciato aperto da Odoardo; era il volume IV delle tragedie
dell'Alfieri: ne scorse una o due pagine; poi lesse forte:
Chi siete voi?
Chi d'aura aperta e pura
Qui favellò? Questa? è caligin densa;
Tenebre sono; ombra di morte Oh mira;
Più mi t'accosta; il vedi? Il Sol d'intorno
Cinto ha di sangue ghirlanda funesta
Odi tu canto di sinistri augelli?
Lugubre un pianto sull'aere si spande
Che me percote, e a lagrimar mi sforza
Ma che? Voi pur, voi pur piangete?
Il padre di Teresa guardandolo gli diceva: O mio figlio! - Jacopo seguitò a leggere sommessamente: aprì a caso quello stesso volume, e tosto posandolo, esclamò:
Non diedi a voi
per anco
Del mio coraggio prova: ei pur fia pari
Al dolor mio.
A questi versi Odoardo tornava, e gli udì proferire così efficacemente che si ristette su la porta pensoso. Mi narrava poi il signore T*** che a lui parve in quel momento di leggere la morte sul volto del nostro misero amico; e che in que' giorni tutte le parole di lui ispiravano riverenza e pietà. Favellarono poi del suo viaggio; e quando Odoardo gli chiese se starebbe di molto a tornare: Si, rispose, potrei quasi giurare che non ci rivedremo più. Non ci rivedremo noi più? dissegli il signore T*** con voce afflittissima. Allora Jacopo, come per rassicurarlo, lo guardò in viso con aria lieta insieme e tranquilla; e dopo breve silenzio, gli citò sorridendo quel passo del Petrarca:
Non so; ma forse
Tu starai in terra senza me gran tempo.
Ridottosi a casa su l'imbrunire, si chiuse; né comparì fuori di stanza che la mattina seguente assai tardi. Porrò qui alcuni frammenti ch'io credo di quella notte, quantunque io non sappia assegnare veramente l'ora in cui furono scritti
«Viltà? - Or tu che gridi viltà non se' uno di quegl'infiniti
mortali che infingardi guardano le loro catene, e non osano piangere, e baciano
la mano che li flagella? Che è mai l'uomo? il coraggio fu sempre dominatore
dell'universo perché tutto è debolezza e paura.
Tu m'imputi di viltà, e ti vendi intanto l'anima e l'onore.
Vieni; mirami agonizzare boccheggiando nel mio sangue: non tremi tu? or chi è
il vile? ma trammi questo coltello dal petto - impugnalo; e di' a te stesso: Dovrò
vivere eterno? Dolore sommo forte, ma breve e generoso. Chi sa! la fortuna
ti prepara una morte più dolorosa e più infame. Confessa. Or che tu tieni
quell'arma appuntata deliberatamente sovra il tuo cuore, non ti senti forse
capace di ogni alta impresa, e non ti vedi libero padrone de' tuoi tiranni?»
Mezzanotte
«Contemplo la campagna: guarda che notte serena e pacifica! Ecco la Luna che sorge dietro la montagna. - O Luna! amica Luna. Mandi ora tu forse su la faccia di Teresa un patetico raggio simile a questo che tu diffondi nell'anima mia? Ti ho sempre salutata mentre apparivi a consolare la muta solitudine della Terra: più volte uscendo dalla casa di Teresa ho parlato con te, e tu eri testimonio de' miei delirj: questi occhi molli di lagrime più volte accompagnata in grembo alle nubi che ti ascondevano: ti hanno cercata nelle notti cieche della tua luce. Tu risorgerai, tu risorgerai sempre più bella; ma l'amico tuo cadrà deforme e abbandonato cadavere senza risorgere più. Or ti prego di un ultimo beneficio: quando Teresa mi cercherà fra i cipressi e i pini del monte, illumina co' tuoi raggi la mia sepoltura.»
«Bell'alba! ed è pure gran tempo ch'io non m'alzo da un sonno
così riposato, e ch'io non ti vedo, o mattino, così rilucente! - ma gli occhi
miei erano sempre nel pianto; e tutti i miei pensieri nella oscurità; e l'anima
mia nuotava nel dolore.
Splendi, su splendi, o Natura, e riconforta le cure de' mortali. Tu non
risplenderai più per me. Ho già sentito tutta la tua bellezza, e t'ho adorata,
e mi sono alimentato della tua gioja; e finché io ti vedeva bella e benefica tu
mi dicevi con una voce divina: Vivi. - Ma nella mia disperazione ti ho poi
veduta con le mani grondanti di sangue; la fragranza de' tuoi fiori mi fu
pregna di veleno, amari i tuoi frutti; e mi apparivi divoratrice de' tuoi figliuoli
adescandoli con la tua bellezza e co' tuoi doni al dolore.
Sarò io dunque ingrato con te? protrarrò la vita per vederti sì terribile, e
bestemmiarti? No, no. - Trasformandoti, e acciecandomi alla tua luce non mi
abbandoni forse tu stessa, e non mi comandi ad un tempo di abbandonarti? - Ah!
ora ti guardo e sospiro; ma io ti vagheggio ancora per la reminiscenza delle
passate dolcezze, per la certezza ch'io non dovrò più temerti, e perché sto per
perderti. - Né io credo di ribellarmi da te fuggendo la vita. La vita e la
morte sono del pari tue leggi: anzi una strada concedi al nascere, mille al
morire. Se non ci imputi la infermità che ne uccide, vorrai forse imputarne le
passioni che hanno gli stessi effetti e la stessa sorgente perché derivano da te,
né potrebbero opprimerci se da te non avessero ricevuto la forza? Né tu hai
prefisso una età certa per tutti. Gli uomini denno nascere, vivere, morire:
ecco le tue leggi: che rileva il tempo e il modo?
Nulla io ti sottraggo di ciò che mi hai dato. Il mio corpo, questa infinitesima
parte, ti starà sempre congiunta sotto altre forme. Il mio spirito - se morrà
con me, si modificherà con me nella massa immensa delle cose - e s'egli è
immortale! - la sua essenza rimarrà illesa.
Oh! a che più lusingo la mia ragione? Non odo la solenne voce della Natura? Io
ti feci nascere perché tu anelando alla tua felicità cospirassi alla felicità
universale; e quindi per istinto ti diedi l'amor della vita, e l'orror della
morte. Ma se la piena del dolore vince l'istinto, che altro puoi tu fare se non
correre verso le vie che io ti spiano per fuggir da' tuoi mali? Quale
riconoscenza più t'obbliga meco, se la vita ch'io ti diedi per beneficio, ti si
è convertita in dolore?
