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SINTONIE E CORRISPONDENZE TRA LA DRAMMATURGIA E IL NUOVO DISEGNO SCENICO
A un monde nouveau, attaché à des nouvelles échelles d'appréciation et de valeur, il faudra un nouvel espace168.
Benché all'inizio del secolo scorso fosse quasi inconcepibile quello che la contemporaneità ha reso consuetudinario, vale a dire uno spettacolo teatrale non previsto e preceduto da un testo, o in altre parole una messinscena che non insista su una traccia scritta, è a quell'altezza cronologica che comincia a farsi sentire «l'impossibilità per il drammaturgo d'usufruire di un rapporto
privilegiato col mondo delle scene»169. Questo scollamento nella dialettica tra
scrittura drammatica e linguaggio della scena, che Ferdinando Taviani definisce una «perdita d'equilibrio», si completerà nei decenni seguenti e massimamente negli anni Sessanta e Settanta: la 'drammaturgia preventiva'170 tenderà a farsi minoritaria, sopravanzata da nuove forme di scrittura
'consuntiva', al punto che «di caso in caso, lo scrittore che vuole scrivere per il teatro deve ormai inventarsi il proprio rapporto»171.
Per questo non è improprio interpretare l'ampliamento degli enunciati didascalici come espressione di un urgente bisogno di controllo, e indice di una separazione tra sfera autoriale e prassi teatrale, che è una delle lacerazioni più evidenti verificatesi nell'esperienza drammaturgica novecentesca. Proprio nel periodo da noi circoscritto ed esaminato l'apparato di indicazioni sceniche,
perdendo autorità nei confronti della realizzazione spettacolare, è riscattato da strategie comparabili a quelle messe in campo nella forma romanzesca e in quella poetica, sedi di una scrittura densificata che si avvale con frequenza di procedimenti metaforici.
Più correttamente e con maggiore pertinenza diremo che nelle pagine della drammaturgia degli anni Venti la didascalia punta verso la trasfigurazione delle esperienze e degli approcci naturalistici, irrobustendo i valori pluridimensionali e sottotestuali della fenomenologia scenica. Il testo scritto non è affatto indifferente alla messa in scena, verso la quale si pone talora ambiguamente, con competenza autentica o astratta progettualità. A contatto
con le poetiche moderniste172 la drammaturgia si apre a forme di evasione dalla
norma, facendo appello a un'immagine non più approssimativa e generica, ma complessivamente attiva nell'esposizione delle tesi del testo drammatico173.
Del resto, come scrive Morena Pagliai, «lo sviluppo della scenotecnica, ormai legata a elementi nuovi quali l'illuminazione elettrica, l'uso di macchine teatrali molto più sofisticate e la tecnica cinematografica hanno dato al drammaturgo la possibilità di scoprire e di inglobare nella propria scrittura altri linguaggi rispetto alla sola parola, per dare corpo alle nuove tematiche»174. La scrittura drammaturgica si serve così dello strumento della didascalia per trasferire contenuti dalla parola all'azione, accogliendo i nuovi codici e le
nuove funzioni a disposizione, anche quelle non ancora teatralizzabili. In un giro di anni abbastanza breve si ha una netta divaricazione: mentre gli "addetti" alla scena arricchiscono il potenziale investito nella produzione di senso sul palco, gli "addetti" al testo fanno la stessa cosa sulla carta. È il punto centrale dell'asserzione già citata di Franco Mancini, e che merita qui essere ripresa:
È impossibile stabilire in termini assoluti quanto l'evoluzione tecnico-espressiva abbia influenzato la tecnica drammaturgica suggerendo nuove soluzioni e quanto
possa essere vera la tesi opposta. Forse sarebbe più giusto affermare semplicemente che le due parti, intente a raggiungere uno stesso traguardo, si avvicendarono nelle posizioni di testa, traendone reciproco vantaggio175.
