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Prolegomeni allo studio critico dell'autobiografia
The mania for this garbage of Confessions, and Recollections, and Reminescences, and Aniliana, «is indeed a vile symptom». It seems as if the ear of that grand impersonation,
«the Reading Public», had become as filthily prurient as that of an eaves-dropping lackey.
J. G. LOCKHART, The Quarterly Review, 1827
C'est ce paradoxe apparent et fondamental de l'autobiographie, protéiforme, insaisissable et pourtant toujours semblable à elle-même, qui, en fin de compte, nous parait le mieux à même de nous faire sentir la nature de son secret. C'est sans doute aussi parce qu'elle se montre si rebelle à se laisser définir et immobiliser, qu'elle n'est pas sur le point [.] de cesser de tenter les talents littéraires les plus variés ni de cesser d'enchanter ses lecteurs [.].
G. MAY, L'autobiographie, 1979
Introduzione
Dalle Confessioni di S. Agostino, vera e propria stele di Rosetta dell'autobiografia, passando attraverso l'opera di scrittori e artisti che in ogni epoca hanno segnato ulteriori landmarks nell'evoluzione del genere autobiografico, fino agli sperimentalismi memoriali di molti autori postmoderni, l'esigenza di raccontarsi e conoscersi mediante la scrittura appare radicata nello spirito umano.
È in particolare in questi ultimi anni che l'autobiografia ha raggiunto un'indiscussa proliferazione: se dalle origini il racconto di sé è stato l'ausilio di cui si sono avvalsi soprattutto mistici e intellettuali per sondare autopticamente le zone umbratili della propria anima, oggi autorità politiche, scienziati e accademici, celebrità e persone del tutto anonime si lasciano sempre più affascinare da un desiderio di conoscibilità che si estrinseca nella scelta delle forme di autorivelazione esplicita della scrittura autobiografica.
Sul versante della critica accademica, a richiamare l'attenzione degli studiosi sul genere autobiografico e sulle sue eteroclite declinazioni è stata invece, in senso estensivo, la constatazione di come la scrittura si sia da sempre prestata all'indagine della psicologia del sé e di come, inversamente, lo scandaglio dei più intimi recessi dell'interiorità umana possa convertirsi in matrice essenziale dei materiali della letteratura1.
Nonostante la sua lunga storia e la portata degli spunti tematici da essa offerti, i tentativi di stabilire una teoria dell'autobiografia sono tuttavia abbastanza recenti, e soltanto con la pubblicazione delle opere seminali di Roy Pascal e di Jean Starobinski le indagini sulla scrittura autobiografica hanno ricevuto stimoli produttivi, sviluppandosi nei decenni successivi grazie ai lavori di Philippe Lejeune, e poi a quelli di Paul De Man e Jacques Derrida, due tra i critici ad aver esplorato in forme più radicalmente ermeneutiche un continente del quale nel lontano 1968 si faceva ancora notare l'assenza nelle mappe
tracciate dai «cartografi letterari»2.
A più di quarant'anni di distanza dalle disquisizioni di chi come Shapiro si interrogava sulla sua natura e sulla sua collocazione all'interno del sistema letterario, l'autobiografia è finalmente divenuta un oggetto di ricerca autonomo, che proprio in virtù dell'indipendenza conquistata ha potuto svincolarsi dagli orientamenti teoretici che ne decretavano ora l'appartenenza ai generi letterari minori3, ora lo status di «parente povera della ricerca letteraria, ammessa al convito dei generi dominanti contigui (biografia e romanzo) in modi obliqui e dubitativi»4.
Non solo, dunque, il genere autobiografico non è più connotabile nei termini con cui lo dipingeva Shapiro, ma da terra vergine e incontaminata si è trasformato in una sorta di potenza imperialista che ha attratto e continua ad attrarre a sé, colonizzandoli, tanto i territori limitrofi che quelli più apparentemente lontani dalla sua sfera d'influenza5.
L'autobiografia è insomma arrivata a coprire un campo di studi talmente variegato che non è sempre facile raggiungere un compromesso o un accordo su che cosa quest'ultima possa debitamente includere6: numerosi sono ad esempio i critici che, dinanzi «[al]la mancanza di parametri rigidi e di un modello uniforme che [.] stabiliscano le costanti morfologiche e semantiche»7 del genere, ne hanno allargato le alquanto mobili frontiere in modo da inglobarvi forme affini di scrittura autobiografica, quali lettere, journals e memorie; altri, alla luce delle tendenze della (post)modernità a valicare la soglia tra fittizio e reale, e ad aprirsi a discipline e culture diverse, hanno sostenuto la necessità di prescindere dal rigore di parametri puristi nella valutazione del contenuto autobiografico dei testi presi in esame.
L'inesauribile mole degli studi si stratifica intorno a settori spesso così indipendenti gli uni dagli altri (l'autobiografia di gruppi etnici e soggetti patologici, i memoirs femminili e postcoloniali, le scritture intimistiche di donne e uomini ordinari o altrimenti famosi) da rendere pertinente, nella rappresentazione dello stato attuale della critica, l'immagine di un dedalo di strade che non si incontrano mai, o di un oceano solcato da imbarcazioni di ogni tipo e dimensione destinate a seguire ognuna la propria rotta8.
Se volessimo riprodurre a livello figurativo la molteplicità di forme assunte dal genere autobiografico, potremmo invece optare per lo schema proposto da Jacques Lecarme sul modello della ruota virgiliana, e non a caso ribattezzato rue de l'autobiographie (cfr. infra, fig. 1). La figura elaborata dal critico francese si compone di una serie di cerchi concentrici a loro volta suddivisi in sezioni circolari che, in base alla vicinanza alla zona più interna, indicano il grado di "parentela" con l'autobiografia (il centro ideale della ruota) e
delimitano, all'interno di ciascun cerchio, le aree entro le quali si possono inscrivere modalità discorsive, generi e sottogeneri, anch'essi raggruppati in base ai rispettivi rapporti
di consanguineità9.
Fig. 1. Nel Medioevo la rota Virgilii veniva usata per esemplificare la corrispondenza tra lo stile umile, medio e sublime. Il nome deriva dalle maggiori opere virgiliane - le Bucoliche, le Georgiche e l'Eneide -, che vengono assunte come modello dei generi in cui si realizzano i tre stili. Nella rielaborazione di Lecarme la ruota contempla anche quelle autorappresentazioni multimediali che Sidonie Smith e Julia Watson fanno rientrare nella più ampia categoria delle life narratives (cfr. infra).
Nonostante nella ruota lecarmiana il ricorso a una serie di linee nette di demarcazione tra le varie sezioni non sia in grado di suggerire visivamente un dato di incontestabile validità nell'odierno panorama letterario, ovvero quell'intreccio di forme e contenuti che dimostra quanto siano in effetti porosi e mutevoli i confini che separano le pratiche autobiografiche10, i raggruppamenti e le relazioni stabilite da Lecarme hanno il merito di mettere in luce la sintomatica interdisciplinarietà e intergenericità dell'autobiografia
contemporanea.
Valga, ad esemplificazione di quanto appena accennato, il testo del seminario tenuto da Andrea Battistini sui generi marginali del '900, dove il critico sottolinea il bisogno, reso ancor più impellente dalla poetica stessa del Postmodernismo, di una costante riconfigurazione dei generi canonici e di quelli, come l'autobiografia, considerati a lungo marginali. Secondo Battistini, per poter comprendere i rapporti dialettici tra i generi letterari, bisogna più esattamente concepire le loro delimitazioni come linee mobili e dinamiche, che variano sia dal punto di vista diacronico che sincronico.
È quanto risulta specialmente perspicuo se si prende in considerazione l'odierna "scrittura del sé"11, che "scardina" molti di quei canoni considerati imprescindibili e a esclusivo appannaggio del genere autobiografico per intrecciare una fitta rete di scambi con generi e branche del sapere diversi.