Che arroganza! credermi necessario! - gli anni miei sono nello incircoscritto
spazio del tempo un attimo impercettibile. Ecco fiumi di sangue che portano tra
i fumanti lor flutti recenti mucchj d'umani cadaveri: e sono questi milioni
d'uomini sacrificati a mille pertiche di terreno, e a mezzo secolo di fama che due
conquistatori si contendono con la vita de' popoli. E temerò io di immolare a
me stesso que' dì pochi e dolenti che mi saranno forse rapiti dalle
persecuzioni degli uomini, o contaminati dalle colpe?»
Cercai quasi con religione tutti i vestigi dell'amico mio nelle sue ore
supreme, e con pari religione io scrivo quelle cose che ho potuto sapere: però
non ti dico, o Lettore, se non ciò ch'io vidi, o ciò che mi fu, da chi il vide,
narrato. - Per quanto io m'abbia indagato, non seppi che abbia egli fatto ne'
dì 16, 17, 18 Marzo. Fu più volte a casa T***; ma non vi si fernò mai. Usciva
tutti que' dì quasi innanzi giorno, e si ritirava assai tardi: cenava senza
dire parola: e Michele mi accerta, che avea notti assai riposate.
La lettera che siegue non ha data, ma fu scritta addì 19.
Parmi? o Teresa mi sfugge? - essa essa mi sfugge! Tutti - e le sta sempre al
fianco Odoardo. Vorrei vederla solo una volta; e sappi ch'io mi sarei già
partito - tu pure m'affretti ognor più! - ma sarei partito, se avessi potuto bagnarle
una volta la mano di lagrime. Gran silenzio in tutta quella famiglia! Salendo
le scale temo d'incontrare Odoardo - parlandomi, non mi nomina mai Teresa. Ed è
pur poco discreto! sempre, anche dianzi, m'interroga quando e come partirò. Mi
sono arretrato improvvisamente da lui - perché davvero mi parea ch'ei
sogghignasse; e l'ho fuggito fremendo.
Torna a spaventarmi quella terribile verità ch'io già svelava con raccapriccio
- e che mi sono poscia assuefatto a meditare con rassegnazione: Tutti siamo
nemici. Se tu potessi fare il processo de' pensieri di chiunque ti si para
davanti, vedresti ch'ei ruota a cerchio una spada per allontanare tutti dal
proprio bene, e per rapire l'altrui. - Lorenzo; comincio a vacillar nuovamente.
Ma conviene disporsi - e lasciarli in pace.
P.S. Torno da quella donna decrepita di cui parmi d'averti narrato una volta. La sconsolata vive ancora! sola, abbandonata spesso gl'interi giorni da tutti che si stancano di ajutarla, vive ancora; ma tutti i suoi sensi sono da più mesi nell'orrore e nella battaglia della morte.
Seguono due frammenti scritti forse in quella notte; e pajono gli ultimi.
«Strappiamo la maschera a questa larva che vuole atterrirci. - Ho veduto
fanciulli raccapricciare e nascondersi all'aspetto travisato della loro
nutrice. O Morte! io ti guardo e t'interrogo - non le cose ma le loro apparenze
ci turbano: infiniti uomini che non s'arrischiano di chiamarti, ti affrontano
nondimeno intrepidamente! Tu pure sei necessario elemento della Natura - per me
oggimai tutto l'orror tuo si dilegua, e mi rassembri simile al sonno della
sera, quiete dell'opre.
Ecco le spalle di quella sterile rupe che frodano le sottoposte valli del
raggio fecondatore dell'anno. - A che mi sto? Se devo cooperare all'altrui
felicità, io invece la turbo: s'io devo consumare la parte di calamità
assegnata ad ogni uomo, io già in ventiquattro anni ho vuotato il calice che
avria potuto bastarmi per una lunghissima vita. E la speranza? - Che monta?
conosco io forse l'avvenire per fidargli i miei giorni? Ahi che appunto questa
fatale ignoranza accarezza le nostre passioni, ed alimenta l'umana infelicità.
Il tempo vola; e col tempo ho perduto nel dolore quella parte di vita che due
mesi addietro lusingavasi di conforto. Questa piaga invecchiata è ormai
divenuta natura: io la sento nel mio cuore, nel mio cervello, in tutto me
stesso; gronda sangue, e sospira come se fosse aperta di fresco. - Or basta,
Teresa, basta: non ti par di vedere in me un infermo strascinato a lenti passi
alla tomba fra la disperazione e i tormenti, e non sa prevenire con un sol
colpo gli strazj del suo destino inevitabile?»
«Tento la punta di questo pugnale: io lo stringo, e sorrido:
qui; in mezzo a questo cuor palpitante - e sarà tutto compiuto. Ma questo ferro
mi sta sempre davanti! - chi chi osa amarti, o Teresa? Chi osò rapirti? -
Fuggimi dunque; non mi ti accostare, Odoardo! -
O! mi vado strofinando le mani per lavare la macchia del tuo sangue - le fiuto
come se fumassero di delitto. Frattanto eccole immacolate, e in tempo di
togliermi in un tratto dal pericolo di vivere un giorno di più - un giorno
solo; un momento - sciagurato! sarei vissuto troppo.»
20 Marzo, a sera
Io era forte: ma questo fu l'ultimo colpo che ha quasi
prostrata la mia fermezza! nondimeno quello ch'è decretato è decretato. Ma tu,
mio Dio, che miri nel profondo, tu vedi che questo è sacrificio più che di
sangue.