Dopo un secolo di convenienti spazi "interni", il Novecento si indirizza verso spazi "interiori": l'universo scenico (come quello pittorico, letterario, musicale) muta e si appresta ad accogliere un mondo non più necessariamente verosimigliante, la cui funzione è quella di catturare le esigenze istintuali, le ambiguità e le coscienze dell'individuo moderno. L'impermeabile assolutezza del dramma subisce una trasmutazione che ne disordina gli elementi tematici e formali, ed anche la scenografia subisce una modificazione di segno analogo. La determinazione dello spazio scenico nel dramma rinascimentale (il "dramma classico", per Szondi, in sé compiuto ed autonomo) «non poteva
avvenire se non attraverso la prospettiva geometrica e l'architettura»176,
preesistendo alla forma finita dell'oggetto spettacolare, nel modo in cui l'antefatto presupponeva e conteneva in sé lo scioglimento finale. Per converso, in epoca moderna, le situazioni, e di conseguenza la profondità e l'estensione dello spazio che le circoscrive, sono indeterminate al principio, e procedono verso una conclusione che si profila nel corso di una successione di circostanze mutevole e non sempre perspicua. Parallelamente, «la prospettiva scenica si apre o si chiude, si dilata o contrae, dilegua od incombe col ritmo
stesso del sentimento drammatico»177 e la definizione della scena non può che
essere soggetta ai movimenti e agli effetti di una struttura plastica, cromatica e luministica; struttura che si sviluppa non come «mera meccanica» bensì seguendo il ritmo e la progressione dell'azione. Pertanto l'evoluzione in campo tecnico-realizzativo, che ha deviato la scenografia "moderna" dal genere dipinto a quello costruito, si è accompagnata con l'evoluzione della struttura dei testi:
La storia della scenografia si presenta [.] sotto un duplice aspetto: quello del progresso del décor e quello del progresso drammatico. In verità sotto lo sviluppo della scena, dei costumi e di tutto l'allestimento, che sembra camminare per una via indipendente, si nasconde la evoluzione non dei generi drammatici,
ma della ricchezza stessa del dramma178.
La «ricchezza» del dramma di cui parla Gino Gori ha il suo riflesso nell'estensione quantitativa e qualitativa delle indicazioni sceniche: la didascalia drammaturgica, proiettando sullo schermo della scena un'immagine corrispondente a una precisa visione del mondo, ci appare come la pietra angolare nell'edificio della messinscena e della scenografia (considerando quest'ultima l'insieme degli interventi sullo spazio della rappresentazione, basati su una concezione preliminare della realizzazione). Il fatto che l'immaginazione del teatro, attraverso lo strumento diegetico e
commentativo179 della didascalia, occupi uno spazio maggiore nel Novecento
mi sembra non soltanto rilevante ma niente affatto disgiunto dall'influsso che i meccanismi di registrazione (fotografia, cinema, immagini a stampa) hanno avuto sul regime visivo. Crescendo in precisione e velocità, questi strumenti sono intervenuti massicciamente sulla nostra comprensione e restituzione della realtà, rivelando particolari prima non accessibili, sottraendo incombenze manuali prima indispensabili e generando un consumo sproporzionato di
materiale visivo180.
Di fatto, definire la scenografia sullo scorcio del secolo XIX e quella novecentesca significa dare testimonianza del passaggio da una struttura teatrale chiaramente gerarchica, che si riflette nella differenziazione della visione, ad una democratica ed esteticamente nuova, che rinuncia alle intenzioni illusionistiche e cerca di rendere ogni singolo elemento del pubblico partecipe dell'environment, dei vocaboli della scrittura scenica. La fissità
dell'immagine e la sua scarsa risoluzione181 si dimostrano obsoleti per una
società che comincia a vedersi in movimento: i tempi di percorrenza crollano, la mobilità è molto più accentuata, e il cinematografo, «ritraendo interni e esterni 'veri', comincia a rendere difficile quella che è stata fino ad allora la
grande magia del teatro, l'illusione»182.
Per dirla con Lehmann, «grazie all'influenza dei mezzi di riproduzione, fotografia e cinematografia, il teatro ha preso coscienza della propria specificità»183: l'affermazione è forse troppo sentenziosa ma è un fatto che al cospetto delle nuove sorgenti visuali - connesse allo strumento fotografico - e di quelle incombenti, come il cinematografo, la scenografia dipinta, statica simulazione di un ambiente, si sia trovata ad essere del tutto inadeguata. Ecco
perché, nella maggior parte delle pratiche contemporanee, questa ha preso la direzione del dinamismo - inteso come trasformabilità ed espansione nello spazio - e della polifunzionalità, cioè della moltiplicazione. Moltiplicazione dei punti di vista, dei luoghi, delle atmosfere, dei ruoli. La percezione unica e fissa si dissolve e la scenografia si fa accessorio, protesi dell'attore o attante scenico, oppure si rende protagonista assoluta. L'esigenza di una drammaturgia anti-borghese accoglie tra le sue istanze l'utilizzo di una scena che sia parte integrante del dramma, in grado di produrre un'impressione esteticamente coinvolgente.