Della frequenza con cui avvengono tali scambi interconnettivi ci si può facilmente rendere conto procedendo allo spoglio di una serie di prestigiose riviste internazionali (per menzionarne soltanto alcune a/b: Auto/Biography Studies, Auto/Biography Yearbook, Auto/Biography, Autopacte, Biography, Lifewriting Annual, Life Writing) che - ad onta degli sbarramenti metodologici e delle chiusure dogmatiche su cui per anni hanno insistito
certi indirizzi teorici - rendono conto di come quello delle forme autobiografiche sia divenuto un settore di studi generosamente aperto alle più disparate incursioni disciplinari12.
Che l'autobiografia sia una materia di indagine di ampiezza vertiginosa è infine testimoniato dall'esistenza, in vari Paesi europei, di luoghi deputati alla conservazione e alla promozione di un patrimonio memoriale che negli ultimi anni è cresciuto in maniera pressoché esponenziale.
Si pensi in proposito all'Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano (l'altrimenti nota
«città dei diari», in provincia di Arezzo)13, all'Association pour l'Autobiographie (APA) di Ambérieu-en-Bugey (una cittadina nei pressi di Lione), ai registri di Emmendingen (Germania), o ancora a quelli spagnoli di La Roca del Vallès (Catalogna)14.
Un dato di indiscutibile importanza può già emergere da questo breve excursus introduttivo: la scrittura dell'io, resasi un'icona pregnante dell'interazione con il mondo di un soggetto di cui vengono riflesse le intime complessità, valica con sempre maggiore frequenza l'ambito letterario per convertirsi in fatto antropologico. Non è peraltro un caso fortuito che Philippe Lejeune, il quale a più riprese ha evidenziato l'inestinguibile portata
cognitiva di questo «onnivoro agglomerato di forme e contenuti»15, abbia segnalato che,
nelle società moderne, studiare l'autobiografia significa intraprendere un percorso di
continua scoperta:
L'autobiografia non conduce a un ripiegamento su se stessi, ma ad un'apertura verso gli altri: altre persone, altre discipline, ma anche altre culture. [.] costruire un corpus di autobiografie scritte nella propria lingua è un modo per consolidare l'identità e la cultura del proprio paese, ma è al tempo stesso un'occasione per prendere coscienza degli studi svolti parallelamente in altri paesi, partecipi della medesima civiltà16.
1.1. La critica autobiografica: cenni preliminari
Se gli studi sull'autobiografia da un lato si sono moltiplicati così tanto da produrre uno spazio dinamico entro il quale analizzare la contemporanea scrittura del sé, dall'altro hanno reso estremamente arduo il progetto di procedere a una loro catalogazione sistematica.
Non mancano comunque dei validi tentativi in questa direzione, come ad esempio quello compiuto in Reading Autobiography (2010) da Sidonie Smith e Julia Watson, alle quali va riconosciuto tra l'altro il merito di aver fornito alcune utili delucidazioni (il volume, sottotitolato A Guide for Interpreting Life Narratives, si propone infatti come una sorta di manuale) sull'uso e sulle valenze disciplinari di un apparato terminologico arricchitosi, di pari passo con l'intensificarsi dell'interesse per l'autobiografia, di un'ampia
gamma di coniazioni verbali, tutte afferenti alla letteratura della soggettività17.
Per distinguere l'autobiografia propriamente detta dai generi e sottogeneri che - pur avendo storie istituzionali e frontiere epistemologiche proprie - fanno delle articolazioni del sé il proprio perno tematico, Smith e Watson procedono col definire i caratteri peculiari delle forme comunemente designate con i termini life writing e life narrative: la prima, spiegano le due critiche americane, è una parola di recente coniazione, con cui si copre tutta la possibile gamma di narrazioni in forma scritta - siano esse di natura biografica,
storica o romanzesca - incentrate sulla descrizione della vita di uno o più soggetti18; la seconda, di accezione ben più ampia, racchiude un insieme variabile di atti autoreferenziali che in forma scritta o visuale, filmica o digitale, fanno luce sull'identità di chi li produce19.
L'aspetto più interessante delle considerazioni di Smith e Watson è sicuramente quello di scorgere nel vocabolo «autobiografia»20, che a differenza degli altri fa riferimento a una pratica specifica di scrittura, la mancata designazione di un folto gruppo di modalità e forme narrative ormai solo di rado incentrate sull'autonomia individuale e sull'esemplarità di una vita21.
Ai numerosi teorici dell'autobiografia che hanno assimilato la parola all'obsoleto ideale liberal-umanistico di un soggetto unitario, unificante e totalizzante, adattandone poi il senso al più copioso quadro dei «racconti di vita», viene di fatto contestato, principalmente da parte della critica postmoderna e postcoloniale, di aver reso la scrittura dell'io uno strumento adatto alla raffigurazione della vita di uomini illustri, ma fondamentalmente incapace di profilare il ritratto di persone (singoli individui, gruppi etnici, categorie sociali) destinate a rimanere ai margini della Storia.
In particolare «[i]ts theorists [the theorists of autobiography] have installed this master narrative of "the sovereign self" as an institution of literature and culture, and identified, in the course of the twentieth century, a canon of representative life narratives. But implicit
in this canonization is the assignment of lesser value to many other kinds of life narratives produced at the same time and, indeed, a refusal to recognize them as "true"
autobiography»22.
Accanto alla constatazione della necessità di ridefinire le fondamenta (le implicazioni relative alla mutata percezione della soggettività e dell'identità, l'ambito circoscritto dal genere) dell'autobiografia e i rapporti che quest'ultima intrattiene con gli altri generi letterari, si situa il già preannunciato tentativo di passare in rassegna le principali teorie che sono state formulate dalla seconda metà del ventesimo secolo con lo scopo di rintracciare i tratti pertinenti e risolvere i congeniti paradossi di questa forma brulicante di fermenti interrogativi.
In Reading Autobiography vengono individuate tre fasi della critica autobiografica, l'analisi di ciascuna delle quali è puntualmente accompagnata dalla segnalazione dei principali fattori storico-culturali23 che in ogni periodo hanno condizionato la percezione della personalità e quindi stimolato nuove riflessioni sull'autobiografia.
Influenzati dallo storico tedesco Wilhelm Dilthey, il quale per la prima volta individua nell'autobiografia «the highest and most instructive form in which the understanding of life comes before us»24, gli studi moderni nell'ambito del self-writing iniziano con la pubblicazione dell'opera History of Autobiography in Antiquity25. In questa monumentale raccolta di volumi Georg Misch, allievo e genero di Dilthey, ripercorre la rappresentazione dell'uomo occidentale attraverso la Storia, cercando così di dimostrare come le vite dei grandi e dei potenti siano il metro per valutare il progresso della civiltà.
Anche se vincolata alla risorsa più naturale in assoluto, ovvero il bisogno che l'uomo ha di esprimere se stesso e autoaffermarsi, nel significato attribuitole da Misch l'autobiografia è uno strumento conoscitivo par excellence che, nascendo da uno stato di avanzamento culturale, ha la facoltà di rivelare lo sviluppo umano di un determinato periodo nella misura in cui un autore se ne è reso partecipe.
Nonostante sia innegabile l'influenza degli studi di Misch sulle successive generazioni
di critici, i criteri fortemente selettivi da lui adottati sollevano un'altrettanto innegabile
congerie di dubbi per quanto attiene il grado di inclusività del genere autobiografico:
in primo luogo, tali restrizioni sanciscono un'eclatante divisione tra una "cultura alta" in cui vengono fatti rientrare esempi di civilizzazione universali, e una "cultura bassa" costituita da modelli discorsivi di uso popolare (lettere, diari, journals e memorie) che però hanno contribuito alla nascita dell'autobiografia26; in secondo luogo, i parametri di Misch conferiscono unicamente a pochi eminenti individui la facoltà di formare lo spirito di un'epoca, mettendo perciò in discussione la rappresentatività di tutti coloro ai quali viene precluso l'accesso alla «storia testuale della propria soggettività»27.
