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La patente
La novella si apre con la figura del giudice D'Andrea che, entrato nel suo studio, sistema il suo cardellino nella gabbiola del suo ufficio, ancor prima di levarsi il cappello e il soprabito. Alla richiesta del giudice all'usciere Marranca di invitare Rosario Chiàrchiaro nel suo ufficio, l'usciere fa un balzo indietro, facendo atti di scongiuro. Infatti Chiàrchiaro, un povero padre di famiglia, cui è stato misteriosamente attribuito il potere di jettatore, ha sporto denuncia contro il figlio del sindaco del paese e contro l'assessore Fazio, dopo aver visto questi ultimi compiere dei gesti di scongiuro alla sua vista. Quando Marranca esce per adempiere l'incarico, tre giudici amici di D'Andrea entrano nello studio di quest'ultimo e, urlando, compiono atti di spavento e di scongiuro, quando sentono il nome del disgraziato. Questi comportamenti sono interrotti dalla comparsa della sedicenne Rosinella, una delle figlie di Chiàrchiaro, che prega il giudice D'Andrea affinchè convinca il padre a ritirare la querela, in quanto non avrebbe potuto far altro che aggravare le condizioni della già povera famiglia di Chiàrchiaro. Il colloquio è interrotto improvvisamente dalla visita di quest'ultimo, il cui aspetto trasandato provoca il rimprovero del giudice, che non crede alla sua fama di jettatore. Ma, dopo un lungo equivoco, D'Andrea comprende che il povero Chiàrchiaro non vuole vincere la causa e neppure perderla: consapevole della sua fama negativa, vuole il riconoscimento della stessa attraverso una "patente", con la quale pretendere il pagamento di una tassa che la gente, che non desidera la sua presenza, debba pagare. Quando Chiàrchiaro spiega il motivo di tale decisione, asserendo le brutte condizioni economiche della famiglia, il giudice lo abbraccia e si congratula con lui: ma, alla presenza dei tre giudici, il vento fa sbattere la finestra dello studio, che fa cadere la gabbia del cardellino. Allora Chiàrchiaro ne approfitta per profetizzare la morte di tutti i presenti che non gli pagheranno la tassa per farlo andare via, e così inizia la sua nuova professione di iettatore
Il treno ha fischiato
Farneticava. Principio di febbre cerebrale, avevano
detto i medici; e lo ripetevano tutti i compagni d'ufficio, che ritornavano a
due, a tre, dall'ospizio, ov'erano stati a visitarlo.
Pareva provassero un gusto particolare a darne l'annunzio coi termini
scientifici, appresi or ora dai medici, a qualche collega ritardatario che incontravano
per via:
Frenesia, frenesia.
Encefalite.
Infiammazione della membrana.
Febbre cerebrale .
E volevan sembrare afflitti; ma erano in fondo così contenti, anche per quel
dovere compiuto; nella pienezza della salute, usciti da quel triste ospizio al gajo
azzurro della mattinata invernale.
Morrà? Impazzirà?
Mah!
Morire, pare di no
Ma che dice? che dice?
Sempre la stessa cosa. Farnetica
Povero Belluca!
*E a nessuno passava per il capo che, date le specialissime condizioni in cui
quell'infelice viveva da tant'anni, il suo caso poteva anche essere
naturalissimo; e che tutto ciò che Belluca diceva e che pareva a tutti delirio,
sintomo della frenesia, poteva anche essere la spiegazione più semplice di quel
suo naturalissimo caso.
*Veramente, il fatto che Belluca, la sera avanti, s'era fieramente ribellato al
suo capo ufficio, e che poi, all'aspra riprensione di questo, per poco non gli
s'era scagliato addosso, dava un serio argomento alla supposizione che si
trattasse d'una vera e propria alienazione mentale.
Perché uomo più mansueto e sottomesso, più metodico e paziente di Belluca non
si sarebbe potuto immaginare.
*Circoscritto sì, chi l'aveva definito così? Uno dei suoi compagni
d'ufficio. Circoscritto, povero Belluca, entro i limiti angustissimi della sua
arida mansione di computista, senz'altra memoria che non fosse di partite
aperte, di partite semplici o doppie o di storno, e di defalchi e prelevamenti
e impostazioni; note, libri mastri, partitarii, stracciafogli e via dicendo.