Vi è anche una specificità tecnologica nel misurarsi con questa evoluzione necessaria. La riforma della scenografia si lega cioè a quella della scenotecnica, che ne puntualizza e verifica i nuovi principi: è l'ossatura stessa del teatro a cambiare, di modo che nel giro di pochi anni l'idea del teatro tempio, isola ed argine del mondo esterno si ribalta in una nuova concezione architettonica basata sulla continuità spazio- temporale, espressione della velocità e dello scorrere ininterrotto del tempo, che si proponeva di integrare il teatro nel mondo e il mondo con tutti i suoi mezzi di produzione nel teatro. Alla visione del teatro monumentale subentra l'idea dell'edificio teatrale come un meccanismo instabile, previsto per la massima variabilità di soluzioni, adattabile a tutti gli schemi che una tecnologia e una programmazione avanzata potevano prevedere184.
La mobilità del palcoscenico - multiplo, girevole, meccanizzato - è uno degli strumenti per infrangere la "quarta parete" e intervenire sul coinvolgimento dello spettatore nell'azione. Primo tentativo e imprescindibile
punto di riferimento su questa strada è la riforma wagneriana del melodramma, scaturita dall'ideale di Gesamtkunstwerk e dalla fondamentale intuizione del Ritmo, come canone e precetto della rappresentazione. Le novità architettoniche e scenotecniche del teatro di Bayreuth, commissionato da Wagner all'architetto Bruckwald (e completato nel 1876), puntano a generare un ambiente simbiotico e sintetico: simbiotico perché concepito come un organismo mobile che lavora grazie all'interazione di aspetti spettacolari; sintetico perché poco interessato alla riproduzione veristica della realtà esterna, bensì portato verso la formazione di impressioni intuitive ed evocative, seppure ancora legato alla bidimensionale descrittività del fondale dipinto. Pur
«riferendosi a un empirico naturalismo illustrativo»185, le numerose e spesso
estesissime didascalie scritte dall'autore nei libretti sono pertanto consacrate all'indicazione del valore che gli elementi hanno nell'azione, in specie i trapassi luministici e musicali.
Successivamente, l'avvento dell'elettricità permise di studiare soluzioni in grado di dinamizzare la zona del palcoscenico, facendone, oltre che un elemento necessario, un soggetto della comunicazione, disponibile ad essere caricato di significati e di oggetti ambivalenti186. Dal momento in cui l'energia elettrica comincia ad essere usata come forza motrice e come energia illuminante, l'illuminazione offre la possibilità di creare armonizzazioni di
colori, la cui mobilità e compenetrabilità era impensabile sino ad allora. Se lo spazio ottocentesco è chiuso, uniforme e completamente illuminato, quello novecentesco è aperto, disomogeneo e multiforme, e l'uso del tutto piazzato lascia il posto alle modulazioni luminose: da un irraggiamento di scarsa intensità, ma invadente e pervasivo, si passa a una luce capace di profilare gli elementi scenici o allungare la profondità di campo187.
La manovrabilità dei sistemi illuminotecnici interviene allora in maniera determinante nella produzione della maggior parte degli effetti scenici realizzati a inizio Novecento, dalla riproduzione dei fenomeni naturali ai trucchi più complessi188. Il design scenico si arricchisce di alcuni espedienti principalmente mirati a produrre effetti di illusione: i primi quadri di comando per azionare la distribuzione elettrica e, all'occorrenza, proiettare fasci di luce colorata; apparecchi muniti di vetri colorati mobili e di strisce di stoffa che permettono le graduazioni e le sfumature della luce189; e, su tutti, la cupola che prese il nome dal suo ideatore, il pittore e scenografo Mariano Fortuny, un telo pieghevole avente la forma di un quarto di sfera, che riflette, smorzando e fondendo, i fasci di luce diretti sulla scena, producendo un'illuminazione diffusa come quella naturale.