Con Georges Gusdorf, Francis Hart, James Olney e Karl Weintraub si inaugura invece una fase che si contraddistingue per il ridimensionamento della concezione del sé e della verità28. Ridimensionamento incentivato, fin dalle prime decadi del '900, da filosofie e correnti di pensiero che postulano lo scardinamento della certezza in un self e in una narrazione invariabilmente veritieri.
La reificazione del soggetto promossa dall'Illuminismo viene più esattamente confutata
da:
la critica marxista, che fa della coscienza individuale il prodotto di forze e relazioni di carattere socio-economico (le forze produttive materiali costituiscono la struttura di una data società, alla quale si conformano anche le varie manifestazioni di una coscienza sociale), negando così l'autonomia del singolo;
la psicoanalisi freudiana, per la quale l'uomo non è un agente puramente razionale,
ma un essere plasmato da forze istintive, difficili da comprendere perché al di là del controllo cosciente;
la riconfigurazione della soggettività promossa dagli studi di Freud sul linguaggio e
la sua relazione con l'inconscio: il linguaggio, nell'ottica freudiana, è sempre soggettivo e mai neutrale in quanto, trasmettendo i desideri del parlante, è uno strumento deputato alla conoscenza degli strati profondi dell'essere;
la reinterpretazione delle teorie freudiane da parte di Jacques Lacan, il quale
riconosce nell'inconscio una struttura di tipo linguistico (il linguaggio viene in altre parole analizzato con metodo strutturalista), formalizzabile scientificamente. Per Lacan, così come per lo strutturalista Ferdinand de Saussure, la lingua e i segni sono autonomi rispetto alle prestazioni linguistiche individuali: in questo senso, il linguaggio dell'inconscio è il discorso dell'Altro rispetto al soggetto conscio;
Saussure e i formalisti russi, i quali problematizzano ulteriormente la questione del
linguaggio, dubitando della trasparenza di ciò che viene concepito come veicolo dell'espressione del sé. Per Saussure il linguaggio è un sistema nel quale interagiscono un significante (la parole, ovvero la singola parola) e un significato (la langue, ossia il referente), e come tale agisce indipendentemente dal soggetto29.
Dinanzi alla problematizzazione del rapporto dell'individuo con il linguaggio, inizia così a gravare anche sul soggetto autobiografico, che di questo stesso linguaggio si serve per estrinsecare il proprio iter vitae, la minaccia della frammentazione e dello straniamento.
Il risultato della nuova e destabilizzante visione della soggettività è quindi un tipo di critica interessata a quelle che Olney definisce le agonizing questions della rappresentazione del sé: una critica cioè in cui «[l]ife narrative is seen as a process through which a narrator struggles to shape an identity out of an amorphous experience of subjectivity», e lo studioso «becomes a psychoanalyst of sorts, interpreting an encoded truth in the welter of details of the narrative as a psychological design rather than a factual
or moral profile»30.
In questo secondo momento, le riflessioni sorte intorno alle pratiche discorsive e all'istituzione dell'autobiografia tendono ad assimilare la scrittura autobiografica a un atto creativo piuttosto che a una mera trascrizione del passato. Concepire le narrazioni autoreferenziali non tanto come resoconti della verità di una vita, quanto come frutto dell'inventività autoriale, permette sia di arginare la spinosa questione della mimesi del reale a esse sottesa, sia di conferire una piena legittimità letteraria all'autobiografia, come d'altronde attestato dall'impegno di cui illustri teorici hanno dato prova nel delinearne l'evoluzione storica (Wayne Shumaker, Margaret Botrall, Paul Delany), i tropi dominanti (William Spengemann e William Howarth), la poetica (Roy Pascal e Jean Starobinski) e le interazioni con i generi attigui.
Tuttavia, anche questi studiosi non si rivelano capaci di superare un limite quantomai evidente - peraltro lo stesso insito nelle speculazioni di Misch -, ossia l'esclusione dallo spettro autobiografico di forme letterarie, soggetti e culture "altre". Specificano in proposito Smith e Watson:
The focus on self-referential narratives as narratives of autonomous individuality and representative lives narrowed the range of vision to the West. [.] The focus also privileged "high" cultural forms, a focus that obscured the vast production of life narratives by ex-slaves, apprentices and tradespeople, adventurers, criminals and tricksters, saints and mystics, immigrants, and the representation of lives in such documents as wills and treaties. The gendering of the representative life as universal and therefore masculine meant that narratives by women were rarely examined; and on those rare occasions when their narratives were taken up, they were accorded a place in an afterword, a paragraph, a note - in marginal comments for what were seen as marginal lives31.
Spetterà agli esponenti della terza e ultima fase, il cui inizio è databile intorno agli anni
'70 del '900, colmare tali lacune teoriche. Ed è proprio la riconfigurazione della soggettività cui hanno fatto strada il Postrutturalismo, il Postmodernismo, e in tempi più recenti il Postcolonialismo, a fornire un'arena di riflessione per la disamina dei caratteri del genere autobiografico e dei suoi più indicativi mutamenti, incentivando allo stesso tempo l'ulteriore messa a fuoco della relazione tra le narrazioni riunite sotto l'onnicomprensiva
etichetta di life writing32.
La vitalità degli studi affollatisi attorno alle scritture dell'io è altresì favorita dalla comparsa di opere altamente sperimentali in cui le forme e i contenuti canonici dell'autobiografia sono amplificati - se non addirittura compromessi - con il chiaro intento di rilevare le insufficienze e le aporie soggiacenti alla rappresentazione del sé.
Ne sono un esempio le opere di Roland Barthes, che nella sua omonima autobiografia (Roland Barthes par Roland Barthes, 1975) si interroga sull'irrisolvibile enigma di essere sia il soggetto che l'oggetto di un discorso autobiografico sempre e comunque impossibile;
o di Michel Leiris, per il quale la logica dello studio della personalità risiede nella scoperta delle regole - le stesse da cui deriva il titolo della sua tetralogia autobiografica, La règle du jeu (1976) - di un gioco in cui l'individuo interagisce incessantemente con i suoi simili. Per entrambi gli scrittori - Lacan e Derrida docent - l'io autobiografico altro non è che l'esito di un atto di fiction-making: la sua origine e la sua storia, benché sommariamente recuperate, sono fittizie perché costruite per mezzo di un discorso che ne mima la complessità senza però riuscire a carpirle in modo esaustivo.
Parallelamente ai lavori avanguardistici degli autobiografi che raccontano le difficoltà e le contraddizioni insite nella ricerca del significato dell'esistenza, in ambito coloniale e multiculturale emergono i contributi di autori che propongono interpretazioni alternative dell'individuo, identificato come altro rispetto ai valori culturali ufficiali.
La marginalità e la perifericità di tali esperienze di vita costituiscono - si pensi in questo caso alle autobiografie di Gandhi e Malcolm X - l'elemento catalizzatore di messaggi politicamente e socialmente orientati, dove le distorsioni e i pregiudizi etnocentrici sono resi oggetto di denuncia per mezzo dello stravolgimento delle norme letterarie tradizionali, e l'atto autobiografico, nel dover ricostruire una soggettività diasporica, ibrida e nomadica, subisce una tale riconcettualizzazione da acquistare una dimensione collettiva.
In sintonia col sentire degli autobiografi contemporanei, la critica ha pertanto riflettuto metadiscorsivamente sui propri strumenti, e si è dotata di un ventaglio di approcci e dispositivi tesi al riesame delle nozioni di narratore, intenzionalità, verità e significato. Come infatti vedremo, le attuali teorie sulla scrittura e le pratiche autobiografiche attingono dalle metodologie di altre discipline (la linguistica, così come la pedagogia, la psicoanalisi, la filosofia, e l'antropologia) e, a fronte dell'avvenuta democratizzazione del genere e dell'allargamento della membrana sottile che ne riveste i confini, incorporano l'analisi di forme alternative di self-presentation.
