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Se questo è un uomo di Primo Levi




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Se questo è un uomo di Primo Levi

Nel libro viene descritto il periodo di prigionia compreso fra due terribili inverni nord europei, inverni durante i quali il narratore vede numerosi suoi compagni morire di stenti a causa delle proibitive condizioni ambientali, del precario stato igienico-sanitario del campo, del lavoro massacrante. Levi si trova dinnanzi a un sistema, il lager, organizzato e finalizzato all'annientamento della dignità umana. Dentro questo folle progetto di distruzione, l'uomo non riesce più a provare pietà, non conosce più l'amicizia, la ribellione, la speranza: si cura solo, assurdamente, di non morire e per questo lotta; combatte per mantenere in piedi quel mucchietto di ossa, senza altro scopo che non sia quello di aggiungere sofferenza alla propria condizione.

In una pagina straordinaria, eppure terribile, che sembra quasi voler ammonire il lettore, Levi narra la pubblica esecuzione di un prigioniero responsabile di una tentata ribellione; rientrato nella baracca l'uomo non riesce a guardare in faccia il suo compagno: «Quell'uomo doveva essere duro, doveva essere di un altro metallo del nostro, se questa condizione, da cui noi siamo rotti, non ha potuto piegarlo. Perché anche noi siamo stati rotti, vinti: anche se abbiamo saputo adattarci, anche se abbiamo finalmente imparato a trovare il nostro cibo e reggere alla fatica e al freddo, anche se ritorneremo. Abbiamo issato la menaschka sulla cuccetta, abbiamo fatto la ripartizione, abbiamo soddisfatto la rabbia quotidiana della fame, e ora ci opprime la vergogna». I più fortunati riescono a migliorare le proprie condizioni, i più deboli cadono sempre più in basso: ma che giovamento traggono i primi dal sopravvivere sulle spalle dei secondi, che vita sorge dallo spettacolo quotidiano dell'annientamento dei propri simili?

In una sua poesia del 1946, Il tramonto di Fossoli, Primo Levi si esprime in questi termini: «Io so cosa vuol dire non tornare, / e attraverso il filo spinato / ho visto il sole scendere e morire, / ho sentito lacerarmi la carne / le parole del vecchio profeta.». 'Sapere", dunque, per lo scrittore coincide con il vedere e con il sentire, con il vedere pensieri di morte e con il sentire nella propria carne le parole. Per chi non ha provato questa esperienza sulla propria pelle non è possibile comprendere: ci si può fermare ad una più pacata intuizione, allo sdegno, alla commiserazione, ma il sapere è un'altra cosa, inesplicabile, puramente fisica.

"Sapere" è vedere dinanzi a sé un uomo che tenta di ridurre la tua vita a una condizione bestiale; eppure, chi compie tale azione è un uomo, non una incarnazione della malvagità, non un demone, perché questi sono prodotti della fantasia e come tali sono ancora comprensibili. L'uomo invece, forse l'ammonimento fondamentale che si può trarre dal romanzo di Levi, non lo è.

Non si può comprendere il lager, si possono piuttosto cercare di capire le cause che hanno portato alla sua creazione, tentare di spiegare i comportamenti del popolo tedesco e del popolo ebreo. Molto più difficile diventa conoscere in maniera profonda e intima chi in esso è stato rinchiuso, chi una volta libero ha sentito in sé risvegliarsi la coscienza e ha capito cosa significa esserne privati, chi dinanzi alla libertà finalmente conquistata ha sentito l'inerzia trattenerlo e ha lottato contro quest'altro nemico invisibile, subdolo, cercando di raffigurarlo per allontanarlo da sé, ma sentendolo inafferrabile, lontano da ogni uomo ma non tanto da non sentire il bisogno di metterli in guardia.

Se questo è un uomo nasce dunque dall'uomo, ma non è un'opera della sua fantasia, non può essere recepito come tale; scrivere queste pagine è costato sofferenza e, in qualche modo, lo scrittore pretende da noi uno sforzo analogo, disumano: cancellarci come lettori, sentire dentro noi quella stessa sofferenza fisica, fatta di ore, giorni e anni, sentire sotto le nostre scarpe pesanti e lacerate l'onnipresente pantano o, almeno, tentare di immaginare che qualcuno quelle sofferenze le ha provate veramente.

Se "comprendere" per Levi coincide con l' "immedesimarsi", questo non implica la necessità di un supporto, la nostra fantasia, sulla quale fare rivivere le esperienze narrate nel testo? Ma così facendo non si rischia di entrare in un circolo vizioso, ovvero fare ricadere nelle categorie conosciute ciò che in realtà non comprendiamo, né conosciamo direttamente? Si prenda ad esempio la descrizione degli ultimi dieci giorni di vita nel campo: essa sembra prendere a modello una rappresentazione dell'Inferno in cui uomini malati vagano strisciando come vermi in mezzo a cadaveri e sterco; gelati, nudi e affamati, non sembrano più persone ma larve alla ricerca di un po' di calore, esseri apparentemente fuori da questo mondo. E invece no: si tratta di esseri di questo mondo, i quali hanno solcato proprio questa terra, ricoperta da quei cadaveri che, un tempo, sono stati uomini sani e reali. L'inferno è una creazione umana.

Siamo ben lontani dall'ideale tardo-romantico, per la verità e significativamente più narrato che vissuto, della conoscenza che si raggiunge tramite la sofferenza fisica, e da quello eremitico delle pene corporali, dei digiuni, delle notti insonni come strumento in grado di avvicinarci al divino, dall'esigenza insomma di ottundere le proprie menti per semplificarne gli orizzonti, per ricadere in un discorso ancora una volta a suo modo estetico, culturale e rituale ed in definitiva umano. Il lager è diverso: la stessa lotta per la vita all'interno di esso non può essere valutata sociologicamente, come se tutto fosse stato un gigantesco esperimento, poiché all'interno del lager non vi è speranza di uscita, e un uomo senza speranza non lotta per continuare a sopravvivere. Forse la paura è il motore primo dei comportamenti, ma come ammetterlo? E allora bisogna forse abbandonarsi alla lettura e fingere di leggere di esperienze ormai lontane nello spazio e nel tempo dimenticando ciò che lo stesso Levi diceva: «È accaduto, può accadere di nuovo»?

Se questo è un uomo è un libro rigorosamente semplice e asciutto nella scrittura, senza domande, ma colmo di riflessioni in grado di sollecitare costantemente il lettore. Proprio qui sta la sua potenza espressiva, integra e attuale malgrado tanti anni dalla sua pubblicazione: nel suo presentarsi ai nostri occhi come un libro impossibile, impossibile da scrivere e da riscrivere; un romanzo che, trattando di genocidio, sa portarci in contatto con i misteri più insondabili e raccapriccianti insiti nella natura umana.

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