Ella era, o Lorenzo, con la sua sorellina; e parea che volesse scansarmi; ma
poi s'assise, e l'Isabellina tutta compunta se le posò su le ginocchia. Teresa
- le dissi accostandomi e prendendole la mano: - mi riguardò: e quella bambina
gettando il suo braccio sul collo di Teresa, e alzando il viso le parlava
sottovoce: Jacopo non mi ama più. E la intesi - S'io t'amo? e abbassandomi e
abbracciandola - t'amo, io le diceva, t'amo teneramente; ma tu non mi vedrai
più. O mio fratello! Teresa mi contemplava atterrita, e stringeva l'Isabellina,
e teneva pur gli occhi verso di me: - Tu ci lascierai, mi disse, e questa
fanciulletta sarà compagna de' miei giorni, e sollievo de' miei dolori: le
parlerò sempre dell'amico suo - dell'amico mio; e le insegnerò a piangere e a
benedirti - e a queste ultime parole, l'anima sua parevami ristorata di qualche
speranza; e le lagrime le pioveano dagli occhi; ed io ti scrivo con le mani
calde ancor del suo pianto. - Addio, soggiunse, addio, ma non eternamente; di'?
non eternamente - eccoti adempiuta la mia promessa e si trasse dal seno il suo
ritratto - eccoti adempiuta la mia promessa; addio, va, fuggi, e porta con te
la memoria di questa sfortunata - è bagnato delle mie lagrime e delle lagrime
di mia madre. - E con le sue mani lo appendeva al mio collo, e lo nascondeva
dentro al mio petto. Io stesi le braccia, e me la strinsi sul cuore, e i suoi
sospiri confortavano le arse mie labbra, e già la mia bocca - ma un pallore di
morte si sparse su la sua faccia; e, mentre mi respingeva, io toccandole la
mano la sentii fredda, tremante, e con voce soffocata e languente mi disse: -
Abbi pietà addio - e si abbandonò sul sofà, stringendosi presso quanto poteva
la Isabellina, che piangeva con noi. - Entrava suo padre, e il nostro misero
stato avvelenò forse i suoi rimorsi.
Ritornò quella sera tanto costernato che Michele sospettò di qualche fiero
accidente. Ripigliò l'esame delle sue carte; e molte ne faceva ardere senza
leggerle. Innanzi alla Rivoluzione avea scritto un commentario intorno al
governo Veneto in uno stile antiquato, assoluto, con quel motto di Lucano per
epigrafe; Jusque datum sceleri. Una sera dell'anno addietro aveva letto
a Teresa la Storia di Lauretta; e Teresa mi disse poi, che quei pensieri
scuciti, ch'ei m'inviò con la lettera de' 29 Aprile, non n'erano il
cominciamento, ma bensì sparsi dentro quell'operetta ch'esso aveva finita,
narrando per filo i casi di Lauretta e gli aveva scritti con istile men
passionato. Non perdonò né a questi né a verun altro scritto. Leggeva
pochissimi libri, pensava molto, dal bollente tumulto del mondo fuggiva a un
tratto nella solitudine, e quindi scriveva per necessità di sfogarsi. Ma a me
non resta se non un suo Plutarco zeppo di postille con varj quinterni
frammessi ove sono alcuni discorsi, ed uno assai lungo su la morte di Nicia; ed
un Tacito Bodoniano, con molti squarci, fra gli altri l'intero libro
secondo degli annali e gran parte del secondo delle storie, da lui con sommo
studio tradotti, e con carattere minutissimo pazientemente ricopiati ne'
margini. I frammenti sovra scritti gli ho trascelti da' fogli stracciati
ch'esso aveva, come di nessun conto, gittati sotto al suo tavolino; e a' quali
ho probabilmente assegnato le date. - Ma il passo seguente, non so se suo o
d'altri quanto alle idee, bensì di stile tutto suo, era stato da lui scritto in
calce al libro delle Massime di Marco Aurelio, sotto la data 3 Marzo
1794 - e poi lo trovai ricopiato in calce all'esemplare del Tacito
Bodoniano sotto la data 1 Gennaro 1797 - e presso a questa, la data 20 Marzo
1799, cinque dì innanzi ch'egli morisse - eccolo:
«Io non so né perché venni al mondo; né come; né cosa sia il mondo; né cosa io
stesso mi sia. E s'io corro ad investigarlo, mi ritorno confuso d'una ignoranza
sempre più spaventosa. Non so cosa sia il mio corpo, i miei sensi, l'anima mia;
e questa stessa parte di me che pensa ciò ch'io scrivo, e che medita sopra di
tutto e sopra se stessa, non può conoscersi mai. Invano io tento di misurare
con la mente questi immensi spazj dell'universo che mi circondano. Mi trovo
come attaccato a un piccolo angolo di uno spazio incomprensibile, senza sapere
perché sono collocato piuttosto qui che altrove; o perché questo breve tempo
della mia esistenza sia assegnato piuttosto a questo momento dell'eternità che
a tutti quelli che precedevano, e che seguiranno. Io non vedo da tutte le parti
altro che infinità le quali mi assorbono come un atomo.»
Poiché in quella notte de' 20 Marzo ebbe ripassato al tutto i suoi fogli,
chiamò l'ortolano e Michele perché glieli sgombrassero da' piedi. Poi li mandò
a dormire. Pare ch'esso abbia vegliato l'intera notte; perché allora scrisse la
lettera precedente, e sul far del giorno andò a destare il ragazzo
commettendogli che procacciasse un messo per Venezia. Poi si sdrajò tutto
vestito sul letto; ma per poca ora; da che un villano mi disse d'averlo alle 8
di quella mattina incontrato su la strada d'Arquà. Prima di mezzodì era tornato
nelle sue stanze. V'entrò Michele a dire che il messo era lì pronto: e lo trovò
seduto immobilmente, e come sepolto in tristissime cure: s'alzò; si fe' presso
alla soglia di una finestra; e standosi ritto scrisse sotto la stessa lettera,
a caratteri quasi illeggibili.
Verrò ad ogni modo - se potessi scriverle - e voleva scrivere: pur se le
scrivessi non avrei più cuore di venire - tu le dirai che verrò, che essa vedrà
il suo figliuolo; - non altro - non altro: non le straziare di più le viscere;
avrei molto da raccomandarti intorno al modo di contenerti per l'avvenire con
essa e di consolarla. - Ma le mie labbra sono arse; il petto soffocato;
un'amarezza, uno stringimento - potessi almen sospirare! - Davvero; un gruppo
dentro le fauci, e una mano che mi preme e mi affanna il cuore. - Lorenzo, ma
che posso più dirti? sono uomo - Dio mio, Dio mio, concedimi anche per oggi il
refrigerio del pianto.
Sigillò il foglio e lo consegnò senza verun soprascritto. Guardò il cielo
per gran pezzo; poi s'assise, e incrociate le braccia su lo scrittojo, vi posò
la fronte: più volte il servo gli chiese se voleva altro; ei senza rivoltarsi,
gli fe' cenno con la testa, che no. Quel giorno incominciò la seguente lettera
per Teresa.