Il progresso dell'illuminazione è direttamente connesso all'emergere di una scena architettonica. La luce elettrica, molto più intensa del chiarore inerte delle fonti impiegate fino ad allora, vanifica gli effetti di luce contenuti nell'elemento pittorico (ombre, chiaroscuri, schemi prospettici), evidenziando le imperfezioni degli arredi di scena190. A sua volta l'elemento tridimensionale impone un piano luci adatto alla definizione degli spazi e dei volumi, soggetto
a modulazioni, trasparenze, compenetrazioni cromatiche. Inoltre, il ripudio del criterio della verosimiglianza - norma che giustificava l'utilizzo di un'illuminazione statica e di modesta intensità, tipica degli "interni" ottocenteschi - conduce alla realizzazione di una scena-situazione, in cui la luce non può darsi come "segno debole". La scena plastica tridimensionale, in altre parole, è a un tempo causa ed effetto di un impiego non imitativo della luce: causa, in quanto richiede una configurazione luministica dinamica e pronta a restituire i mutevoli moods e le tensioni interiori dei personaggi; effetto, perché una visione più nitida e dettagliata non consente l'approssimazione e la fragilità di un décor risolto unicamente su due dimensioni.
Come scrivono Walter Furst e Samuel Hume nel 1928, l'illuminotecnica ha conosciuto una notevole evoluzione specialmente nel secondo e terzo decennio del Novecento e «più si è progrediti nel processo di soppressione degli elementi decorativi in scena, più si è resa essenziale la funzione drammatica della luce»191. Svolta determinante per lo sviluppo della rappresentazione teatrale, la luce elettrica si offre come un presidio dell'impresa drammaturgica, medium capace di stabilire una nuova forma di
contatto, di modificare e riplasmare i principi della percezione, e infine di
ispirare tattiche finzionali inedite192. Ad esempio, come sostiene il già citato Piermario Vescovo, «il progresso dell'illuminazione artificiale a teatro ha prodotto un mezzo tra tutti versatile tanto per la finzione atmosferica - dell'ora e del momento del giorno - quanto per la significazione del tempo, reale o metaforico»193.
Se la sintassi dello spettacolo novecentesco è stata soggetta a una manipolazione di grado superiore, sul piano della drammaturgia il portato di questo trattamento si rinviene in particolare nel contenuto delle indicazioni sceniche, decisamente più sostanziose e cruciali dal punto di vista semantico. Lo intuì Appia, quando scriveva che «la concezione drammatica prenderà la via dell'avanguardia, poiché non si avrà certo l'intenzione di creare nuovi
mezzi tecnici per delle opere ancora inesistenti»194. Si tratta di una
trasformazione estetica che rimette in discussione la subalternità del segno scenico, alimentandosi dei fermenti, codici e linguaggi in mutazione, nel campo della pittura195.
Avviene così che alcuni dei maggiori autori di teatro «per avere delle scenografie d'arte, pensarono di ricorrere a pittori, per l'ideazione dei bozzetti»196. D'Annunzio, come si è visto, ha in Francesco Paolo Michetti (per La Figlia di Iorio) e in Duilio Cambellotti (a cominciare da La nave) i suoi artisti "di fiducia"; Sem Benelli si rivolge a Galileo Chini e a Gian Giuseppe
Mancini, rimanendo con essi legato al modello del quadro ingigantito al pantografo, seppure «elegantemente cifrato e dotato di un'intensa capacità di suggestione»197.
È per questo che un capitolo della scenografia italiana tra le due guerre vedrà nominati artisti del pennello piuttosto che scenografi di mestiere. Marussig, Michetti, Cambellotti, Chini, sono alcuni dei nomi più frequentemente impegnati: le linee dominanti sono ancora quelle di stampo eminentemente pittorico, che avevano i loro esiti migliori nel teatro operistico (con la Società degli Scenografi della Scala, erede diretta della scuola milanese
di Carlo Ferrario198) e nelle esigenti rappresentazioni dannunziane199. Intorno al
1915 anche l'avanguardia futurista comincia a interessarsi di problemi scenografici, con le prime notevolissime ricerche di Giacomo Balla, di Fortunato Depero e di Enrico Prampolini.