In piena contrapposizione agli assunti che stavano alla base dei primi indirizzi teoretici, gli studiosi hanno inoltre riconosciuto il rilievo acquistato da alcuni pregnanti nodi contenutistici (l'instabilità del soggetto, la referenzialità e la relazionalità), dai quali si sono poi mossi per articolare ipotesi di indagine verso:
l'autobiografia come atto performativo: l'autobiografia, così intesa, non viene più recepita come locus dell'affermazione di un'identità fissa di cui si possa cogliere l'essenza immutabile;
la posizione del soggetto, determinata dalle relazioni di potere che vigono
all'interno di una determinata società;
l'autobiografia come discorso che, sulla scorta degli studi bachtiniani, riunisce in sé molteplici lingue (la pluridiscorsività dell'autobiografia contemporanea scardina
l'idea della scrittura del sé quale discorso monologico di un soggetto solitario e introspettivo).
Vari e fecondi sono infine gli orientamenti suggeriti dalla poetica postmoderna, la cui assiologia si manifesta, a livello formale, nell'ostentata manifestazione della contiguità dell'autobiografia con la biografia e il novel in prima persona, e a livello tematico nel sostanziale decentramento del soggetto, che nella vana ricerca di un'unità interiore e di un passato ormai irrecuperabile, evidenzia la tragica assenza, nella società odierna, di ancoraggi epistemologici e ontologici.
Sono appunto le incertezze classificatorie che hanno da sempre accompagnato le teorizzazioni sulla scrittura del sé, così come gli interrogativi suscitati dalle «nuove autobiografie»34 di cui abbiamo appena fatto menzione ad aver stimolato l'impegno delle direttrici di ricerca correnti nel definire, ridisegnare e fornire un bilancio della costellazione dei generi autobiografici e dell'autobiografia stricto sensu. Un argomento, quest'ultimo, di cui ci occuperemo nel corso dei prossimi paragrafi.
1.2. Tra strutturalismo ed essenzialismo: Lejeune, Gusdorf e Olney
Lo scenario critico contemporaneo, all'interno del quale si sono succeduti gli interventi di studiosi che negli ultimi due decenni soprattutto hanno collaborato all'ampliamento delle già nutrite ricerche sulla scrittura autobiografica, sembra sostanzialmente poggiare su alcune tendenze preponderanti: si è andata intanto esaurendo, secondo Bartolo Anglani, quella vera e propria mania «di definire e categorizzare che aveva contribuito a configurare il territorio dell'autobiografia ma lo aveva anche irrigidito in una problematica prevalentemente formalistica», e parallelamente «[a]l graduale tramonto e talora la quasi totale scomparsa di alcune preoccupazioni tematiche e disciplinari caratteristiche dei decenni precedenti»35, si è optato per un orientamento che tenga conto delle specificità storico-contestuali del genere, e sia capace di analizzare le marcature più sintomatiche della discorsività autobiografica36.
Uno dei denominatori comuni della ricerca critica è l'immancabile confronto con le teorie avanzate da Philippe Lejeune, le quali, pur costituendo il presupposto di un gran numero di contributi nel campo della letteratura dell'io, vengono quasi invariabilmente abbandonate a favore di più mobili e articolati orizzonti speculativi.
Dal momento che il fenomeno si può spiegare se si hanno presenti gli snodi fondamentali degli studi lejeuniani, sarà opportuno accennare brevemente ai contenuti de Le pacte autobiographique (1975), il volume in cui il critico francese articola in modo più compiuto i problemi di «memoria, [.] costruzione della personalità [e] autoanalisi» associati a quello che lui stesso definisce l'atto autobiografico37.
Nel Pacte Lejeune descrive l'autobiografia in questi termini:
Récit rétrospectif en prose qu'une personne réelle fait de sa propre existence, lorsqu'elle met l'accent sur sa vie individuelle, en particulier sur l'histoire de sa personnalité38 e specifica che tale definizione mette in gioco quattro categorie di elementi:
forma del linguaggio:
a) racconto b) prosa;
soggetto trattato: vita individuale, storia di una personalità;
situazione dell'autore: identità dell'io scrivente (il cui nome ha come referente una persona reale) e del narratore;
posizione del narratore:
a) identità narratore-protagonista
b) visione retrospettiva della storia narrata39.
I criteri individuati da Lejeune (forma del linguaggio, soggetto trattato, situazione dell'autore, posizione del narratore) sono vincolanti nello studio del genere, per cui le opere che li soddisfano in modo parziale non possono considerarsi delle vere autobiografie, come accade nel caso di altri generi della letteratura intima, come le memorie, la biografia, o il romanzo personale.
Naturalmente, non tutte le categorie hanno lo stesso grado di normatività: ad esempio, pur dovendo essere in larga misura un racconto, la narrazione autobiografica conferisce uno spazio più o meno variabile al discorso; la narrazione deve essere principalmente retrospettiva, ma spesso si generano strutture temporali molto complesse, che rendono palese l'attiguità con altri generi (l'autoritratto, il diario, le memorie); l'autobiografia si deve concentrare sostanzialmente sulla crescita del soggetto e la strutturazione del suo mondo interiore, però ciò non esclude la presenza di digressioni relative alla cronaca o al contesto politico-sociale.
Tra i quattro criteri formulati da Lejeune, uno solo è imprescindibile, ed è quello dell'identità tra autore (persona che produce materialmente il testo), narratore (istanza testuale) e personaggio, la cui coincidenza determina molto spesso l'adozione della prima persona grammaticale (la narrazione è quindi, usando la terminologia genettiana, di tipo autodiegetico).
Prendendo nota di quanto affermato da Gérard Genette sull'esistenza di racconti in prima persona che non presuppongono l'identità di narratore e personaggio (racconto allodiegetico, per utilizzare il consueto lessico derivato dalla codificazione genettiana)40, Lejeune aggiunge che esistono anche autobiografie alla terza persona, in cui personaggio principale e narratore coincidono (coincidenza di identità), sebbene non venga utilizzata la prima persona (non coincidenza di persona grammaticale): in questo caso l'identità,
«n'etant plus établie à l'intérieur du texte par l'emploi du
«mais sans aucune ambiguïté, par la double équation: auteur = narrateur, et auteur =
personnage, d'où l'on déduit que narrateur = personnage, même si le narrateur reste
implicite»41.
Per ovviare alle incongruenze
semantiche che possono invece generarsi dinanzi alla non convergenza di identità
(narratore, autore, personaggio) e persona grammaticale (io, tu, egli), è necessario,
secondo Lejeune, rapportare i problemi dell'autobiografia al nome proprio, ovvero
all'elemento che nell'enunciazione contribuisce alla referenza: confutando le teorie
di Benveniste sull'uso della prima persona grammaticale, il critico fa infatti notare
che ognuno «utilisant le
capable d'énoncer ce qu'il a d'irréductible en se nommant»42.
Nell'autobiografia, come in ogni testo a stampa, l'enunciazione appartiene solitamente alla persona che appone la propria firma sulla copertina, per cui:
C'est dans ce nom que se résume toute l'existence de ce qu'on appelle l'auteur: seule marque dans le texte d'un indubitable hors-texte, renvoyant à une personne réelle, qui demande ainsi qu'on lui attribue [.] la responsabilité de l'énonciation de tout le texte écrit. Dans beaucoup de cas, la présence de l'auteur dans le texte se réduit à ce seul nom. Mais la place assignée a ce nom est capitale: elle est liée, par une convention sociale, à l'engagement de responsabilité d'une personne réelle43.
Il presupposto fondamentale dell'autobiografia si riassume perciò nell'identità di nome tra autore - il cui nome appare sul frontespizio dell'opera -, narratore e personaggio, che si può stabilire implicitamente, nella relazione tra autore e narratore (relazione che trova a sua volta conferma nel titolo o nella sezione iniziale dell'opera)44, o esplicitamente, nel nome che il narratore-personaggio si attribuisce nel racconto e che coincide con quello dell'autore in copertina.
Il nome dell'autore, come ribadisce anche Genette, riveste una funzione contrattuale variabile a seconda dei generi: nella narrazione altamente referenziale dell'autobiografia, la sua importanza è massima, in quanto si tratta di un tipo di scrittura in cui la credibilità e l'affidabilità della testimonianza si fonda sull'identità dello stesso testimone45.