Mercoledì, ore 5
Rassègnati a' decreti del Cielo e troverai qualche felicità
nella pace domestica, e nella concordia con quello sposo che la sorte ti ha
destinato. Tu hai un padre generoso e infelice: tu devi riunirlo a tua madre la
quale solitaria e piangente forse chiama te sola: tu devi la tua vita alla tua
fama. Io solo - io solo morendo troverò pace, e la lascierò alla tua casa: ma
tu povera sfortunata!
Sono pur assai giorni ch'io prendo a scriverti e non posso continuare! O sommo
Iddio, vedo che tu non mi abbandoni nella ora suprema; e questa costanza è
maggiore de' tuoi beneficj. Morirò quando avrò ricevuto la benedizione da mia
madre, e gli ultimi abbracciamenti dall'amico mio. Da lui tuo padre avrà le tue
lettere, e tu pure gli darai le mie: saranno testimonio della santità del
nostro amore. No, cara giovine; non sei tu cagione della mia morte. Tutte le
mie passioni disperate; le disavventure delle persone più necessarie alla vita
mia; gli umani delitti; la sicurezza della mia perpetua schiavitù e
dell'obbrobrio perpetuo della mia patria venduta - tutto insomma da più tempo
era scritto; e tu, donna angelica, potevi soltanto disacerbare il mio destino;
ma non placarlo, oh! non mai. Ho veduto in te sola il ristoro di tutti i miei
mali; ed osai lusingarmi: e poiché per una irresistibile forza tu mi hai amato,
il mio cuore ti ha creduta tutta sua; tu mi hai amato, e tu m'ami - ed ora che
ti perdo, ora chiamo in ajuto la morte. Prega tuo padre di non dimenticarsi di
me; non per affliggersi, bensì per mitigare con la sua compassione il tuo
dolore, e per ricordarsi sempre che ha un'altra figlia.
Ma tu no, vera amica di questo sfortunato, tu non avrai cuore mai di obbliarmi.
Rileggi sempre queste mie ultime parole ch'io posso dire di scriverti col
sangue del mio cuore. La mia memoria ti preserverà forse dalle sciagure del
vizio. La tua bellezza, la tua gioventù, lo splendore della tua fortuna saranno
sprone per gli altri, per te, a contaminare quella innocenza alla quale hai
sacrificato la tua prima e cara passione; e che pure ne' tuoi martirj ti fu
sempre solo conforto. Quanto mai v'è di lusinghiero nel mondo congiurerà alla
tua rovina; a rapirti la stima di te; ed a confonderti fra la schiera di tante
altre donne le quali dopo d'avere rinnegato il pudore, fanno traffico dell'amore
e dell'amicizia, ed ostentano come trionfi le vittime della loro perfidia. Tu
no, mia Teresa; la tua virtù risplende nel tuo viso celeste, ed io la ho
rispettata; e tu sai ch'io t'ho amato adorandoti come cosa sacra. - O divina
immagine dell'amica mia! o ultimo dono prezioso ch'io contemplo, e che
m'infonde più vigore, e mi narra tutta la storia de' nostri amori! Tu stavi
facendo questo ritratto il primo dì ch'io ti vidi: ripassano ad uno ad uno
dinanzi a me tutti que' giorni che furono i più affannosi e i più cari della
mia vita. E tu l'hai consecrato questo ritratto attaccandolo bagnato del tuo
pianto al mio petto - e così attaccato al mio petto verrà con me nel sepolcro.
Ti ricordi, o Teresa, le lagrime con cui lo accolsi? Oh! io torno a versarle, e
sollevano la trista anima mia. Che se alcuna vita resta dopo l'ultimo sospiro,
io la serberò sempre a te sola, e l'amor mio vivrà immortale con me. - Ascolta
intanto una estrema, unica, sacrosanta raccomandazione; e te ne scongiuro per
l'amor nostro infelice, per le lagrime che abbiamo sparse, per la religione che
tu senti verso i tuoi genitori, a' quali ti sei pur immolata vittima volontaria
- non lasciare senza consolazione la povera madre mia, che forse verrà a
piangermi teco in questa solitudine dove cercherà riparo dalle tempeste della
vita. Tu sola sei degna di compiangerla e di consolarla. Chi le resta più se tu
l'abbandoni? Nel suo dolore, in tutte le sue sventure, nelle infermità della
sua vecchiaja ricordati sempre ch'essa è mia madre.
A mezzanotte suonata si partì per le poste da' colli Euganei: e arrivato su
la marina alle 8 del giorno, si fe' traghettare da una gondola a Venezia sino
alla sua casa. Quand'io vi giunsi lo trovai addormentato sopra un sofà e di un
sonno tranquillo. Come fu desto, mi pregò perché io spicciassi alcune sue
faccende, e saldassi un suo debito a certo librajo. Non posso, mi
diss'egli, trattenermi qui che tutt'oggi.
Benché fossero quasi due anni ch'io nol vedeva, la sua fisionomia non mi
parve tanto alterata quant'io m'aspettava; ma poi m'accorsi che andava lento e
come strascinandosi; la sua voce, un tempo pronta e maschia, usciva a fatica e
dal petto profondo. Sforzavasi nondimeno di discorrere; e rispondendo a sua
madre intorno al suo viaggio, sorridea spesso di un mesto sorriso tutto suo: ma
avea un'aria circospetta, insolita in lui. Avendogli io detto che certi suoi
amici sarebbero venuti quel dì a salutarlo, rispose, che non vorrebbe rivedere
anima nata; anzi scese egli stesso ad avvertire alla porta perché si dicesse ch'ei
non accoglierebbe visite. E risalendo mi disse; Spesso ho pensato di non
dare né a te né a mia madre tanto dolore; ma io avevo pur obbligo e anche
bisogno di rivedervi - e questo, credimi, è l'esperimento più forte del mio
coraggio.
Poche ore prima di sera, si alzò, come per partire; ma non gli sofferiva il
cuore di dirlo. Sua madre gli si approssimò, e mentr'ei rizzandosi dalla
seggiola andavale incontro con le braccia aperte, essa con volto rassegnato gli
disse: Hai dunque risoluto, mio caro figliuolo?
Sì, sì; le rispose abbracciandola e frenando a stento le lagrime.
Chi sa se potrò più rivederti? io sono oramai vecchia e stanca. -
Ci rivedremo, forse - mia cara madre, consolatevi, ci rivedremo - per non
lasciarci mai più; ma adesso: - ne può far fede Lorenzo.