In questo contesto, un episodio particolare per la sua originalità e per il confronto che istituiva con le proposte dei riformatori europei della scena, è il Teatro del Colore di Achille Ricciardi, sperimentato sulla scena nel 1920 ma riconducibile a una formulazione concettuale antecedente200. Sarebbe lungo richiamare le premesse che conducono agli esiti teorici raggiunti da Ricciardi; basti dire che, traducendo nel dominio estetico il principio ontologico secondo
cui ad ogni evento dell'esistenza (e dell'arte) corrisponde un'atmosfera e una tonalità specifica, Ricciardi ipotizza, con azzardo consapevole, un'azione teatrale che si risolve esclusivamente in puri rapporti di toni e di colori, di luci e gradazioni. La luce assurge al ruolo di interprete degli svolgimenti dialogici; il "clima scenico" che scaturisce da essa, dalla sua variabilità, dal suo porsi in relazione con gli elementi scenografici resi scabri, deve liricizzare e drammatizzare l'evento rappresentato, mentre il colore puro commenta lo svolgersi del pensiero e dell'azione del dramma. Decifrare praticamente un
intendimento teorico di questo tipo, poggiante sul lirismo, sull'irrazionalità, su rapporti intuiti, con i mezzi deficitari di cui si valevano i teatri italiani201 era impresa impossibile, e infatti l'unico tentativo compiuto, al Teatro Argentina di Roma nel 1920 (con scene di Prampolini applicate su una varietà assai eterogenea di testi, che comprendeva Maetelinck, Mallarmé, Folgore, Tagore, De Musset202), si risolve in un fallimento - tecnico prima che estetico - che non manca di suscitare grandi contrasti203.
1 L A REGIA D ' AUTORE D I R OSSO DI S AN S ECONDO
Senz'altro più riuscite sono le prime esperienze "registiche" compiute da Anton Giulio Bragaglia e Antonio Valente204. Nel febbraio del 1919 i due artisti ciociari si cimentano con la messinscena di Per fare l'alba. Tre momenti
d'una notte isolana di Rosso di San Secondo - interpretata al Teatro Argentina dalla Compagnia del Teatro Mediterraneo diretta da Nino Martoglio205. I "tre momenti", perfettamente racchiusi tra una sera e l'alba successiva, hanno inizio in un lussuoso appartamento predisposto per un incontro amoroso: Sanza è un vecchio padre che cerca ossessivamente di riscattare la propria faticosa gioventù, garantendo al figlio la ricchezza e le passioni di cui non ha potuto godere, arrivando al punto di "regalare" al figlio l'amore di una schiava di
colore206.
Per Bragaglia si tratta del primo tentativo di impiegare sorgenti luminose in chiave "psicologica", un esperimento che vorrà distinguere dalle ricerche coeve di Ricciardi, che pure dichiara di apprezzare207. Se le ricerche di quest'ultimo mirano a fare della luce e del colore i protagonisti dell'azione drammatica, oggettivando attraverso la lirica cromatica episodi extraverbali, la "luce psicologica" di Bragaglia intende «umilmente commentare la poesia e collaborare ad una atmosfera di suggestione»208. Qui subentra l'ingegnosità delle innovazioni tecniche avanzate da Valente209, il quale, trasformando
audacemente l'impianto di illuminazione in dote al Teatro Argentina, colloca proiettori sparsi in vari punti della scena, le cui lampade sono smorzate da lembi di seta colorata. Incastrate nelle pareti, nei pilastri, seminascoste negli arredi, esse portano a compimento la trasformazione della scena da "illuminata" in "illuminante"210, giacché i fasci di luce paiono irradiarsi dagli elementi scenici anziché colpirne la superficie. «Valente, su indicazione di Bragaglia, realizza una scena che esprime l'ambiente ora freddo, ora infuocato, concepito dallo scrittore siciliano»211; in effetti, molto meno azzardata di quanto sembri, la soluzione stilistica scelta dai due allestitori è in qualche modo già prevista dal testo di Rosso di San Secondo: il quadro descritto dalla prima didascalia di Per fare l'alba ha infatti un aspetto carico di trasalimenti di luce e contorni indistinti.