Casellario ambulante: o piuttosto, vecchio somaro, che tirava zitto zitto,
sempre d'un passo, sempre per la stessa strada la carretta, con tanto di
paraocchi.
Orbene, cento volte questo vecchio somaro era stato frustato, fustigato senza
pietà, cosi per ridere, per il gusto di vedere se si riusciva a farlo imbizzire
un po', a fargli almeno drizzare un po' le orecchie abbattute, se non a dar
segno che volesse levare un piede per sparar qualche calcio. Niente! S'era
prese le frustate ingiuste e le crudeli punture in santa pace, sempre, senza
neppur fiatare, come se gli toccassero, o meglio, come se non le sentisse più,
avvezzo com'era da anni e anni alle continue solenni bastonature della sorte.
Inconcepibile, dunque, veramente, quella ribellione in lui, se non come effetto
d'una improvvisa alienazione mentale.
*Tanto più che, la sera avanti, proprio gli toccava la riprensione; proprio
aveva il diritto di fargliela, il capo ufficio. Già s'era presentato, la
mattina, con un'aria insolita, nuova; e cosa veramente enorme, paragonabile,
che so? al crollo d'una montagna era venuto con più di mezz'ora di ritardo.
Pareva che il viso, tutt'a un tratto, gli si fosse allargato. Pareva che i
paraocchi gli fossero tutt'a un tratto caduti, e gli si fosse scoperto,
spalancato d'improvviso all'intorno lo spettacolo della vita. Pareva che gli
orecchi tutt'a un tratto gli si fossero sturati e percepissero per la prima
volta voci, suoni non avvertiti mai.
Così ilare, d'una ilarità vaga e piena di stordimento, s'era presentato
all'ufficio. E, tutto il giorno, non aveva combinato niente.
La sera, il capo ufficio, entrando nella stanza di lui, esaminati i registri,
le carte:
E come mai? Che hai combinato tutt'oggi?
Belluca lo aveva guardato sorridente, quasi con un'aria d'impudenza, aprendo le
mani.
Che significa? aveva allora esclamato il capo ufficio, accostandoglisi e
prendendolo per una spalla e scrollandolo. Ohé, Belluca!
Niente, aveva risposto Belluca, sempre con quel sorriso tra d'impudenza e
d'imbecillità su le labbra. Il treno, signor Cavaliere.
Il treno? Che treno?
- Ha fischiato.
Ma che diavolo dici?
Stanotte, signor Cavaliere. Ha fischiato. L'ho sentito fischiare
Il treno?
Sissignore. E se sapesse dove sono arrivato! In Siberia oppure oppure
nelle foreste del Congo Si fa in un attimo, signor Cavaliere!
Gli altri impiegati, alle grida del capo ufficio imbestialito, erano entrati
nella stanza e, sentendo parlare così Belluca, giù risate da pazzi.
Allora il capo ufficio che quella sera doveva essere il malumore urtato da
quelle risate, era montato su tutte le furie e aveva malmenato la mansueta
vittima di tanti suoi scherzi crudeli.
Se non che, questa volta, la vittima, con stupore e quasi con terrore di tutti,
s'era ribellata, aveva inveito, gridando sempre quella stramberia del treno che
aveva fischiato, e che, perdio, ora non più, ora ch'egli aveva sentito
fischiare il treno, non poteva più, non voleva più esser trattato a quel modo.
Lo avevano a viva forza preso, imbracato e trascinato all'ospizio dei matti.
*Seguitava ancora, qua, a parlare di quel treno. Ne
imitava il fischio. Oh, un fischio assai lamentoso, come lontano, nella notte;
accorato. E, subito dopo, soggiungeva:
Si parte, si parte Signori, per dove? per dove?
E guardava tutti con occhi che non erano più i suoi. Quegli occhi, di solito
cupi, senza lustro, aggrottati, ora gli ridevano lucidissimi, come quelli d'un
bambino o d'un uomo felice; e frasi senza costrutto gli uscivano dalle labbra.