Ella si volse impaurita verso di me, ed io, Pur troppo! le dissi. E
le narrai come le persecuzioni tornavano a incrudelire per la guerra imminente;
e che il pericolo sovrastava a me pure, massime dopo quelle lettere che ci
furono intercette: (e non erano falsi sospetti; perché dopo pochi mesi fui
costretto ad abbandonare la patria mia). Ed essa allora esclamò: Vivi mio
figliuolo, benché lontano da me. Dopo la morte di tuo padre non ho più avuto
un'ora di bene; sperava di consolare teco la mia vecchiezza! - ma sia fatta la
volontà del Signore. Vivi! io scelgo di piangere senza di te, piuttosto che
vederti - imprigionato - morto. I singhiozzi le soffocavano la parola.
Jacopo strinse la mano e la guardava come se volesse affidarle un secreto; ma
ben tosto si ricompose, e le chiese la sua benedizione.
Ed ella alzando le palme: Ti benedico - Ti benedico; e piaccia anche a Dio
Onnipotente di benedirti.
Avvicinatisi alla scala s'abbracciarono. Quella donna sconsolata appoggiò la
testa sul petto del suo figliuolo.
Scesero, ed io con loro; la madre come giunsero all'uscio di casa, e vide
l'aria aperta, sollevò gli occhi, e li tenne fissi al cielo per due o tre
minuti, e parea che pregasse mentalmente con tutto il fervore dell'anima sua; e
che quell'atto le avesse ridato la prima rassegnazione. E senza versare più
lagrima, benedisse di nuovo con voce sicura il figliuolo; ed ei le ribaciò la
mano, e la baciò in volto.
Io stava piangente: dopo avermi abbracciato, mi promise di scrivermi, e mosse
il passo, dicendomi: Presso alla madre mia ti sovverrai santamente della
nostra amicizia. E rivoltosi alla madre, la guardò un pezzo senza far motto;
e partì. Giunto in fondo alla strada, si rivolse, e ci salutò con la mano e ci
mirò mestamente, come se volesse dirci che quello era l'ultimo sguardo.
La povera madre ristette su la porta quasi sperando ch'ei tornasse a
risalutarla. Ma togliendo gli occhi lagrimosi dal luogo dond'ei se l'era
dileguato, s'appoggiò al mio braccio e risaliva dicendomi: Caro Lorenzo, mi
dice il cuore che non lo rivedremo mai più.
Un vecchio sacerdote di assidua famigliarità nella casa dell'Ortis, e che
gli era stato maestro di greco, venne quella sera e ci narrò, come Jacopo era
andato alla chiesa dove Lauretta fu sotterrata. Trovatola chiusa, voleva farsi
aprire a ogni patto dal campanaro; e regalò un fanciullo del vicinato perché
andasse a cercare del sagrestano che aveva le chiavi. S'assise, aspettando,
sopra un sasso nel cortile. Poi si levò e s'appoggiò con la testa su la porta
della chiesa. Era quasi sera; quando accorgendosi di gente nel cortile, senza
più aspettare, si dileguò. Il vecchio sacerdote aveva risaputo queste cose dal
campanaro. Seppi alcuni giorni dopo, che Jacopo sul fare della notte era andato
a visitare la madre di Lauretta. Era, mi diss'ella, assai tristo;
non mi parlò mai della mia povera figliuola, né io l'ho nominata mai per non
accorarlo di più: scendendo le scale, mi disse: Andate, quando potrete, a
consolare mia madre.
E intanto la madre di lui fu in quella sera atterrita di più fiero
presentimento. Io nell'autunno scorso, trovandomi a' colli Euganei, aveva letto
in casa del signore T*** parte d'una lettera nella quale Jacopo tornava con
tutti i pensieri alla sua solitudine paterna. E allora Teresa rappresentò a
chiaroscuro la prospettiva del laghetto de' cinque fonti, e accennò sul pendio
d'un poggetto l'amico suo che sdrajato su l'erba contempla il tramontare del
Sole. Richiese d'alcun verso per iscrizione il padre suo, e le fu da lui
suggerito questo di Dante:
Libertà va cercando ch'è sì cara
Mandò poscia in dono il quadretto alla madre di Jacopo, raccomandandosi che non gli dicesse mai donde veniva; infatti egli non l'avea mai risaputo: ma quel giorno ch'ei fu in Venezia s'accorse del quadretto appeso, e di chi lo aveva fatto; non ne fe' motto: bensì rimastosi nella camera tutto solo, smosse il cristallo, e sotto al verso:
Libertà va cercando ch'è sì cara
scrisse l'altro che gli vien dietro:
Come sa chi per lei vita rifiuta.
E fra il cristallo e la scannellatura di
dentro della cornice trovò una lunga treccia di capelli che Teresa, alcuni
giorni prima delle sue nozze, s'era tagliati senza che veruno il sapesse, e
ripostili nella cornice in guisa che non trasparissero ad occhio vivente.
L'Ortis a que' capelli congiunse, quando li vide, una ciocca de' suoi e gli
annodò insieme col nastro nero che portava attaccato all'oriuolo; e rimise il
quadretto a suo posto. Poche ore dopo, la madre sua vide il verso aggiunto,
s'avvide anche della treccia, e della ciocca e del nodo nero ch'ei forse
disavvedutamente o per fretta non aveva potuto rimpiattare che non paresse. Il
dì seguente me ne parlò; ed io vidi come questo accidente le aveva prostrato il
coraggio con che dianzi essa avea sostenuta la partenza del suo figliuolo.
Onde per acquetarla mi deliberai di accompagnarlo sino ad Ancona; e promisi che
le scriverei giornalmente. Esso frattanto tornavasi a Padova, e smontò in casa
del professore C***, dove riposò il resto della notte. La mattina
accomiatandosi, gli furono dal professore esibite lettere per alcuni
gentiluomini delle isole già Venete i quali nel tempo addietro gli erano stati
discepoli. Jacopo né le accettò, né le rifiutò. Tornò a piedi a' colli Euganei,
e ricominciò a scrivere.