Oltre ai ritratti miniaturistici del servo Lagrunchia, della Negra e del vecchio Sanza212, il testo è fitto di indicazioni luministiche, disponendo che in scena si manifestino la «luce incerta della prima sera», gli «ultimi bagliori del sole», il «primo tremolio cristallino delle stelle»213. E una quantità notevole di trasmutazioni luminose si addensa nelle tre scene iniziali: prima rischiarata solo dalla luce crepuscolare che filtra dalle finestre del salone, la stanza è poi invasa dalla luce elettrica che fa luccicare l'oro sparso per terra; allo smorzarsi di questa, nella camera ravvivata solo del «lume della luna», la negra sembra
«un idolo di bronzo» di cui si scorgono i riflessi sulla pelle scura. Il luogo scenico, così saturo di vibrazioni cromatiche, materializza l'insondabile
mistero che circonda l'esistenza e la vita psichica dei protagonisti; è come se i personaggi, in equilibrio tra sovreccitazione e tregua dell'animo, risentissero fisiologicamente, o per meglio dire elettricamente, della profondità e instabilità della luce; come ha rilevato Anna Barsotti «in questa fusione di esotismo (accentuato dalla presenza dell'Africana) e di erotismo si possono ben cogliere echi dannunziani e persino dell'ultimo Marinetti: anche nelle didascalie che descrivono la stanza, apprestata in ogni particolare dal Vecchio esaltato per il
convegno amoroso del giovane figlio»214.
Non meno audace della componente luministica è l'interpretazione che Bragaglia dà dell'arredamento immaginato da Rosso - «lussuoso, dall'aria esoticamente orientale»215 - caricando la scenografia di un mobilio modernissimo e raffinato che sembra prelevato, come notò Tilgher, da un allestimento della sua Casa d'Arte216.
La passionalità sublimata è una delle linee tematiche centrali anche del secondo testo sansecondiano allestito da Bragaglia (al Teatro Olympia di Milano nell'agosto del 1919, con la compagnia Talli-Melato-Betrone): la triste e inerte vita della Bella Addormentata, l'imbambolata prostituta che la padrona Guanceblu vende ai maschi del paese, è sommossa dal comparire del Nero
della Zolfara, pronto a condurla via dalla sua avvilente condizione217.
Trascinata in una sfera mistica e metafisica, arricchita di motivi fiabeschi (la fanciulla ingenua e sfruttata che vive in cattività prima di essere liberata da un principe vendicatore), la vicenda drammatica proietta sulla scena personaggi soccombenti, il cui «generico anonimato»218 è riscattato da una connotazione somatica quasi caricaturale, e da fantasmagorie cromatiche, attribuite non per verosimiglianza o dato fisiologico bensì come contenuto
ontologico; basti pensare al nero diabolico (etimologicamente connesso al concetto di rottura219) che contraddistingue il personaggio positivo, colui che genera il cambiamento, spezzando il simbolo che incatena la Bella Addormentata. I personaggi del dramma non sono fantocci che hanno perduto
la propria naturale corporeità; al più essa si è in parte solidificata in un coagulo di colore e movimento, che i nomi provano a riassumere: il Notaro Tremulo, la
Zitella Angosciata, Il Nero della Zolfara, e così via.
Rinviando, per un'approfondita analisi del dramma, ancora al saggio di Anna Barsotti, che ne sintetizza il rapporto complesso tra lingua del testo e lingua della scena220 dando conto delle differenti matrici del dramma - festiva e favolistica, regionale ed espressionista, sociologica e esistenzialista - mi soffermo su alcuni passaggi altamente significativi.
Il primo atto si conclude con una scena che ha molto di faustiano: si tratta quasi di un rapimento "su richiesta", con il Nero che conduce fuori la Bella, la sequestra e la fa evadere al tempo stesso, immergendosi con lei nella fiera cittadina: «L'avvolge in un ampio scialle nero. Se la prende per la vita, e scompaiono da destra; mentre s'ode di fuori lo strombettare degli equilibristi e l'acclamare della folla; voci, richiami, schiamazzi, fischietti, tamburini. La
scena resta per qualche minuto vuota»221. Non a caso il Nero aveva fatto la sua
comparsa in scena «come Mefistofele, balzante dalla fiamma sulfurea», inducendo perfino i presenti a farsi il segno della croce222.