È il patto di lettura stabilito con il lettore a rendere possibile la distinzione tra autobiografia e romanzo autobiografico, che comprende in generale i racconti personali
dove l'identità del narratore si sovrappone a quella del personaggio, e i racconti in cui non si verifica alcuna sovrapposizione tra narratore e personaggi, tutti indicati alla terza persona46.
Non è semplice distinguere la fiction autobiografica dall'autobiografia, poiché da un punto di vista analitico può non comparire nessuna differenza esplicita nei moduli narrativi utilizzati da entrambe, e non è raro che il romanzo imiti le tecniche narrative del racconto di sé per fornire al lettore una garanzia di credibilità e verosimiglianza.
Per Lejeune l'unico discrimine possibile tra autobiografia e romanzo è rappresentato dal patto autobiografico, mediante il quale è sancita l'identità di autore-narratore- personaggio, e si fissa una corrispondenza tra testo (identità autore-narratore-personaggio) e fuori-testo (il nome in copertina).
Accanto al patto autobiografico si situa il patto romanzesco, caratterizzato dalla pratica manifesta della non-identità (autore e personaggio hanno nomi diversi), e dall'attestato di finzione, che Lejeune individua nel sottotitolo «romanzo» di solito presente in copertina47.
Quando un romanzo non è letto solo come pura fiction riferita «a una verità della natura umana», ma anche come «fantasticheria rivelatrice di un individuo»48, ha infine origine il patto fantasmatico, una forma indiretta e celata di patto autobiografico che all'interno di un'opera genera a sua volta uno spazio dai confini sempre più indeterminati, fluttuante tra autobiografia e romanzo.
Fin dalle indagini germinali condotte ne L'autobiographie en France, e soprattutto in seguito alla pubblicazione del Pacte, sono state molte le divergenze rispetto alle definizioni lejeuniane, tanto che dalla fine degli anni '70 varie voci sono intervenute a confutarne, implicitamente o meno, gli assiomi centrali. Michel Beaujour, ad esempio, si concentra sulle "zone d'ombra" dell'analisi di Lejeune, i cui modelli risultano in effetti applicabili a
una vasta gamma di opere ma non a tutte49. Il critico conferisce perciò un diverso significato alla scrittura autoreferenziale e, tenendo in considerazione il decentramento e le innumerevoli rifrazioni dell'io della modernità, usa il termine autoritratto50, con il quale rimanda a una descrizione polimorfa ed eterogenea, che in opposizione ai sintagmi propri della narrazione autobiografica (per Lejeune una narrazione continua, tale da rendere percepibile la «storia sistematica della personalità»)51:
se conçoit comme le microcosme, écrit à la première personne, d'un parcours encyclopédique, et comme l'inscription de l'attention portée par JE aux choses rencontrées au long de ce parcours. Non pas portrait solipsiste - ou narcissique - d'un JE coupé des choses, ni description objective des choses en elles-mêmes, indépendamment de l'attention que JE leur porte: l'autoportrait est une prise de conscience textuelle des interférences et des homologies entre le JE microcosmique et encyclopédie macrocosmique52.
Anche una critica di rigorosa osservanza lejeuniana come Elizabeth Bruss non ha esitato a contestare i termini del patto autobiografico, il cui valore rimarrebbe per Lejeune inalterato anche quando «le lecteur d'aujourd'hui [ne] partage [pas] les attitudes et les rôles qu'on attendait voir assumés par le public originel de l'ouvre et qu'il assumait effectivement»53.
L'autore, ricorda Bruss, non può però concludere legittimamente un contratto con il pubblico senza che quest'ultimo sia in grado di comprendere e accettare le regole che governano l'atto letterario: Lejeune, invece, sembra essersi lasciato influenzare dall'ottica di un lettore del ventesimo secolo, che lo condiziona altresì nell'esigenza di porre, tra l'autobiografia e i generi della letteratura intima, delle distinzioni di fatto sconosciute alle
epoche precedenti54.
Per questo lo studio dell'autobiografia - e, in senso lato, di ogni genere letterario - deve essere rapportato allo studio di un fenomeno linguistico (di un atto illocutorio, precisa Bruss attingendo alla teoria degli speech acts di John Searle) nel quale si riflettono determinate situazioni pragmatiche, a loro volta dipendenti dalle relazioni tra uso del linguaggio e struttura sociale («[l]a valeur de l'autobiographie [] est le reflet de distinctions soumises au contexte, l'identité de l'auteur, et la technique - toutes conditions soumises au changement»)55.
Tra i più convinti oppositori di Lejeune troviamo poi Paul De Man, che nel contrastare la perentorietà metodologica del collega e la fiducia nella possibilità di un'autocoscienza alla quale fa da tramite il linguaggio («[t]he name on the title page is not the proper name of a subject capable of self-knowledge and understanding, but the signature that gives the contract legal, though by no means epistemological, authority»)56, desostanzializza il soggetto autobiografico e trasforma l'autobiografia in una figura tropologica.
Trattandosi di una costruzione retorica, il racconto di sé non è definibile come un genere letterario a tutti gli effetti, bensì come una costruzione that occurs, to some degree, in all texts. The autobiographical moment happens as an alignment between the two subjects involved in the process of reading in which they determine each other by mutual reflexive substitution [.]. This specular structure is interiorized in a text in which the author declares himself the subject of his own understanding, but this merely makes explicit the wider claim to authorship that takes place whenever a text is stated to be by someone and assumed to be understandable to the extent that this is the case57.
Sottesa al concetto di figure of reading è la tesi che l'entità autoriale sia un'entità enunciativa inferita direttamente dal lettore, al quale spetta identificare nel nome proprio del protagonista la figura dello stesso autore e verificarne l'autenticità58. L'associazione del nome a un referente specifico e reale fa della prosopopea la figura retorica dell'autobiografia, poiché con essa l'astratto nome proprio assume l'intelligibilità caratteristica di un volto concreto, imprimendosi con forza maggiore nella mente.
Ogni opera autobiografica, di conseguenza, mette in atto un processo dinamico di
facing e defacing, che vede l'autobiografo indossare molte maschere senza tuttavia mai svelare per intero qualcosa del suo io più autentico59.
Il dibattito svoltosi a ridosso delle tesi di Lejeune non si esaurisce comunque con le critiche degli anni '70 e '80, ma si protrae per tutto il decennio successivo e anche oltre, con studi che si muovono su un tracciato lungo il quale l'impegno nel ridisegnare la costellazione dei generi autobiografici e nel fornirne un bilancio si affianca alla discussione delle problematiche sollecitate dai suoi postulati.
I temi che informano tali interventi teoretici ruotano intorno alle interpolazioni dell'autobiografia con i generi letterari a essa affini, alla datazione, all'identità del soggetto e alla referenzialità, che diviene un criterio estremamente fuorviante nel momento in cui è assunta come metro valutativo dell'autobiografia.
Molti teorici evidenziano innanzitutto come le rigide partizioni previste nel Pacte
- l'autobiografia, asserisce perentoriamente Lejeune, «ne comporte pas de degrés: c'est tout ou rien»60 - impediscano di cogliere la presenza di forme ibride, dai confini non sempre identificabili61. Forme alle quali si perviene attraverso una serie di complessi mutamenti epocali di cui Lejeune rende conto solo in parte, quando vede nell'autobiografia una "conquista" dell'epoca moderna che raggiunge il proprio apogeo con Rousseau, del quale non si discute tanto il ruolo di spartiacque nella storia del genere, quanto il merito di essere stato il primo a sondare in modo consapevole ed esemplare, e con l'ausilio della
scrittura, le sconosciute regioni dell'animo umano.