Venerdì, ore 1
E tu, Lorenzo mio - leale e unico amico - perdona. Non ti raccomando mia madre; ben so che avrà in te un altro figliuolo. O madre mia! ma tu non avrai più il figlio sul petto del quale speravi di riposare il tuo capo canuto - né potrai riscaldare queste labbra morenti co' tuoi baci? e forse tu mi seguirai! - Io vacillava o Lorenzo. Or è questa la ricompensa dopo ventiquattro anni di speranze e di cure? Ma sia cosi! Iddio che ha tutto destinato non l'abbandonerà - né tu! Ah finché io non bramava che un amico fedele, io vissi felice. Il cielo te ne rimeriti! Ma e tu pure non ti aspettavi ch'io ti pagassi di lagrime. Pur troppo ti pagherei a ogni modo di lagrime! or tu non proferire sulle mie ceneri la crudele bestemmia: Chi vuol morire non ama nessuno - Che non tentai sopra di me? che non feci? che non dissi a Dio? ah la mia vita pur troppo sta tutta nelle mie passioni; e se non potessi distruggerle meco - oh a che angosce, a che spasimi, a quanti pericoli, a quali furori, a che deplorabile cecità, a che delitti non mi strascinerebbero a forza! Un giorno, o Lorenzo, prima ch'io decretassi la morte mia, io stava genuflesso implorando dal Cielo pietà, e le mie lagrime pioveano abbondanti - e in quel punto mi si sono improvvisamente inaridite le lagrime, e il cuore mi s'è inferocito, e avresti detto che mi venisse mandato appunto dal Cielo un delirio ad assalirmi; - e mi rizzai; e scrissi alla giovine misera che io me ne andava ad aspettarla in un altro mondo, e che non tardasse a raggiungermi, e l'ammaestrava del come e del quando e dell'ora. - Ma poi non forse la compassione, non la vergogna, né il rimorso, né Iddio - bensì l'idea che non è più la vergine di due mesi fa, e che è donna contaminata dalle braccia d'un altro, ha incominciato a farmi pentire di sì atroce disegno. Vedi come la vita mia, sarebbe a voi tutti più dolorosa che la mia morte; e infame forse a voi tutti. Invece se mi divido per sempre da Teresa degno di lei, la memoria mia serberà certamente il suo cuore degno di me, e benché serva di un altro potrà almeno sperare - speranza forse vanissima - che un dì l'anima sua verrà libera a unirsi per sempre alla mia. - Ma addio. Queste carte le darai tutte al suo padre. Raduna i miei libri e serbali a memoria del tuo Jacopo. Raccogli Michele a cui lascio il mio oriuolo, questi miei pochi arredi e i danari che tu troverai nel cassettino del mio scrittojo. Vieni ad aprirlo tu solo: c'è una lettera per Teresa; e ti prego di riporla fra le sue mani tu stesso. Addio, addio.
Continuò la lettera per Teresa.
Torno a te mia Teresa. Se mentre io viveva era colpa per te
l'ascoltarmi; ascoltami almeno in queste poche ore che mi disgiungono dalla
morte; e le ho riserbate tutte a te sola. Avrai questa lettera quando io sarò
sotterrato; e da quella ora tutti forse incomincieranno ad obbliarmi, finché
niuno più si ricorderà del mio nome - ascoltami come una voce che vien dal
sepolcro. Tu piangerai i miei giorni svaniti al pari di una visione notturna;
piangerai il nostro amore che fu inutile e mesto come le lampade che
rischiarano le bare de' morti. - Oh sì, mia Teresa; dovevano pure una volta
finir le mie pene; e la mia mano non trema nell'armarsi del ferro liberatore,
poiché abbandono la vita mentre tu m'ami, mentre sono ancora degno di te, e
degno del tuo pianto, ed io posso sacrificarmi a me solo, ed alla tua virtù.
No; allora non ti sarà colpa l'amarmi; e lo pretendo il tuo amore; lo chiedo in
vigore delle mie sventure, dell'amor mio, e del tremendo mio sacrificio. Ah se
tu un giorno passassi senza gettare un'occhiata su la terra che coprirà questo
giovine sconsolato - me misero! io avrei lasciata dietro di me l'eterna
dimenticanza anche nel tuo cuore!
Tu credi ch'io parta. Io? - ti lascierò in nuovi contrasti con te medesima, e
in continua disperazione? E mentre tu m'ami, ed io t'amo, e sento che t'amerò
eternamente, ti lascierò per la speranza che la nostra passione s'estingua
prima de' nostri giorni? No; la morte sola, la morte. Io mi scavo da gran tempo
la fossa, e mi sono assuefatto a guardarla giorno e notte, e a misurarla
freddamente - e appena in questi estremi la Natura rifugge e grida - ma io ti
perdo, ed io morrò. Tu stessa, tu mi fuggivi; ci si contendeano le lagrime. - E
non t'avvedevi tu nella mia tremenda tranquillità ch'io voleva prendere da te
gli ultimi congedi, e ch'io ti domandava l'eterno addio?
Che se il Padre degli uomini mi chiamasse a rendimento di conti, io gli
mostrerò le mie mani pure di sangue, e puro di delitti il mio cuore. Io dirò:
Non ho rapito il pane agli orfani ed alle vedove; non ho perseguitato
l'infelice; non ho tradito; non ho abbandonato l'amico; non ho turbata la
felicità degli amanti, né contaminata l'innocenza, né inimicati i fratelli, né
prostrata la mia anima alle ricchezze. Ho spartito il mio pane con l'indigente;
ho confuse le mie lagrime alle lagrime dell'afflitto; ho pianto sempre su le
miserie dell'umanità. Se tu mi concedevi una patria, io avrei speso il mio
ingegno e il mio sangue tutto per lei; e nondimeno la mia debole voce ha
gridato coraggiosamente la verità. Corrotto quasi dal mondo, dopo avere sperimentati
tutti i suoi vizj - ma no! i suoi vizj mi hanno per brevi istanti forse
contaminato, ma non mi hanno mai vinto - ho cercato virtù nella solitudine. Ho
amato! tu stessa, tu mi hai presentata la felicità; tu l'hai abbellita de'
raggi della infinita tua luce; tu mi hai creato un cuore capace di sentirla e
di amarla; ma dopo mille speranze ho perduto tutto ed inutile agli altri, e
dannoso a me, mi sono liberato dalla certezza di una perpetua miseria. Godi tu,
Padre, de' gemiti della umanità? pretendi tu che sopporti miserie più potenti
delle sue forze? o forse hai conceduto al mortale il potere di troncare i suoi
mali perché poi trascurasse il tuo dono strascinandosi scioperato tra il pianto
e le colpe? Ed io sento in me stesso che agli estremi mali non resta che la
colpa o la morte. - Consolati, Teresa; quel Dio a cui tu ricorri con tanta
pietà, se degna d'alcuna cura la vita e la morte di una umile creatura, non
ritirerà il suo sguardo neppure da me. Sa ch'io non posso resistere più; e ha
veduto i combattimenti che ho sostenuto prima di giungere alla risoluzione
fatale; ed ha udito con quante preghiere l'ho supplicato perché mi allontanasse
questo calice amaro. Addio dunque - addio all'universo! O amica mia! la
sorgente delle lagrime è in me dunque inesausta? io torno a piangere e a
tremare ma per poco; tutto in breve sarà annichilito. Ahi! le mie passioni
vivono, ed ardono, e mi possedono ancora: e quando la notte eterna rapirà il
mondo a questi occhi, allora solo seppellirò meco i miei desiderj e il mio
pianto. Ma gli occhi miei lagrimosi ti cercano ancora prima di chiudersi per
sempre. Ti vedrò, ti vedrò per l'ultima volta, ti lascierò gli ultimi addio, e
prenderò da te le tue lagrime, unico frutto di tanto amore!