L'Intermezzo che segue a questa didascalia descrive la passeggiata del Nero e della Bella, accerchiati dai colori e dai rumori della fiera. La ragazza ne resta subito abbacinata, ma anche il Nero, come preso da un magico stordimento, infine «s'abbandona nell'avventura colorata, dopo la tensione consueta dei giorni, accanto alla Bella Addormentata, e non si domanda per
un po' dove vanno, e che cosa si debba fare»223. Proprio la definizione di
"avventura colorata" sovrasta, per Bragaglia, le altre angolature del dramma sicché, riferendosi al proprio allestimento, scrive: «Questa messa in scena strettamente era una modesta ed umile realizzazione delle visioni e delle macchie di colore concepite dall'Autore di questa avventura colorata»224. Per
tradurre visivamente quello che Tilgher definì «un vasto armonioso complesso gioco di colori»225, Bragaglia e Valente lavorano affinché «l'intero ambiente scenico trasfigurato da irradiazioni e proiezioni colorate» divenga «la cassa di risonanza di una particolare temperie emotiva, fornendo una chiave interpretativa del dramma»226. Anche in questo caso quindi l'operazione è in assonanza con un testo in cui l'esteriorizzazione di scenari mentali oppure onirici chiede all'abilità dell'evocatore un quadro scenico non statico, un ambiente psicologico vivificato da artifici che esulano dai rapporti intersoggettivi227. «L'itinerario delle indicazioni sceniche perde in tal modo la funzione di traccia strumentale alla realizzazione spettacolare del testo [.] assumendo uno spessore semantico 'interno' di decisiva importanza»228: un discorso didascalico che, dopo l'iniziale abbondanza, anziché affievolirsi s'infittisce verso la fine, allorché i destini contrapposti dei protagonisti si risolvono in un racconto di luci ed ombre, anziché nel dialogo, rotto e appena accennato229.
Nella seconda stesura del testo (1923), che segue all'esito contrastato delle prime rappresentazioni230, Rosso integra nel dramma le "didascalie poetiche", titolandole Preludio e Intermezzi, e incardinandole nella struttura del testo in maniera non più accessoria. Il primo Intermezzo, posto tra il primo e il secondo atto, prefigura come abbiamo detto l'ambientazione della festa
patronale di San Michele Arcangelo, mentre il secondo - tra secondo e terzo atto - rimemora l'affondare della personalità della Bella: marchiata dall'esperienza - descritta foscamente - con il Notaro borghese e portata sin quasi alla catatonia dalla violenza subita; personalità che il preludio aveva invece introdotto con accenti di etereo lirismo: «non s'adonta né si lusinga, parendole d'aver sempre viaggiato senza vedere e senza capire per le distese dai mille colori sotto l'azzurro cielo e il grigio, per le campagne verdi o mietute, per montagne rocciose e pianure molli fino alle crepe dei paeselli, aspri di ruggine nei comignoli, o scoloriti, o dipinti nelle facciate di rosso di
marrone di blù.»231, preannunciando in tal modo la ricchezza coloristica del
testo. Basti questa didascalia a dar conto dell'insistente aggettivazione cromatica che caratterizza, come fosse un report spettroscopico, numerosi passaggi del testo drammatico:
IL NERO. [.] Perché ha sulle guance il belletto? Perché ha le labbra dipinte? Perché ha le trecce a coccola sulla testa? Perché è vestita di rosa e di verde? Cose da poco. Ecco. (Cava un fazzoletto rosso, versa sopr'esso acqua della bottiglia, e lava il viso alla Bella Addormentata: le disfa poi le trecce, glie le riappunta amorosamente in modo normale, le toglie il fazzoletto verde, le sfibbia la gonna rossa e glie la toglie, in modo che ella rimane in sottanino bianco: prende poi lo scialle nero e con esso l'avvolge. Mentre esegue, egli dice.) Acqua semplice di bottiglia; se fosse di fontana sarebbe più adatta per questa carnagione fine [.]232.
Dall'inserimento delle tracce extradiegetiche, armonizzate con la scrittura del dramma, il testo guadagna in ritmo e in leggibilità, ma, quel che più conta, dimostra quanto Rosso si fosse spinto alla ricerca di una denaturazione della scena, tanto che Gobetti chiuse il suo pezzo a commento del testo sansecondiano chiedendosi: «Poiché essa non è recitabile secondo le leggi comuni perché non superare decisamente la convenzionalità, e introdurre il pubblico, sin dal principio nel mondo nuovo, con una semplice e precisa
lettura del preludio e degli intermezzi?»233. In effetti, le due pagine narrative
concorrono a immettere l'atmosfera del dramma entro i confini di un racconto lirico: recitabili come un prologo o come un a parte, si articolano in modo da
potersi intrecciare alle vicende sceniche senza soluzione di continuità, offrendo al lettore una chiave per decodificare il testo e un'espressione dei convincimenti dell'autore. Ha ragione Anna Barsotti nel sostenere che
Le dediche, come i preludi, le stesse Avvertenze per gli Attori, che accompagnano sovente nell'opera di Rosso il testo drammaturgico assumono la medesima funzione delle Note o Avvertenze che i futuristi, Marinetti in testa, apponevano ai loro pezzi teatrali (inaugurando così, indubbiamente, un sistema): ma le dichiarazioni di poetica e di regia sansecondiane non hanno alcun piglio didattico, appaiono come travestite o filtrate letterariamente, fondendosi quindi con l'opera stessa234.