Cose inaudite; espressioni poetiche, immaginose, bislacche, che tanto più stupivano,
in quanto non si poteva in alcun modo spiegare come, per qual prodigio,
fiorissero in bocca a lui, cioè a uno che finora non s'era mai occupato d'altro
che di cifre e registri e cataloghi, rimanendo come cieco e sordo alla vita:
macchinetta di computisteria. Ora parlava di azzurre fronti di montagne nevose,
levate al cielo; parlava di viscidi cetacei che, voluminosi, sul fondo dei
mari, con la coda facevan la virgola. Cose, ripeto, inaudite.
*Chi venne a riferirmele insieme con la notizia dell'improvvisa alienazione
mentale rimase però sconcertato, non notando in me, non che meraviglia, ma
neppur una lieve sorpresa.
Difatti io accolsi in silenzio la notizia.
E il mio silenzio era pieno di dolore. Tentennai il capo, con gli angoli della
bocca contratti in giù, amaramente, e dissi:
Belluca, signori, non è impazzito. State sicuri che non è impazzito. Qualche
cosa dev'essergli accaduta; ma naturalissima. Nessuno se la può spiegare,
perché nessuno sa bene come quest'uomo ha vissuto finora. Io che lo so, son
sicuro che mi spiegherò tutto naturalissimamente, appena l'avrò veduto e avrò
parlato con lui.
*Cammin facendo verso l'ospizio ove il poverino era
stato ricoverato, seguitai a riflettere per conto mio:
'A un uomo che viva come Belluca finora ha vissuto, cioè una vita
'impossibile', la cosa più ovvia, I'incidente più comune, un
qualunque lievissimo inciampo impreveduto, che so io, d'un ciottolo per via,
possono produrre effetti straordinarii, di cui nessuno si può dar la
spiegazione, se non pensa appunto che la vita di quell'uomo è
'impossibile'. Bisogna condurre la spiegazione là, riattaccandola a
quelle condizioni di vita impossibili, ed essa apparirà allora semplice e
chiara. Chi veda soltanto una coda, facendo astrazione dal mostro a cui essa
appartiene, potrà stimarla per se stessa mostruosa. Bisognerà riattaccarla al
mostro; e allora non sembrerà più tale; ma quale dev'essere, appartenendo a
quel mostro.
Una coda naturalissima. ''
*Non avevo veduto mai un uomo vivere come Belluca.
Ero suo vicino di casa, e non io soltanto, ma tutti gli altri inquilini della
casa si domandavano con me come mai quell'uomo potesse resistere in quelle
condizioni di vita.
Aveva con sé tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera:
queste due, vecchissime, per cataratta; I'altra, la moglie, senza cataratta,
cieca fissa; palpebre murate.
Tutt'e tre volevano esser servite. Strillavano dalla mattina alla sera perché
nessuno le serviva. Le due figliuole vedove, raccolte in casa dopo la morte dei
mariti, l'una con quattro, l'altra con tre figliuoli, non avevano mai né tempo
né voglia da badare ad esse; se mai, porgevano qualche ajuto alla madre
soltanto.
Con lo scarso provento del suo impieguccio di computista poteva Belluca dar da
mangiare a tutte quelle bocche? Si procurava altro lavoro per la sera, in casa:
carte da ricopiare. E ricopiava tra gli strilli indiavolati di quelle cinque
donne e di quei sette ragazzi finché essi, tutt'e dodici, non trovavan posto
nei tre soli letti della casa.
Letti ampii, matrimoniali; ma tre.
Zuffe furibonde, inseguimenti, mobili rovesciati, stoviglie rotte, pianti,
urli, tonfi, perché qualcuno dei ragazzi, al bujo, scappava e andava a
cacciarsi fra le tre vecchie cieche, che dormivano in un letto a parte, e che
ogni sera litigavano anch'esse tra loro, perché nessuna delle tre voleva stare
in mezzo e si ribellava quando veniva la sua volta.
Alla fine, si faceva silenzio, e Belluca seguitava a ricopiare fino a tarda
notte, finché la penna non gli cadeva di mano e gli occhi non gli si chiudevano
da sé.
Andava allora a buttarsi, spesso vestito, su un divanaccio sgangherato, e
subito sprofondava in un sonno di piombo, da cui ogni mattina si levava a
stento, più intontito che mai.