Io giungeva alle ore 5 da Venezia, e lo incontrai pochi
passi fuori della sua porta, mentr'ei s'avviava appunto per dire addio a
Teresa. La mia venuta improvvisa lo costernò; e molto più il mio divisamento di
accompagnarlo sino ad Ancona. Me ne ringraziava affettuosamente e tentò ogni via
di distormene; ma veggendo ch'io persisteva si tacque; e mi chiese di andare
seco lui fino a casa T***. Lungo il cammino non parlò; andava lento, ed aveva
in volto una mestissima sicurezza: ah doveva io pure avvedermi che in quel
momento egli rivolgeva nell'animo i supremi pensieri! Entrammo pel rastrello
del giardino; ed ei soffermandosi, alzò gli occhi al cielo, e dopo alcun tempo
proruppe guardandomi: Pare anche a te che oggi la luce
sia più bella che mai?
Avvicinandosi alle stanze di Teresa, io intesi la voce di lei: - ma il
suo cuore non si può cangiare: - né so se Jacopo che m'era dietro uno o due
passi, abbia udito queste parole; non ne riparlò. Noi vi trovammo il marito che
passeggiava, e il padre di Teresa seduto nel fondo della stanza presso ad un tavolino
con la fronte su la palma della mano. Restammo assai tempo tutti muti. Jacopo
finalmente. Domattina, disse, non sarò più qui - e rizzandosi, si
accostò a Teresa e le baciò la mano, ed io vidi le lagrime su gli occhi di lei;
e Jacopo tenendola ancora per mano la pregava perché facesse chiamare la
Isabellina. Le strida e il pianto di questa fanciulla furono così improvvise ed
inconsolabili che niuno di noi poté frenare le lagrime. Appena ella udì ch'ei
partiva, gli si attaccò al collo e singhiozzando gli ripeteva: o mio Jacopo
perché mi lasci? o mio Jacopo torna presto: né potendo egli resistere a
tanto pietà, posò l'Isabellina fra le braccia di Teresa che non proferì mai
parola - Addio, egli dissele, addio - e uscì. Il signore di T**
lo accompagnò sino al limitare della casa e lo abbracciò più volte e lo baciò
gemendo. Odoardo che gli era a lato ne strinse la mano, augurandoci il buon
viaggio.
Era già notte; e non sì tosto fummo a casa egli comandò a Michele di allestire
il forziere, e mi pregò istantemente perché tornassi a Padova a pigliare le
lettere esibitegli dal professore C***. E partii sul fatto.
Allora sotto la lettera che la mattina avea apparecchiata per me, aggiunse
questo proscritto:
Poiché non ho potuto risparmiarti il cordoglio di prestarmi gli ufficj supremi - e già m'era, prima che tu venissi, risolto di scriverne al parroco - aggiungi anche questa ultima pietà ai tanti tuoi beneficj. Fa ch'io sia sepolto, così come sarò trovato, in un sito abbandonato, di notte senza esequie, senza lapide, sotto i pini del colle che guarda la chiesa. Il ritratto di Teresa sia sotterrato col mio cadavere.
25 Marzo, 1799
L'amico tuo JACOPO ORTIS
Uscì nuovamente: e trovandosi alle ore 11 appiè di un monte due miglia
discosto dalla sua casa, bussò alla porta di un contadino, e lo destò
domandandogli dell'acqua, e ne bevve molta.
Ritornato a casa dopo la mezzanotte, uscì tosto di stanza, e porse al ragazzo
una lettera sigillata per me, raccomandandogli di consegnarla a me solo. E
stringendogli la mano: Addio Michele! amami; e lo mirava affettuosamente
- poi lasciatolo a un tratto, rientrò, serrandosi dietro la porta. Continuò la
lettera per Teresa.
Ore 1
Ho visitato le mie montagne, ho visitato il lago de' cinque
fonti, ho salutato per sempre le selve, i campi, il cielo. O mie solitudini! o
rivo, che mi hai la prima volta insegnato la casa di quella fanciulla celeste!
quante volte ho sparpagliato i fiori su le tue acque che passavano sotto le sue
finestre! quante volte ho passeggiato con Teresa per le tue sponde, mentr'io
inebbriandomi della voluttà di adorarla, vuotava a gran sorsi il calice della
morte.
Sacro gelso! ti ho pure adorato; ti ho pure lasciati gli ultimi gemiti, e gli
ultimi ringraziamenti. Mi sono prostrato, o mia Teresa, presso a quel tronco; e
quell'erba ha dianzi bevute le più dolci lagrime ch'io abbia versato mai; mi
pareva ancora calda dell'orma del tuo corpo divino; mi pareva ancora odorosa.
Beata sera! come tu sei stampata nel mio petto! - io stava seduto al tuo
fianco, o Teresa, e il raggio della luna penetrando fra i rami illuminava il
tuo angelico viso! io vidi scorrere su le tue guance una lagrima; e la ho
succhiata, e le nostre labbra, e i nostri respiri, si sono confusi, e l'anima
mia si trasfondea nel tuo petto. Era la sera de' 13 Maggio era giorno di
giovedì. Da indi in qua non è passato momento ch'io non mi sia confortato con
la ricordanza di quella sera: mi sono reputato persona sacra, e non ho degnata
più alcuna donna di un guardo credendola immeritevole di me - di me che ho
sentita tutta la beatitudine di un tuo bacio.