In definitiva, importa segnalare che i pionieristici esperimenti di "luce psicologica" - così denominati da Bragaglia - altro non erano se non i primi tentativi di rispondere scenicamente alle novità dei testi contemporanei235, di reperire nell'orchestrazione coreografica e scenografica un contributo all'illustrazione del dramma236. Operazione da compiersi non già in maniera astrattiva, bensì ricavando proprio dalle indicazioni sceniche i segni del mutamento necessario.
La precocità di questa posizione rispetto alle idee circolanti si scopre leggendo l'intervento di uno stimato autore e critico come Cesare Vico Lodovici, che ancora nel 1926 sulle pagine di «Comoedia» sostiene che la scenografia non è e non deve essere una preoccupazione, perché è un elemento decorativo e perciò secondario. I più grandi autori di teatro ne hanno sempre fatto a meno. La scenografia è nata dalla decadenza della forza drammatica, per spostare l'interesse dal dramma (opera poetica) alla scena (opera pratica). La scenografia
è necessaria all'operetta, al café-chantant, al cinematografo, al balletto; a tutte le forme laterali del teatro. Rem tene verba sequentur: ogni lavoro veramente drammatico (cioè opera di poeta) ha un'unica sua scenografia necessaria. Trovarla e attuarla può essere utile. Ma esagerarne la importanza è senza dubbio e sempre dannoso. Nelle forme più importanti del teatro classico non esistono le didascalie. E neanche in Molière né in Goldoni, se non in misura limitatissima237 (cors. dell'A.).
Lodovici difende il proprio stile in polemica con le tendenze scenocentriche di artisti formatisi nell'ambito delle arti figurative, come per l'appunto Bragaglia, i quali esortano, naturaliter, a un teatro della visione: un appello che doveva suscitare le resistenze di chi trattava l'immagine teatrale come un neutro supporto per la parola, come lo è la carta bianca per il disegnatore. Intorno al ruolo e alla funzione dell'atto registico, inteso come problema centrale delle arti dello spettacolo, si confrontano in questi anni i difensori del prioritario valore artistico dell'opera drammatica e i sostenitori del primato del "teatro teatrale", nel suo significato letterale di "visivo". L'una e l'altra istanza, incarnate nel nostro paese da D'Amico e Bragaglia, pur contrapposte e rivaleggianti con apostrofi polemiche e spesso velenose, armate di gusti e aspirazioni divergenti, contribuiscono a un mutare di posizioni dell'intero sistema teatrale. Questo è ancora più evidente se si guarda ai due testi teorici con i quali i due mettono a consuntivo le esperienze del decennio, Del teatro teatrale ossia del Teatro di Bragaglia e Tramonto del grande attore
di D'Amico, usciti tra il 1927 e il 1929238; in ultima analisi entrambi si
pronunciano in favore di una figura professionale nuova, avvertita degli approdi europei e in grado di proporre un modello di comunicazione diversa:
La rivolta del teatro italiano contro il divismo, la commedia borghese, l'importazione indiscriminata di testi francesi, le pessime traduzioni, le brutte scenografie e le regie assenti, nasce in due modi, come sogno del Teatro Totale (e questo s'incarnerà in Bragaglia) e come esigenza di primato del fatto letterario (che prenderà corpo in d'Amico). In fondo sono le due facce d'una stessa
medaglia, e nessuno lo ha mai saputo meglio dei due interessati. Mai due avversari hanno capito così a fondo di essere complementari in una necessità storica239.
Alla luce di queste considerazioni non sarà possibile quindi porsi in un "corpo a corpo" con i testi di nuova generazione senza parlare degli edifici teatrali e delle condizioni di messinscena per i quali essi sono pensati, e senza parlare di quei fenomeni sociali e culturali che, giunti all'attenzione degli scrittori, ne influenzano le scelte compositive.
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