Tra i primi a tacciare il critico per il suo sostanziale a-storicismo, Genette precisa che:
Lejeune, qui voit, sans doute à juste titre, dans l'autobiographie un genre relativement récent, la définit en des termes [.] où n'intervient aucune détermination historique: l'autobiographie n'est sans doute possible qu'a l'époque moderne, mais sa définition, combinatoire de traits thématiques (devenir d'une individualité réelle), modaux (narration autodiégétique retrospective) et formels (en prose), est typiquement aristotélienne, et rigoreusement intemporelle62.
Oltre che nella datazione, un eccesso di dogmatismo è parimenti ravvisabile nei modelli elaborati da Lejeune per illustrare il rapporto tra persona narrativa e persona grammaticale. Difatti essi non sembrano né tener conto dei giochi di identità e degli sdoppiamenti dell'io tipici di numerose autobiografie contemporanee, né cogliere, «pur nella permanenza formale e anagrafica del nome proprio»63, eventuali scarti tra autore, narratore e personaggio. Per la prima coppia di istanze, spiega Anglani, «[s]i potrebbe ottenere l'identità assoluta [.] solo se il tempo della scrittura fosse uguale a zero: ed anche in tal caso, oltretutto, si presenterebbero dei casi in cui il narratore svolge una parte polemica e distanziatrice rispetto al se stesso "autore". Ma quella dell'identità assoluta resta un'ipotesi solo teorica cui non corrispondono individui reali, perché nessun narratore resta uguale a se
stesso nel tempo della scrittura»64.
La seconda coppia di istanze, quella costituita dal narratore e dal personaggio della storia, pone problemi ancora più cospicui:
In generale, non solo ciascun io tende ad essere personaggio per l'autore che scrive di sé, ma l'io del passato, per un autobiografo, è sempre un altro pur continuando ad essere anagraficamente se stesso: è sempre un personaggio che, man mano che si allontana nel tempo, più difficilmente può venir rappresentato senza il ricorso alle risorse della distanziazione ironica. [.] solo quando il tempo della scrittura si riunifica con quello dell'esistenza, e l'autore può finalmente scrivere al presente [.] il narratore e il personaggio diventano la stessa persona (ma questo, come insegna il paradosso di Sterne, è un evento che raramente si verifica)65.
Lejeune, che ancora oggi rivolge principalmente i propri interessi di studioso all'autobiografia e alla scrittura diaristica, ha in parte abbandonato la rigida normatività dei suoi assunti iniziali e, sebbene rivendichi la continuità con le origini - nella postfazione alla seconda edizione del Pacte il critico ribadisce che ad ampliarsi è stato soltanto il campo d'osservazione, mentre la prospettiva analitica è rimasta identica a quella precedentemente adottata -, ha svolto una ricerca con cui ha cercato di compendiare i lavori precedenti. Già a partire da Je est un autre (1980), ad esempio, il critico si è addentrato nell'approfondimento ulteriore del discorso sull'enunciazione autobiografica all'interno di testi specifici (il racconto d'infanzia e il racconto di matrice ironica) e sulle variazioni della prima persona grammaticale, concentrandosi poi sui fenomeni di interferenza dell'autobiografia con la biografia e il romanzo, sul fenomeno delle
autobiografie «a quattro mani» e delle autobiografie in serie66.
E se in Pour l'autobiographie (1997) Lejeune ha sostenuto la necessità di riconoscere
nell'autobiografia una «pratica culturale ampia» che non può essere compresa con gli schemi dell'analisi letteraria, nella postfazione alla nuova edizione del Pacte (Le pacte autobiographique: nouvelle édition augmentée, 1996) e in Signes de vie (Signes de vie: le pacte autobiographique 2, 2005), si è fatto sostenitore di un approccio teorico capace di coinvolgere l'etnologia, la sociologia, la storia generale e la psicanalisi67.
Poco recettiva nei confronti della "virata" degli studi lejeuniani, la critica ha comunque continuato ad apportare emendamenti alle argomentazioni di cui il teorico è stato l'industrioso propugnatore, deprecandolo per il suo austero strutturalismo, che pare trascurare l'esistenza di "casi limite" originati dagli sperimentalismi tematico-strutturali della scrittura autocosciente e transgenerica (post)moderna.
Persuasive al riguardo sono le osservazioni di Jeanette Den Toonder, la quale constata, in una lucida messa a punto del rapporto tra realtà e finzione nella nouvelle autobiographie francese, come la mai appagata tensione tra documentazione e rappresentazione estetica del vissuto rompa il patto di sincerità ipotizzato da Lejeune, arrivando addirittura a promuovere un articolato gioco di scambi e collisioni tra referenzialità reale e fittizia68.
Per quanto attiene in ultima analisi le quattro categorie di elementi chiamate in causa dall'ormai classica definizione di autobiografia, si è assistito alla progressiva esautorazione di una serie di vincoli - formali, contenutistici e morali69 -, che si è tentato di riformulare procedendo su una linea che contempli le effettive variazioni rispetto al modello canonico previsto da Lejeune. Per evidenziare come gli "obblighi" imposti dal patto siano passibili di controllo e approfondimento ulteriore, sarebbe opportuno parlare di70:
orientamenti formali: essendo un racconto l'autobiografia [è tendenzialmente] in prosa, [ma può avere anche una forma poetica, come nel caso del Prelude wordsworthiano71, o addirittura prediligere l'impiego di forme espressive attinte dalle arti visive]72; in quanto narrazione retrospettiva si rivolge [prevalentemente]
al passato [ma può contenere "impalcature" temporali molto complesse che rendono palese l'attiguità con altri generi, come per esempio il diario];
orientamenti contenutistici: la storia, facendo essenzialmente riferimento alla
strutturazione della personalità del narratore-autore, [tende ad essere] individuale e non collettiva (sulla storia collettiva si concentrano infatti le memorie) [ma sempre più spesso autobiografia e memorie si fondono, e la storia di un singolo può farsi epitome della storia di un'intera comunità, come si verifica nel caso delle narrazioni redatte dai soggetti subalterni]73;
orientamenti morali: l'incentrarsi sulla vita di una persona reale implica che la
narrazione sia fedele alla realtà [eppure ciò non toglie che l'autore possa inserire elementi, dettagli, o sezioni narrative non corrispondenti al vero o decidere - secondo un'ottica tipicamente postmoderna - di rendere sempre più sfumati i confini tra realtà e finzione].
Non diversamente da quanto avviene per Lejeune, varie linee delle teorie autobiografiche contemporanee sembrano dirigersi verso le proposte interpretative avanzate da Georges Gusdorf per registrarne le difficoltà di natura sia empirica che teorica. L'interesse di Gusdorf per la scrittura del sé risale agli anni '5074, sebbene sia l'analisi condotta in «Conditions et Limites de l'autobiographie»75 a proporre alcune delle tematiche che costituiranno il nodo nevralgico di molti successivi dibattiti e contestazioni sul genere autobiografico.
Nel saggio in questione il fenomenologista belga sostiene che l'autobiografia è la chiave di lettura di ogni manifestazione culturale, e che per comprendere a fondo il modo
in cui essa descrive la parabola della storia umana è necessario svincolarsi dalle sterili analisi formalistiche che ne hanno sottovalutato l'enorme potenziale per preferire, al contrario, un approccio storico-metafisico.
La scrittura dell'io, puntualizza Gusdorf, non è sempre esistita, ma è anzi inscrivibile in ben precise coordinate spazio-temporali (i «limiti» del titolo):
If Augustine's Confessions offer us a brilliantly successful landmark right at the beginning, one nevertheless recognizes that this is a late phenomenon in Western culture, coming at the moment when the Christian contribution was grafted onto classical traditions. Moreover, it would seem that autobiography is not to be found outside our cultural area; one would say that it expresses a concern peculiar to Western man, a concern that has been of good use in his systematic conquest of the universe and that he has communicated to men of other cultures [.]76.