T'amai dunque t'amai, e t'amo ancor di un amore che non si può concepire che da
me solo. È poco prezzo, o mio angelo, la morte per chi ha potuto udir che tu
l'ami, e sentirsi scorrere in tutta l'anima la voluttà del tuo bacio, e
piangere teco - io sto col piè nella fossa; eppure tu anche in questo frangente
ritorni, come solevi, davanti a questi occhi che morendo si fissano in te, in
te che sacra risplendi di tutta la tua bellezza. E fra poco! Tutto è apparecchiato;
la notte è già troppo avvanzata - addio - fra poco saremo disgiunti dal nulla,
o dalla incomprensibile eternità. Nel nulla? Sì. - Sì, sì; poiché sarò senza di
te, io prego il sommo Iddio, se non ci riserba alcun luogo ov'io possa riunirmi
teco per sempre, le prego dalle viscere dell'anima mia, e in questa tremenda
ora della morte, perché egli m'abbandoni soltanto nel nulla. Ma io moro
incontaminato, e padrone di me stesso, e pieno di te, e certo del tuo pianto!
Perdonami, Teresa, se mai - ah consolati, e vivi per la felicità de' nostri
miseri genitori; la tua morte farebbe maledire le mie ceneri.
Che se taluno ardisse incolparti del mio infelice destino, confondilo con
questo mio giuramento solenne ch'io pronunzio gittandomi nella notte della
morte: Teresa è innocente. - Ora tu accogli l'anima mia.
Il ragazzo, che dormiva nella camera contigua all'appartamento di Jacopo, fu
scosso come da un lungo gemito: tese l'orecchio per sincerarsi s'ei lo
chiamava; aprì la finestra sospettando ch'io avessi gridato all'uscio, da che
stava avvertito ch'io sarei tornato sul far del dì; ma chiaritosi che tutto era
quiete e la notte ancor fitta, tornò a coricarsi e si addormentò. Mi disse poi
che quel gemito gli aveva fatto paura: ma che non vi badò più che tanto perché
il suo padrone soleva alle volte smaniare fra il sonno.
La mattina, Michele dopo aver bussato e chiamato un pezzo alla porta, sconficcò
il chiavistello; e non udendosi rispondere nella prima camera, s'innoltrò
perplesso; e al chiarore della lucerna che ardeva tuttavia, gli si affacciò
Jacopo agonizzante nel proprio sangue. Spalancò le finestre chiamando gente, e
perché nessuno accorreva, s'affrettò a casa del chirurgo, ma non lo trovò
perché assisteva a un moribondo; corse al parroco, ed anch'esso era fuori per
lo stesso motivo. Entrò ansante nel giardino di casa T*** mentre Teresa
scendeva per uscire di casa con suo marito, il quale appunto dicevale come
dianzi avea risaputo che in quella notte Jacopo non era altrimenti partito; ed
ella sperò di potergli dire addio un'altra volta: e scorgendo il servo da
lontano voltò il viso verso il cancello donde Jacopo soleva sempre venire, e
con una mano si sgombrò il velo che cadevale sulla fronte, e rimirava
intentamente, costretta da dolorosa impazienza di accertarsi s'ei pur veniva: e
le si accostò a un tratto Michele domandando aiuto, perché il suo padrone s'era
ferito, e che non gli parea ancora morto: ed essa ascoltavalo immobile con le
pupille fitte sempre verso il cancello: poi senza mandare lagrima né parola,
cascò tramortita fra le braccia di Odoardo.
Il signore T*** accorse sperando di salvare la vita del suo misero amico. Lo
trovò steso sopra un sofà con tutta quasi la faccia nascosta fra' cuscini:
immobile, se non che ad ora ad ora anelava. S'era piantato un puguale sotto la
mammella sinistra ma se l'era cavato dalla ferita, e gli era caduto a terra. Il
suo abito nero e il fazzoletto da collo stavano gittati sopra una sedia vicina.
Era vestito del gilè, de' calzoni lunghi e degli stivali; e cinto d'una fascia
larghissima di seta di cui un capo pendeva insanguinato, perché forse morendo
tentò di svolgersela dal corpo. Il signore T*** gli sollevava lievemente dal
petto la camicia, che tutta inzuppata di sangue gli si era rappressa su la
ferita. Jacopo si risentì; e sollevò il viso verso di lui; e riguardandolo con
gli occhi nuotanti nella morte, stese un braccio, come per impedirlo, e tentava
con l'altro di stringergli la mano - ma ricascando con la testa su i guanciali,
alzò gli occhi al cielo, e spirò.
La ferita era assai larga, e profonda; e sebbene non avesse colpito il cuore,
egli si affrettò la morte lasciando perdere il sangue che andava a rivi per la
stanza. Gli pendeva dal collo il ritratto di Teresa tutto nero di sangue, se
non che era alquanto polito nel mezzo; e le labbra insanguinate di Jacopo fanno
congetturare ch'ei nell'agonia baciasse la immagine della sua amica. Stava su
lo scrittojo la Bibbia chiusa, e sovr'essa l'oriuolo; e presso, varj fogli
bianchi; in uno de' quali era scritto: Mia cara madre: e da poche linee
cassate, appena si potea rilevare, espiazione; e più sotto; di
pianto eterno. In un altro foglio si leggeva soltanto l'indirizzo a sua
madre, come se pentitosi della prima lettera ne avesse incominciata un'altra
che non gli bastò il cuore di continuare.
Appena io giunsi da Padova ove m'era convenuto indugiare più ch'io non voleva,
fui sopraffatto dalla calca de' contadini che s'affollavano muti sotto i
portici del cortile; ed altri mi guardavano attoniti, e taluno mi pregava che
non salissi. Balzai tremando nella stanza, e mi s'appresentò il padre di Teresa
gettato disperatamente sopra il cadavere; e Michele ginocchione con la faccia
per terra. Non so come ebbi tanta forza d'avvicinarmi e di porgli una mano sul
cuore presso la ferita; era morto, freddo. Mi mancava il pianto e la voce; ed
io stava guardando stupidamente quel sangue: finché venne il parroco e subito
dopo il chirurgo, i quali con alcuni famigliari ci strapparono a forza dal
fiero spettacolo. Teresa visse in tutti que' giorni fra il lutto de' suoi in un
mortale silenzio. - La notte mi strascinai dietro al cadavere che da tre
lavoratori fu sotterrato sul monte de' pini.
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