Ebbene, signori: a Belluca, in queste condizioni,
era accaduto un fatto naturalissimo.
*Quando andai a trovarlo all'ospizio, me lo raccontò lui stesso, per filo e per
segno. Era, sì, ancora esaltato un po', ma naturalissimamente, per ciò che gli
era accaduto. Rideva dei medici e degli infermieri e di tutti i suoi colleghi,
che lo credevano impazzito.
Magari! diceva Magari!
Signori, Belluca, s'era dimenticato da tanti e tanti anni ma proprio
dimenticato che il mondo esisteva.
Assorto nel continuo tormento di quella sua sciagurata esistenza, assorto tutto
il giorno nei conti del suo ufficio, senza mai un momento di respiro, come una
bestia bendata, aggiogata alla stanga d'una nòria o d'un molino, sissignori,
s'era dimenticato da anni e anni ma proprio dimenticato che il mondo esisteva.
Due sere avanti, buttandosi a dormire stremato su quel divanaccio, forse per
l'eccessiva stanchezza, insolitamente, non gli era riuscito d'addormentarsi
subito. E, d'improvviso, nel silenzio profondo della notte, aveva sentito, da
lontano, fischiare un treno.
Gli era parso che gli orecchi, dopo tant'anni, chi sa come, d'improvviso gli si
fossero sturati.
Il fischio di quel treno gli aveva squarciato e portato via d'un tratto la
miseria di tutte quelle sue orribili angustie, e quasi da un sepolcro
scoperchiato s'era ritrovato a spaziare anelante nel vuoto arioso del mondo che
gli si spalancava enorme tutt'intorno.
S'era tenuto istintivamente alle coperte che ogni sera si buttava addosso, ed
era corso col pensiero dietro a quel treno che s'allontanava nella notte.
C'era, ah! c'era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti,
c'era il mondo, tanto, tanto mondo lontano, a cui quel treno s'avviava
Firenze, Bologna, Torino, Venezia tante città, in cui egli da giovine era
stato e che ancora, certo, in quella notte sfavillavano di luci sulla terra.
Sì, sapeva la vita che vi si viveva! La vita che un tempo vi aveva vissuto
anche lui! E seguitava, quella vita; aveva sempre seguitato, mentr'egli qua,
come una bestia bendata, girava la stanga del molino. Non ci aveva pensato più!
Il mondo s'era chiuso per lui, nel tormento della sua casa, nell'arida, ispida
angustia della sua computisteria Ma ora, ecco, gli rientrava, come per
travaso violento, nello spirito. L'attimo, che scoccava per lui, qua, in questa
sua prigione, scorreva come un brivido elettrico per tutto il mondo, e lui con
l'immaginazione d'improvviso risvegliata poteva, ecco, poteva seguirlo per
città note e ignote, lande, montagne, foreste, mari Questo stesso brivido,
questo stesso palpito del tempo. C'erano, mentr'egli qua viveva questa vita
' impossibile ', tanti e tanti milioni d'uomini sparsi su tutta la
terra, che vivevano diversamente. Ora, nel medesimo attimo ch'egli qua
soffriva, c'erano le montagne solitarie nevose che levavano al cielo notturno le
azzurre fronti sì, sì, le vedeva, le vedeva, le vedeva cosi c'erano gli
oceani Ie foreste
E, dunque, lui ora che il mondo gli era rientrato nello spirito poteva in
qualche modo consolarsi! Sì, levandosi ogni tanto dal suo tormento, per
prendere con l'immaginazione una boccata d'aria nel mondo.
Gli bastava!
Naturalmente, il primo giorno, aveva ecceduto. S'era ubriacato. Tutto il mondo,
dentro d'un tratto: un cataclisma. A poco a poco, si sarebbe ricomposto. Era
ancora ebro della troppa troppa aria, lo sentiva.
Sarebbe andato, appena ricomposto del tutto, a chiedere scusa al capo ufficio,
e avrebbe ripreso come prima la sua computisteria. Soltanto il capo ufficio
ormai non doveva pretender troppo da lui come per il passato: doveva
concedergli che di tanto in tanto, tra una partita e l'altra da registrare,
egli facesse una capatina, sì, in Siberia oppure oppure nelle foreste del
Congo:
Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato
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