Poiché inoltre la coscienza storica e l'individualismo rappresentano la conditio sine qua non della scrittura autobiografica, l'autobiografia e la soggettività di cui quest'ultima si fa emblema («specchio», nelle parole di Gusdorf)77 si sviluppano solo in corrispondenza di imprescindibili presupposti fenomenologici:
The curiosity of the individual about himself, the wonder that he feels before the mystery of his own destiny is thus tied to the Copernican Revolution: at the moment it enters into history, humanity, which previously aligned its development to the great cosmic cycles, finds itself engaged in an autonomous adventure: soon mankind even brings the domain of the sciences into line with his own reckoning, organizing them [.] according to its own desires. Henceforth, man knows himself a responsible agent [.]78.
In consonanza con lo storicismo diltheyano, che aveva innalzato l'autobiografia a strumento gnoseologico, Gusdorf sostiene che seguire le tappe evolutive della percezione del sé («[t]he curiosity of the individual about himself») significa comprendere la storia del pensiero occidentale («soon mankind even brings the domain of the sciences into line with his own reckoning»). Ed è esattamente il processo di self-portraiture che avvicina l'uomo alla conoscenza verso la quale egli per sua natura tende: quale medium in grado di carpire e rendere eterna l'intima essenza di un ego altrimenti esposto agli attacchi del tempo edace, la scrittura non necessita però di inutili convenzioni letterarie per essere interpretata, non essendo altro che una riproduzione dell'io originale.
La valutazione di quanto l'analisi della (ri)costruzione dell'identità sia tributaria di modelli di matrice antropologica piuttosto che retorica79 costituisce oltretutto uno dei fili conduttori di due successivi volumi - Les écritures du moi (Lignes de vie 1) e Auto-bio- graphie (Lignes de vie 2) -, dove il filosofo si pone in aperta polemica contro i nutriti tentativi di ricondurre la comprensione della pratica autobiografica alla mera disamina di un discorso da lui ritenuto vuoto perché depauperato «de sa substance de vie», e
decomposto «en systèmes de signes qui ne signifient rien, ou plutôt se signifient eux- mêmes, tout en renvoyant à autres signes en vertu de codes dûrement etablis»80.
In questi ponderosi tomi Gusdorf, proseguendo sulle medesime linee di ricerca di
«Conditions et Limites de l'autobiographie», spiega che se la trasposizione del sé in forma scritta determina la trasformazione dell'essenza individuale in qualcosa di non corrispondente al vero e induce così a dubitare dell'effettiva fondatezza del binomio istituitosi tra vita e linguaggio, è comunque vero che la riflessione condotta dal sé su se stesso con l'ausilio della scrittura conferisce alla realtà un valore trascendentale, quindi un senso che travalica il confine tra verità e finzione, e può in taluni casi prospettarsi come "più vero del vero".
Conoscere il proprio io significa allora ri-costruire la propria identità tramite un processo di «transustanziazione, snaturamento, disincarnazione e reincarnazione», al termine del quale si otterrà un analogon dell'oggetto, un'immagine cioè che conserva le tracce della sua più intima essenza pur non essendone una copia fedele81.
La scrittura autobiografica abilita allora il soggetto «[à] une quête de l'être, [.] à la pursuite de son ombre dans la vaine espérance de la prendre au mot, d'annuller la distance entre l'être qui écrit et l'être décrit. Mais les deux êtres n'habitent pas le même monde; s'ils expriment une essence commune, celle-ci correspond à un troisième terme, différent du représentant et du représenté, troisième homme qui les justifie l'un et l'autre, tout en
demeurant lui-même dans une énigmatique absence»82.
In questa prospettiva risulta chiaro come nell'autobiografia si verifichi un costante gioco di scambi e collisioni tra verità e menzogna, che impedisce qualsivoglia verifica di tipo discorsivo sul materiale testuale («[l]'autobiographie [est] une fiction rétrospective avec élimination des écarts et dissonances en tous genres, inévitables sur le chemin d'une vie»)83, e avvalora l'ipotesi della non trasparenza del linguaggio cui l'individuo affida la rappresentazione della propria interiorità: «le récit, l'analyse réalisent une mise en forme
dont le résultat [.] se substitue au souvenir immédiat. L'écriture du moi institue une mémoire artificielle; l'autobiographie [.] plant[e] un décor, perspective factice qui est censée avoir la procuration du réel»84.
La scelta di connotare l'operazione di self-representation nei termini di un epifenomeno in cui scrittura e vita si confondono in modo inestricabile, comporta nondimeno il rischio - evidentemente non contemplato da Gusdorf, vista la sua dichiarata posizione anti-retorica - di annullare le specificità generiche dell'autobiografia per trasformarla in elemento paradigmatico di una mitologia personale:
[l'écriture du moi] est [.] l'opérateur d'une alchimie qui permet l'irréalisation du réel et donc la reconquête du monde par sa subordination à l'imaginaire. Un art poétique, l'ouvre de l'ouvre qui permet la libre expression du moi du moi. [.] J'écris, donc je suis. J'écris, donc j'ai été, j'écris, donc je serai. L'écriture consolide cette ombre que je suis, elle lui assure une consistance, une permanence, en dépit de l'écoulement du temps. Je me raconte à moi-même la légende de ma vie. Ma part du monde, ma part de vérité, non pas de vérité selon le monde, mais de vérité selon moi. Parcours de songe substitué à l'histoire de la vie. Mythistoire85.
La visione gusdorfiana di un self ri-creato per mezzo delle idiosincrasie autoriali, piuttosto che sulla scorta di dati oggettivi e incontestabili attinti dalla storia personale, esalta la capacità della scrittura autobiografica di affermare l'unicità dell'individuo, di riscattare la sua esistenza dal pericolo della corrosione temporale e consacrarla ai posteri quale monumento imperituro.
Eppure anche la proposta interpretativa di Gusdorf, pur esulando dalla rigidità tassonomica del modello lejeuniano e collocandosi rispetto a esso su un fronte diametralmente opposto - «[t]anto la teoria di Lejeune si presenta con una maschera disumana, tecnicizzante, iperletteraria [.], tanto [quella] di Gusdorf ostenta disprezzo per le mediazioni e le convenzioni letterarie»86, è il commento riservato da Anglani alle teorizzazioni gusdorfiane -, finisce per condividere con quest'ultimo l'applicazione di
princìpi che, per la loro ristrettezza definitoria (la storia del sé è inconciliabile con le circostanze del mondo esterno, l'io unitario e totalizzante costruisce la propria Erlebnis in un tempo profetico cui è estranea la temporalità storica)87 e il loro prospettivismo occidentalizzante88, non riescono a descrivere molte delle forme sotto le quali la metamorfica scrittura del sé può presentarsi, né tantomeno a offrire un quadro esauriente della «pluralità delle istanze che possono essere all'origine della scrittura autobiografica»89.
È all'insegna di una politica esclusivista fondamentalmente affine a quella gusdorfiana che altri esimi teorici, attivi fin dagli anni '60, scelgono le vite dei grandi uomini come materiale primario di un canone autobiografico storicamente determinato, il cui studio si
rivela fondamentale per la formulazione di un insieme di norme di natura simbolica facenti a loro volta capo agli ideali di autonomia, autorealizzazione, autenticità e trascendenza del soggetto90.
L'americano James Olney, muovendosi lungo il medesimo alveo critico di Dilthey, promuove in particolare una lettura che parte dalla rinuncia all'enucleazione di una poetica del genere autobiografico per approdare allo studio del rapporto tra vita e scrittura. In Metaphors of Self (1972), il saggio in cui egli qualifica esplicitamente il proprio discorso in senso tale da portare a un accostamento esplicito con le critiche continentali (di Gusdorf in primis), l'autobiografia viene messa in relazione con l'impulso che stimola nell'uomo il desiderio di affermazione individuale («the isolate uniqueness that nearly everyone agrees to be the primary quality and condition of the individual and his
experience»)91 e agisce, quale forza catalizzatrice, nella ricerca della suprema
significazione dell'esistenza («a consideration of the creative achievements of individual
men and the relationship of those achievements to a life lived»)92.
Dato che l'autobiografia dipende da una naturale e innata predisposizione al raggiungimento di una verità metafisica, tentare di descriverla in termini prettamente letterari, specifica Olney, significherebbe pervenire a una definizione «o tanto estesa da non essere più una definizione, o tanto ristretta da escludere [.] troppi testi»: il pericolo di incorrere in una simile impasse alimenta perciò la convinzione che l'autobiografia non sia un genere dalle molteplici declinazioni, ma «un'attività teoretica» il cui fine principale è il
«ritrovamento dell'identità e dell'unità della persona dietro i mutamenti cui il tempo la
sottopone»93.
L'orientamento metafisico del pensiero olneyano scalza così l'idea di un sé incessantemente "forgiato" dalla Storia94, e giustifica allo stesso tempo il privilegio accordato a una metodologia di indagine che combina in modo sincretico i fondamenti della filosofia eraclitea («[l]ike the elements, individual man never is but is always becoming»)95 con gli archetipi junghiani («our mind itself is the principal element of
creation»), entrambi chiamati in causa per spiegare l'interazione tra l'individuo e il mondo.
In aperta polemica con i più pervicaci sostenitori di uno studio della letteratura del sé che desuma le norme per fondare un quadro di riferimento concettuale dalla teoria dei generi («[d]efinition of autobiography as a literary genre seems to me virtually impossible»)96, Olney riprende le considerazioni di Gusdorf sul valore creativo della scrittura autobiografica e - sempre a partire dalla premessa che l'autobiografia è un atto in grado di catturare l'essenza transeunte del soggetto e non una forma letteraria specifica - sviluppa un'estetica della cognizione e della coscienza97 in cui assegna a ogni tipo di testo la facoltà di generare quelle «metafore del sé» attraverso le quali si viene a costituire il nesso tra soggettività, arte e universo esteriore.
I simboli, che includono in extenso «all the world views and world pictures, models and hypotheses, myths and cosmologies»98, hanno una funzione doppiamente strumentale, perché in primo luogo mediano e oggettivano un self non conoscibile per via empirica («[t]he self expresses itself by the metaphors it creates and projects [.] but it did not exist as it now does and it now is before creating its metaphors»)99, e in secondo luogo riconducono all'ordine una realtà caotica di cui altrimenti si rischierebbe di non cogliere il senso: they [metaphors] are something known and of our making, or at least of our choosing, that we put to stand for, and so to help us understand, something unknown and not of our making; they are that by which the lonely subjective consciousness gives order not only to itself but to as much of objective reality as it is capable of formalizing and controlling. The focus through which an intensity of self-awareness becomes a coherent vision of all reality, the point through which the individual succeeds in making the universe take on his own order, is metaphor: the formal conjunction of single subject and various objects. In the given, whether it be external reality or internal consciousness, there is nothing to be called meaning: the world means nothing; neither does consciousness per se100.
Nonostante assolvano tutte il compito di manifestare il daimon dell'autobiografo - da intendersi, in senso eracliteo, come lo spirito guardiano in funzione del quale ognuno configura la propria esistenza - le metafore possono distinguersi per le strategie che mettono in atto allorché strutturano e connettono tra loro i dati cognitivi in modo da ottenere un meaning-pattern coerente.
Nelle metafore semplici, per la cui esemplificazione Olney si serve dei modelli illustri di Fox, Darwin, Mill e Newman, il daimon è una tendenza dominante del sé che non può in alcun modo essere elusa, sia che venga a coincidere con la mente razionale di Mill, con l'intima luce intuitiva di Fox, con lo studio della natura quale fatto oggettivo di Darwin, o ancora con la coscienza religiosa del cardinale Newman101.
Ognuno degli autori chiamati a rappresentare questo tipo di metafora si distingue per l'incapacità di completare il proprio percorso evolutivo e per l'assunzione di un solo punto di vista, che è quello del presente in cui avviene l'atto della scrittura: «It is interesting and significant that, in their own accounts, Darwin, Mill, and Newman all, like Fox, reached a clearly defined end point in development, a specific date beyond which there was no change but only more of the same; that, in each case, this date came well before the composition of the autobiography; and that, again in each case, it was a partial, not a
whole, evolution that ceased [.] for each of them was ruled by a partial daimon»102.
In Montaigne, Jung ed Eliot, invece, il genio personale è tutt'uno con l'io autobiografico, e la metafora - stavolta doppia - è l'attestazione totalizzante del raggiungimento di un'armonia che trascende la «somma delle singole parti»103:
For Montaigne and Jung the autobiographic process is not after the fact but a part and a manifestation of the living, and not only a part but, in its symbolic recall and completeness, the whole of the living. In the whole image of the man, in the complex metaphor or the symbol - union of conscious and unconscious, of the individual with humanity - these two succeed, as does Eliot in his poem [Four Quartets], in being both inside and outside, beyond because entirely within, living and simultaneously capturing in symbolic form. [.] theirs are momentarily and symbolically the eyes of humanity104.
Coerentemente con il senso e la direzione della critica fenomenologica, Olney rintraccia nell'autobiografia l'espressione più perfetta della letteratura del sé (l'autobiografia esprime «the vital impulse to order»), ma la sua tanto conclamata rinuncia alle questioni riguardanti il sistema dei generi gli impedisce di operare un discrimine tra generica espressione dell'io autoriale - rintracciabile in ogni componimento (si pensi in tal caso all'arbitrarietà della scelta di autori quali Eliot e Jung) - e forma letteraria congenitamente deputata alla rappresentazione dell'interiorità.
Riconoscere a testi di carattere eterogeneo la facoltà di promuovere l'atto inventivo grazie al quale l'individuo riesce a conquistare uno stato metafisico di pienezza dell'essere, significa pertanto prospettare l'esistenza di un unicum in cui confluiscono indiscriminatamente autobiografismi e autobiografie105.
La forte assertività di una metodologia analitica che contrappone alla dissoluzione del sé sancita dai decostruzionisti un'ontologia dell'essere finalizzata alla riaffermazione del valore assoluto dell'individualismo non fa comunque velo alla sostanziale fragilità delle basi metafisiche ed epistemologiche su cui poggia.
Non manca infatti chi ha rilevato come il modello olneyano pecchi di indeterminatezza e astrattezza: questo per il modo con cui, nel tentativo di proporre un'alternativa ai vincoli imposti dalle classificazioni altrui, abbatte i confini tra modelli e forme letterarie per
«confermare la tesi di un atto autobiografico universale perché astorico»106, e allo stesso
tempo per il modo con cui perpetua i valori di una nozione essenzialistica della soggettività in base alla quale l'individuo possiede un sé unico e irriducibile che esprimendo se stesso esprime anche l'intera natura umana107.
Anche su Olney finiscono di conseguenza per gravare le stesse accuse rivolte ai teorici che scelgono di fondare uno statuto teoretico dell'autobiografia a prescindere dalle articolazioni storiche e dai parametri culturali che sono invece le matrici di numerose varianti108. Come ha correttamente fatto notare Laura Marcus, «[a]lthough autobiography
- as concept or as a body of texts - is undoubtedly a crucial site for explorations or constructions of selfhood and identity, the focus on universal subjectivity, or the denial of its possibility, result[s] in a neglect of ethnic and gender diversity and differential subjectivities, and a highly abstract concept of identity»109.
Le critiche mosse alle teorie di cui sono stati depositari Olney, Gusdorf e Lejeune sembrano suggerire, in conclusione, che il genere autobiografico possa, e anzi debba essere inquadrato secondo parametri in grado di interpretare in modo meno restrittivo i suoi mutamenti nella diacronia - dunque in una linea che contempli le effettive variazioni e le interpolazioni rispetto al modello canonico ipotizzato Lejeune -, e allo stesso tempo considerato sulla scorta di percorsi e criteri operativamente vòlti a illustrarne la rappresentatività in maniera quanto più diversificata e inclusiva possibile.
Un fattore quest'ultimo che, come vedremo nel prossimo capitolo, non può andar disgiunto dai protocolli culturali di ricezione e comprensione del genere oggetto di esame, né dalle pratiche, varie e mutevoli, che ineriscono agli ambiti in cui più si registra la sua
presenza.
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